Izuki
ed io ci siamo salutati la sera scorsa. Ci siamo augurati di sopravvivere,
perché non potevamo dirci nient’altro in realtà: tra pochi minuti saremo
nell’arena, ad aspettare che sessanta secondi passino per darci il via alla
corsa alle armi della Cornucopia, che generalmente dimezza i tributi
partecipanti.
Questo
vuol dire che, per qualcuno, questi sono gli ultimi momenti da vivo.
Non
puoi augurare a qualcuno “buona fortuna” o dirgli “spero che tu vinca”.
Significa
che ti consideri già morto.
La
voce che risuona nella stanza avvisa di prendere posto in quel tubo che ti
porterà all’aperto, ovunque l’arena si trovi. Controllo velocemente quello che
ho addosso, più per cercare di farmi un’idea su quale ambiente ci sarà fuori
che per timore di aver dimenticato qualcosa – la stanza spoglia rende facile
notare qualsiasi oggetto superfluo. Il fatto che la tuta che indossiamo non sia
particolarmente aderente ma nemmeno troppo comoda non aiuta a capire cosa
dobbiamo aspettarci; abbiamo una giacca, quindi potrebbe essere il tipo di
ambiente in cui si abbassa in modo particolare la temperatura di notte.
Il
tubo si chiude alle mie spalle e risulta quasi claustrofobico; Miyaji ci ha
consigliato di contare qualcosa: «Se andate in iperventilazione» ha detto
«tanto vale che vi suicidate prima che scadano i sessanta secondi.»
Mi
chiedo se ci sia mai stato un tributo che abbia deciso di farlo davvero.
Quando
siamo fuori l’aria che arriva addosso è appiccicosa di umidità, la temperatura
è strana e la prima cosa che salta all’occhio è la Cornucopia – elemento
familiare delle altre edizioni – ad una ventina di metri da noi; su pedane
perfettamente identiche alla mia ci sono gli altri tributi. Alla mia sinistra
c’è Wakamatsu, a destra uno dell’8.
La
Cornucopia è come sempre il centro di tutto ciò che ci permetterà di
sopravvivere: armi e zaini. Questi ultimi sono più vicini alle nostre
postazioni quanto misero è il loro contenuto: di certo alcuni hanno solo cibo,
o solo medicamenti molto essenziali. Forse un’arma piccola, un pugnale. Per
quelle vere e proprie, il discorso è molto vario: sul terreno ci sono un paio
di bastoni, una spada corta, quello che sembra un set di pugnali.
Wakamatsu
sembra aver puntato un tridente che si trova a poco più di tre metri dalla
Cornucopia, che di certo conterrà le armi più letali come spade lunghe,
sciabole e lance. A metà strada, una balestra.
Prima
di spostare lo sguardo più in là noto che Wakamatsu non sta guardando più il
tridente, la Cornucopia o gli altri oggetti che potrebbe recuperare: sta
guardando, a quattro pedane di distanza da lui, un Sakurai tremante – se non
trema davvero penso sia solo perché è terrorizzato abbastanza da non riuscire a
fare nemmeno quello… ed è così che dovremmo essere
tutti. Terrorizzati tanto da non muoverci; ma la verità è che ognuno reagisce a
modo proprio, imprevedibile, ed è questa una delle cose più terrificanti degli
Hunger Games.
Devo
ignorare gli altri tributi, ne prendo atto mentre siamo a qualcosa come trenta
secondi dall’inizio; devo tirar su una strategia almeno in merito a cosa
raccogliere e dove andare. Ad una distanza di una quindicina di metri oltre la
Cornucopia ci sono abbastanza alberi da far pensare ad una foresta, anche se
non sembra fitta quanto un bosco e non so riconoscere ad occhio e da lontano
quali alberi siano. Ammesso di riuscire a prendere uno zaino e che esso
contenga un contenitore per l’acqua è impossibile capire dove sia la fonte.
In
poche parole, uno zaino vale l’altro; meglio preoccuparsi delle armi, perché se
non siamo coperti dalla vegetazione non impiegheremo molto ad individuarci l’un
l’altro.
