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Autore: Gaia Bessie    12/05/2013    3 recensioni
E la cercano sulla spiaggia, seminando boccioli selvatici e aspettando che torni per spezzare altre ali.
[Finnick/Annie, Peeta/Katniss, OC/OC | Angst, Drammatico | One shot |Possibile OOC]
{Seconda classificata e vincitrice del premio per la storia preferita da Trick al contest "Killer!GoodGirls" indetto da Trick ed Eterea sul forum di Efp}
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Nuovo personaggio, Peeta Mellark
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Fu mia madre a sussurrarmi questa storia, la notte successiva al mio diciassettesimo compleanno: sentiva che era giunto il momento di abbandonarmi e di andarsene non se ne parlava, non senza avermi prima affidato qualcosa che valesse la pena custodire. Il vento ululava fra le foglie e minacciava di coprire la tonalità lieve della sua voce, soffocando quel segreto che mai avrei voluto conoscere. Sarebbe stato un bene, forse, se non avessi mai recepito quelle parole dure, dolorose: avrei una persona in meno da odiare. O da rimpiangere.
Continuava a vagare in quella stanza in cui la tenevano chiusa, trascinandosi dietro lo strascico di un vecchio vestito di seta verde e sorridendo – di quei sorrisi che sbocciano senza sforzo: che sia amore o pazzia a farli nascere – al nulla. Mormorava parole, incantesimi, che non riuscì a udire. Probabilmente rivedeva davanti a sé la spiaggia immensa del suo amato Distretto 4, la sabbia morbida che avvolge il piede scalzo in una morsa lieve e umida. Tracciava ghirigori sul terreno come se credesse di avere davanti la sabbia umida e intonsa rigurgitata da un mare non più in tempesta, integra prima del pericoloso incontro con le sue mani scosse da un tremito perenne. Scriveva sempre lo stesso nome, in una litania che spaziava dal folle all’ovvio, dal triste al banale.
Finnick.
Ed era il nome che popolava ogni mio ricordo, un fantasma mio omonimo che si divertiva a lasciare impronte sulle quali io avrei dovuto poggiare i piedi. Mio padre, il mio modello, un estraneo.
Continuava a scrivere il suo nome in una muta preghiera che io non condividevo. E dal nulla cominciò a raccontare, domata da fantasmi che io sconoscevo, continuando a fissare un punto che andava oltre la mia figura nascosta nella penombra, fino a raggiungere quelle stelle tanto simili a fuochi fatui.

*

Peeta Mellark era stata l’unica costante della mia vita: fin da quando mi avevano portato da lui – un bambino di sei anni, figlio di una madre incostante come le onde marine e affilata come le lame dei suoi occhi quando le chiedevo dove fosse mio padre. Un infante nato durante una guerra e cresciuto fra la nebbia di una genitrice troppo diversa per poter essere compresa – era stato il suo sorriso triste a ossessionarmi. Era una maledizione ben più difficile da sopportare della pazzia di mia madre: alla seconda, non c’era scampo, riflesso involontario com’era di una perdita inimmaginabile. Il primo era più una reale constatazione degli eventi e di un odio che nessuno gli rimproverava – come avrebbero potuto farlo?– che inevitabilmente gli impediva di ritrovare quell’immagine di sé che aveva posseduto per anni.  Eppure quell’espressione sembrava avere radici profonde, indelebili, che emergevano in quelle escoriazioni che lui attribuiva sempre a regolari cadute.
Mi prese in braccio con facilità e mi presentò alla sua nidiata: una bambina piccola, fragile, dagli occhi mercuriali e capelli biondi. Un anno: un’età troppo tenera perché lei potesse avvertire quel sentore di lacrime che si spargeva attorno a noi come una maledizione.
Disse poche parole, sottovoce, con una voce apatica che recava ben pochi segni dell’antica dolcezza. Traspariva raramente, quella vena amorevole che aveva riserbato a un solo idolo – scomparso per colpa di un destino poco benevolo. E Peeta, che venerava una sola Dea, si era ritrovato perso in un loop continuo in cui non riusciva a comprendere cosa venisse prima. Il dolore o la perdita? – e che adesso si disperdeva in una considerevole apatia che cercava di fagocitarlo senza troppi complimenti. Pareva rianimarsi solo davanti alla vista degli occhi di sua figlia, Dandelion, sembrava pronto a ridestarsi dal suo sonno davanti a quello sguardo ostinato. Ma non lo faceva mai. Ogni volta si riprendeva e ripiombava in quella sua tristezza inspiegabile ai miei occhi di bambino, smettendo si incrociare lo sguardo di sua figlia. Ostinandosi a cercare qualcosa in me, con lo sguardo preoccupato di chi teme di essere ucciso. E io mi domandavo cosa non andasse in me, nelle mie insicurezze di seienne che non comprendeva un dolore tale: la perdita di mia madre non era che un breve pizzicore lanuginoso che si era dissolto con il procedere lento di quelle giornate sempre troppo lunghe. Troppo dense per essere vissute da un bambino che aveva paura di chiudere gli occhi dopo la favola della buonanotte. Perché avrebbe dovuto odiarmi o temermi?
Perché mia madre aveva ucciso sua moglie.

