Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: hanabi    08/05/2013    0 recensioni
Lontano, molto lontano, un mondo è pieno di leggende sulla propria origine e la propria storia. E in questo mondo tutto sembra duale: due soli, due continenti, due culture impermeabili, due etnie nemiche. Ma c'è un terzo incomodo, che esiste ed agisce nell'ombra...
Ed è quel terzo incomodo che unisce gli estremi di quel mondo, in una vicenda che sprofonda le radici nel remoto passato, tra intrighi e grandi imprese, sogni e vendette, misteri da svelare e sentimenti contrastanti, ferocia e sensualità. E alla luce di una luna che non è più solo un decoro del cielo, si dipana la storia dei protagonisti... come un gioco dei loro dèi. E di qualcun altro.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

 

 

 

 

“Xarani!”

Naysiak, che stava seguendo Deyan mentre usciva dalla casa di Kor dopo una riunione, si voltò a guardare chi la chiamava. 

Era Ran, che marciava a larghi passi verso di lei, i pugni stretti, l’aspetto minaccioso. 

I predoni presenti si guardarono preoccupati, e qualcuno fece capolino dalle finestre. La donna non mostrò alcun timore di quella massa di muscoli che si avvicinava, ma i suoi occhi ebbero un lampo di nervosismo: il suo signore se ne stava andando e non poteva restare attardata dietro di lui. Si voltò a vederne la direzione, poi di nuovo guardò Ran.

“Randanai mayè, Naysiak-ki Seriema genken’i.” 

“Non ti capisco,” sbottò lui.

Naysiak sospirò, gli andò davanti e gli puntò un dito sul petto. “Randanai.” Poi indicò se stessa. “Naysiak.” Indicò l’uscita, poi con le dita fece un uomo che camminava: “T’shish... Deyanshir’kin.” Sempre con le dita, mimò un’altra figura che correva dietro all’uomo che camminava. “Mayé!”

“Vuol dire muoviti, credo,” sogghignò Aydie, seduto lì vicino che affilava le proprie armi. 

Ran lo guardò male, poi tirò un grosso respiro, strinse le mascelle, si guardò intorno... e si tolse una penna d’uccello dai capelli. 

Nel cortile si udì un sospiro generale.

Lui gliela tese, con aria torva. “Mi hai battuto, maledetta,” bofonchiò. “Quel che è giusto è giusto. Un giorno me la riprenderò, ma adesso... questa è tua.”

Naysiak guardò quella penna. Poi alzò i suoi grandi occhi a Ran, con un lieve sorriso. 

Lui avvampò. “Prendila, su! Prima che ci ripensi!”

Di nuovo lei guardò la penna, e scosse la testa.

“Seriema-ni jakkai Naysiak kayenji nikka yanai. Kainì.”

E si voltò, correndo via. 

Ran restò impietrito, con la penna in mano...

“Che stupido,” mormorò Chat. 

Gli altri sayanni, imbarazzati, gli voltarono le spalle per non guardarlo. Tranne Nemel, che gli si avvicinò coraggiosamente e gli posò una mano confortante sulla massiccia spalla. 

“Quella... ha... rifiutato... la mia piuma,” sillabò lui, sconvolto. Non raccogliere il segno della vittoria in un duello equivaleva a dichiarare che l’avversario non era stato degno di considerazione. 

“Coraggio, Ran...”

“Come ha osato?!”

“Osato?” intervenne Chat. “Come hai osato tu offrirgliela, piuttosto! Hai presente con chi dev’essersi battuta nella Città Santa? Li hai visti i suoi tatuaggi?”

“È un Guerriero della Cometa...” Nemel sospirò. “Perdonami, Ran, ma tu in confronto non sei niente.”

“Sono il socio del suo padrone!”

“Sei un disertore. Lei l’avrà saputo.”

Qualcuno ridacchiò. “Il problema di essere famosi su Luna di Fuoco.”

Ran era impallidito così tanto che la sua faccia era diventata di un azzurro slavato. Si conficcò la penna umiliata in una treccia a caso, ansimando di rabbia.

“Strega altezzosa... me la pagherà, lo giuro!”

“Senz’altro,” fece Chat. “Sfidala ancora. Ma prima fa’ testamento. E dato che non sei sposato, sii generoso coi tuoi amici.”

Stavolta la risata fu generale. 

 

 







 

 

 

“Mi spiace, Ran, ma la mia risposta è sempre no.”

Il tono di Deyan era calmo e definitivo, ed era l’ennesimo sale sulle sue ferite: ma lui non si arrese.

“Non puoi tagliarmi fuori così!” protestò. “Specialmente adesso che sai quale arma ha scelto Saraji. L’ha fatto apposta, naturalmente: tutti sanno che i kelith preferiscono dare la morte a distanza, o con un astuto pugnale.”

“Sono un nobile,” replicò Deyan. “Mi hanno insegnato a usare la spada.”

“La spada kelith?” Ran rise, aspramente. “Un sayanni ci si stuzzica i denti. Shartip ne manovra una che è in grado di tagliarti a metà in un sol colpo. E quel che è peggio è che a detta di tutti la sa usare. Tu sei dannatamente agile, lo so, e sei più forte di quanto non si pensi per uno della tua razza... ma non è questo il tuo modo di combattere. Alla spada ti batterei persino io che sono in realtà un lanciere, perché ho una cosa che tu non hai... questo braccio!” E glielo mostrò.

Deyan alzò le sopracciglia, e gettò un’occhiata dalla finestra. 

“Lei non ha un braccio come il tuo, ma sembra nata con la spada in mano.”

In cortile Naysiak si esercitava felicemente da sola, mimando un duello contro un avversario invisibile, con cui parlava come se fosse un vecchio amico. Manovrava la sua spada immaginaria con uno stile fluido, senza una forma ben stabilita; e per ogni attacco che compiva da un lato, ne faceva uno assolutamente identico dall’altro: come se fosse stata perfettamente ambidestra.

Ran allibì. “Non starai pensando davvero... di mandare lei a combattere al mio posto!”

“Al mio,” lo corresse Deyan. “Abbiamo di fronte una squadra formata interamente da sayanni, molto motivata a battere un albino.” La solita occhiata kelith dal sotto in su. “Ma se al mio posto si trovassero di fronte qualcuno che sono stati condizionati a considerare come l’apice della loro casta guerriera?...”

