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Autore: hanabi    14/05/2013    0 recensioni
Lontano, molto lontano, un mondo è pieno di leggende sulla propria origine e la propria storia. E in questo mondo tutto sembra duale: due soli, due continenti, due culture impermeabili, due etnie nemiche. Ma c'è un terzo incomodo, che esiste ed agisce nell'ombra...
Ed è quel terzo incomodo che unisce gli estremi di quel mondo, in una vicenda che sprofonda le radici nel remoto passato, tra intrighi e grandi imprese, sogni e vendette, misteri da svelare e sentimenti contrastanti, ferocia e sensualità. E alla luce di una luna che non è più solo un decoro del cielo, si dipana la storia dei protagonisti... come un gioco dei loro dèi. E di qualcun altro.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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La portantina oscillava appena, facendo danzare le ghirlande di fiori che vi erano appese, e occhi ammirati erano fissi su di lei, e sul barbaglio azzurro delle piume sulle sue spalle. Tra i capelli le avevano legato le penne rare dei celebrati guerrieri che avevano ceduto alle sue armi; e quel giorno sarebbe andata a prenderne un’altra. Ma non era quello il premio: era battersi sulle pietre lisce della Casa Santa, dove solo un velo separava i combattenti dalla Divina Presenza. Le madri guerriere tendevano tra le braccia i loro bambini verso di lei, affinché la sua ombra li toccasse: fin dall’alba erano venute ad aspettarla, per poter dire che i loro figli avevano visto da vicino un Guerriero della Cometa. Il canto dei t’yr era festoso, tra un tintinnio di cimbali e campanelle, e alcuni uomini nudi danzavano alla luce dei due soli, creando un serpente di muscoli che si torceva tra la folla. In fondo al viale la portantina del suo avversario era parata di strisce di seta rossa, che svolazzavano nella brezza: un generale, onorato da quel privilegio per aver portato i teschi di almeno cento pirati kelith: bianchi e ghignanti, erano impilati con ordine sulla piattaforma. Ma il trofeo più prezioso se l’era legato al possente braccio: lo scalpo di un demone bianco. Per quello aveva meritato l’onore di battersi con lei davanti ai re divini; e la guardava con la gioia negli occhi, quasi implorandola di rendere la giornata memorabile. Lei gliel’aveva promesso con un cenno regale del capo, e un battito di mani ritmico aveva cominciato a salire intorno a loro... assieme a un grido di guerra... 

Ainè! Ainè! Ni Kamoh u Lilia yakkai, ainè...

Naysiak aprì gli occhi. 

Odore di paglia umida sotto di lei, la sua stuoia. E calore sopra: la pelliccia che Randanai le aveva donato, bianca a strisce nere. Era assurdamente regale, per una triste schiava col collare e la schiena dolorante. Non aveva dubbi, prima o poi le avrebbero tolto anche quella. 

Le avevano già tolto tutto il resto. Tutto quel che un essere umano potesse perdere. L’unica cosa che non avevano ancora provato a toglierle era la Membrana. Aveva sperato che ci provassero, per aver una via d’uscita onorevole: ma nessuno la toccava. Così era stata costretta a continuare a vivere lì, in una dannata shanda kelith, unica vergine tra creature che esistevano solo per il peccato, un’altra bizzarria di un Liberatore che l’aveva tirata fuori da una prigione solo per rinchiuderla in un’altra. 

Non finirà mai la mia punizione?

Naysiak si morse le labbra, ingoiando le lacrime. Forse tutto quel che stava vivendo non era altro che una visione, e lei era ancora dentro al Feretro, a immaginare quell’incubo sconcertante. Era troppo assurdo quel che le era successo: una guerriera sacra, venerata da tutti, addestrata ed educata dalla nascita a essere l’ombra delle Divinità, ridotta a tanta abiezione? Davvero poteva essere costretta a servire un albino? Vivere nella sua immonda casa, essere trattata in quel modo, e il tutto a infinite leghe dal suo vero mondo, e in un futuro che era sinistramente uguale al suo passato? 

Qual’era il limite tra fantasia e realtà? Ed esisteva ancora una realtà per lei?

Forse quella era l’ultima prova che le Divinità le imponevano, prima di varcare i cancelli di Ta’itza, e ricominciare tutto daccapo, in un altro corpo, in un’altra mente...

Un rumore, vicinissimo. 

Trasalì, alzò la testa. Una creatura rosea e grassottella sussultò con un gridolino e scattò all’indietro, ricadendo seduta sul pavimento. Lei la guardò sconcertata: sembrava una bambina, coi lunghi capelli bianchi e uno strano vestito legato al collo, che le lasciava scoperte le tonde braccia. 

Un’altra delle stupide schiave di quel maledetto kelith!

La fanciulla la fissava, tremando. Aveva paura di lei. Ma era curiosa, attirata da quella strana creatura azzurra, un’intrusa nel suo regno. La guardava come se fosse una specie di animale selvatico. E Naysiak provò rabbia: come un animale, le ringhiò contro nella sua lingua.

“Lasciami in pace!...”

La ragazzina sussultò ancora, portandosi una mano davanti alla bocca. E gli occhi le si riempirono di lacrime.

Vattene, patetica creatura. 

Naysiak si mosse, e sentì un familiare bruciore. Il collare era pesante, e le aveva scavato una profonda escoriazione all’attaccatura delle spalle. Non riusciva ad abituarsi a portarlo. Tante volte aveva infilato le dita nel gancio del lucchetto, esasperata, piena di voglia di strapparlo... ma aveva avuto l’ordine di metterselo dal suo Seriema, e uno Xarani aveva una sola parola. 

Emise un gemito di rabbia, e voltò la testa. 

Sono una schiava anch’io... schiava del mio Liberatore!

Sentì un tocco timidissimo sui capelli, una carezza. Nella ragazzina la pena aveva lottato col terrore, e aveva vinto: quell’animale era feroce, ma era triste. Naysiak sentì la sua pietà, e se ne vergognò. Ma non ebbe cuore di respingerla: ricordò quando nella foresta si era imbattuta in una lupa moribonda, che guaiva stesa sul fianco, le viscere mezze di fuori. Lei l’aveva accarezzata allo stesso modo, parlandole nella lingua degli animali, raccontandole dei territori di caccia al di là di Ta’Itza... e poi con il pugnale l’aveva addormentata. 