*

L’avrebbe ucciso, quel succedersi di attimi che sentiva estranei: Peeta si consumava come una candela davanti a un fuoco ben più opprimente della misera fiammella che lo illuminava, distorcendone lineamenti ed emozioni. Si sforzava di limare quegli spigoli che la perdita della moglie aveva provocato, cercando di arginare le crisi di pianto di Dandelion e poi la sua invadente esuberanza – lati del suo carattere che si succedevano con velocità impressionante, facendola passare da uno stato d’animo all’altro – e provando invano a sostenere quello sguardo troppo familiare. Si tormentava di notte, quando l’insonnia e gli incubi lo spingevano a chiedere asilo alla tiepida quiete del divano del salotto. Quando ascoltavo il suo timido russare sommesso, misto ai mugolii che indicavano una paura mai spenta, riuscivo a ritornare a respirare con regolarità: mi spaventavano quelle escursioni notturne da parte di Mellark, che spesso vagava per quella casa piena di fantasmi. Alcuni li riconoscevo io stesso in quelle foto polverose – lui non le toccava mai, forse pauroso di risvegliare un dolore ancora maggiore di quello che lo divorava – raffiguranti un Peeta diverso e una giovane donna dai capelli scuri. Aveva gli occhi grigi, come quelli di Dandelion.
Scoprì il suo nome per caso, sussurrato da quella bambina durante i suoi giorni tristi. Li chiamava così lei stessa, in una pallida imitazione di quelle giornate che assillavano il padre.
“Dov’è?” aveva urlato a squarciagola, tutto il giorno, mentre bruciava per la febbre. “Dov’è Katniss?”. Non l’aveva mai chiamata “mamma”, abituata come me a vedere la madre come una figura lontana e sfuggente. Io, mia madre, nemmeno la ricordavo più: mi aveva abbandonato durante una notte grigia di nubi e odorosa di pioggia, per avventurarsi sulla spiaggia sconfinata del Distretto. Il giorno, dopo ero stato portato da Mellark, senza spiegazioni. Non chiesi mai di colei che avevo visto prima di essere abbandonato ai miei sogni buffi e colorati di bambino. Altri mondi.
Eppure, nonostante la mia prorompente curiosità, non domandai mai a Peeta di quella bella donna prigioniera nelle cornici argentate delle fotografie: ero troppo impegnato a perdermi in sogni a occhi aperti per focalizzarmi su una figura evanescente che non avevo mai considerato.
Eravamo come in una situazione di stallo, vinti da quell’aria di disperazione assoluta che ci avvelenava quotidianamente; ci eravamo incartati in una situazione troppo grande perfino per noi. E, nonostante i miei pochi anni di vita, continuavo a domandarmi per quanto sarebbe continuato a non succedere assolutamente nulla. Sottovalutavo il fattore destino che, come solitamente accade, era pronto a ribaltare la situazione sfoderando la sua mossa migliore: il senso di colpa.
– Ti andrebbe se andassimo a trovare tua madre, Finn? – mi domandò un giorno, con una voce accondiscendente di un adulto che ascolta le ridicole paturnie di un bambino insonne. – Non la vedi da tempo.
Pronunciava tutte le frasi come se fossero interrogativi ai quali, fra l’altro, non sapeva nemmeno rispondere. Io annuì, incerto. Tutto per liberarmi da quella maledetta situazione di stallo.

