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Autore: Lilith in Capricorn    18/05/2013    1 recensioni
Il giovane chitarrista rock Andy Syte è appena morto, all'età di 27 anni.
Ma non è di lui che questa storia parla, non esattamente: la sua dipartita è soltanto la prima tessera di domino che cade, colpendo indirettamente tutte le altre, in una spirale di illusioni, disillusioni, "epifanie" e riflessioni, raccontate da un coro di 5 voci, completamente diverse, ognuna con un suo diverso stile narrativo, ognuna vittima di un differente tipo di illusione.
Prima classificata al contest "Con una citazione migliora tutto!" di Niananima, con la citazione di Baricco: "Deve essere una specie di hobby: collezionare illusioni di cui non essere all'altezza."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Come promesso, ecco il secondo capitolo, nel quale ho presentato il personaggio del professor Aaron Kelly, con cui si scenderà ancora più a fondo, nella spirale di illusioni ed emozioni.
Non voglio anticiparvi nulla, ma credo sia opportuno fare un piccolo appunto: come ho detto in risposta alla recensione di Ulisse 999, ogni personaggio di questa storia va preso con una certa tenerezza e con un senso di pietà, anche quando fa qualcosa che, generalmente, viene considerato immorale o sbagliato, perché nessuno di loro è "cattivo", ma sono tutti semplicemente vittime - più o meno coscienti di esserlo - del dolore esistenziale causato dall'atto stesso di vivere e ogni loro azione o pensiero è semplicemente una reazione a questo dolore.
Prima di lasciarvi alla lettura, però, vorrei anche fare un paio di ringraziamenti: ad
Ulisse 999 per aver recensito e a Norhade per aver recensito e inserito la storia tra le seguite.
Grazie, e buona lettura a tutti!



LA FILOSOFIA DI RUSSIA

 

02-Aaron Kelly (l'amore)


Il giorno del funerale di Andrea Esposito – detto Andy Syte – c’era il sole e tanta luce per le strade.
Il fatto fu molto peculiare e alcuni ragazzi – probabilmente amici del giovane – dissero che il cielo era felice, perché adesso Andy avrebbe potuto suonare per Dio e per gli angeli, per sempre.
Erano i primissimi giorni di marzo, quelli più nuvolosi e umidi, eppure, proprio quel giorno, il cielo era chiaro e splendente, tanto che pareva quasi estate, nonostante l’aria fredda che ancora si trascinava appresso qualche rimasuglio dell’inverno appena trascorso.
 
Aaron Kelly, avvolto in un elegante cappotto nero, si guardava attorno, fuori dalla chiesa, incuriosito dalla grande varietà di emozioni che attraversava i volti della folla vestita di scuro.
Andrea aveva 27 anni.
27: dicono che sia un “compleanno maledetto”, presso gli artisti del rock.
Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin, Kurt Cobain, Brian Jones, Dennes Boon, Amy Winehouse …
Aaron pensava a tutti loro e ad Andrea.
Andrea … un nome molto poco rock; Andy era decisamente meglio.
 
Non era mai stato un grande appassionato di musica, ma sapeva – dai giornali, dalla televisione, da internet e dai racconti di qualche suo alunno – che ai funerali di quegli artisti c’erano tantissimi giovani e tutti piangevano e quasi si strappavano i capelli.
Addirittura, aveva sentito che quando era morto Elvis, alcune persone si erano suicidate, per la disperazione di aver perso il loro idolo.
Manco fosse morto Cristo!
Aaron non li capiva: come ci si può disperare tanto per qualcuno che nemmeno si conosceva?
 
Sotto questo punto di vista, il funerale di Andy era molto più normale e discreto.
Aveva saputo che la famiglia aveva tenuto nascosto il nome della chiesa in cui si sarebbe celebrata la funzione e anche il luogo dove avrebbe riposato la salma.
Era quasi come se sua madre, in qualche modo, nonostante dicesse di odiarlo, stesse tentando di riprendersi il figlio che il mondo le aveva strappato, sottraendolo a sua volta a quello stesso mondo che lo aveva tanto amato e che, eppure, lo aveva ucciso.
 
Andy Syte era morto crivellato a colpi di pistola proprio da un suo fan, proprio da qualcuno che diceva di amarlo.
Aaron non aveva mai sentito di una storia simile, nel mondo del rock, anche se non escludeva che potesse essere già accaduto, in passato.
Anche Lennon lo avevano ammazzato con i proiettili, ma, da quanto ricordava, l’assassino non era un suo fan. Forse.
E, comunque, sapeva che quell’uomo non si era mai pentito del suo gesto.
 