Ran strinse le mascelle, indignato.

“Dunque mi toglieresti la possibilità di giocarmi un futuro da grande capo, per metterlo nelle mani di quella mingherlina della Costa?!” No, dannato testabianca, non farmi questo... “Shartip la disonorerà e l’ammazzerà, o farà il contrario: per lui l’ordine delle due cose è irrilevante!”

“Ma almeno tu vivrai ancora, Ran... non ti vedrò morire per colpa mia.”

“E per questo manderesti al macello lei anziché me?!”

“Lei non è niente per me. Tu conti molto di più.” 

Il sayanni tacque, imbarazzato. Doveva ricordarsi che lui, come sayanni, viveva tra le amicizie; ma un solitario come Deyan ne aveva soltanto una... 

“Se conto così tanto per te, allora perché mi umili a questo modo?”

“Umiliarti?” Lo guardò. “Non mi permetterei...”

“Per un guerriero sayanni battersi è una gioia! E io, te lo ricordo, sono un guerriero: guarda qui! E qui!” E si indicò i tatuaggi. “Disertore, sì, e bandito, fuorilegge, ladro, tutto quel che vuoi... ma non un vigliacco! Mia madre era guerriera, e così la madre di mia madre!”

“Non l’ho mai messo in dubbio,” mormorò Deyan, sconcertato da quel crescendo di furia.

“Ah no?... L’hai appena fatto! E non sei che l’ultimo!”

E se ne andò, nella sua solita maniera irruente. Deyan sentì i suoi passi pesanti risuonare in tutta la casa, poi lo vide dalla finestra, mentre attraversava il cortile per uscire; non prima di aver lanciato un’occhiata assassina all’inconsapevole Naysiak, la quale non se ne avvide neanche, impegnata com’era nel suo esercizio. 

Deyan continuò a osservarla. 

Il modo in cui si muove... è come se avesse la rapidità che ho io, ma in un corpo da sayanni.

C’era uno scrigno, accanto alla finestra. Lo aprì e ne estrasse la cintura della donna, con i foderi della spada e del pugnale: c’erano collezionisti di antichità che avrebbero ucciso, per possederli. E lui non solo li possedeva, ma aveva anche la persona che aveva brandito quelle armi...

La dea mi ha forse mandato il perfetto gladiatore per vincere ogni sfida su Luna di Fuoco?

Saal scivolò nella stanza per rassettarne i cuscini. “Questo servo ha indegnamente sentito che la visita era conclusa... chiede perdono, ma Mastro Ran ha una voce... possente.”

“Era in collera con me, perché sto pensando di mandare Naysiak contro il campione sayanni.” Afferrò l’elsa della spada, e la sguainò parzialmente: il suo peso era sorprendente. “Ma per far questo, dovrei restituirle le sue armi...”

“Questo servo osa obiettare, padrone. Donne e lame non possono andare d’accordo, è risaputo. Le femmine sono goffe, possono tagliarsi, o diventare pericolose: nella nostra saggezza le educhiamo a temere ed evitare gli oggetti taglienti, concedendo loro solo gli appositi strumenti per la bellezza, accuratamente stondati e non affilati.”

“Questo vale per le nostre donne, non per le sayanni.”

“Il padrone si fiderebbe di una femmina armata intorno a sé?”

“Non mi ha mai disobbedito da quando mi ha giurato fedeltà.”

“Ma è una barbara selvaggia. E quel collare non ne ha ancora piegato l’orgoglio. Non l’ho mai vista piangere...”

“Ha pianto, invece.”  

Gli bruciava ancora il senso di vulnerabilità di quel momento... quando nel bel mezzo della notte, nel suo comodo letto e una parte di sé riposta in altro caldo contenitore, si era sentito attraversare da una lama di tristezza senza fine, che non veniva da lui ma che pretendeva di essere la sua. E si era trovato a ricordare i propri momenti più belli su Shana... tutti gli istanti ormai perduti per sempre.

Sapeva che lei aveva pianto, perché aveva pianto anche lui, ringraziando la sua dea che questo avvenisse nel chiuso della shanda, il luogo privatissimo dove ogni eccesso era lecito. Aveva cacciato le schiave, poi era rimasto lì, da solo, i pugni stretti sugli occhi, una tentazione terribile di uscire in cortile, gettare un coltello a quella femmina infernale e darle il sospirato permesso di uccidersi, affinché entrambi smettessero di soffrire...

E proprio per questo aveva resistito. Lei non doveva averla vinta. 

Ripose la spada nel suo fodero, e la rimise nello scrigno.  “Hai ragione, non è ancora il momento.”

Saal si rilassò: il suo padrone era stato ragionevole. Non c’era mai da fidarsi dei barbari; figurarsi di quella brutta femmina con la faccia color acqua deturpata da tatuaggi, e le braccia e le gambe che diventavano ogni giorno più dure, invece di tremolare in quel modo affascinante che tanto piaceva ai kelith; e con quel seno da animale della foresta, che si vedeva di tanto in tanto quando lei si toglieva il cencio che si legava attorno al busto, per lavarsi; o quando si muoveva troppo e le cadeva, dato che non aveva la delicatezza di movimenti di una vera donna. La cosa stava diventando un problema in una casa kelith dove la nudità fuori dalla shanda era un tabù, e Saal decise che era tempo di parlarne.

“Il padrone perdoni questo servo, ma egli ritiene che non stia bene che la barbara continui a vivere in cortile, all’aperto; a meno che il padrone non le voglia costruire un... riparo da occhi indiscreti.” Tossicchiò. “Dovrebbe almeno dormire nella shanda, con le altre femmine.”

“Ibal non sarebbe contento di questa soluzione. È già da solo a gestire dodici schiave, non possiamo dargliene una tredicesima, e pure ineducata. “

“Questo servo ne ha già parlato con lui. La barbara è pulita, tranquilla, e dorme sulla sua stuoia. Non darà problemi, se Ibal le troverà un posto vicino ai cancelli dove non disturbi i piaceri del padrone. Basterà insegnarle a tacere, e lasciarla giocare con i suoi sassi...”

“Sassi?”