*

Quando arrivammo, Dandelion aveva già cominciato a piangere e a lamentarsi: suo era un pianto simile a quello di una bambina ben più piccola, lasciando che gli occhi stillassero lacrime come se fossero prezioso nettare. Peeta l’aveva consolata, senza capire cos’era che l’angosciava, quale fosse quella strana sensazione che le provocava quei brividi incontrollabili. Io avevo otto anni, all’epoca, e una lieve pelle d’oca che rievocava la crisi di Dandelion.
Mia madre era stata portata lì da una signora vestita di bianco, anonima, che la tirava dolcemente per un braccio. Subito i suoi occhi erano stati calamitati da quella bambina troppo simile a un fantasma – al corpo esanime di una Katniss pugnalata alle spalle e non solo metaforicamente – di una persona che ben conosceva. Sembrava attratta dalle lacrime, di chiunque fossero.
Avrei scoperto dopo che erano come un segreto richiamo per lei, una nenia mortale che le ricordava una storia nota ai molti ma non a me. Io ero sempre l’ospite ignaro che non conosceva quella madre con le mani sporche di un sangue troppo innocente per essere nominato.
– Perché piange? – fu l’unica cosa che domandò. Aveva gli occhi rossi di pianto anche lei, notai, e stringeva fra le mani le pieghe del vestito che indossava. Un abito verde, da sera, troppo elegante per un semplice incontro.
– E’ una bambina – osservò Peeta, con gelida cortesia. Era una maschera che non gli si addiceva, innaturale, cadeva come un paio di pantaloni troppo larghi. – Le mancherà qualcosa.
Annie sospirò, spostando lo sguardo su di me, incuriosita. Non commentò i sottintesi di Peeta, quella frase accusatoria che le aveva sussurrato in silenzio, stringendo fra le braccia quella bambina così fragile. Le manca sua madre.
– Finnick? – domandò lei, gli occhi allargati per contrastare quell’ombra che la divorava. – Dove sei?
E fu evidente che non vedeva me, ma quello spettro che l’ossessionava, confondendole le idee. Anni dopo mi narrarono della sua disperazione, del vuoto incolmabile che mio padre le aveva lasciato. Vuoto che io non comprendevo, non avendo mai conosciuto il mio omonimo.
Mia madre tendeva le mani nel vuoto, verso nessuno in particolare. Fece un solo passo in avanti e fu come se stesse per cadere nel vuoto. Come un corpo morto.
Tese le dita e sfiorò il mio viso, attenta e delicata come non sarebbe mai potuta essere, mentre i singhiozzi di Dandelion mi esplodevano nella testa. È una bambina.
– Somigli tanto a lui, sai? – recitava, come una nenia. Lo disse così tante volte che persi il conto, finché non si distaccò da quel ritornello, facendosi tagliente come un pugnale – mille pugnale che s’infrangevano sulla mia pelle quando la guardavo.
Osservava Peeta e sua figlia con un misto di curiosità e diffidenza, gli occhi persi in un mondo diverso. In un altro sogno.
E i singhiozzi di Dandelion erano di un’intensità che lacerava l’anima, stordivano nella loro ritmicità. Avevano una verosimiglianza con il tormento interiore dei due adulti, schierati uno di fronte all’altra, come gli estremi di uno stesso lato.
– Almeno quanto leisomiglia a sua madre – disse, sottovoce. E cominciò a ridere, spalancando la bocca in un ghigno strano, innaturale. Fu portata via dalla signora in bianco, una parentesi lieve nella quiete malsana del Distretto. Tendeva ancora le braccia, le unghie che cercavano di graffiare.
Non toccarono nessuno.
– Come puoi fare questo? – urlò Annie, da lontano. – Loro hanno ucciso tuo padre.
Mi aggrappai alla mano di Peeta perché, ne ero certo, altrimenti sarei crollato. Le impronte di mia madre erano già state divorate dall’oceano.

*

– Perché vi odia in questo modo?
 
Annie voleva davvero bene a Katniss Everdeen: era quell’affetto spontaneo che nasce quando qualcuno fa qualcosa per te. La Ghiandaia Imitatrice aveva reso Panem un luogo sicuro, libero dai Giochi. Ma aveva sacrificato troppe cose, troppe persone.
Finnick.
Annie le era grata per i suoi sforzi, per aver fatto divampare quella scintilla.
Ma avrebbe preferito che a morire fosse lei.
 
– Non ci odia – fu la risposta semplice, banale, di Peeta. – E’ che non sa di non odiarci.
Disse una bugia per tranquillizzare un bambino, figlio di una donna che non aveva più percezione della realtà.
Lei non ci odia, è che avrebbe preferito che fossimo stati noi a morire.
 