Se solo quella fanciulla avesse avuto il coraggio di fare altrettanto con lei... 

Passi, morbidi. Lieve fruscio di abiti. 

Lui.

Lo riconosceva tra tutti, perché era stranamente neutro ai suoi sensi animali: quasi senza odore, silenzioso, come un fantasma. E anche per via di quel legame misterioso tra di loro: provava un brivido, quando si avvicinava.

Sento il tuo odio, Liberatore.

La odiava, perché l’aveva deluso, l’aveva toccato, l’aveva sfidato; ma soprattutto perché la sentiva troppo vicina, e il suo istinto naturale era distruggere chi osasse entrare troppo a fondo nella sua intimità. L’ingenuo uomo delle montagne non aveva idea di quante volte avesse rischiato di trovarsi un coltello nella gola da parte del suo amico; quante volte sentimenti contrastanti avevano lottato nel cuore di quel demone bianco, affetto contro fastidio, gratitudine contro orgoglio...

Il tuo spirito è un labirinto, figlio di Kelitha. E io ne sono prigioniera.

Vide i suoi stivali da deserto accanto a sé. Non alzò nemmeno gli occhi a vedere il resto. 

Lui disse qualcosa, con quella sua voce fredda e autoritaria. La ragazzina mormorò una scusa e sgattaiolò via.

Lo sentì chinarsi su di lei. 

“Naysiak.”

Com’era strano sentirgli pronunciare il suo nome. Lo diceva con le consonanti alla kelith, pur accentandolo correttamente. Ma era sempre meglio di animale o barbara.

“Seriema,” rispose, senza guardarlo. 

Le chiese nella sua lingua se si sentiva bene, se aveva fame: lei lo capì, ormai quelle parole le stavano diventando abituali. Parlarle era un’altra questione, era costretta a esprimersi con un linguaggio  elementare e si rendeva conto che questo non faceva che abbassare ancora di più la considerazione che avevano di lei. 

Ma tanto cosa m’è rimasto da dire? 

Tacque e scosse la testa. No, non aveva fame. 

Lui le disse che il giorno del duello era arrivato.

Lei annuì: lo sapeva già, perché appositamente per quello era stata tenuta in vita. Doveva battersi contro un disonorato senza piume, ma con un’oscena collana di orecchie seccate. Lei, che aveva onorato i generali delle Divinità, costretta dal suo padrone a duellare con un essere che valeva meno di una bestia. 

Ma combattere vuol dire dimenticare... vuol dire anche poter morire.

Si costrinse a far forza sulle braccia, per raddrizzarsi. Voleva che lui vedesse che era forte, che era pronta: il dolore non contava, non doveva vederlo. Si mise in ginocchio sulla stuoia, alzando su di lui gli occhi che bruciavano. Le rispose quel suo sguardo così strano, dai colori tutti sbagliati: le iridi rosse e le ciglia bianche, invece degli occhi blu e le ciglia nere. Gli occhi degli odiati Dominatori.

Represse un moto di disgusto e si strinse addosso la pelliccia. 

Lui le posò davanti un involto. 

Lei lo guardò, chiedendosi se fosse un altro dono di Randanai. Ci posò sopra le dita, e sentì sotto la stoffa una forma familiare... trasalì, aprì l’involto col cuore in gola.

Era la cintura con le sue armi.

Emise un gemito di gioia, e gli occhi le si riempirono improvvisamente di lacrime. 

“Maakanai! Yeneii!” le salutò, con voce rotta, premendosele al petto: la sua spada e il suo pugnale, suoi fedeli compagni, forgiati per lei un’eternità prima dal fabbro sacro Tikkana, e temprati nel sangue kelith dei prigionieri vivi. 

Che la loro sete non si estingua mai...

Aveva assistito da fanciulla alla cerimonia, e all’invocazione sul metallo fumante: e sentiva che le sue armi non avevano dimenticato. Sentiva la loro sete, dopo più di un millennio: volevano il sangue di quell’uomo di fronte a lei.  

Uccidi il diavolo bianco, Naysiak. Uccidilo!

Afferrò l’elsa della spada: la sensazione era meravigliosamente familiare. Colse con la coda dell’occhio la posizione dell’albino: aveva l’avambraccio posato sul ginocchio, e la sua mano sfiorava appena il manico del suo pugnale. Naysiak vide benissimo che era all’erta, nonostante il corpo fosse apparentemente rilassato... 

Mi stai mettendo alla prova, kelith? 

Con uno scatto sguainò la spada e la tese verso di lui, a un palmo dal suo volto. 

Lo sai che se volessi prendermi la tua vita, nulla potrebbe salvarti? 

Notò che lui non si era mosso: i suoi occhi non guardavano la spada, ma lei. 

Ne hai di sangue freddo, padrone. 

Fece danzare la lama nell’aria, poi poi riaffondarla con un sibilo nel suo fodero decorato. 

Perdonami, Maakanai. Ma ho giurato. 

Posò la cintura coi foderi, emise un lungo respiro, mise le mani una sull’altra davanti al petto. 

“Grazie, Seriema.”

Almeno morirò da guerriera. 

Lui annuì, con un sorriso remoto che lo rendeva meno odioso.

“Manderò Pushpa a prenderti.”

 














 

 

 

 

C’era praticamente l’intera Comunità nella piazza di fronte alla Grande Casa, dove quattro paletti erano stati piantati per delimitare l’area rettangolare del duello. Le due squadre che si fronteggiavano stavano sui lati opposti, Deyan e Saraji dal lato della Grande Casa, fiancheggiati dai loro luogotenenti; e un mare di gente ovunque ci fosse posto. 

L’aria era pesante, carica di elettricità. Si avvicinava una delle tempeste di polvere che ogni tanto flagellavano il pianeta: il vento prendeva velocità nella desolazione e si metteva a giocare bizzarramente con la terra, creando imponenti nuvole ocra che salivano fino al cielo. Era l’atmosfera adatta per quell’occasione, perché la tensione era palpabile: i confronti tra caposquadra erano rari, e ancor più quando le squadre erano importanti. La Squadra Sacrilega non era ancora una delle Grandi, ma la sua popolarità la rendeva quasi tale; e molti erano curiosi di vedere se fosse giunta alla fine del suo incredibile percorso. 

Molti anche lo speravano. 