Non ricordava come si chiamasse, ma il nome del boia di Andy lo conosceva: Richard Parrot.
Nessuno avrebbe mai potuto spiegare il motivo che lo aveva spinto a commettere un tale crimine: la guardia del corpo di Andy lo aveva freddato, anche se troppo tardi.
Una volta identificato il killer, erano andati a casa sua, alla ricerca di qualcosa che potesse spiegare il perché di tutto.
Ma non avevano trovato nulla di interessante: solo la discografia completa della band di Andy, diversi poster e persino una foto autografata del chitarrista: si erano già visti, si erano già incontrati, erano stati vicinissimi e forse, chissà, proprio allora Parrot aveva cominciato a meditare di farlo fuori, per chissà quale assurdo motivo.
 
Comunque, anche al funerale di Lennon c’era un mucchio di gente disperata. A quello di Andy no.
Il che era alquanto strano: anche se c’erano solo pochissimi fan, la gente avrebbe comunque dovuto dimostrare un po’ più di tristezza.
Era il funerale di un ragazzo di 27 anni, dopotutto, e la gente piange sempre al funerale di un ragazzo così tremendamente giovane.
Eppure, non era così: molte persone avevano un’espressione sul viso piuttosto annoiata e alquanto indifferente, parecchi gruppetti di donne chiacchieravano allegramente e gli uomini, anche se un po’ più silenziosi e composti, non sembravano molto seri e mesti.
 
Le vere facce da funerale erano ben poche e appartenevano tutte a ragazzi molto giovani della città che, evidentemente, erano ammiratori di Andy e, chissà, forse c’era anche qualche ex ragazza.
Come la biondina tutta secca che se ne stava silenziosa, in disparte, con la faccia pallida e le braccia strette attorno al corpo, come se volesse scaldarsi o avesse bisogno di un abbraccio.
Non piangeva, ma i suoi occhi erano così spenti, così vacui, così lontani …
 
La persona che più di tutte lo sconcertava, comunque, era Carla Russo, la madre di Andy: gelida, impassibile, col volto severo e un’amarezza negli occhi che non era di certo dovuta alla perdita subita, dato che il professore gliel’aveva vista esibita ogni volta che l’aveva incontrata.
Era come se Carla, dentro di sé, avesse già celebrato i funerali del figlio, molti anni prima, quando lui l’aveva abbandonata, per inseguire la sua strada.
E forse, in città, erano in molti a pensarla come lei, visto l’umore della maggior parte delle persone, lì attorno.
 
Aaron non pensava che Carla fosse una persona cattiva: semplicemente molto sola.
Il figlio l’aveva abbandonata, il marito era morto, la figlia sembrava vivere in un mondo completamente diverso dal suo e il compagno, a quanto pareva, la tradiva.
Bisognava essere ciechi, per non accorgersene: le occhiate, i gesti, i sorrisi, le gentilezze che si scambiavano Teo e quella donna che gli era stata indicata come “Maria” erano inequivocabili, per un occhio attento come il suo.
 
Era evidente che i due nascondessero qualcosa e non era difficile immaginare cosa.
Anche Jana lo pensava. Era una ragazza intelligente e sveglia, molto più di sua madre, che si ostinava a vivere nel suo giardino incantato, sperando così di non essere abbandonata ancora, di non rimanere completamente sola.
Ecco: la solitudine, questa era la sua più grande paura, l’abbandono.
Per questo, Aaron non riusciva ad odiarla: perché gli faceva pietà, quella sua ingenuità cosciente e voluta.
Carla non era cieca, Carla voleva essere cieca.
 
E Aaron si chiedeva se, per caso, avesse deciso di essere cieca anche con lui, o se davvero non se ne fosse ancora accorta.
Forse, aveva semplicemente bisogno di potersi fidare di qualcuno e lui era un professore, il rappresentate di un istituzione importante come la scuola, chi più affidabile e onesto di lui?
Se solo avesse saputo chi era davvero il professor Kelly, forse, avrebbe cominciato a svegliarsi anche con le altre relazioni sociali che intratteneva (Teo e Maria in primis).
O forse, più probabilmente, si sarebbe inoltrata ancora più in profondità nel giardino incantato, continuando ad illudersi, e lo avrebbe fatto sempre di più, finché l’illusione non l’avrebbe uccisa e divorata.
 
*****
 
L’anno precedente, durante l’estate, la professoressa d’inglese, scopertasi finalmente in stato interessante dopo numerosi tentativi, si era messa in aspettativa per un anno e la scuola aveva dovuto cercare un professore per rimpiazzarla come supplente.
Era stato indetto un concorso, nel mese di agosto, che aveva visto un certo Aaron Kelly vincitore.
 