“Si è portata nel suo giaciglio dei pezzetti di legno e delle pietruzze, che deve aver raccolto in giro. Li lavora nei suoi momenti di riposo.” Saal mise una mano nella tasca della tunica e ne estrasse una figurina di legno. “Questo l’ho trovato nella tana che si è fatta in cortile.”

Deyan se lo fece dare. Era un daino, con le zampe unite e corna spiraliformi. Era ancora incompiuto e grezzo, eppure aveva già una sorta di magica bellezza. E ricordò che Pushpa aveva parlato dell’amore per l’arte della defunta schiatta degli Huanai... 

Animali?

Strinse quella statuina tra le mani, e sentì qualcosa dentro di sé arrendersi. 

“Va bene, basta dormire all’aperto. Fa’ portare le sue cose nella shanda, come ritieni sia giusto.”

Saal fece un timido sorriso. Anche in quello il suo padrone era sempre stato speciale: a differenza di tanti altri nobili kelith non era mai stato eccessivamente crudele: né coi nemici, che uccideva pulitamente; né con i servi, che frustava di rado; né con le sue schiave, che picchiava con moderazione; né con gli animali, che trattava con umanità.

 





 

 

 

*









 

 

 

 

 

Krsyl sedeva al suo posto, in grembo alla Dea. La statua rappresentava solo quello, sovrastato dai seni di Colei che Dà la Vita, e dall’inizio del volto misterioso, col suo mistico sorriso. Nient’altro andava rappresentato della Divina: per vederla nella sua inconcepibile interezza, occorreva sottoporsi al rito segreto, e mettere in gioco la propria vita.

Come l’uomo che era steso e legato a gambe e braccia aperte a quattro pioli, davanti a lui. 

Ma tu la vita la perderai, traditore. E nel modo più terribile.

La droga profonda aveva finalmente rivelato chi tra gli accoliti aveva barattato la propria vita per un sussurro alle spie di Gamosh. In cerca di mistiche estasi, quell’uomo stava trovando l’inferno: una visione in cui sacerdoti neri erano su di lui con i coltelli, per staccargli la pelle brano a brano fino a lasciargli i muscoli nudi. Urlava, come l’anima dannata che ormai era, ma non sarebbe morto. 

Ci serve un corpo per tenere in pratica gli iniziati. I manichini sono utili, ma non c’è niente di più istruttivo che usare un pugnale sulla vera carne. Forse lo terrò da parte per Deyan: un giorno tornerà... e potrò provare il piacere di rivederlo mentre uccide. 

Krsyl provava un calore interno quando pensava a quel suo speciale discepolo. 

Ho dedicato la mia vita ad addestrarlo. E mi ha dato tante soddisfazioni, fin da fanciullo. Sono stato io a iniziarlo, e non solo nelle arti della morte ma anche in quelle della storia, della scienza, della poesia e del piacere. Ma sono sempre stato gentile, perché lui era come una pietra preziosa, che andava accarezzata, lucidata e serbata gelosamente. Solo di rado qualche scheggiatura, per creare faccette ancora più splendenti, più affilate. Sublime, tagliarsi con quel diamante. 

La sua setta l’aveva atteso così a lungo... con la pazienza che solo gli esseri superiori potevano avere. In ogni generazione gli adepti di El avevano introdotto un eunuco volontario nella shanda di ogni casa regnante, perché ne spiasse i segreti e, in alcuni casi, agisse per muovere gli eventi nella direzione voluta. Veleni, droghe, farmaci e narcotici erano rimedi di vecchia tradizione per il culto della Misteriosa, e un afrodisiaco o una bevanda abortiva potevano decidere molte cose. 

Ci erano voluti ben tre tentativi perché la Prima tra le Prime di Unari tirasse fuori il tesoro che era stato seminato in lei generazioni prima. Era facile agire sulla parte femminile delle case regnanti, che nessuno considerava per ovvii motivi, e manovrare mogli e schiave nei letti dei grandi signori, dato che questi non andavano al di là della bellezza fisica per sceglierle: e le albine sopravvissute alla selezione erano invariabilmente bellissime. 

Unari si era illuso di esser stato lui a scegliere quella rappresentazione vivente di El che era stata la madre di Deyan; ma la vera scelta era stata fatta altrove, mettendogliela astutamente nel letto. Unari l’aveva proclamata Prima tra le Prime dopo la prima volta che era giaciuto con lei, incantato dal suo fascino. E aveva poi fatto il suo dovere di maschio, seminandole il ventre. 

Ne aveva ricavato un figlio difettoso, uno bellissimo ma stupido e vanesio, e infine il punto d’equilibrio. 

Abbiamo resuscitato la stirpe degli Imperatori. 

Perché il sogno di El era tornare a farsi adorare da una Kelitha di nuovo unificata, sempre divisa nei suoi atavici feudi ma governata dal pugno di ferro di un potere centrale; e per far questo occorrevano uomini straordinari, non i molli discendenti di una nobiltà che era stata grande, ma che ormai era dedita solo al soddisfacimento dei propri vizi, debosciata e affogata nel lusso. C’erano albini che non uscivano mai dai loro palazzi, che disimparavano a camminare per più di mezza lega, che si ingozzavano di delicatezze fino a scoppiare, e vivevano di afrodisiaci per godersi l’unica attività che si concedevano, calcando nei loro serragli tante più ragazze quanto meno erano in grado di adoperarle. C’erano albini la cui unica occupazione disperante era cercare qualcosa per sconfiggere la noia, collezionare oggetti, giocare d’azzardo. 

L’unico tratto della vecchia nobiltà imperiale rimasto, quasi un ricordo arcaico del passato, era la crudeltà. Accuratamente coltivata fin dall’infanzia, con l’esposizione a spettacoli atroci, e il sadismo passato come normale tendenza della Razza Sovrana. Gli albini però avevano tramandato questa caratteristica staccandola dal contesto in cui era nata: quella di un mondo più violento, di guerre assai più spietate, dove gli uomini dai capelli bianchi combattevano con le loro mani e cavalcavano come condottieri. Il sangue che costoro avevano versato era giustificato dalla furia marziale; quello versato da grassi uomini in palanchino era soltanto un vizio e uno spreco.