– E noi la odiamo? – domandai, preoccupato.
– No, noi non la odiamo – replicò Peeta.
È che da quando Dandelion l’ha vista non è più stata la stessa. 

*

È passato, il tempo, senza darmi la possibilità di accorgermene: i ricordi lattiginosi dell’infanzia sono mutati in una visione più realistica e forse più dolorosa. Un po’ mi è dispiaciuto il distacco dalla parte più innocente di me, abbandonata per quell’aurea misteriosa che era di mia madre. Di Finnick Odair avevo solo il nome e il colorito vagamente bronzeo, nulla del suo coraggio o della sua avvenenza mi era rimasto impresso. Possedevo senza dubbio l’aria tormentata di mia madre e quello sguardo penetrante, che metteva tutti a disagio. E quella chioma indomabile che sarebbe andata d’accordo con le alghe aggrovigliate fra le punte. Ma non ero nel Distretto 4: assistevo alla vita regolare del 12, aiutando Mellark e accudendo la figlia – Dandelion era cresciuta debole e delicata, sempre a oscillare fra felicità e malinconia. Sempre a udire voci che nessuno riconosceva.
Io l’amavo e l’odiavo: se è vero che l’amore dei sedici anni non si scorda mai, io non dimenticherò mai quello sguardo opaco di lacrime che si posava su di me, incerto.
Dandelion Mellark se ne andò durante una sera di Novembre, dove la luna splendeva pallida oltre una coltre di nubi: non aveva smesso di piangere per tutto il giorno. Così, si limitò a prendermi la mano e a sussurrare qualcosa che non compresi nell’immediato.
– Vai da lei – fu la frase con la quale si congedò dal mondo. Poi chiuse gli occhi e si addormentò, con un’espressione stranamente pacifica sul volto, un sorriso incancellabile che non riuscivo a guardare. Non ebbe il tempo di dire altro, né io avrei effettivamente avuto il cuore di ascoltarla.
Non sentivo nulla, in verità: un accenno di quell’apatia senza fine che mi avrebbe tormentato per mesi, lasciandomi a malapena la forza necessaria per respirare.
Eppure, trasalii davanti al viso sconvolto di Peeta Mellark.

*

Iniziai a farmi trascinare dallo scorrere del tempo, perso in pensieri che non mi appartenevano. Nella Yule di quei miei problematici sedici anni, cominciò il ritmico susseguirsi di un sogno: cominciava sempre con la distesa umida di sabbia e le onde marine che si susseguivano rumorosamente. C’era sempre una donna, che mi fissava, gli occhi verdi fissi nei miei. Sorrideva sempre.
Con la punta del piede tracciava una linea, un confine, fra me e lei. Vieni qui, sussurrava senza voce. E io muovevo un passo, esitante, senza muovermi realmente.
Non puoi ancora, osservava lei – e io mi destavo urlando per mandar via fantasmi di cui non avrei mai sospettato l’esistenza.
Sono finiti quando mi sono alzato, un giorno, e sono corso nel Distretto 4, su quel treno troppo lento per sfuggire a quei miei incubi – ma fin troppo veloce quando di trattava di portarmi da mostri ben peggiori.
Egoisticamente, non mi preoccupai per Peeta Mellark: cosa rimaneva di lui?
I resti.

*

Anche Annie Odair era morta dentro da tempo, ma di una malattia diversa da quella che affliggeva Mellark: un tipo diverso di distruzione che l’aveva colta durante una notte, fatta di fiori e antiche promesse. Era nata quando aveva sentito il cuore spezzarsi per un presentimento – e delle urla inimmaginabili scuoterla da capo a piedi.
Quando andai a trovarla non sembrava nemmeno più lei: aveva già cominciato ad andarsene, affidandosi per sempre a qualcosa che io non comprendevo. Presi presto l’abitudine di rimanere con lei anche tutto il giorno, ascoltando i suoi vaneggiamenti su qualcosa che continuava a tormentarla.
Che terrorizzavano anche me, quei suoi scheletri nell’armadio.
C’erano sere in cui sembrava davvero che vedesse persone che non c’erano, mondi distrutti e una disperazione confusa che nemmeno lei comprendeva: cominciava sempre con la stessa frase.
– Ho ucciso una persona, lo sai? – e poi rideva e io mi rifiutavo di capire dov’era che realmente iniziasse quella presunta menzogna.
– L’ho fatto per tuo padre.