Quasi
subito capisco che io e Shun potremmo puntare la stessa cosa quando, nel mio
campo visivo, rientra di nuovo il set di pugnali. Però poi noto che il suo
sguardo è andato oltre – non ho tempo di capire dove, perché con la coda
dell’occhio vedo Wakamatsu contrarre i muscoli e questo mi mette in allarme.
Mancheranno
sì e no dieci secondi.
Va
bene. Pugnali e zaino, ma più i primi.
Devo
solo essere più veloce.
Quando
finalmente posso permettermi il lusso di fermarmi siamo in gioco da almeno
un’ora e ho trovato un albero dalla chioma un poco più folta degli altri.
Il
primo pensiero è che se quest’arena è davvero una zona paludosa questi Hunger
Games non dureranno granché, perché non sono un esperto ma so che ci sono
animali letali nei punti peggiori. Alberi compresi. E se non possiamo usare
questi ultimi come riparo beh, ci ammazzeremo l’un l’altro in un attimo; forse
a durare di più saranno quelli che avranno avuto la fortuna di trovare un punto
strategico – se ce ne sono – e quelli che sono andati particolarmente bene
nella parte di mimetizzazione dell’addestramento.
Il
tempo per fare il punto della situazione, ad ogni modo, lo ho.
Il
poco che ho visto del caos alla Cornucopia mi fa supporre che sia stato un
massacro. Se non siamo già dimezzati manca poco per esserlo – ho perso il conto
dei colpi e non ne saprò di più fino a sera.
Riportare
alla mente ciò a cui ho assistito mi fa salire un conato che devo calmare
ispirando forte dal naso e chiudendo per qualche istante gli occhi, a discapito
di quanto sia la cosa meno sicura da fare al momento. Se c’è uno che sono
sicuro di non ritrovare vivo al conteggio di stasera, quello è Haizaki del 12.
Lui e Murasakibara si sono ritrovati vicini nel momento in cui stavano
prendendo uno l’arma e l’altro lo zaino; non so nemmeno perché Atsushi abbia
puntato uno così difficile da tirar fuori – ci scommetto che c’è dentro
qualcosa di grosso, perché altrimenti non avrebbe avuto senso incastrarlo sotto
dei ciocchi di legno che non sono nemmeno tipici di questo ambiente, per quel
che ho visto correndo finora.
Fatto
sta che Haizaki aveva messo le mani su una spada corta e aveva puntato
direttamente il tributo del suo distretto… che non è
così insensato, forse, se riesci ad avere tanto distacco.
Murasakibara
ha preso uno dei ciocchi e gli ci ha fracassato il cranio. Letteralmente.
La
cosa più spaventosa è stata la naturalezza con cui l’ha fatto, la fluidità del
movimento con cui ha preso il ciocco, l’ha fatto passare sopra la propria testa
e l’ha schiantato con una violenza inaudita contro Haizaki. Così, senza
ulteriori reazioni.
Scuoto
il capo. Se non voglio fare la stessa fine sarà meglio che io non mi fermi
nello stesso posto troppo a lungo.
Apro
il piccolo zaino che sono riuscito a recuperare: dentro non c’è molto, ma forse
una delle cose più utili, ossia l’occorrente per raccogliere e rendere l’acqua
potabile. C’è anche un giacchetto, impermeabile ma leggero. Non c’è cibo, ma
poteva andarmi molto peggio.
Ho
recuperato i pugnali perché nessun altro li ha puntati: non so quanto sia un
bene.
Le
priorità sono capire dove riposare la notte senza espormi troppo e che tipo di
cibo posso trovare in questo posto. Escludendo gli alberi come riparo, non so
quanto rimanga: potrei avere la fortuna di trovare qualcosa, ma non posso
sperare nella buona sorte; alla Mietitura non mi ha esattamente sorriso.
Il
cibo forse sarà relativamente più facile: tra le piante potrebbero essercene di
commestibili ed è probabile che ci sia qualche animale. Se riuscissi a trovare
la fonte d’acqua, come prima cosa potrei vedere se ci sono dei pesci… anche se devo prepararmi all’eventualità che lì
vicino, nel caso, ci saranno o Wakamatsu o Sakurai. Non penso che due del 4 si
lascerebbero sfuggire un’opportunità simile.
È
evidente che non ho scelta: devo cercare l’acqua come prima cosa.
Trovare
Wakamatsu nei pressi era una cosa che avevo messo in conto.