E Deyan era uno di quegli antichi guerrieri, riemerso dal passato dei suoi antenati in un mondo da riconquistare. Bastava vedere il suo corpo al limite della perfezione della razza, che aveva appreso meravigliosamente ogni arte di combattimento; la sua mente disciplinata e sveglia, la sua ambizione che già si sentiva stretta persino con una collana d’opali al collo... aveva buttato tutto per l’amore dell’avventura, sì: ma quell’amore era scritto nel suo sangue, era l’eredità di quei nobili che attraversavano i deserti, e brandivano la spada per andare a riempire le stive delle navi di ricchezze sayanni. 

Non dobbiamo perdere questa stirpe, ora che l’abbiamo ritrovata. A qualunque costo!

Krsyl meditava, e ricordava gli ultimi sussurri, quelli più segreti. Cose che nessuno doveva sapere, nemmeno gli interessati. C’era gente che era morta atrocemente, per aver tentato di scoprirle. 

“Bisogna osservare il piccolo Janir, il cadetto del Principe.”

“Ma è solo il suo diciottesimo... o diciannovesimo figlio.”

“Sua madre però è la figlia di Estsen-shir. Una volta passata dalla shanda di Deyan a quella di Gamosh, doveva essere sottoposta alla solita procedura di pulizia per le schiave usate... ma qualcuno ha fatto in modo che su di lei non avesse effetto.”

“Vuoi dire che quel bambino è figlio di Deyan?!”

“Potrebbe. Gamosh ha montato subito tutte le donne di suo fratello, quindi non sospetta di nulla, ma dai registri della shanda non è difficile scoprire che Deyan aveva giaciuto con quella ragazza, prima di partire per Itka... e quindi lei potrebbe essere entrata nel letto di Gamosh già incinta!”

“Allora abbiamo ancora delle speranze per salvare la stirpe... com’è il bambino?”

“Sembra anche troppo bello per essere figlio di Gamosh, coi suoi lineamenti volgari. Ma è presto per farsi prendere dagli entusiasmi, i bambini sono creature mutevoli. Non abbiamo la sicurezza che abbia il sangue imperiale nelle vene.”

“Sarà meglio avercela al più presto. Gamosh sta minacciando la continuità del culto, ed è un principe potente, un temibile avversario. Si sta avvicinando troppo alla cerchia del Tempio Segreto, e quel che vuole l’ha reso ben chiaro. Potremmo trovarci nella necessità di dovergli consegnare Deyan per guadagnare tempo: e sarebbe bene farlo solo se avessimo suo figlio da riplasmare a immagine del padre...”

Sì, era la possibile alternativa. Dolorosissima, certo: perdere definitivamente il talento di Deyan sarebbe stato un gran peccato per Krsyl. 

Ma non per il Culto, se Janir è suo figlio. E il Culto è eterno, ha tutto il tempo del mondo davanti a sé.

Il sacerdote sospirò. 

“Divina El, illuminaci la via e proteggi il tuo prediletto.”

Proteggi il mio Deyan-shir.

L’uomo legato ai paletti urlava, con la bava alla bocca. E la dea, ineffabile, continuava a sorridere.  

 








 

 

 

 

*

 











 

 

Deyan uscì di casa con urgenza, per raggiungere quella della sua Squadra. Naysiak smise ogni attività per seguirlo, come suo solito. Stavolta però dovette aspettarlo fuori, perché il suo Seriema era andato a parlare in privato con alcuni suoi predoni, e lei non era stata ammessa. 

Dopo svariate clessidre di attesa, Deyan uscì accompagnato da Ran e da un altro kelith con la faccia sfigurata, mentre un uomo era mandato a chiamare Pushpa: a quel nome, Naysiak si rischiarò. Erano giorni che non vedeva il t’yr, l’unico con cui potesse parlare liberamente nella sua lingua. 

Tutti tornarono verso la casa di Deyan, dove Saal aveva già fatto accendere delle torce, perché i due soli erano ormai tramontati. C’erano anche i servi, che avevano disposto dei tappeti nel cortile, tra i radi cespugli di spezia che vi erano stati faticosamente piantati. Le porte furono accuratamente chiuse, e gli ospiti fatti accomodare sui tappeti; Naysiak fece per mettersi nel suo angolo consueto, da cui poteva osservare tutto quel che accadeva senza farsi vedere, ma Deyan la chiamò e le indicò un punto davanti ai tappeti. Lei ci andò, obbediente, e si sedette con aria tranquilla. Posò una mano sull’altra davanti al petto. “Seriema,” disse, guardando Deyan. Poi passò a Pushpa, e gli sorrise. “Sen’t’yr.” Si rivolse a Ran. “Randanai.” E al kelith. “Nairì.”

“Ci ha salutato nella maniera antica,” spiegò Pushpa. “Seriema vuol dire Liberatore. Io sono il padre t’yr. Randanai vuol dire Uomo delle Montagne; e nairì significa ospite.”

“Educata,” mormorò il kelith sfregiato.

Ma solo il t’yr ricambiò il suo saluto. 

Deyan la fissò. “Pushpa, spiegale per favore che sei qui per fare da interprete tra noi e lei... e da Giudice delle Contese, per cui tradurrai con precisione e controllerai che la legge sia rispettata. Dì a Naysiak che le ordino di rispondere sinceramente alle mie domande.”

Naysiak ascoltò e annuì.

Deyan estrasse da una piega del mantello un pugnale e lo posò davanti a sé, sul tappeto. 

“Lo conosci?”

Lei lo guardò. “Kelith-ki kin.”

“È un pugnale kelith,” tradusse Pushpa.

“Lo so. È il pugnale di quest’uomo al mio fianco. Si chiama Aydie. E oggi è la prima volta che varca la soglia di questa casa. Tuttavia il suo pugnale si trovava già qui. Saal l’ha trovato sul tuo giaciglio.”

Lei impallidì. Poi guardò verso Saal, con aria smarrita, e disse qualcosa. 

“Chiede perché quell’uomo ha frugato tra le sue cose.”

“Perché gli avevo ordinato di prenderle per portarle all’interno,” rispose Deyan. “Volevo farti dormire in un luogo protetto.”

Lei sorrise appena, ma con gli occhi angosciati. E i tre predoni si scambiarono un’occhiata, come se avessero avuto la conferma di qualcosa. 