Per questo ci furono molte voci di incitamento quando Saraji proclamò che al suo posto si sarebbe battuto Shartip lo Spietato, in un leale duello sayanni (e rimarcò la parola, in faccia a Deyan). 

Direttamente da una bettola, dov’era andato a prepararsi bevendo del buon vino, il gigantesco predone fu accompagnato dai suoi uomini in festa fino al recinto della piazza. Portava soltanto un perizoma a grembiule, come li mettevano gli uomini sposati; ma intorno alle braccia e alle gambe aveva legato una quantità di decorazioni di conchiglie e dischetti d’argento, e la sua famigerata collana gli pendeva sul vasto petto ombreggiato di nero, essendo lui della razza dei villosi uomini del grande nord. Alla cintura gli penzolava il fodero della spada: una massiccia trave d’acciaio larga un palmo, con un’elsa lunga che indicava una presa a due mani. I capelli erano legati in una gran coda di cavallo, senza nessuna pretesa di acconciatura guerriera, e questo nonostante i suoi tatuaggi lo qualificassero come tale. Rideva forte, e guardava Deyan mostrandogli i denti: gli fece i gesti del codice dei ladri per fargli capire cosa gli avrebbe fatto, una volta finito il duello. 

“Dunque è così che ha perso l’onore,” mormorò Deyan, con un sorriso ironico.

“Allora,” ringhiò Saraji. “Sei pronto a batterti, kelith?”

“Ho anch’io un campione a cui affidarmi.”

Saraji sogghignò, contemplò Ran che stava alle sue spalle, con la sua lancia in pugno. “Ti compiango, fratello...”

“Non è Ran.” Deyan non degnò di un’occhiata il vecchio sayanni. “Non spreco un amico per uno come te.”

“E allora chi si batterà con il possente Shartip?”

“Basterà la mia schiava.”

Un mormorio seguì quelle sprezzanti parole. 

Saraji s’oscurò in faccia. “Con chi credi di aver a che fare, kelith? Che vuol dire quest’altro insulto...”

“Deyan-shir è nel suo diritto,” intervenne il Giudice delle Contese. “Il nome della schiava?”

“Naysiak.”

E adesso la mia vita è nelle tue mani, guerriera. 

La vide avvicinarsi allo spiazzo, seguita da Pushpa; e la gente ammutoliva al suo passaggio. Era avvolta nella pelliccia di tigre, che portava come un mantello; con i capelli perfettamente intrecciati e legati insieme in un complicato nodo, la piuma di Ran legata a una treccia; e due righe bianche le attraversavano orizzontalmente il volto. 

Shartip la guardò, perplesso.

“Una sayanni?”

Naysiak si fermò un istante sul bordo del recinto, guardò il cielo, poi si tolse la pelliccia e la consegnò a Pushpa. Sotto portava solo il solito perizoma e, in onore della sensibilità kelith, lo straccio legato stretto attorno al seno; non aveva addosso altro, se non il suo collare da schiava. Però si era dipinta tutto il corpo, con numerosi simboli tracciati col colore bianco: piccole spirali, che risaltavano sulla sua pelle azzurra e la facevano sembrare una strana creatura notturna. Attorno ai fianchi nudi portava la bellissima cintura della spada, con le sue decorazioni in argento sbalzato di animali che si inseguivano: sembrava completamente fuori luogo in una figura dall’aspetto così arcaico e barbarico. 

Tutti mormorarono, guardandola. Qualche sayanni si piegò a toccare il suolo; alcuni t’yr presenti emisero dei gemiti a vedere la sua schiena, e si coprirono gli occhi, con gesti di dolore.

“Che succede?” chiese Deyan a Pushpa, che era andato a raggiungerlo tenendo tra le mani la pelliccia, come se fosse stata una reliquia. 

“Che succede?” fece eco il saggio, con un sorriso amaro. “Semplice, Deyan-shir. Vedono cosa ne hai fatto, di un Guerriero della Cometa.

“Un... cosa?!” esclamò Saraji. 

“Quella donna è una Xarani,” gli disse Pushpa. 

La parola passò di voce in voce, e risuonò come un mormorio in tutta la piazza.

“Xarani?” La voce di Shartip si levò, accompagnata da una grassa risata. “Io vedo soltanto una selvaggia dipinta, con qualche tatuaggio di troppo.” La guardò, con occhi lubrici. “Un po’ piccola, ma decisamente femmina... e dai segni della frusta, direi che è già stata domata e montata dal suo padrone: non dovrò nemmeno fare la fatica di sverginarla.”

I t’yr si irrigidirono, indignati da quella mancanza di rispetto. Deyan sentì un sinistro scricchiolio di denti dietro di sé: era Ran, con una faccia quale mai gli aveva visto prima...

“Controllati,” gli mormorò. 

“Se non lo uccide lei, lo uccido io.”

Naysiak non diede nessun segno di aver compreso le parole insultanti di Shartip. Il suo sguardo era vuoto, assente, il corpo era completamente rilassato, le mani lontani dalle armi. 

Guardò verso i due soli, che cominciavano a velarsi. Mormorò: 

“Ainè, ainè, ni Kamoh u Lilia yakkai, ainè...”

I suoi occhi divennero lucidi. 

“Ai vostri posti,” ordinò il Giudice delle Contese. 

Shartip sguainò la sua grande spada, godendosi il rumore del metallo. 

Lei restò immobile, sempre guardando verso il cielo. 

“Kamoh, Lilia,” sussurrò Pushpa, con voce rotta. “Rendetele facile il passaggio...” 

Uno dei t’yr alzò le braccia al cielo e cominciò un canto. Altri si unirono a lui, facendo lo stesso gesto. 

Deyan trasalì. “Pushpa, che succede?” 

“Non vedi i segni che Naysiak ha sul corpo?” C’erano lacrime, nella sua voce. “Sono bianchi. Si sta preparando a morire: i t’yr le offrono di accompagnare la sua anima.”

Ran sbarrò gli occhi. “Che cosa?!”

Deyan si sentì impallidire. “Le avevo ordinato di battersi!” 

“E lei si batterà, ma con quel che le resta delle forze... e della voglia di vivere.” Pushpa chinò la testa. “Se morirà compiendo il suo dovere, lei avrà comunque onorato il suo giuramento.”

“Aveva giurato di proteggermi. Se perderà questo duello, avrà mancato al suo dovere...”