*

Il Distretto 4 profumava di sabbia e mare, legno bagnato e umido delle barche. Il vociare dei pescatori era punizione e melodia, la curva delle onde un incubo ricorrente. Annie si divincolava sempre dalla presa ferrea della sua infermiera per camminare sulla spiaggia. Si fermava sempre su una collinetta di sabbia smossa, guardando oltre quel paesaggio talmente familiare: c’erano due pietre marmoree, parallele, abbandonate lì.
Una sera crollò sui suoi stessi piedi e iniziò a raccontare.
 
Annie Cresta amava davvero Finnick Odair. Era un amore malato che l’aveva portata oltre il limite della sanità mentale, costringendola quasi ad affidarsi completamente a lui.
Verso la fine del loro tormentato amore, lui le aveva strappato un’ultima promessa, marchiandola sulla pelle di lei – indelebile.
Le aveva chiesto di non dimenticare, promessa che sfociava nell’irrealtà delle constatazioni troppo ovvie, delle promesse che saranno comunque mantenute. Le aveva scritto quella promessa durante l’ultima notte, con il profumo di casa che si spandeva nelle camere anguste del Distretto 13.
Forse già lo sapeva, Odair, che non sarebbe tornato: era una sensazione che cominciava dal cuore e invadeva tutti gli altri organi, passando per la pelle. E si parava le spalle – la scorza dura del soldato faceva spesso capolino, spiazzandolo – chiedendo a sua moglie di non dimenticare. Come se fosse possibile farlo, lui che l’aveva sorretta fin dall’inizio.
Quella sera, Annie Cresta si addormentò con la morte nel cuore.
 
Sei anni dopo, si svegliò con la morte nelle mani, seguendo quell’andamento particolare che viene circoscritto da un Fato troppo crudele. Lo raccontò con un sorriso dolcissimo sulle labbra, mentre mi guidava in quella spiaggia intrisa di sangue innocente – sangue di Ghiandaia Imitatrice, affinché nessuno potesse dimenticare, poiché di dimenticanze ne aveva sofferte troppe: quelle di Katniss Everdeen che, ne era certa, avrebbe potuto salvarlo. Quella dello stesso Finnick, che si era dimenticato di lei e del bambino che portava in grembo, per prender parte a una missione suicida. Troppe persone, troppe perdite. Colpa sua.
Perché, Annie non riusciva a dimenticarsene, era stata Katniss Everdeen a uccidere Finnick. Si può uccidere una persona, evitando di salvarla.
 
La spiaggia profumava di pioggia e lacrime e Katniss Mellark era davvero troppo sola, di una solitudine serena che si contrapponeva a quella di Annie Odair. Malata.
C’era davvero troppo silenzio.

*

Quando mia madre snocciolava nomi – morti, durante una guerra che lei non aveva combattuto – e ridacchiava incerta, io non riuscivo mai a guardarla. Assumeva l’espressione concentrata di una bambina e tentava di associare volti a quei nomi. Forse non comprendeva che, talvolta, i nomi devonoessere solo nomi – perché altrimenti diventerebbero tutti importanti e rinforzerebbero le crepe nel cuore e sarebbe un dolore più forte di quella ferita sempre aperta. Sale nel sangue perché, la maggior parte delle volte, i nomi non sono mai solo nomi.
Cominciava da quelli che ricordava e finiva per ripetere sempre gli stessi, fra cui il nome di Katniss Mellark che figurava come la ferita più facilmente replicabile: sembrava conoscere meglio le ferite che aveva provocato, se confrontate a quelle che le erano state inferte.
E la Ghiandaia Imitatrice rimaneva sempre la sua ferita più profonda, un’arma a doppio taglio che l’aveva lasciata stordita. E il suo nome ricorreva con una ritmicità sconcertante. E se quel nome non fosse stato solo un nome?
 
L’aveva colta durante una sera, colta come un fiore in procinto di appassire e una conchiglia sul fondo del mare. Katniss non l’aveva vista, quell’espressione strana – disperata – sul volto di Annie.
L’aveva lasciata avvicinare, con quel coltellino fra le mani, quello che usava per cogliere i fiori selvatici. La Ghiandaia Imitatrice aveva spalancato le ali, badando a non far vedere le cicatrici che le attraversavano, che rimandavano a una guerra mai dimenticata.
Hai ucciso mio marito?aveva domandato, atona. E Katniss l’aveva presa come l’ennesima dimostrazione di una pazzia latente che stava solo per peggiorare. Aveva scosso la testa, lentamente, ignorando quel dolore che le deturpava l’anima.
L’hai ucciso – aveva singhiozzato Annie, stravolta. E l’aveva detto. – Vero o falso?
E quel “falso” era morto sulle labbra di Katniss Mellark.
 