“Pushpa ti ha mai spiegato le leggi di Luna di Fuoco, Naysiak?”

Lei scosse la testa, e Pushpa aggiunse: “È colpa mia, non l’avevo ritenuto necessario...”

“Allora tutto è molto più semplice, si è trattato di un errore. Tu non potevi sapere che la prima regola di questa Comunità è di non rubare mai tra di noi; e non ha importanza il valore di ciò che viene rubato, il furto tra predoni è tassativamente vietato. È una regola severa, ma necessaria per mantenere l’ordine, e infrangerla può portare a conseguenze estreme... il colpevole non può fuggire da Luna di Fuoco, e viene trattato secondo le consuetudini di chi ha subito il furto. Nel tuo caso, le leggi kelith sarebbero drastiche.”

Aydie fece il gesto di una mannaia che cala su un polso. 

Naysiak scosse la testa e disse qualcosa, in tono stupito.

“Dice che lei non ha rubato niente. Uno Xarani non ruba.”

Deyan sospirò, e cavò di tasca un altro oggetto, disponendolo accanto al pugnale di Aydie.

“Questo come l’hai scolpito, senza utensili?”

Lei trasalì, con un’esclamazione. Fece per alzarsi, ma Pushpa la fermò con parole urgenti. Lei rispose con indignazione, e fissò Deyan con occhi di fuoco.

“Dice che la accusi falsamente di essere una ladra, quando tu le hai rubato il j’yur.” Pushpa lo indicò. “Quella figura rappresenta uno spirito-animale, un simbolo sciamanico: non è una semplice statuetta.”

Deyan non era mai stato contento di sentirsi dare del ladro: le sue razzie le aveva sempre motivate come restituzioni di ciò che gli era dovuto. 

“Ricorda a Naysiak che in quanto schiava non possiede nulla, nemmeno il suo corpo. Quindi non ho rubato niente: lei è di mia proprietà, e quindi anche questa statuetta. E adesso mi dica con quale utensile l’ha scolpita.”

Lei infilò le dita in una tasca che si era creata con lo straccio intorno ai fianchi, ne estrasse qualcosa e lo gettò al suolo davanti a lui, in malo modo. Erano delle schegge di basalto e dei cristalli di quarzo. 

Quindi tese la mano verso di lui, imperiosamente. “J’yur.”

Lo rivoleva indietro, ma Deyan scosse la testa.

“L’hai scolpito solo con questi sassi? Non ci credo. Era più comoda una lama.”

Lei parlò, e con le dita accarezzò il suolo. Poi lo guardò mettendo le mani una contro l’altra.

“Dice che non aveva una lama, Il suo Seriema gliel’ha negata. Allora ha chiesto aiuto alla terra. E lei è più buona e generosa di lui: le ha prestato le sue ossa per modellare il j’yur. Ti chiede rispettosamente di restituirglielo, è importante per lei...”

“Anche per Aydie era importante il suo pugnale. Era stato forgiato per lui nel suo paese natale. E gli è stato rubato. Abbiamo discusso molto su questa faccenda, e alla fine l’unica colpevole possibile sei tu: sei stata vista accanto a lui, il pugnale è stato ritrovato da Saal tra le tue cose, e non si può sospettare di lui perché non è mai entrato nella casa di Kor, dove vivono gli altri predoni. La conclusione è ovvia.”

Naysiak ascoltò la traduzione e guardò i presenti, con occhi dilatati dallo sconcerto.

“Dice che l’avete condannata ancor prima che potesse difendersi. E che è disonorevole per lei essere accusata di un atto così meschino come un furto. Ricorda che lei è una guerriera sacra...”

“Ti proclami guerriera, quindi desideri avere delle armi: questo è comprensibile. Ma hai rischiato moltissimo a rubarle a un predone qui, su Luna di Fuoco. Se Aydie appartenesse a un’altra squadra, non potremmo evitare che i Marjaban si occupino della faccenda, e le conseguenze sarebbero pesanti anche per tutti noi. Ma dato che è un nostro compagno, posso sistemare l’accaduto in maniera privata con lui, poiché che la colpa del tuo furto ricade naturalmente su di me: infatti tu non sei ancora un membro della Comunità, ma soltanto la mia schiava. E questo, in un certo senso, ti salva; altrimenti toccherebbe a Ran punirti per aver derubato un compagno, il che tra di noi è considerato un delitto rivoltante.”

Naysiak strinse i pugni in grembo. 

“Dice che tutto questo è follia. Lei non ha mai rubato nulla a nessuno. E non prenderebbe mai un’arma a un altro guerriero, se non dopo un regolare duello, come diritto di saccheggio. Tantomeno prenderebbe il fragile coltello di un kelith con cui non ha avuto nulla a che fare.”

“Continua a negare,” mormorò Ran. “Ne ha, di faccia tosta...”

Deyan strinse le labbra. “Naysiak, ti avevo ordinato di essere sincera.”

“Dice che non avevi bisogno di ordinarglielo. Uno Xarani non mente.”

Deyan guardò in quegli occhi fieri, sdegnati. Poi scosse la testa. 

Prese il pugnale di Aydie, glielo posò davanti con garbo. “Mi dichiaro responsabile di quest’incidente. Ti restituisco la tua arma e ti faccio le mie scuse: indicami la riparazione che pretendi, e io la pagherò.”

“Essere ospitato nella casa di un nobile come te è già un premio sufficiente,” disse Aydie, riprendendo il suo pugnale e mettendoselo alla cintura. “La ragazza azzurra non sapeva le nostre regole, adesso le sa. Direi che nella sfortuna è andata bene a tutti quanti: niente è stato perso e ogni cosa è stata appianata.”

“Sei generoso, Aydie. Farò in modo di rimarcare la lezione in modo che quest’incidente non si ripeta mai più.” Gettò un’occhiata a Saal. “Chiama Ibal e fagli portare la frusta.”

Pushpa impallidì. “Che cosa?...”

Deyan lo guardò. “Non ho altra scelta. Io e Aydie siamo kelith. Lui è stato offeso da un membro della mia famiglia, e secondo le nostre consuetudini è mio preciso dovere farlo assistere alla punizione. Tocca però a me sceglierla, e farò in modo che sia leggera... molto più leggera di quanto richieda il delitto commesso. Tratterò Naysiak come una serva che ha commesso un errore, e non come una ladra. Dovrebbe essermene grata.”