“Non puoi chiederle l’impossibile, Deyan-shir. Lei è stanca. Ferita, dentro e fuori. Mille cicli di dolorosa attesa, per poi risvegliarsi così... umiliata, calpestata, torturata. Puoi biasimarla, se si è dipinta addosso i simboli dell’addio?”

Il Giudice delle Contese estrasse un fazzoletto rosso e lo alzò nel cielo. Il vento lo fece sventolare.

Ran fece un passo in avanti, la sua voce tuonò per tutta la piazza. “Xarani!...”

Lei spostò lo sguardo su di lui, con occhi disperati. 

“Non arrenderti,” gemette il sayanni, quasi una preghiera. 

Il Giudice lasciò andare il fazzoletto. E tutti si misero a gridare. 

Shartip attaccò. Naysiak estrasse la propria spada, e si gettò coraggiosamente in avanti. 

Il suo avversario è immenso rispetto a lei, pensò Deyan, con un brivido di apprensione. 

Alla donna sembrava non importare, accettò lo scontro a viso aperto: un’esibizione di scherma antica che colse di sorpresa il gigante. Il quale contrattaccò con violenza, prendendosi i suoi vantaggi in termini di forza e potenza della sua arma: era effettivamente abile a manovrare la sua grande spada. Deyan vide che Ran aveva avuto ragione: in quel tipo di combattimento lui avrebbe avuto la peggio, perché non avrebbe potuto far molto meglio di quella donna; che era costretta adesso in una posizione difensiva, con un gioco di parate e schivate faticosissimo.

“Non può reggere per molto,” mormorò Ran, che fissava la scena ad occhi spalancati. 

Naysiak passò la spada nell’altra mano, cercando di distribuire lo sforzo: ma questo la mise nella posizione ideale per Shartip, che ne approfittò immediatamente e calò fendenti pesantissimi in sequenza. Alla fine riuscì a piazzare il primo colpo, falciando Naysiak con un fendente al fianco che avrebbe potuto tagliarla in due. Tutti gridarono, ma Shartip l’aveva volutamente colpita col piatto della spada... un colpo doloroso, ma non mortale. 

Lei cadde a terra, pesantemente, e lui rise. 

“Non così in fretta, bambina. Prima mi voglio divertire un po’!”

La prese a calci e calò altri fendenti su di lei, ritmati dalle urla di incitamento della sua squadra. Con la forza della disperazione, Naysiak riuscì a rimettersi in piedi ed allontanarsi un poco da lui, per avere un po’ di requie: ma zoppicava.

“Resisti, ragazza azzurra!” gridò Aydie, spingendosi fino al limite del recinto. 

I predoni della Squadra Sacrilega si misero a gridare anche loro, per incitarla. Ma lei si voltò a guardare Deyan, ansimando e tenendosi il braccio che reggeva la spada.

E scosse lievemente la testa, come per dirgli che ci aveva provato, ma non ce la faceva. Gli fece un sorriso triste, poi si girò a fronteggiare di nuovo il suo avversario.

“Fa’ qualcosa, Deyan-shir,” implorò Ran. “Al prossimo attacco Shartip la ucciderà!”

Il volto di Deyan era pallido. “Pushpa, dille nella sua lingua che un guerriero non bara col destino.”

Il t’yr lo guardò, sorpreso. 

“Diglielo!”

“Seriema yanai, jinna-nin najanakin shikka nakai!”

Lei girò la testa a guardarlo, e i suoi occhi tremarono. 

“Combatti, donna!” gridò Ran, affiancandosi a Deyan. “Non lasciarti massacrare!...”

“Oh sì, invece,” ringhiò Saraji. “Shartip, massacrala.”

Il gigante le era già addosso: ma invece di un colpo mortale, le assestò un’altra tremenda piattonata che sbattè violenta contro la sua coscia, facendola cadere su un fianco. 

Naysiak emise un gemito, portando la mano sulla gamba.

“Ti piace il dolore, vero?” le ringhiò Shartip, colpendola ancora, e ancora. “Quando ti avrò macerata per bene, aprirai le gambe anche per me.”

“Uccidila!” gridò Saraji. “Smettila di giocare: avrai donne quante ne vorrai, quando avrai finito.”

“Voglio divertirmi!” tuonò lui. “Allora, miei compagni, da dove comincio? Le stacco un piede? Una mano?...” Un sorriso osceno. “O la monto qui, davanti a tutti?”

“Bastardo disonorato!” tuonò Ran, facendo un passo in avanti. 

“Cos’è, la tua femmina?” rise Shartip, guardandolo. “Senza Membrana c’è posto per tutti e due, fratello.“

Gli occhi di Ran si spalancarono di furia.  “Ripetilo con la mia lancia sotto il naso, carogna immonda!”

Fece per avanzare, ma il Giudice delle Contese gli sbarrò il passo. 

“Non puoi entrare nel recinto,” lo ammonì. “È la regola!”

“Non lasciarti provocare,” gli disse Deyan con urgenza, prendendolo per un braccio e costringendolo a guardarlo. “Sono solo parole. Abbi fiducia in Naysiak.”

“Tu ce l’hai?” 

“Sì.”

Ran si stupì della sicurezza che gli lesse negli occhi. “Deyan-shir...”

“Un vero guerriero non bara col destino. Nemmeno quando è contro di lui.”

Naysiak aveva approfittato di quell’interruzione per allontanarsi di qualche passo dal suo aguzzino, strisciando penosamente a terra. La sua voce salì, rotta e acuta, un tono di implorazione. 

“Povera sciocca.” Saraji ridacchiò. “Chiedere pietà a Shartip non farà che eccitarlo ancora di più.”

“No,” mormorò Pushpa, con le sopracciglia contratte. “Non sta chiedendo pietà. Sta invocando il Mondo Magico!”

Il vento soffiò, con una raffica pesante che fece boccheggiare gli astanti. Le nubi in cielo si tinsero all’improvviso di strani colori metallici, e i due soli scomparvero. La frizione scatenò un fulmine, che illuminò per un istante la scena con un lampo azzurrino, seguito da un tuono...

Naysiak si alzò in ginocchio, piantò la spada a terra e gridò: “Ainè Mi-nai shinna kai!...” 

Gli occhi le si accesero, si strinsero. Il corpo le si irrigidì, i muscoli pieni di una strana tensione.

“Ainè Mi-nai shinna kai!...”  ripeté, le mani aggrappate all’elsa.