Vederlo
lì insieme a Sakurai in quella che è chiaramente un’alleanza, no. L’alligatore
che per poco non ha tranciato di netto la gamba di Sakurai avrei preferito non
trovarlo affatto.
È
ormai chiaro che la zona in cui si trova quest’arena è per lo più paludosa: ne
è testimone l’acqua che a vederla non penseresti mai possa ospitare una qualche
forma di vita – e che penso sia impossibile usare per bere senza l’occorrente
per purificarla –, la conformazione del terreno, il tipo di arbusti che ho
incontrato finora. Non me ne intendo, ma mamma è stata nel Distretto 7 da
giovane, e ha imparato diverse cose sugli alberi e le piante: certo non ha le
conoscenze di qualcuno che vive lì tutta la sua vita, ma ricorda bene almeno le
fasce ambientali in cui è più facile trovare alcune specie. L’ha insegnato a me
appena sono diventato un possibile tributo, e mia sorella penso abbia già
appreso qualcosa ascoltandoci: di sicuro insegnerà anche a lei.
A
confermare il tutto, comunque, c’è quell’alligatore che ora se ne sta lì
immobile e morto, ma che ha ferito superficialmente Sakurai se ho visto bene –
ma non mi avvicino ancora: se sono alleati davvero come sembrano, sarebbe
veramente da suicidio farmi avanti. Per quello che voglio capire, mi basta la
distanza a cui sono.
«M-Mi
dispiace, Kosuke.» pronuncia in un balbettio che sembra proprio caratterizzare
il suo modo di porsi «L-Lasciami qui, e—»
«Se
devi dire idiozie stai zitto e fammi vedere.» taglia corto Wakamatsu,
esaminando velocemente ma con attenzione la gamba dell’altro. Di sicuro ha
fretta di andarsene di lì, non solo perché nulla impedisce ad un altro
esemplare di attaccarli una seconda volta, ma anche perché non è un punto molto
riparato quello. Logico che non abbia intenzione di fermarsi a lungo, specie
considerando che ad aver attirato l’alligatore di poco prima credo siano stati
i movimenti che hanno dovuto fare inevitabilmente nell’acqua per tirarne fuori
qualcosa – che penso potrebbe essere pesce. Sarebbe prevedibile.
Capisco
che non è consigliabile imitarli: Wakamatsu per pescare ha il tridente e
soprattutto ha la tecnica. Io potrei arrischiarmi ad usare i pugnali – e
sarebbe davvero stupido tentare di pescare in quel modo, una mossa disperata
che impiegherei troppo ad aggirare – ma il rischio che io finisca in pasto
all’alligatore è più alto di quello corso da Sakurai.
Sarà
già un’impresa raccogliere l’acqua.
I
due sono rimasti nei paraggi per il tempo sufficiente a controllare la ferita,
recuperare quanto preso prima che io arrivassi e andarsene. Non hanno preso
acqua, il che mi fa pensare che o non sanno come renderla potabile o ne hanno
già presa altrove.
Per
quanto mi riguarda mi sono limitato a riempire in fretta il contenitore ed
applicarvi la tintura di iodio che c’era nello zaino, quanto bastava perché
nello spostarmi iniziasse a fare il suo lavoro; ho cercato di muovermi nei
punti più riparati, anche se non è una garanzia: facendo tutti la stessa cosa
prima o poi ci incroceremo inevitabilmente. Ho camminato tanto da essere
arrivato in un punto dove non ci sono tracce di passaggio altrui – per quanto
altre zone potrebbero essere quelle dove ho corso io stesso, quindi anche
questo non è poi così indicativo.
Nello
spostarmi ho almeno avuto la fortuna di riconoscere una delle poche specie di
piante che mia madre mi ha insegnato a distinguere; considerando che quelle più
comuni non credo siano tipiche del territorio paludoso in cui siamo, ho cercato
di trovare dei punti di riferimento per ricordare almeno vagamente dove fosse.
Di certo è probabile che cresca anche altrove, ma non si sa mai; ho preferito
cercare un posto nei paraggi – il lato positivo di questa pianta, la tifa o
anche “cattail” è che non ha bisogno per forza di essere cucinata per essere
commestibile. Il che è un bene, visto che accendere un fuoco non rientra nei
miei piani, finché posso evitarlo. Considerando poi che anche la sua radice è commestibile,
direi che più fortuna di questa non potevo averne, per adesso.