Naysiak accolse la sentenza con occhi sconvolti. 

“Dice che è innocente, che non ha fatto niente di male, che ha obbedito ed è stata paziente, e non hai nessun diritto di sottoporla anche a questa vergogna, essere frustata come una serva. Lei è una guerriera sacra, e dovrebbe bastare la sua parola di Xarani a scagionarla da quest’indegna accusa. Non vede nessun motivo per esserti grata di una punizione che non merita.”

“E se non è lei la colpevole, allora chi è?”

La voce di Naysiak si alzò di tono.

“Non lo sa, e non le interessa minimamente. Quel pugnale non la riguarda, ripete che non l’ha mai visto prima in vita sua. Quel che sa è che tu sei un uomo ingiusto, perverso e crudele come tutti gli albini kelith, incapace di credere all’onore e alla vera nobiltà del cuore, e sempre in cerca di pretesti per umiliarla e farle del male.”

Un angolo della bocca di Ran si alzò. 

Risposta sbagliata, sorella. 

“Pushpa, dille che non ho bisogno di pretesti. E che stia attenta a come parla al suo padrone. Si accontenti di una decina di scudisciate dalle morbide mani di un eunuco, è sempre meglio di quel che meriterebbe come ladra.”

Ibal apparve, nella sua veste multicolore, e con la frusta in mano. Naysiak lo guardò e ringhiò qualcosa.

Pushpa esitò a tradurre. “Ha... detto che se quel mezzo uomo osa solo avvicinarsi per percuoterla, lei lo sventrerà con le sue nude mani.”

Ibal impallidì spaventosamente alla minaccia.

“Tu non farai niente del genere, Xarani,” disse Deyan, con voce durissima. “Ti metterai in ginocchio e subirai la tua punizione senza reagire. È un ordine.”

Naysiak fece un sorriso amaro, e si mise in ginocchio. 

“Ya, Seriema!”

“Ibal, fa’ il tuo lavoro.”

L’eunuco raccolse il suo coraggio e si avvicinò a Naysiak, che non lo guardò: tutta la sua attenzione era su Deyan, che fissava con odio. 

“T’shish, sibilò, quasi sputando la parola.

“Che significa?” chiese Deyan a un Pushpa sempre più agghiacciato.

“Significa... Demone bianco. È il modo in cui ai tempi dell’impero...”

Deyan alzò la mano, interrompendolo. “Il resto non importa. Non è la prima volta che la sento rivolgersi a me con questa parola.” La guardò, con un freddo sorriso. “Bene, Naysiak: come vuoi tu. Ibal, spogliala. Forse sulla nuda pelle certi argomenti saranno più convincenti.”

“Deyan-shir!” esclamò Pushpa. 

“Cosa c’è?”

“Lei è innocente! È sotto giuramento Xarani, ti ha già detto che non è stata lei... non puoi farla frustare per un delitto che non ha commesso!”

“Ne ha commesso un altro, proprio adesso. Mi ha insultato.” La voce di Deyan divenne di ghiaccio. “E non osare mai più dirmi ciò che posso e non posso fare in casa mia!”

Il t’yr tacque, intimorito. Doveva stare attento, perché la suscettibilità domestica dei kelith era quasi un analogo di quella sayanni in faccende sessuali. Interferire coi diritti padronali era considerato un’offesa personale, e questo valeva ancora di più per un nobile. 

Ibal intanto aveva tolto a Naysiak lo straccio che lei aveva avvolto intorno al busto, denudandola fino alla vita. E poi le aveva spostato i capelli intrecciati sul petto, per scoprirle la schiena. Lei era rimasta eretta e fiera, senza mostrare nessuna paura. 

L’eunuco prese lo scudiscio, pregò le sue divinità di aiutarlo... e calò la prima frustata. 

Tutti sussultarono. 

Lei no. Restò perfettamente immobile, con le mani sulle ginocchia, senza neanche trasalire. 

L’eunuco ebbe un’espressione smarrita. Poi la colpì di nuovo. E ancora...

Non cambiò nulla. Naysiak restava impassibile, ed era come frustare una roccia. Non batteva neanche le palpebre, continuava a fissare Deyan con aria di sfida, come per dirgli quanto fosse puerile quel che stava facendo.

Alla decima frustata, Ibal era visibilmente sudato e ansimante, e lei sembrava in grado di sopportarne per sempre. Girò appena la testa, con un sorrisetto sardonico, come per chiedersi se fosse tutto lì. Poi alzò gli occhi alle finestre traforate della shanda, dietro le quali si vedevano delle figure che si muovevano. E gridò qualcosa con voce allegra.

“Dice: schiave, è di questo che avete tanta paura?”

Saal trasalì visibilmente. La barbara osava sfidare l’autorità del padrone sobillando le altre donne?!

Deyan non aveva mosso un muscolo.

“Altre dieci frustate. E insegna alle schiave perché devono aver paura.”

Ibal ci si mise d’impegno, ma non ottenne molto di più: solo un lieve tremito al diciannovesimo colpo. Per il resto Naysiak non emise nemmeno un sospiro, nonostante la sua schiena fosse ormai tutta solcata di segni viola. 

Finita la seconda serie, Ibal era veramente distrutto. Non era quello il modo in cui era abituato a punire le donne. Guardò implorante il suo padrone, ma lui fissava solo gli occhi selvaggi della sayanni.

“Allora, ammetti la tua colpa e chiedi perdono?” 

“Hye.”

Un sorriso duro. “Non ti illudere, Naysiak: non sono mai le prime frustate a far urlare. Sono le ultime.”

Lei ascoltò la traduzione e rispose con tono sarcastico. Pushpa spalancò gli occhi, scosse la testa, impercettibilmente...

“Yanè!” lo incalzò lei, indicando Deyan col mento.

“Che ha detto?” 

“Ha detto... che tu questo lo sai fin troppo bene, Deyan-shir.”

Un silenzio agghiacciato seguì quelle parole. L’allusione a ciò che era avvenuto sulla piazza delle esecuzioni di Shana era chiarissima...  