Kelly era un insegnante molto giovane (doveva ancora compiere 35 anni) e un uomo piuttosto attraente: capelli biondicci, occhi celesti e puliti e fisico da nuotatore.
Quello che lo caratterizzava di più, però, era la sua aria distratta.
Se ne andava in giro con lo sguardo per aria, osservando le case, gli alberi, la gente, il cielo, gli uccelli … non guardava mai per terra, rischiando continuamente di inciampare, ma non succedeva mai: più che camminare, sembrava volare.
 
Era un uomo molto cortese ed educato, pieno di passione per la vita e per la propria materia, anche se tanto serio da risultare quasi un po’ freddo, a volte.
Era intelligente, sapeva spiegare molto bene e con fluidità anche le cose più complesse ed era molto empatico, il che gli permetteva di stabilire la giusta distanza nel relazionarsi con gli studenti: era autorevole, ma senza risultare autoritario.
Gli alunni non solo lo rispettavano, ma lo adoravano anche, nonostante la totale mancanza di senso dell’umorismo – qualità, invece, molto apprezzata dai giovani.
 
Aaron non era certamente uno di quelli che alla domanda “che persona è?” avreste definito simpatico.
Il professore non faceva mai battute, parlava molto poco e non rideva mai.
Eppure, grazie a quel suo sorriso educato e cordiale, riusciva a non risultare mai malinconico, triste, o pesante.
 
Aveva attirato subito l’attenzione e il desiderio di tutte le studentesse e anche di qualche studente, oltre, ovviamente, alle professoresse di qualunque età.
Tutti sembravano affascinati da lui. Tranne Jana Esposito, quarta C, 18 anni ancora da compiere, fisico minuto e sottile, capelli castano chiaro, occhi nocciola, lineamenti dolci e sguardo assente.
Una ragazza come tante, una di quelle che raramente attirano qualche attenzione: non avrebbe mai potuto sperare di diventare popolare, nella scuola o nel mondo del lavoro, tanto era invisibile.
Riusciva a mescolarsi con la folla e a mimetizzarsi ovunque, con una facilità notevole, tanto che sembrava quasi non esistere.
 
E, forse, paradossalmente, proprio per quello Aaron l’aveva notata, per il suo silenzio, per la sua “invisibilità”, per il suo quasi esistere.
E poi, a sorpresa, aveva risvegliato il suo interesse durante la prima interrogazione: in due mesi, non l’aveva mai vista scrivere appunti, non l’aveva mai sentita porre una sola domanda, non gli era mai sembrata interessata.
Eppure, quel giorno, in piedi davanti alla cattedra, aveva dimostrato di possedere una mente brillante, una sensibilità profonda e un grande amore per la letteratura.
 
E sapeva parlare. Stava sempre zitta, ma come sapeva parlare!
La gente, di solito, parla sempre di sé, dei suoi problemi, di quello che le piace, di quello che fa, come se pensasse di avere davvero qualcosa di interessante da dire, ma invece non è così.
Il più delle volte, quando aprono bocca, le persone dicono solo cose noiose e banali.
Eppure, parlano sempre.
E invece, quelli come Jana, che hanno un intero mondo nel cuore, spesso parlano molto poco o non parlano affatto e, se lo fanno, è raro che la gente riesca ad apprezzarli.
Aaron era uno di quelli che sapeva farlo e si maledisse per non aver capito prima la diciassettenne.
Poche settimane dopo, si sarebbe rammaricato del contrario.
 
Da parte sua, era accaduto tutto per puro caso, una cosa aveva trascinato l’altra, ma non era sicuro che da parte di Jana fosse altrettanto.
Dopo il giorno dell’interrogazione, in cui, alla fine dell’ora, il professore l’aveva invitata a rimanere ancora cinque minuti, avevano preso l’abitudine di attardarsi un poco, alla fine della mattinata e, qualche volta, di rimanere a scuola anche il pomeriggio, a discutere e preparare diversi progetti.
 
Nonostante nessuno dei due fosse di molte parole, entrambi avevano subito trovato piacevole la conversazione con l’altro.
Entrambi amavano le stesse cose e parlare era molto facile, sembrava quasi che si capissero al volo, anche se Aaron non era molto sicuro di questo: c’erano delle volte in cui si ritrovava a pensare che, in realtà, non comprendeva affatto il mondo di Jana.
 
Era una cosa difficile da capire, figurarsi da spiegare.
Sembrava che, dentro di lei, ci fosse un eterno conflitto tra due poli opposti: l’intensità della sognante meraviglia con cui considerava i libri era paragonabile solo al cinico realismo con cui guardava alla vita; la sua profonda sensibilità umana e artistica faceva violentemente a pugni con il dissacrante disprezzo che dimostrava per la spiritualità e la religione; il suo profondo senso di libertà, giustizia e lealtà contrastava aspramente con la sua indole malinconica e pessimista e con la sua assoluta miscredenza nell’amore.
 