Mi
sono allontanato il più possibile dall’acqua perché, per la conoscenza che ho,
un alligatore è veloce anche sulla terra ferma ed è più probabile che finisca
sulla mia strada tanto più rimango vicino a quello che potrebbe essere il suo
habitat primario.
Nonostante
volessi evitarlo, la scelta più sensata sembra sistemarmi su un albero: sono in
un punto troppo poco folto a livello del terreno, per sperare di mimetizzarmi
magari tra le piante alte.
Ci
riesco quando, ad occhio e croce, penso manchi relativamente poco perché inizi
a far buio.
L’inno è appena finito, spandendosi per tutta l’arena come spore velenose: ha
la capacità di paralizzarti, e continuerà a farlo finché lo sentiremo.
Il
silenzio torna ad avvolgermi insieme al buio; pare che nessuno abbia avuto la
pessima idea di accendere un fuoco, stanotte, ed è anche comprensibile perché
il clima notturno per ora non pare essere particolarmente freddo qui.
Il
riepilogo dei caduti alla prima giornata ha contato dodici morti. Questo vuol
dire che siamo praticamente già dimezzati. Nell’immenso schermo che diventa il
cielo per noi che ancora vivi cerchiamo di capire quali avversari abbiamo avuto
già la fortuna di perdere per strada, sono passati come ogni volta i volti dei
tributi per cui i giochi si sono già conclusi, in ordine di distretto.
Uno
dell’1 e uno del 2: si saranno probabilmente uccisi tra di loro alla
Cornucopia.
Il
3 e il 4 hanno ancora entrambi i tributi, il 6 li ha persi entrambi; Tsutagawa del 7, quello che non piaceva a Kasamatsu, anche
se non penso lo abbia ucciso lui. Uno dell’8, non Kuroko – il piccoletto – ma
l’altro.
Il
compagno di Kagami con un punteggio basso, del 9.
Entrambi
quelli del 10. Eikichi dell’11… ci scommetto che l’ha
ucciso proprio Aomine.
Naturalmente,
Haizaki del 12.
Poggio
la testa contro l’albero, lascio che la schiena vi aderisca e inspiro,
lentamente: è un buon metodo, quando stai per entrare nel panico, respirare
piano. Ti obbliga a controllare quanta aria entra ed esce dai polmoni, e
concentrarsi su un meccanismo all’apparenza così semplice fa sì che non pensi
più alla causa scatenante di quello stesso panico.
Izuki.
La faccia di Izuki, pressoché anonima per il resto dei tributi vivi, è passata
nel cielo dopo quello del 2.
Dovrei
essere contento, perché significa che non mi troverò in condizione di doverlo
uccidere io, o di dover pregare razionalmente che lo faccia qualcuno per me.
Eppure tutto ciò che riesco a pensare è qualcosa che in realtà avrebbe dovuto
passarmi per la testa molto prima, una cosa così ovvia che mi chiedo perché
soltanto adesso mi sembri sensata.
Poi,
quando sono abbastanza sicuro – dopo un tempo che non so quantificare – di aver
recuperato la regolarità del respiro, capisco.
Capisco
che negli Hunger Games vieni messo in un’arena con persone che non hai mai
visto e a cui non hai avuto tempo di affezionarti: se hai forza abbastanza da
non considerarli esseri umani, o la predisposizione a pensare solo ed
unicamente alla tua sopravvivenza, ucciderli non è così difficile.
Nauseante,
forse, ma non difficile.
Se
sei particolarmente fortunato, poi, il tributo scelto insieme a te non è
qualcuno che conosci se non di vista; se anche toccasse a te ucciderlo,
potresti farcela.
Ma
Shun no. Shun lo conoscevo, con Shun sono andato a scuola: non era il mio
migliore amico, non era come un fratello, ma Shun era una persona che ho
conosciuto e con cui ho condiviso comunque qualcosa, non importa quanto banale
sia stata.
E
Shun è morto.