Ran rabbrividì. Sorella, questo non dovevi dirlo.

Deyan aveva smesso di sorridere, e un rossore allarmante era apparso sulle sue pallide fattezze. “Saal,” chiamò, con voce mortale. “Evidentemente ho sbagliato a considerare quest’animale femmina come una delle nostre donne. Trovami un servo robusto al posto di Ibal, e cambia la frusta.”

Tutti i presenti mormorarono, sgomenti.

Naysiak sorrise, col volto madido di sudore. “Nee shima kai, t’shish. “

“Dice: non mi fai paura, demone bianco.”

“Non voglio farti paura, barbara.” Deyan aveva la gelida, minacciosa calma del nobile kelith furioso. “È già tardi per questo.”

Arrivò il servo a dare il cambio a Ibal. In mano aveva una frusta per la doma dei corsieri del deserto. 

“Dèi del profondo,” mormorò Ran, allibito. “Vuoi usare quella?!”

“Deyan-shir,” fece eco Aydie, altrettanto preoccupato. “Non è troppo per un pugnale?”

“Il pugnale non ha più importanza,” sibilò lui. “Ormai è una questione tra lei e me!”

Al suo segnale il servo colpì, e la frusta cantò ben più forte di quella di Ibal. Stavolta Naysiak faticò a controllarsi: i suoi occhi si strinsero, e le sue mani in grembo ebbero uno scatto convulso. Ma non emise un lamento.

“Continua!” 

I servi ascoltavano agghiacciati gli schiocchi della frusta, e dalla shanda venivano pianti soffocati. Erano gli unici rumori che si udivano, assieme ai grugniti di sforzo del servo, e il respiro sempre più stentato di Naysiak. Ran vide delle gocce di sangue scivolare sulle sue braccia nude, la vide tremare. Ma il volto rimaneva quasi impassibile, nonostante gli occhi le luccicassero di lacrime. 

Il servo, esasperato da quella resistenza, calò un colpo particolarmente violento. Naysiak ansimò e barcollò in avanti, appoggiandosi al suolo con le mani contratte. La sua schiena ormai era tutta rigata di sangue, che le colava lungo ai fianchi: ma non cedeva. Alzò la testa e fissò Deyan con un’espressione indomita, sussurrando qualcosa. 

“Ti chiede se la invidi perché tu al suo posto avresti già gridato.”

Dèi del profondo, sorella, sta’ zitta! Smetti di provocarlo! 

Il servo alzò nuovamente la frusta...

“Basta,” disse Deyan, a voce bassa. 

Aveva visto torturare dei guerrieri sayanni. Quelli di rango più elevato si potevano spezzare, ma era una procedura lunga e difficile: amavano sbattere in faccia ai kelith il loro stoicismo; e Naysiak sembrava fatta della stessa pasta. Capì che non avrebbe potuto ottenere soddisfazione da lei se non sacrificandola, e non era ancora il momento: gli era costata troppo per gettarla via. 

Naysiak accolse la fine del supplizio emettendo un lungo respiro pieno di sforzo, chinando la testa. Era fradicia di sudore, sfinita, e le braccia le tremavano. Mormorò una preghiera ai suoi dèi, e chiuse gli occhi.

Ci fu un momento di denso silenzio. Poi Aydie si alzò dal tappeto, posò un ginocchio davanti a Deyan e gli indicò la statuetta del daino.

“Ti chiedo scusa, Deyan-shir. Ma ho ripensato alla tua offerta di riparazione. Accetti di darmi questa figurina di legno?”

“È tua,” mormorò lui, con lo sguardo fisso al suolo.

Aydie la prese, andò da Naysiak e gliela posò davanti.

“Sono su Luna di Fuoco da tanto tempo ormai, e conosco i sayanni. Solo i guerrieri fanno quel che hai fatto tu, e i guerrieri hanno una parola sola. Mi hai convinto, e visto che questa statuetta è così importante per te, te la dono in cambio delle frustate che hai preso ingiustamente.”

Naysiak lo guardò, con occhi tremanti. 

“Kelith-kin kandan, shishe-ne. Seriema-ni jakkai Naysiak kayenji nikka yanai, ii niei ki.”

Aydie si voltò verso Pushpa, che tradusse:

“Ti è grata di credere alla sua innocenza, è l’unico dono che puoi farle. Deyan-shir le ha vietato di accettare qualsiasi regalo, e lei deve obbedirgli.”

“Cosa?...” mormorò Ran, con un filo di voce. Si voltò verso Deyan. “È vero?”

“Sì,” rispose lui. Sospirò. “Ma per questa volta farò un’eccezione. Pushpa, dì a Naysiak che può accettare il dono di Aydie.”

Lei raccolse la statuetta, e se la premette al petto.

“Gra-zie,” mormorò, a fatica, la sua prima parola nella nuova lingua. 

Tentò di rialzarsi. Non ci riuscì: Pushpa si alzò precipitosamente, ma lei scosse la testa: “Hye!” Ci riprovò, e in qualche modo riuscì a rimettersi in piedi, mezza nuda e sanguinante, tremando come una foglia. 

“Naysiak... Xarani-nin... m’hay.”

Si voltò, fece un paio di passi verso il pozzo... e stramazzò a terra. 

Ran trasalì, pallido in viso, ma non riuscì ad alzarsi dal tappeto per andare a soccorrerla. In quanto ad Aydie, naturalmente non avrebbe mai osato. Pushpa rimase immobile, il volto raggelato e gli occhi dilatati.

“Ibal, falla portar dentro,” mormorò Deyan, cupamente. “E dì alle schiave di curarla.”

 

 








 

 

 

La sera successiva Ran si presentò alla casa di Deyan, con un involto sulle spalle. Disse a Saal che doveva parlargli in privato, e con urgenza. 

Deyan l’accolse nella sua stanza favorita, seduto sui cuscini. Ran lo vide strano, pensieroso e quasi assente, come se quel che era successo avesse svuotato di energie anche lui. 

“Stai bene?” gli chiese, colpito di vederlo così.

Il kelith annuì appena. “Cosa posso fare per te?”

Ran esitò, poi emise un sospiro.

“Lei dov’è?”

“Nella shanda, assieme alle altre donne. Non è in pericolo.”