“Che sta gridando?” chiese Deyan, stupito. 

Pushpa spalancò gli occhi. “Sta... chiedendo aiuto a Luna di Fuoco!”

Gli altri t’yr si guardarono, poi si unirono all’invocazione, che salì ritmica, quasi portando una nuova speranza. “Ainè Mi-nai shinna kai... Ainè Mi-nai shinna kai...”

“Ainè Mi-nai shinna kai!”

Quella non era la voce di un t’yr. Era la voce di un kelith. 

“Aydie!” mormorò Ran, sbalordito.

Lo sfregiato non sapeva il senso di quelle parole, ma si era messo a gridarle anche lui, perché si era reso conto che erano importanti per Naysiak... le mostrò il pugno chiuso, mentre ripeteva assieme ai t’yr l’invocazione in antico sayanni: qualcosa di assolutamente incredibile.

Tutta la Squadra lo imitò. Kelith e sayanni insieme.

“Ainè Mi-nai shinna kai!... Ainè Mi-nai shinna kai!...”

E il vento soffiava, ululando... Deyan rabbrividì: qualcosa fece trasalire il suo istinto di uomo del deserto.

C’è umidità in quest’aria! 

Naysiak voltò lo sguardo all’intorno, il respiro affrettato, i grandi occhi dilatati. Le sue mani lasciarono l’elsa della spada e qualcosa di tremendo sembrò entrare in lei, contorcere il suo corpo in qualcosa di non più umano.

“J’yur,” ringhiò, e si mise a soffiare. 

“Ora basta!” gridò Shartip, esasperato. Si avvicinò a lei, con la spada in pugno...

Più rapida di un felino, lei gli balzò in faccia con uno strillo da far gelare il sangue. Uno scatto violento della sua mano destra, e due delle sue dita si conficcarono nell’orbita sinistra di Shartip: un altro scatto, e l’occhio fuoriuscì dall’orbita, restando appeso solo per qualche nervo. 

Shartip urlò, assieme a tutta la folla, e Saraji portò le mani contratte alla propria faccia, con un grugnito...

“Dèi del profondo!” esclamò Ran. 

Naysiak ricadde a terra, ma balzò subito in piedi: il viso stravolto, le movenze da animale da preda. Balzò di nuovo sulle spalle di Shartip e affondò i denti nel suo collo, mordendo con tutte le sue forze e agitando la testa come per strappare la carne. Lui urlò di nuovo, si dibatté cercando di liberarsi, e alla fine lei si staccò. Balzò a terra sulle mani e sulle ginocchia, ululando come un lupo.  

“Lo spirito-animale,” mormorò Pushpa, impressionato. 

“Ti squarterò, femmina maledetta!” urlava Shartip, furibondo, col sangue che gli colava sul petto e la mano premuta sull’occhio ormai perduto. “Quando ti metterò le mani addosso...”

Lei balzò da un lato all’altro, e con uno scatto gli strappò dal collo la collana di orecchie. Se la portò vicino alla testa, ed emise un gemito pieno di pena... quindi parlò ancora. 

Pushpa tradusse: “Dice che ci sono orecchie di innocenti, in quella collana. Sente il loro pianto.” 

Raggiunse la sua spada, la svelse dalla terra e la alzò sopra la testa, con un urlo di sfida.

“Maakanai!”

Shartip tolse la mano dalla rovina del suo volto, e afferrò il suo spadone. 

“Muori, puttana dei kelith!...”

Alzò la spada e calò un fendente accecante, dall’alto al basso, per tagliarla in due: lei lo evitò gettandosi di lato.  E nello stesso tempo la sua spada corta saettò come un lampo, in un gesto trasversale dalla violenza sbalorditiva, accompagnato da uno strillo acuto come il richiamo di un rapace...

“Ha vinto,” mormorò Deyan, in un assurdo istante di silenzio.

Shartip arretrò da lei, con l’unico occhio rimasto sbarrato. Sul suo ventre apparve una linea rossa... che divenne gialla... e di nuovo rossa, colando sangue.

Naysiak sorrise, e i suoi denti bianchi lampeggiarono nella bocca arrossata.

“Yerenai mayè, sh’ki hulum!”

Si rizzò come una molla, lanciò un urlo e scaricò una ginocchiata contro quella linea. E un viluppo di visceri grigiastri fuoriuscì dalla ferita, rovesciandosi sulle gambe di Shartip. 

Tutti urlarono dall’orrore, coprendo il grido atroce del sayanni sventrato. Ran strinse i denti, colse l’espressione del suo amico kelith: era perfettamente impassibile, da degno albino qual’era. 

Saraji era sconvolto. “Shartip, maledetto idiota...”

Il gigantesco sayanni era crollato a terra, in ginocchio: le sue mani impazzite tentarono di ricacciare le viscere nella ferita, tremando sempre di più. Naysiak gettò la spada, gli andò vicino, gli sussurrò qualcosa. Poi, con un gesto violento e deciso, gli cacciò nell’addome la collana di orecchie, infilando il braccio fino al gomito tra le sue budella. 

“Oh Divinità Sante...” esalò Pushpa, con una smorfia. 

Qualcuno degli uomini di Saraji si piegò in due a vomitare. Altri kelith scapparono dalla piazza. 

Shartip era crollato terra, urlando in preda alle convulsioni. Lei gli rimase rabbiosamente sopra, ringhiando e frugando tra le sue viscere. Finché non trovò quel che cercava, e lo strappò con un grido di furia: un torrente di sangue schizzò dalla ferita, come se lei avesse trovato una fontana.

“Dèi del profondo,” ansimò Ran. “Che cos’ha fatto?”

“Gli ha aperto il grande vaso sanguigno nell’addome,” spiegò Deyan, che in quanto nobile conosceva fin troppo bene l’anatomia interna dei sayanni. Fece un lievissimo sospiro. “Troppo rapido, ma lei dev’essere esausta.”

Shartip si afflosciò e finalmente tacque, gorgogliando. La donna estrasse dal suo ventre il braccio lucido e completamente arrossato; si sistemò a cavalcioni del corpo che ancora fremeva ed estrasse il pugnale dalla cintura. Quindi gli afferrò la testa per i capelli.

“E adesso che fa?!”  

Pushpa ebbe uno sguardo vacuo. “Quel che i tuoi antenati facevano ai suoi tempi, Ran. Si prende un trofeo.”