Ecco, forse era proprio questo l’aspetto che più di tutti destabilizzava il professore: il suo assoluto, sprezzante rifiuto dell’amore.
Jana non ci credeva, punto, era impossibile farle cambiare idea.
Non sembrava credere in nulla, a tal proposito, né nell’amore divino, né in quello romantico, né in quello coniugale, né in quello parentale, né nella pietà, che è la forma più nobile, alta e disinteressata.
 
«Oh, andiamo professore, non mi dire che alla tua età ci credi ancora» aveva detto un giorno – gli dava sempre del “tu”.
«Alla mia età? Va bene che sei molto più giovane di me, ma vacci piano: ho solo 34 anni, non sono vecchio»aveva risposto, con un tono un po’ scherzoso e nient’affatto offeso.
«E chi ha detto questo?» aveva subito replicato lei. «E poi, non credere di essere tanto più vecchio di me: sono giovane solo fuori, me lo dicono tutti.»
«Già, probabilmente hanno ragione, purtroppo.»
«Purtroppo?»
«Beh, ecco … io credo che crescere così in fretta sia una cosa molto triste. Non voglio turbarti è solo … è solo quello che penso e sono sempre stato onesto, con te.»
 Jana lo aveva guardato in silenzio, senza realmente vederlo, per qualche secondo, prima di rispondere: «Sì, hai ragione. È una cosa triste, in effetti …»
«Mi dispiace, non era mia intenzione intristirti …»
«Non importa, davvero, hai solo detto una cosa vera, non sentirti in colpa.»
 
Eppure, Aaron ci si sentiva eccome, perché i suoi occhi erano velati e la sua voce mormorante.
«Jana, perché non credi nell’amore?» le aveva chiesto all’improvviso, sinceramente curioso e interessato alla sua opinione, che non aveva tardato ad arrivare.
«Per lo stesso motivo per cui tanti non credono in Dio: perché non è mai successo niente che mi abbia spinto ad avere fede.»
«Non hai fede neanche in Dio.»
«Non ho fede in un bel niente, prof. Ma, parlando dell’amore con l’accezione che gli si dà comunemente, penso che sia tutta un gran cazzata, perché chi lo cerca, spesso, lo fa solo per un egoistico bisogno di affetto, perché non sa stare da solo, per interesse personale, insomma, ed è per questo che, prima o poi, finisce, quando il bisogno viene appagato.»
«Non pensi che si possa amare davvero e per sempre?»
«No. E per quanto riguarda la pietà, poi, penso che anche quella, in fondo, sia un po’ egoistica e che chi la pratica lo fa solo per mettersi la coscienza in pace di fronte a Dio, se è credente, o di fronte a sé stesso, se è ateo. L’amore disinteressato non può esistere: l’uomo è una creatura egoista per natura.»
«E che mi dici della famiglia?»
«Me lo stai chiedendo sul serio, Aaron? La conosci la mia situazione, no?»
La conosceva, la ragazza gliene aveva parlato, qualche giorno prima.
 
Il professore aveva pensato che quella doveva essere la conversazione più triste e senza speranze che avessero mai avuto.
Per un momento, aveva provato pietà per lei: chissà quanto doveva essere malinconica e desolata la sua vita? Quante volte aveva desiderato di poter parlare di queste cose con qualcuno, ma nessuno aveva mai voluto o saputo ascoltarla? Come si fa ad andare avanti, quando non si ha nulla in cui credere e, quindi, nulla per cui vivere?
Era così giovane e così senza speranza da mettere i brividi: in fondo, aveva solo diciassette anni.
 
«Comunque» aveva ripreso lei dopo un momento, «a parte tutte le riflessioni del caso, nella mia vita non c’è mai stato nulla che mi abbia fatto credere nell’amore. Non i genitori, non un amico, nessuno.»
«E tuo fratello?»
«Mio fratello è il più ingenuo ed egoista di tutti, anche se non è cattivo.»
«So che sei molto legata a lui.»
«Sì, ma questo non vuol dire niente: se davvero mi amasse, Andy mi porterebbe via con sé, lontano da qui. Come vedi, non posso farti un solo nome di una persona che mi ami o che mi abbia amato.»
Eppure, nonostante tutto, il professore sapeva che non era vero.
Eppure, nonostante tutto, Aaron la amava.
 
*****
 
Era un pomeriggio d’autunno e pioveva a dirotto.
Jana detestava la pioggia, ma, per fortuna, il meteo aveva annunciato che, nel tardo pomeriggio, l’acquazzone sarebbe scivolato via, esattamente com’era venuto e già da lontano si vedeva una fetta di cielo, tra le nuvole diradatesi.
L’aria era ancora calda, nonostante tutto, e c’era un’umidità quasi palpabile e fastidiosa.
 