“Era proprio necessario arrivare fino a questo punto, Deyan-shir?”

Lui lo guardò, con amarezza. “Non era necessario, Ran. Era inevitabile. Ho fatto ciò che andava fatto... e anche lei ha fatto lo stesso. Io e lei siamo due acerrimi nemici che qualche dio crudele ha legato assieme. Prenditela con lui, non con me.”

“Perché le hai vietato di accettare doni?”

“Perché voi sayanni la venerate come una figura sacra. E io... volevo invece che restasse al suo posto.”

“Quello di una schiava sottomessa? Ma certo. È una donna. E voi kelith odiate le donne.”

“Non è vero, Ran. Io ho perso tutto, per una donna. Ho pianto, per una donna. Ed è una dea che venero, non un dio. Non giudicare con leggerezza il mio popolo, hai già commesso quest’errore più di una volta... e te ne sei pentito.”

“Avresti reso schiavo quel guerriero se fosse stato maschio? Lo avresti trattato così?”

“Non gli avrei permesso di sfidarmi con la sua grandezza.”

“In onore del tuo dannato motto dei principi di Shana, vero? Solo gli dèi sopra di noi.”

Deyan ebbe un’espressione di dolore. 

“Sono nato albino, Ran. Nulla potrà mai cambiare la mia natura.”

“E nulla potrà cambiare la natura di quella Xarani.” Gli occhi di Ran tremarono. “È una grande guerriera, e me l’ha dimostrato ieri, più di quanto non l’abbia fatto battendomi e umiliandomi come un novellino.”

“Adesso l’ammiri? L’hai odiata anche più di me.”

“È vero,” ammise lui. “L’ho odiata! E... sono stato ingiusto. Tremendamente ingiusto, perché le ho fatto pagare qualcosa di cui era completamente innocente. Pensavo che tutto si sarebbe risolto in un castigo da beffa, e invece... l’ho vista torturare sotto ai miei occhi, senza che avesse fatto nulla di male...”

“Ran,” mormorò Deyan, vedendolo sull’orlo delle lacrime. 

“È lei che merita di battersi contro Shartip!... Non io. E mi vergogno di tutto quel che ho detto, fatto e pensato di lei: vorrei solo... che mi sorridesse ancora. Per questo motivo sono venuto qui a chiederti un favore.” Posò una mano sull’involto. “Permetti alla tua Xarani di ricevere almeno i miei doni, Deyan-shir. Non mi importa degli altri, continua pure a vietarglielo. Ma fai un’eccezione per me. Te lo chiedo... come amico.”

“È così importante per te?”

Ran evitò il suo sguardo. “Dimmi sì o no.”

Gli occhi di Deyan lo studiarono, a lungo. 

“Ran, perdonami se, da kelith quale sono, forse commetto un’indelicatezza. Mi stai chiedendo il permesso di corteggiare Naysiak?”

Il sayanni avvampò. “Non è questo! Lei... lei è...”

Una femmina antica e giovane nello stesso tempo, della tua stessa casta, forte e fiera, e probabilmente ai tuoi occhi anche bella, per quanto tu abbia abbondato in sarcasmi ogni volta che l’hai descritta.

Deyan guardò il turbamento dell’amico. Come funzionava l’innamoramento nei sayanni? A parole lo negavano, ma gli istinti erano istinti, e Ran era un maschio adulto e vigoroso.

Il sayanni intercettò quel suo lieve sorriso, e lo intese alla perfezione.  

“Non saltare alle conclusioni da kelith, Deyan-shir: come io non capisco il tuo popolo, tu non capisci il mio. Noi non corteggiamo nessuno, gli sposi vengono assegnati l’uno all’altra. Io e la Xarani siamo vergini, quindi possiamo essere amici e io... voglio provare a diventarlo. Mi concedi questa possibilità?”

Deyan lo guardò, con un’espressione quasi tenera. 

“È ben difficile che possa rifiutare qualcosa al mio, di Seriema,” disse, e batté le mani. Saal apparve. “Manda a chiamare la sayanni, che venga qui.”

“Subito, padrone.”

Dopo qualche istante d’attesa, la porta si aprì di nuovo, e Naysiak entrò. Era pallida, con gli occhi segnati e lucidi dalla febbre, ma ancora eretta e fiera. Deyan le indicò un cuscino di fianco a Ran, e lei andò ad inginocchiarsi su di esso, senza una parola. Ran scorse le sue spalle nude rigate dai segni della frusta, e lo straccio avvolto intorno al busto macchiato di sangue fresco. Distolse lo sguardo, con uno spasimo di pena. 

“Pushpa non è con noi,” mormorò Deyan. “Dovremo trovare il modo di farci capire.”

“Ci penso io,” disse Ran. 

Prese il suo involto e lo mise di fronte alle ginocchia della donna. Naysiak lo osservò, ma non lo toccò. Allora lui lo aprì davanti a lei.

Era la pelle della tigre di montagna che aveva ucciso su Sayanna. 

Lei la guardò con occhi stupiti, perché era bellissima e preziosa. Alzò gli occhi a Ran con aria interrogativa, e lui si tolse dai capelli la sua penna migliore, e la posò sulla pelliccia. Quindi prese la mano di Naysiak e la portò su quelle ricchezze. 

“Per te,” le disse.

Lei capì, e azzardò un sorriso triste. Ritirò la mano e scosse la testa. 

“Seriema jakkai Naysiak kayenji nikka yanai...”

“Seriema dice che puoi,” la interruppe Deyan. Prese la penna di Ran e la mise nella mano della donna, facendole un cenno d’assenso. “Sì, Naysiak. Hai il mio permesso.”

E il volto di lei si rischiarò, come il cielo che si liberasse dopo una tempesta. 

Con un gesto faticoso per le sue spalle ferite, si infilò quella penna tra i capelli. Guardò Ran con gratitudine, e gli fece un sorriso che gli straziò il cuore.

“Randanai... shi nin m’hay.”

Sorrise anche lui, anche se non aveva capito. Ma non importava. 

Si alzò, salutò, uscì da quella casa. Andò al Tempio delle Divinità Duali.

Si sedette davanti alle statue di Kamoh e Lilia. 

Chinò la testa, e pianse. 

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: hanabi