Per
la prima volta da quando siamo a Capitol, da quando siamo nell’arena, la
consapevolezza che qui la gente si uccida davvero finché non ne rimane solo uno
mi arriva addosso potente e terribile. Con essa, il pensiero che non
sopravvivrò. La paranoia si fa strada, centuplicata rispetto a quando aspettavo
sessanta secondi su una pedana che, se fossi erroneamente sceso prima, mi
avrebbe fatto saltare per aria.
Chi
ha ucciso Izuki? Cause naturali? Qualcosa che potrei non riconoscere, un cibo
avvelenato, un animale feroce che non potrei combattere? Oppure qualcuno? Se
così fosse, di certo ha tutte le possibilità per uccidere anche me, perché io e
Shun di certo non differivamo in forza fisica o capacità, non più di tanto.
Shun
è morto.
Mi
torna in mente sua madre, portata via dai Pacificatori dopo un saluto che non è
mai abbastanza lungo per dire a addio a tuo figlio mentre va a morire.
Sua
madre non abbastanza forte da non gridare di dolore nel corridoio di concederle
qualche istante in più.
Sua
madre che aveva unicamente Izuki al mondo, ed ora è sola con la sua
disperazione.
Se
tornerò vivo a casa è con questo che dovrò combattere: il senso di colpa per
essere vivo.
E
finalmente capisco che è questo che ti uccide davvero, che ha sempre ucciso
tutti i vincitori, che ti trasforma in quello che è Miyaji – il contenitore
umano di tutta la disperazione che riesce a concentrarsi in un solo posto, del
senso di colpa per qualcosa di cui dovresti gioire.
Sei
vivo, e desideri essere morto.
È
passato un giorno e mezzo – escluso quello dell’inizio dei giochi – e c’è stato
un solo morto, l’altro tributo del 2 che, a voler fare una stima, penso sia
stato ucciso da Reo.
Mi
sono spostato continuamente ad intervalli più o meno regolari di un paio di
ore, approfittandone per raccogliere altra tifa quando ne ho trovata o tornando
di un poco sui miei passi quando, andando avanti, mi rendevo conto che
rischiavo di non trovarne. Ho individuato anche un tipo di mirtillo
commestibile – è acido e ha un pessimo sapore, ma non si può esattamente fare
gli schizzinosi qui.
L’assenza
di attacchi che penso durerà ancora per poco – non c’è spettacolo così,
dovranno pure obbligarci a portare avanti i giochi in qualche modo – mi ha dato
il tempo di fare due cose: analizzare quelli che sono rimasti in gara ed
elaborare una strategia personale.
Siamo
rimasti in undici: Reo, se consideriamo favoriti i primi quattro distretti, può
pensare di allearsi con una persona sola, ossia occhi-cattivi. Ma francamente
l’indole di quest’ultimo non mi sembra da alleanza; in caso contrario, la cosa
più sensata sarebbe stata allearsi con il tributo del tuo stesso distretto, ed
era chiaro che né lui né Shinchan avevano quell’intenzione.
Suppongo
quindi che siano ognuno per la sua strada.
Wakamatsu
e Sakurai sono forse l’unica vera alleanza, almeno per ora: puntare Sakurai
significa ritrovarsi l’altro subito alle calcagna, e un due contro uno non è
mai auspicabile.
Kasamatsu
non so se sia orientato più sulla totale difensiva, o su una non-aggressione
intelligente, ossia se punti a proteggersi in caso di attacco o ad attaccare
solo chi è più alla sua portata sulla carta.
Kuroko
penso sia sulla difensiva, ma che non si sia alleato con nessuno:
obiettivamente, non penso gli convenga.
Kagami
e Aomine sembrano abbastanza tipi da attacco, e ho incrociato il primo in un
goffo tentativo di mimetizzarsi vicino ad un corso d’acqua. Potrebbe avere a
che fare fin troppo presto con un alligatore.
Atsushi
è quello che meno ha possibilità di passare inosservato ma – e devo basarmi su
un ragionamento in cui non posso includere armi, perché non ho idea di chi
abbia preso cosa ad eccezione di Kuroko che ho intravisto prima di allontanarmi
dalla Cornucopia – non ne ha davvero bisogno.
È
l’ultimo che sceglierei di attaccare.