Aaron, seduto alla cattedra, durante uno dei loro lunghi momenti di silenzio, aveva corretto un paio di compiti in classe, gli ultimi rimasti, prendendosi le consuete incazzature per gli errori di grammatica stupidi e perfettamente evitabili, con un po’ più di attenzione.
Appena finito, aveva risistemato tutto nella sua cartella blu scuro e si era rilassato sulla sedia girevole, con un sospiro.
In quel momento, si era finalmente accorto che Jana, seduta sul davanzale della finestra, per tutto il tempo, non aveva fatto altro che osservarlo con uno sguardo strano.
Uno che non le aveva mai visto dipinto in faccia così nitidamente, prima, ma solo di sfuggita, nei momenti in cui lui alzava lo sguardo e lei, di colpo, lo abbassava o resettava i lineamenti in “modalità impassibile e imperscrutabile”.
 
Aaron aveva intrecciato le dita, con fare nervoso, aspettando che fosse lei a parlare, a muoversi, o a fare qualunque cosa: c’era un’atmosfera strana, in quella stanza, una sensazione di elettricità e penombra.
Erano rimasti a fissarsi, per diversi minuti, senza osare muovere un muscolo, come in attesa di qualcosa, di qualunque cosa.
Quella situazione stava incominciando ad innervosire il professore, che era sul punto di spezzare tutto, pronto a dire qualsiasi cosa, pur di infrangere quell’imponente muro di silenzio.
 
Aveva appena socchiuso le labbra, quando, all’improvviso, Jana si era finalmente alzata e aveva cominciato a camminare verso di lui.
La cosa, invece che tranquillizzarlo, lo aveva inquietato ancora di più.
C’era tempo, però, avrebbe potuto fare qualcosa, alzarsi a sua volta, spostarsi, dire qualcosa, fermarla.
Ma, quando aveva fatto per alzare le mani e respingerla, era già troppo tardi: Jana gli era letteralmente saltata in braccio, sedendosi sulle sue cosce.
Senza esitare un momento, neanche per guardarlo negli occhi, gli aveva afferrato il volto tra le mani e, senza delicatezza, senza romanticismo e senza pudore, aveva iniziato a baciarlo.
E, in quel momento, Aaron aveva capito di aver definitivamente passato il confine, il punto di non ritorno.
 
Era scorretto, era sporco, era illegale, era peccato, era proibito … era inevitabile.
Ancora una volta, il professore si era reso conto di quanto poco sapesse di Jana: aveva capito che, dentro di lei, c’era molto più di una ragazza silenziosa e asociale, molto intelligente e molto matura, ma non avrebbe mai immaginato che ci fosse tutto questo: una donna.
 
Jana era, nonostante il corpo ancora leggermente indefinito e acerbo, una donna a tutti gli effetti, una che aveva capito come andava il mondo e a quale velocità, una che sapeva leggerti dentro e fare di te quello che voleva, una che sapeva come fare l’amore con un uomo e che lo aveva già fatto chissà quante volte.
Al contrario di quanto aveva sempre pensato, non era neanche stato il primo e, a giudicare dalla sua sicurezza e dalla sua bravura, doveva avere anche una certa esperienza alle spalle.
Avrebbe voluto dirglielo, avrebbe voluto chiederglielo, ma aveva pensato che, probabilmente, si sarebbe potuta offendere.
 
Jana sembrava nata apposta per scopare: si lasciava fare di tutto, in tutti i modi, senza mai mostrare ritrosia, ma solo una leggera resistenza, per mascherare l’arrendevolezza che in realtà nascondeva, che contribuiva a rendere il tutto ancora più eccitante.
Ogni movimento, ogni sospiro, ogni ansito, ogni sguardo era perfetto, sembrava studiato, premeditato.
Pareva quasi che Jana facesse di tutto per farlo godere e che non si preoccupasse minimamente né del proprio piacere, né di non provare dolore: qualunque cosa, purché a lui piacesse, purché lui stesse bene.
 
Un altro uomo, si sarebbe schifosamente approfittato di una ragazza del genere, si sarebbe preso tutto di lei e non le avrebbe lasciato niente, apostrofandola poi, magari, con parole volgari e sprezzanti.
Questo, Aaron, non l’avrebbe mai fatto: si era preoccupato del massimo piacere di lei, esattamente come lei aveva fatto con lui.
L’aveva abbracciata, l’aveva accarezzata e baciata, aveva ascoltato attentamente il suo corpo, cercando di capire di cosa avesse bisogno, cosa desiderasse, cosa le piacesse; l’aveva presa delicatamente, entrando in lei con molta cura, senza fretta, senza crudezza, senza egoismo.
 