I nomi, per Annie, non erano mai solo nomi: erano attimi che le sfuggivano, troppo veloci per essere colti. Come i petali delle margherite che disperdeva nel vento.
 
Annie Cresta spezzò le ali di Katniss Everdeen con un coltellino al sentore di lavanda, durante una sera indimenticabile, mentre pronunciava una sola parola. Le sarebbe rimasta impressa per sempre.
Vero.
Annie ci credeva davvero.

*

C’era sempre un vaso vuoto e una vecchia boccia di vetro, nella camera dei miei genitori. E un armadio sempre chiuso che, ne ero certo, conteneva tutti i vecchi vestiti del compianto Finnick Odair. Un uomo che mi somigliava nel nome ma che non ero io.
Mia madre passava ore a fissare il vaso, con boccioli selvatici dispersi nel grembo e le mani ricoperte di tagli – non sapeva coglierli e si affidava a un coltellino. E volte si feriva con quello o con le spine. Sono pericolose, se non le sai cogliere – persa nel cercare una combinazione consona nel rappresentare la sua disperazione. Mischiava nontiscordardimé ed edera velenosa, biancospino e agrifoglio in quel vaso che non conteneva mai un briciolo di quella disperazione che l’attanagliava.
E c’erano piume, piume ovunque, relitti di un cuscino distrutto durante il terrore portato da un incubo – dal quale si sveglia solo quando si siede davanti allo specchio e intreccia ghirlande per un fantasma ormai sepolto. Quelle piume, Annie aveva perfino paura di toccarle. Che fossero piume di Ghiandaia Imitatrice?
 
Non urlò nemmeno una volta, Katniss, durante quella notte: osservava con occhi spiritati le stelle e sopportava con la stessa rassegnazione che Panem le aveva visto quando si preparava a essere smembrata da Clove. C’era sempre quell’orgoglio inossidabile, nel suo sguardo.
Era solo Annie, a urlare, facendo tremare l’aria fredda della sera.
Dov’eri, tu, quando luiè morto? Perché non l’hai salvato e hai lasciato che me lo portassero via?
Incideva ghirigori sulla pelle di lei, recideva quello stelo così ostico.
Perché l’hai lasciato andare nella polvere, proprio tu che avevi giurato che ci saresti stata sempre?
I fiori le piacevano, lasciavano sulle dita un odore lieve che sapeva di malinconia. Diverso dal sentore rugginoso del sangue, che si appiccicava all’epidermide e non ne voleva sapere di andar via.
Annie strinse la presa sul coltellino, troppo affilato per l’uso gentile che ne faceva solitamente. La luce lunare lo colpiva direttamente, facendolo sembrare troppo raffinato per l’uso squallido che ne stava facendo.
Annie la recise, come una margherita sul punto di sbocciare e davvero troppo bella per essere lasciata in pace.
Nella curva dolce delle onde, si udì come un sussurro, un rimprovero accennato che la scosse nel profondo.Annie, io di te mi fidavo.
Crollò anche lei, come quella margherita recisa da delle mani inclementi.

*

Un giorno, sentì il rumore di specchi infranti e sangue che scorre: aveva tirato il vaso contro lo specchio del bagno e rideva istericamente. Voglia di uccidere, continuava a sussurrare scandalizzata l’infermiera. Voglia di uccidere.
Ma Annie Cresta – la timida, dolce, gentile, pazzaAnnie Cresta – era davvero capace di uccidere?
La osservavo con gli occhi socchiusi in quel suo continuo delirio, nel suo farneticare cose già sentite e scrivere con le dita un nome che avrebbe dovuto essere il mio. Entrò in quel limbo senza fine che la mia permanenza lì compiva il suo compleanno tri-settimanale. Non ne uscì più o, almeno, lo fece con la cadenza regolare di una volta ogni quattro settimane: due volte sole finì per sentirle pronunciare parole vagamente sensate.
 