Deyan fissò quello spettacolo agghiacciante: la piccola femmina insanguinata che lavorava di coltello sulla testa del nemico, con un sorriso di feroce soddisfazione sulle labbra.

Mi devo ricordare di questo momento, ogni volta che dimenticherò chi è veramente questa donna. 

Naysiak era molto pratica: le ci vollero solo pochi minuti. Si rialzò, barcollante, impastata di polvere e sangue, le pitture sul suo corpo ormai quasi cancellate. Alzò la mano al cielo, mostrando lo scalpo di Shartip, e lanciò un grido di trionfo che si fuse con l’eco di un altro tuono.

“Deyan-shir ha vinto la disputa,” proclamò il Giudice delle Contese, pallido come un cadavere. 

Saraji, la faccia slavata dallo shock, alzò gli occhi con uno sguardo folle. 

“Maledetto kelith, mi hai mandato contro una strega...”

E mise mano al suo pugnale. 

Deyan era pronto a difendersi, ma non ne ebbe il tempo: un colpo secco, uno scricchiolio agghiacciante, e la punta della lancia di Ran fuoriuscì dallo sterno del vecchio bandito. 

Ci fu un altro urlo della folla nella piazza, subito zittito. 

“Hai perso, Saraji,” proclamò Ran, con voce ringhiosa. “Va’ all’inferno col tuo campione!”

Con uno scrollone violento estrasse la lancia dalla schiena di Saraji, che crollò a terra con gli occhi aperti, spandendo sangue sull’avida polvere. E ne rimirò il cadavere, respirando profondamente.

“La regola è la regola,” dichiarò, e guardò il Giudice delle Contese, che tremò, ma annuì.

“Eri già pronto a ucciderlo?” mormorò Deyan.

Ran aveva una gelida determinazione negli occhi. “Sì, come i suoi luogotenenti erano pronti a uccidere te se la Xarani avesse perso.” Li guardò e questi arretrarono, intimiditi. “Non aveva più senso lasciare in vita questo disonorato infido: ci avrebbe sobillato contro i suoi uomini, e avrebbe cercato in tutti i modi di vendicarsi.” Guardò Saraji. “Ha creduto di vincere facilmente, e invece ha perso: un predone paga col sangue le sue sconfitte.” Si voltò verso la squadra del defunto. “Vero, sayanni?!”

Gli uomini di Saraji tacquero.

“Chi è il vostro capo?!” gridò Ran, puntando su di loro la sua lancia insanguinata. 

Gli rispose un cupo silenzio. Poi, una voce si alzò. 

“Non abbiamo più un capo.”

“Io sono il vostro capo, adesso.”

C’era una calma autorità nella sua voce, nella sua persona intera, che sembrò spandersi come un’onda tra la folla ammutolita. Naysiak abbassò la mano con lo scalpo gocciolante, guardandolo col respiro stentato. 

“Randanai,” mormorò, con tutta la fierezza del suo popolo.

Deyan li guardò, sentendosi un intruso. I pregiudizi kelith in lui si erano confermati e smentiti insieme... barbari, semplici, nobili e solenni: così erano i sayanni, distanti da lui quanto quel mondo dai due soli nel cielo. 

Provò improvviso un senso di solitudine, una remota tristezza che temperò la consapevolezza del suo successo.

Abbiamo vinto!

Sentì un tocco caldo sul viso. Poi un altro. Guardò a terra: piccoli cerchi scuri si disegnavano nella polvere,  ticchettando...

Tutti i presenti trattennero il fiato. 

“Non è possibile,” mormorò il Giudice delle Contese, guardando il cielo. 

“La pioggia,” esalò Pushpa. 

Sull’abitato di Luna di Fuoco non pioveva da decadi. Non era lì che avvenivano le rare precipitazioni del pianeta: solo in casi rarissimi le tempeste di polvere si caricavano dell’umida aria polare per portarla a quelle latitudini. 

Tutti si misero a gridare a quel miracolo.

Deyan era sgomento: la pioggia non faceva parte del suo universo, per uno Shanì era come se dal cielo cadesse dell’oro; levò lo sguardo alle nuvole che si torcevano su di lui, tra una danza di fulmini. Ran invece rideva, con una felicità assoluta e liberatoria, godendosi la cosa che più gli mancava delle sue montagne sayanni. La pioggia si intensificò, crepitando fino a diventare un vero e proprio acquazzone, e la gente cominciò ad abbracciarsi e a ballare per le strade. 

Naysiak rovesciò la faccia verso il cielo, lasciando che quell’acqua calda e polverosa lavasse via il dolore, il sangue e la furia dal suo volto. Aprì le braccia, con un sorriso ad occhi chiusi.

“Mi-nai ni...” sussurrò, ringraziando il suo nuovo mondo.

Prima che i predoni della Squadra Sacrilega si precipitassero da lei urlando di gioia, per portarla in trionfo. 

 

 

 






 

*








 

 

 

Mastro Kurmaji li aspettava, con le sue consuete tazzine d’infuso già pronte, la pipa accesa, e le tavolette disposte di fronte a lui. La sua stanza accogliente sembrava adesso soffocante, ora che per qualche giorno Luna di Fuoco avrebbe mostrato la sua effimera bellezza: la pioggia era durata ben poco, ma aveva reso limpidissima l’aria, riempito le cisterne e i pozzi della Comunità, e infiniti semi dormienti da cicli e cicli di soli si erano destati, creando incredibili macchie verdi e colorate sull’arido suolo. 

Sarebbe durato tutto un pugno di giorni, ma nessun predone aveva chiesto di scendere sul mondo in quel periodo: solo i procacciatori di viveri, che avevano fatto affari d’oro. Sembrava che un velo di stupore avesse coperto la Comunità intera. 

“Vi servirà un’altra casa,” disse il Marjaban. 

Ran annuì. “La casa di Kor non basta più. Ci trasferiremo nel quartiere che era di Saraji: ci spetta per diritto di conquista. Una volta che avrò sbattuto fuori gli elementi che non mi piacciono, e mi sarò liberato dell’eccesso di schiavi che si teneva in casa, ci sarà spazio a sufficienza per accogliervi anche la nostra squadra. Chi vuole dei tagliagole indisciplinati e pervertiti potrà servirsi liberamente dei miei scarti: voglio tenere solo gente in gamba, che sappia il mestiere e che segua le regole: che sappia combattere e obbedisca in azione, e che accetti di convivere con i kelith. Non mi interessa la casta di nascita.”