Aveva provato a comunicarle amore, quello stesso amore che, più di ogni altra cosa, lei sembrava disprezzare.
Aveva fatto l’amore con lei e, dopo aver finito, era uscito dal suo corpo con la stessa premura con cui ci era entrato.
Poi, l’aveva tirata su e l’aveva stretta a sé, accarezzandola dolcemente, mentre aspettava che riprendesse fiato e lasciandole soffici baci tra i capelli senza odore.
 
«Devo andare, si è fatto tardi» aveva bruscamente detto lei, sciogliendosi dal suo abbraccio, senza perdersi in tenerezze e rivestendosi con la stessa noncuranza con cui aveva lasciato la stanza, senza dire una parola.
E Aaron aveva pensato che non si era mai sentito più solo di così in tutta la sua vita: la freddezza con cui si era scostata da lui, il muro che aveva chiaramente percepito innalzarsi tra di loro, mentre lei si rivestiva e se ne andava, il suo totale disinteresse per quello che lui aveva cercato di darle …
Il professore si era sentito ferito.
 
Ed era la prima volta che succedeva e aveva giurato a sé stesso che non sarebbe mai accaduto e lui era un professore, cazzo! Un professore!
Un uomo di 34 – trentaquattro! – anni che non solo aveva avuto un rapporto con una sua studentessa diciassettenne – una ragazzina! – ma che si era anche lasciato infinocchiare dalla suddetta, perché lei, al contrario di lui, non aveva provato niente, non sentiva niente per lui, non credeva nell’amore.
 
Avrebbe dovuto incazzarsi – con sé stesso e con lei – avrebbe dovuto scacciarla dalla sua vita, allontanarla, non rivolgerle più la parola, avrebbe dovuto dimenticarla, avrebbe dovuto risanare e rinforzare il suo orgoglio maschile, avrebbe dovuto finirla lì, anzi, avrebbe dovuto fermarla prima ancora che accadesse.
Ma Aaron non aveva fatto e non avrebbe fatto nessuna di quelle cose: l’aveva guardata andarsene, con il cuore a pezzi e l’orgoglio ferito, con la consapevolezza che, nonostante tutto, non l’avrebbe allontanata, e che, se fosse successo di nuovo, non avrebbe saputo fermarla.
L’aveva guardata andarsene, giovane, senza speranze, senza amore e irraggiungibile, provando un’immensa pietà per sé stesso e per lei.
 
*****
 
Dopo quel pomeriggio, esattamente come Aaron aveva previsto, c’erano state molte altre occasioni per ripetere l’esperienza e, puntualmente, lui non era mai riuscito a tirarsi indietro.
Dire che continuava a ripetersi che era sbagliato, che pensava che quella storia dovesse finire al più presto e che si sentiva in colpa per quello che stava facendo a sé stesso e a lei, sarebbe terribilmente ipocrita, oltre che totalmente falso.
 
Aaron non ci vedeva nulla di sbagliato o sporco – secondo la sua ottica e la sua morale – in quello che facevano, durante i loro incontri clandestini, non pensava e non desiderava di porre fine al loro rapporto così come si era evoluto e, soprattutto, non provava nessun senso di colpa, né nei confronti di sé stesso, né di Jana, né della sua famiglia, né di nessun altro al mondo.
 
Aaron era soltanto un uomo di 34 anni – quasi 35, ormai – terribilmente solo, disilluso e apatico, che aveva trovato nella giovane Esposito una donna intrappolata nel corpo di una ragazzina, la donna più preziosa, fredda e dura che avesse mai conosciuto, una donna diamante, la vera donna della sua vita, la sola che, con la sua punta tagliente e durissima, era stata capace di scavare un buco nella sua spessa corazza e di intrufolarsi nella sua mente e nella sua vita.
 
Una giovane donna bella e così poeticamente triste, così simile a lui, per certi versi, che non avrebbe potuto non amarla.
Perché era questo che lui sentiva di provare per quella piccola donna: amore.
La amava e lo faceva al punto tale da mettere a rischio la sua carriera, la sua reputazione, la sua intera vita, pur di averla come si desidera avere la persona di cui si è innamorati.
 
Aaron non credeva di aver mai approfittato di lei: non l’aveva mai costretta a fare nulla che lei non volesse, non era stato lui ad iniziare con le avances, approfittando della presunta debolezza di lei, anzi, in un certo senso si poteva dire che fosse il contrario: perché Jana, diversamente da lui, non sembrava provare alcun sentimento, se non una notevole stima e una certa affinità.
Il professore, d’altronde, non si era aspettato nulla di diverso: era già capitato che avessero parlato dell’argomento e Jana era stata fin troppo chiara in proposito.
Per lei, l’amore non era altro che una favola a cui ti insegnano a credere, un’illusione piacevole solo finché, come tutte le illusioni, non viene smascherata, frantumata.
 