– Dov’è quella ragazzina, Finnick? – domandò un giorno, con un filo di voce. – La figlia dei Mellark.
Io la squadrai attentamente, cercando quel bagliore folle che vedevo solitamente. Era lucida.
– Dandelion – sussurrai, sentendo la gola chiudersi attorno a quel nome che non pronunciavo da tempo.
– Dov’è? – insistette lei, con una strana urgenza.
– Morta – risposti io, lapidario.
E il bagliore di sanità mentale si spense, lasciandole gli occhi vuoti e grandi, opachi come il mare del Distretto dopo una tempesta.
 
Le settimane seguenti furono caratterizzate da un continuo raccontare e intrecciare particolari che io non conoscevo. Erano veri o falsi?
La guardavo mentre delirava, sempre con la fronte che scottava per la febbre. E mi convincevo che sì, doveva per forza essere vero. Lei l’aveva ampiamente dimostrato, come si poteva uccidere una persona. Non aveva ucciso solo Katniss Everdeen.
Aveva ucciso anche Peeta Mellark, almeno in parte.
 
Ma  non se ne rendeva conto:camminava, intrecciava ghirlande e raccontava storie. Si feriva con le spine e non si lamentava mai, limitandosi a scrollare le spalle con ingenua noncuranza.
A volte, mormorava una domanda a cui non rispondevo mai, lasciando che quelle parole si disperdessero nell’aria. Hai mai ucciso qualcuno?
Si perdeva anche lei, dopo quella domanda, in un mondo impenetrabile in cui entrava con cadenza regolare e non ne usciva quasi mai. Solo una volta aggiunse poche parole, una sorta di rimpianto malcelato che la scuoteva dal profondo.
– Non hai idea di quanto faccia male.
 
Dal Distretto 12 era venuta una ragazza e con lei era giunta anche la ribellione e la morte. Si era portata via giovani uomini e giovani donne, dimentica del dolore che le attanagliava le viscere. Anche lei aveva perso qualcuno – allora perché si ostinava a portare con sé morte e distruzione?
La Ghiandaia Imitatrice era venuta dal nulla e nel nulla era rimasta, portando con sé poveri innocenti. I Giochi erano terminati, eppure, Annie Odair aveva scoperto un gioco peggiore a cui giocare.
Alla Ghiandaia Imitatrice erano state recise le ali e cavati i bulbi oculari, di un grigio glaciale che stordiva il cuore. Annie non li aveva guardati, per tutto il tempo, convinta che sarebbe impazzita se l’avesse fatto.

*

Se ne andò che scottava di febbre e insisteva per vagare senza meta sulla spiaggia: continuava a seguire una voce. Era come incantata da qualcosa, mentre tracciava linee contorte sulla sabbia bagnata. Continuava a sorridere, di un sorriso inquietante – rosso come il corallo e il sangue appena versato. Evidentemente la vita necessitava di un sacrificio per continuare a scorrere e lei aveva offerto il suo sangue per porre fine a un’esistenza troppo travagliata per poter proseguire.
 
Aveva trovato la forza per ridere, amare, piangere, intrecciare ghirlande. Uccidere. Cosa le rimaneva, sul tramontare della sua esistenza?
 
– Non sono pazza – continuava a ripetere, mentre guardava il mare con un desiderio quasi doloroso. – No – le rispondevo sempre io, con la voce rassicurante che si usa per calmare i bambini.
E lei ricominciava, con gli occhi spalancati e lucidi di febbre.
Le ho staccato la testa, non me ne sono pentita – affermò, ridendo istericamente. – Perché leilo ha ucciso.
Non smetteva più di ridere, assaporando una vendetta lasciata fermentare per anni.
 
Aveva scavato nella sua mente debilitata e lì si era rinchiusa, aspettando il futuro. Era sopraggiunto il dolore, solo quello, facendola crollare.
Aveva ucciso durante una notte come tante altre e non aveva avuto paura del sangue sulle sue mani.
 
– Perché me ne stai parlando ora? – domandavo, perplesso, al niente che non poteva rispondermi. Annie non avrebbe mai potuto spiegare – o forse sì?
– Dovevi sapere – mormorò, mentre il vento le scompigliava i capelli. – Cosa ci hanno fatto.
No, avrei voluto urlare. Cosa hai fatto tu.
 
E se un giorno si fosse svegliata pensando che, sì, l’omicidio non era poi una così brutta alternativa?
 
– E se un giorno avessi capito che non riuscivo a vivere, senza di lui?
Ebbi a malapena il tempo di voltarmi. Un coltello partì nella mia direzione.