“Sono condizioni dure,” disse Kurmaji.

Ran rise, mostrando la perfetta dentatura. “Sarà, ma al momento ho perso il conto dei predoni sayanni che mi stanno implorando di entrare a far parte della squadra. Credo che potremo permetterci una certa selezione, invece di buttarci subito a far concorrenza con le Grandi Squadre.”

“Ecco i conti della squadra di Saraji,” mormorò il Marjaban, tendendo a Ran una tavoletta. Lui la guardò, e la passò subito a Deyan, grattandosi la testa: il kelith la studiò con attenzione. 

“Il suo commercio fruttava bene,” commentò. “Pagava molto alcuni dei suoi uomini, ma altri li manteneva con compensi miserabili. Aveva molti debiti, ma una volta ripagati resterà un fondo di tutto rispetto. Ci farà comodo: lo unirete ai nostri.”

“Una vincita munifica, conquistata con quest’azzardo incredibile... il primo kelith che sfida un sayanni, e il primo Guerriero della Cometa di questa comunità che vince il duello per lui. Ammetto che la tempistica di questa catena di eventi mi ha turbato. Qualcuno parlerebbe di fortuna... ma l’esperienza mi ha insegnato che spesso questa non è che l’ombra del futuro sul presente.”

“Hai ragione, Mastro Kurmaji.” Deyan fissò la tazzina davanti a sé. “Troppi eventi concatenati: quel mio contatto casuale col Feretro, qui, nella tua Casa... il fatto che toccasse a me il ruolo di Liberatore di un sayanni... l’ossessione che ho provato, e che alla fine mi ha spinto a fare quella scelta avventata, la sfida a Saraji, quando ancora non sapevo di poter contare su un’arma potente come quella Xarani...”

Ran lo guardò, con una smorfia. “Allora è stata una scelta avventata.”

“Io direi inevitabile,” intervenne Kurmaji. Un’occhiata astuta. “Non avevamo bisogno di ricevere le lagnanze di Saraji per sapere cos’era successo in quella bettola: noi Marjaban osserviamo tutto. È stato Saraji a volere il confronto, per imporvi un’umiliazione pubblica e mettere in chiaro che mai due come voi avrebbero potuto competere alla pari con lui: la scelta era accettare questa sottomissione ed essere ridimensionati, oppure opporsi per continuare ad esistere.”

“Quindi non siete in collera con noi,” disse Ran. 

“Noi non siamo mai in collera con nessuno,” replicò il Marjaban. “Del resto attendevamo da tempo uno scontro simile: questa situazione non è nuova tra i predoni della Comunità, i rapporti tra i capi non sono sempre facili e improntati al rispetto. Siamo contenti che tutto si sia svolto secondo le regole e non sia degenerato in una vera e propria carneficina... com’è accaduto talvolta in passato. Sapevamo che questo duello si sarebbe risolto in una perdita per la Comunità, era solo da vedere quale. Abbiamo perduto un vecchio capo e un potente guerriero; ci rimangono un principe kelith e un Guerriero della Cometa sayanni.” Sorrise. “Curioso, che ognuno di loro rappresenti il vertice delle due società in cui è diviso il mondo.”

Deyan tacque, pensieroso. 

Kurmaji guardò verso la porta, come se potesse penetrarla con lo sguardo. 

“E parlando del Guerriero della Cometa, è interessante per noi il fatto che possieda una grande magia. Diversa da quella del suo feretro, ma del tutto paragonabile alla nostra.” Chiuse gli occhi un istante. “Anche adesso la sta adoperando. Riesco a sentirla sin da qui: sta sondando le mie intenzioni verso di te, Deyan-shir.”

Fece un gesto e la porta si aprì silenziosamente, su un corridoio oscuro. Appena distinguibile tra le ombre, e solo perché era piena di fasciature bianche, Naysiak era accosciata contro la parete. 

“Xarani!...” esclamò Ran, sorpreso.

Deyan sospirò. “Le avevo detto di restare a casa a farsi curare: che ci fa qua?”

“Il suo dovere,” rispose Kurmaji, e si alzò con un fruscio della sua gran veste. Si rivolse a lei e le parlò nella sua lingua, in tono di rispettoso invito. 

Naysiak rispose, con voce lieve e sorpresa. 

“Parli la lingua cerimoniale sayanni?” chiese Deyan, stupito.

“La mia razza sa ricordare, Deyan-shir... è la sua funzione principale su questo mondo. Quella che adesso è una lingua cerimoniale era l’idioma del popolo azzurro milletrecento cicli di sole fa.” Kurmaji sorrise, e aggiunse: “Kann’arah meyen Kelithe sh’awan.”

Deyan trasalì. “Questa invece è la mia Lingua Antica.”

Naysiak si era tesa, a sentire quelle parole. E Kurmaji le fece un cenno col capo. 

“Sì, e la conosce anche lei. Era la lingua dei suoi nemici più mortali... i tuoi antenati.” Una pausa. “Però non devi adoperarla con lei, Deyan-shir. La considera impura. Gli antichi sayanni si rifiutavano di pronunciare persino i nomi dei kelith, considerandoli contaminanti. Anche il tuo nome lo è, per lei: per questo preferisce chiamarti Liberatore.“

La donna si alzò faticosamente da dove si era messa, e zoppicando entrò nella stanza, andando a sedersi di nuovo a terra, nell’angolo più lontano: respinse con un cenno gentile l’offerta di un cuscino tra gli uomini, e sistemò la propria cintura con le armi in modo che la spada fosse pronta per essere sguainata. Era pulita, ma ancora scalza e vestita di stracci: e ogni aspetto maestoso era rovinato dai segni e dai lividi che la costellavano, quelli che Pushpa non aveva fasciato. Sembrava una mendicante, assurdamente ben armata.

Kurmaji sembrò comunque volerle far onore: versò una tazzina del suo infuso, e con le sue mani glielo portò mormorando parole cortesi. Lei lo guardò ad occhi spalancati, ma accettò, bevve e restituì la tazzina, facendo il gesto di ringraziamento. Poi gli parlò, senza alcuna soggezione o stupore.