Eppure, una piccola parte di Aaron Kelly ci aveva sperato.
Jana, in fondo, per quanto fosse matura, restava comunque un’adolescente, una diciassettenne, una ragazzina piccola e inesperta, che non aveva mai lasciato la sua città natale, che non sapeva nulla del mondo, della vita, dell’amore.
Come poteva dire di non crederci, con assoluta certezza, se non aveva mai avuto occasioni e tempo a sufficienza per sperimentarlo.
Aveva avuto molti amanti, questo era certo, ma quanti di loro erano riusciti ad avvicinarsi tanto a lei, non solo fisicamente?
Chi avrebbe potuto mai dire di averla conosciuta meglio e più a fondo di lui?
Chi avrebbe mai potuto sentirsi tanto in sintonia e affinità con lei?
 
Per questo, Aaron aveva sperato di poter essere davvero il primo, se non l’unico.
Il primo che lei avesse mai amato, l’unico di cui avrebbe conservato un ricordo tanto profondo e intenso.
Eppure, nonostante tutto, Jana non aveva affatto cambiato le sue opinioni al riguardo, né il suo modo di fare, così passionale e quasi devoto quando non indossava vestiti e altrettanto cinico e distante non appena li rimetteva.
 
E la cosa più disarmante di tutte era che lei non sembrava neanche accorgersi dell’effetto che produceva sul professore, di quanto lo facesse sognare, desiderare, sorridere, vivere, godere e, allo stesso tempo, soffrire, sentire solo, usato, insignificante e impotente.
E, forse, era proprio l’ultima la più rilevante e la più grave delle sensazioni, quella che, prima o poi, lo avrebbe portato alla rovina: la sua assoluta, paralizzante impotenza.
 
*****
 
Due mesi dopo il funerale di Andy, Aaron era preoccupato: Jana era sparita da tre giorni.
Ricordava ancora la conversazione avuta proprio quel pomeriggio, quando, dopo la funzione, l’aveva avvicinata con la scusa di un progetto di letteratura di cui voleva parlarle.
 
«Come stai?» le aveva chiesto.
Può sembrare una domanda stupida, in casi come questo, ma il fatto era che Aaron davvero non riusciva a capire come si sentisse: considerato quanto lei fosse legata al fratello, almeno un po’ di dolore avrebbe dovuto trasparire dai suoi occhi castani.
Eppure, invece, lui non ne aveva scorto più di quanto ne mostrasse di solito.
L’unica differenza che aveva notato era un vuoto di luce, nelle pupille e nella sua intera figura, che non riusciva ad interpretare: era assenza di un qualcosa che non sapeva come definire.
Speranza? Ottimismo? Felicità? Desiderio? Amore?
No, non avevano mai fatto parte di lei, quelle cose, perciò non erano loro ad aver lasciato quello strano vuoto …
 
«Tu come stai?» aveva rigirato la domanda.
«Non era mio fratello. Non lo conoscevo neanche.»
«Già, forse nemmeno io. Timothy mi ha scritto una lettera.»
«Timothy?»
«Brown. Timothy Brown, il batterista della band. Era con lui, quando lo hanno ucciso. Ha cercato di proteggerlo e si è pure beccato un proiettile in una spalla, perciò non è potuto venire. Ovviamente, è stato tutto inutile … mi ha inviato una lettera. È arrivata stamattina, ma non ho il coraggio di leggerla.»
«Hai paura di quello che potresti trovarci?»
«Chi non ne avrebbe?»
 
Giusto: chi non ne avrebbe?
Chi non avrebbe paura di leggere una lettera scritta da uno che ha rischiato la vita, pur di salvare un amico, e ha fallito?
«E allora che farai? La brucerai?»
«No. C’è un tempo per ogni cosa. Quando mi sentirò pronta, la leggerò.»
«Dove la leggerai?» le aveva chiesto, ben sapendo quanta importanza avessero i luoghi, per lei.
«Ancora non lo so. Probabilmente, nella casa sull’albero di Andy.»
«Quella vicino alle cascate?»
«Sì, quella che ti ho fatto vedere. La leggerò e poi la seppellirò ai piedi dell’albero, insieme alla cassetta con i ricordi di Andrea.»
«Quale cassetta?»
«Oh, è una di quelle cassette metalliche, rotonde, per pasticcini da tè: dentro, ci sono dei disegni di mio fratello, alcuni suoi vecchi plettri consumati, il tappo della bottiglia di spumante dell’ultimo capodanno insieme, una foto di New York – la città in cui avrebbe dovuto portarmi, un giorno – tutte le sue cartoline e una ciocca di capelli che mi ha regalato, prima di partire.»
 