*

La lama finì fra la sabbia, facendomi indietreggiare. Mi guardai attorno.
Lei se n’era già andata.
In un impulso stupido e umanomi domandai se non fosse tornata a uccidere qualcuno.
 
Che sciocco. Era andata a uccidersi.
 
La trovarono esattamente tre ore dopo, in mare, con gli occhi socchiusi sugli occhi dello stesso colore delle profondità recondite degli abissi. Si era lanciata dalla scogliera, sapendo che non l’avrei seguita.
 
Mi permisero di vederla. Fra le mani, stringeva una foto di mio padre.
Peeta Mellark si presentò al suo funerale, trattenendo le lacrime per una moglie che non era la sua. Era anche lui sul bordo del baratro, triste nel suo abito lindo e nella sua espressione addolorata.
Come poteva sopportarlo?
Lei aveva ucciso sua moglie.
 

*

Ricordo la mia adolescenza come un intrecciarsi di vicende amare, in una ritmicità che lasciava spazio solo allo sconcerto. Ancora oggi, trasalisco davanti alle maldicenze del Distretto.
 
C’era una donna, nel Distretto 4. Spezzò le ali alla Ghiandaia Imitatrice e la colse come si fa con i fiori di lavanda.
 
A volte qualche bambino corre dietro le sottane della madre, urlando di aver visto un fantasma.
Una donna sporca di sangue, un coltellino sulla sabbia e Katniss Everdeen dalle ali spezzate.
 
Spesso mi volto indietro e la cerco con lo sguardo, ma non la vedo mai: è solo il vento che muove i fiori selvatici e le onde del mare.
 
Ogni tanto, i bambini spariscono: un giorno le madri si alzano e non li trovano più.
Dicono sempre che ci sia un fantasma, nel Distretto.
Il fantasma si una donna che ha perso il marito e non trova più il figlio.
Annie Odair.
 
Qualche volta, nuotando giungo fino alla scogliera, allontanandomi dalla sabbia sempre priva di quei “Finnick” tracciati con le dita.
Nel punto dove l’acqua è più profonda, il fondale ha un colore familiare. Succede che riesco perfino a convincermi di vedere mia madre che sorride, come non ha mai fatto.
 
E la cercano sulla spiaggia, seminando boccioli selvatici e aspettando che torni per spezzare altre ali.

 

Doverosa nota d'autrice:
io non dovrei essere qui. Dovrei essere a preparare la mia valigia, visto che dopodomani parto e sto via per tre giorni - ma no, dovevo per forza postare questa storia. Quindi, eccomi qui a spiegare com'è che siamo giunti a questo critico punto. La Killer!Annie nasce per il contest per cui è nata questa shot: "Killer!GoodGirls - Anche i buoni, nel loro piccolo, s'incazzano" indetto da Eterea e Trick sul forum di Efp. Io, essendo io e quindi tremendamente folle e masochista, ho deciso di usare Annie. E così mi sono trovata una Annie che uccide Katniss e, così si dice, anche bambini indifesi. Ho usato il punto di vista del figlio perché, lo ammetto, non credevo di essere in grado di gestire la prima persona di Annie. La seconda l'ho usata in "Non cogli la neve" e non mi andava di seguire quella linea di narrazione e la terza... ammetto di non averci pensato. Ma non importa: ormai siamo qui.
E visto che siamo qui, ne approfitto per dare un paio di chiarimenti assolutamente inutili: parliamo un secondo di Dandelion. Io non lo specifico e siete liberi di pensare ciò che volete ma, nella mia contorta mente, lei è bipolare. Invece, la frase "Cadere nel vuoto (...) come un corpo morto" è liberamente ispirata alla conclusione del V canto della Divina Commedia.
Se qualcuno se lo stesse chiedendo, sì, shippo troppo FigliodiFinnick/FigliadiKatniss, con buona pace della differenza d'età (che, per inciso, qui non ho controllato: mi servivano tempi accelerati per uccidere Katniss, abbiate pietà). E niente, siete giunti qui, quindi penso che possiate anche andare xD
Recensioni graditissime - anche se risponderò al mio ritorno (... si spera. Chi mi conosce sa che sono una causa persa). Ricordo che non mordo, anche perché il sangue umano mi fa parecchio schifo - non si direbbe, eh? Invece sì u.u
Alla prossima, quindi.
Bessie
   
 
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