“Dice che sapeva dell’esistenza dei maghi neri: ai suoi tempi alcuni marinai tramandavano ancora i ricordi dei viaggi verso Marja, e il gigantesco cataclisma che ne provocò lo sprofondamento. Ovviamente, come tutti, pensava che la nostra intera razza fosse perita.”

“Forse qualche mago del passato riuscì a mescolarsi coi sayanni, generando la stirpe Huanai?” Deyan la guardò, notando quanto fosse diversa da Ran: dal colore della pelle, ai lineamenti del volto. 

“Forse,” annuì Kurmaji. “Non possiamo escluderlo. E forse è per questo che lei ha capacità simili alle nostre.”

Naysiak disse qualcosa. 

“Dice che i sayanni hanno sempre avuto degli sciamani, e l’etnia non ha importanza. È una dote con cui si nasce, ma che va sviluppata tramite un duro addestramento a riconoscere le forze della natura. Nel suo caso, l’abbandonarono da piccola in una foresta selvaggia.”

“Povera ragazza,” mormorò Ran.

Naysiak fece un lieve sorriso e scosse la testa. 

Kurmaji spiegò: “Dice che in realtà non è una ragazza. Quando arrivò l’Arca su Sayanna le era già stato assegnato un marito. Gli Xarani seguono la tradizione guerriera e quindi si sposano solo alla piena maturità, dopo aver reso la prima parte del loro servizio.”

Ran allibì. “Allora è sposata?...”

“Non fece in tempo a celebrare il rito: poté solo sapere chi sarebbe stato il marito, un generale di nome Pa’ekin.” 

“Quindi è promessa.”

“A un uomo morto più di un millennio fa?”

Ran tacque, imbarazzato. 

Deyan la guardò. Non era dunque una fanciulla come sembrava, ma qual’era la sua età reale? Quel suo aspetto giovane era davvero opera del Feretro, come pensava Pushpa, o qualcosa che derivava dal suo sangue particolare? Per un attimo lo sgomentò l’idea che lei fosse più anziana di lui, un kelith entrato da pochi cicli nella piena età adulta. Poi si rese conto che in realtà lei era immensamente più anziana di tutti quanti, anche di Kurmaji e del più vecchio vivente su ciascuno dei due mondi. 

Naysiak guardò Ran e parlò in tono quasi consolante. 

“Dice che è ancora vergine, e quindi potrà forse avere un altro marito al posto di quello che ha perso: non ci sarebbe nulla di disonorevole in questo.”

Deyan fissò l’amico, ma lui sembrava non aver colto alcuna allusione. E forse non ce n’erano: in una società dove i matrimoni venivano assegnati, poteva esistere il caso di sposi che si scegliessero spontaneamente? 

“Credo che noi Marjaban dovremo prendere delle precauzioni, quando la manderemo sul mondo attraverso il Vortice,” disse Kurmaji, guardando la donna con intensità. “La sua presenza su Luna di Fuoco altera alcuni particolari mistici equilibri... e quello che è successo qua fuori direi che lo dimostra.”

“È stata lei a far piovere?” chiese Ran, sbalordito.

Kurmaji tradusse la domanda, Naysiak scosse la testa. 

“Dice che non ha nessun potere del genere, ma può darsi che abbia fatto rabbrividire Luna di Fuoco. Si era messa in contatto con lo spirito profondo del pianeta, chiedendogli aiuto affinché le desse la forza di... non barare con il destino.”

E gli occhi della donna si incontrarono con quelli di Deyan. 

Lui ricordò quel momento. La disperazione comune che avevano provato. Non aveva mostrato la sua, ma sapeva che tanto con lei era inutile: e sapeva di averle chiesto qualcosa al di là della lettera del suo giuramento. 

Salvami, e salva il sogno di tutti noi. Onora lo spirito della tua promessa, non le parole. So che mi odi, ma avrai tempo e modo di vendicarti solo su di me. 

Emise un sospiro e fece un lieve sorriso. “No, non l’ha fatto: glielo riconosco.”

“Ti chiede se si è meritata la sua ricompensa.”

Il sorriso di Deyan si spense. 

“Di che ricompensa parla?” chiese Ran. 

No, Ran non lo sapeva... Deyan notò la sua penna legata a una delle trecce di Naysiak; e ricordò il suo amico, quasi in lacrime, a implorarlo di consentirgli di fare un dono a quella donna che adesso lo guardava con la speranza negli occhi: come poteva dirgli che la ricompensa che la sayanni gli chiedeva era quella di morire? E come avrebbe potuto dare quel permesso atroce davanti a lui?

Perdonami, Naysiak...

“No.”

Vide il dolore esploderle negli occhi, ma lei non protestò. Chinò lo sguardo ed emise un lieve sospiro. 

“Kainì, Seriema.”

Ran si girò a guardarlo, con espressione indignata. “Deyan-shir, lei ci ha fatto vincere un futuro da Grande Squadra. Come puoi negarle...”

“Ha fatto il suo dovere, nient’altro.”

“Si è battuta contro un mostro come Shartip. Ti ha salvato la vita!” Ran era violaceo in faccia. “O pensi che sia bastato metterle quel collare da schiava per liquidare come dovere l’impresa che ha fatto, senza farle meritare nemmeno un grazie?!”

Deyan si alzò, con un movimento fluido. Si voltò verso il mago e gli fece il gesto Shanì del saluto.

“Grazie per la tua ospitalità, Mastro Kurmaji.” E fece per andarsene.

Ran si alzò a sua volta, con irruenza. “Deyan-shir, ti ho fatto una domanda!...”

Lui si fermò. “Ho sentito. E normalmente non rispondo su questioni che riguardano le persone della mia casa. Visto che sei tu, farò un’eccezione. Naysiak ha la mia gratitudine: gliela esprimerò nei modi in cui la mia gente compensa i propri schiavi. La farò riposare, farò curare con attenzione le sue ferite, le procurerò quanto necessario per abbigliarsi decorosamente. Ma quello che lei mi chiede va oltre. Per cui si accontenti.” Un’occhiata tagliente. “E accontentati anche tu, Ran; o... dovrò approfondire il mistero per cui ho trovato un certo oggetto a casa mia.”

Il sayanni ammutolì per il tempo necessario a Deyan per uscire dalla Grande Casa, seguito come sempre dalla sua ombra azzurra. 

Quando trovò la voce, Kurmaji ascoltò cose tremende sui kelith, e specialmente su quelli con i capelli bianchi e un marchio sulla faccia.

  
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