*****
 
Fregandosene delle lezioni, degli studenti, degli esami e di tutto il resto, il professor Kelly uscì da scuola alla terza ora, dicendo di dover risolvere una faccenda importante, lanciandosi a perdifiato lungo i marciapiedi, fino alla casa della famiglia di Jana.
Negli ultimi mesi, quella ragazza era diventata ancora più silenziosa e inquieta del solito e poi, all’improvviso, era scomparsa, in un pomeriggio come tanti altri, senza tornare a casa per tre giorni e due notti di fila.
Che fosse scappata? Che fosse partita, per andare chissà dove, proprio come faceva Andy, alla sua età?
Molto probabile e se lo aveva fatto, ancora più probabilmente, c’entrava la lettera di quel fantomatico Timothy.
 
«Buongiorno, signora. Mi scusi, se le piombo in casa senza preavviso.»
«Oh, non si preoccupi. Ma lei ha il fiatone? Ha corso? Cosa succede? Ha per caso trovato quella sciagurata di mia figlia?»
«No, non ancora, ma è per questo che sono qui.»
«Mi dica.»
«Per caso, ha mai visto una cassetta per pasticcini da tè, piena di oggetti di suo figlio, che Jana conserva?»
«Una cassetta per …? Ah, sì, certo. Deve essere sull’ultima mensola della sua libreria.»
«Ne è sicura? Davvero?»
«Sì, beh, io credo che sia lì, dove è sempre stata, ma perché …?»
«Potrebbe accertarsene, per cortesia?»
«Ma cosa succede? Perché …?»
«Lei controlli e basta, è una lunga storia …»
 
La donna alta e formosa, così diversa sia fisicamente che intellettualmente da Jana, sparì nuovamente dietro l’uscio di casa, per poi riapparire col volto sospettoso e preoccupato, pochi minuti dopo.
«Mi dispiace, non ho trovato niente. La mensola era impolverata, comunque, e si vedeva ancora chiaramente l’alone pulito lasciato dalla scatola, quindi non deve averla spostata da molto …»
«La ringrazio, signora, ora devo andare.»
«Aspetti, mi dica cosa sta succedendo, la prego …»
 
Ma prima che lei potesse dire o fare qualcosa per fermarlo, il professore era già voltato via, veloce come il vento – come se questo potesse servire a qualcosa – in direzione delle cascate.
Il sentiero che vi conduceva – quello non ufficiale – era antico e quasi mai battuto, perciò era difficile da percorrere, a causa della rigogliosa vegetazione, che non veniva mai potata o sistemata.
Ma era l’unica strada possibile, per arrivare alla casa sull’albero.
 
Non appena vi fu giunto, dopo lunghe ed estenuanti fatiche, con il fiatone alla gola che bruciava, i capelli appiccicati alla fronte dal sudore e tutti i vasi sanguigni periferici dilatati dallo sforzo e dal calore quasi estivo, Aaron chiamò il nome di Jana a gran voce.
La chiamò più forte che poté – per quanto le forze ancora glielo consentissero – e la chiamò ripetutamente, disperatamente, vanamente.
 
Quando fu abbastanza vicino alla quercia che, tra le sue fronde, ospitava una piccola, ma ben costruita, casetta di legno, il professor Kelly si fermò: ai piedi delle grosse radici legnose, un piccolo cumulo di terra bruna e umida, che saltava subito all’occhio, in mezzo a tutto quel verde e marroncino chiaro, indicava che qualcuno aveva recentemente scavato e poi ricoperto il terreno, in quel punto.
 
Lentamente, quasi con il timore reverenziale che gli archeologi riservano ad una tomba antica, il professor Kelly si accinse a profanare quel piccolo loculo fittizio, estraendone una vecchia cassetta metallica per pasticcini da tè.
L’aprì con le mani tremanti e dentro vi trovò, oltre agli oggetti che Jana gli aveva menzionato due mesi addietro, un altro paio che, in teoria, non avrebbe dovuto trovarsi lì dentro: uno era una lunga lettera scritta a mano, custodita dentro una busta che era stata un po’ strappata e spiegazzata, durante l’apertura; l’altro una grossa agenda un po’ sgualcita e stropicciata, dalla rigida copertina grigia.

 



E anche il secondo capitolo è andato.
So che è molto lungo e in alcuni punti anche lento e noioso, ma lo è intenzionalmente: rispecchia il ritmo e l'atmosfera generale della vita del professore e, probabilmente, anche di molte altre persone.
Per quanto riguarda il personaggio di Jana, invece, non giudicate in fretta: anche lei ha un capitolo tutto suo! Non il prossimo, il prossimo sarà la lettera di Timothy.
Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito o anche solo letto il capitolo precedente e anche tutti coloro che avranno voglia di leggere anche questo: grazie e spero apprezziate!


PROSSIMO CAPITOLO: SABATO 25 MAGGIO!

   
 
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