La
mia strategia è sopravvivere finché non vengo ucciso, che questo avvenga prima
o dopo è un dettaglio relativamente secondario. C’è una cosa che devo fare e
più tempo ho, meglio è; non posso giocare al gatto con il topo. Devo solo
preoccuparmi di far sembrare che io stia tramando qualcosa, perciò mi sposto
con la scusa di osservare, di studiare. Mi fermo ad intervalli regolari,
controllo gli arbusti, ciò che mi circonda; tocco il terreno di tanto in tanto,
come a controllarne consistenza ed umidità.
Questo
penso terrà a bada il pubblico con la curiosità, e spero che partano scommesse
– di che genere non mi importa – che facciano pensare agli Strateghi che tutto
abbia un senso per cui valga la pena aspettare.
Sto
considerando verso dove orientarmi che un colpo a ovest rispetto a dove sono ci
segnala che ora siamo in dieci; chi sia morto non si sa, naturalmente, e manca
ancora mezza giornata al solito riepilogo.
Se
qualcuno ha ucciso qualcun altro, è comunque abbastanza distante perché io non
debba preoccuparmi di velocizzare il passo più del dovuto.
O
almeno ne sono convinto finché non risuona in tutta l’arena l’annuncio di
Akashi Seijuro, il capo degli Strateghi: parla con
voce calma e controllata, ma autoritaria. Sembra che ti stia dando una scelta,
come a dire “puoi farlo, ma in caso contrario non accadrà nulla di
irreparabile”, ma non è così.
Affatto.
«Da
questo momento al concludersi della giornata, come limite ultimo di tempo, i
tributi sono chiamati a prendere parte ad almeno uno scontro diretto, pena la
squalificazione dai giochi.»
L’annuncio
risuona due volte per essere certi che tutti l’abbiano sentito.
In
altre parole, il pubblico si annoia perché non ci stiamo ammazzando tra di noi
ad una velocità accettabile – va bene far durare lo show, ma non se devono
essere giorni e giorni di gente che si evita scappando in un terreno paludoso.
In
altre parole, o ci uccidiamo tra di noi dando spettacolo, o ci uccideranno loro
in chissà quali modi.
Perché
di certo “squalifica” non vuol dire che ti riporteranno a casa e pazienza, hai
perso i giochi.
Questo
scombina i miei piani e significa che qualcuno, da qualche parte e
verosimilmente, sta già puntando verso di me.
Egoisticamente,
a questo punto potrei persino tornare sui miei passi e non fare nulla, perché
una cosa è certa: lo spettacolo di oggi è stato ormai assicurato al pubblico di
Capitol City.
Due
colpi si sono levati in aria, e io so a chi appartengono: il primo era per
Sakurai, il secondo per Hanamiya del 3. Me li sono
ritrovati davanti che quest’ultimo aveva appena atterrato Sakurai.
Non
ha implorato pietà. Da Sakurai forse te lo saresti aspettato, ma è morto con
una dignità più spaventosa della violenza con cui è stato ucciso.
Sassate.
Non per mancanza di armi, non per difesa estrema, ma solo per cruda e macabra
crudeltà.
Hanamiya l’ha immobilizzato
e praticamente torturato per farsi dire dov’era Wakamatsu – la loro alleanza
non era un mistero nemmeno per gli altri, e di sicuro il biondo è un bersaglio
più degno di attenzione per occhi-cattivi.
Sakurai
non ha parlato, e il risultato è stato un incessante ripetersi di sassate;
c’era sangue ovunque, quando è arrivato Wakamatsu. La violenza inaudita con cui
si è scagliato su Makoto, istintivamente, l’ho ritenuta giusta: potrà sembrare
barbaro, ma io penso che siamo qui, ventiquattro ragazzi praticamente coetanei
costretti ad uccidersi, e dovrebbero esserci almeno rispetto e solidarietà,
abbastanza da decidere di porre fine alle vite altrui nel modo più veloce e
meno doloroso possibile.
Invece
non è così. Qui c’è gente, magari rara ma c’è, fuori di testa quasi quanto
quelli di Capitol o il cui istinto di sopravvivenza li porta all’estremo dove
nemmeno la follia potrebbe guidarli.
Hanamiya ha smesso di essere
umano nel momento in cui ha messo piede nell'arena, sempre che lo fosse almeno
fuori.
Wakamatsu
era ferito. Forse per quello Sakurai era solo, forse cercava qualcosa per
medicarlo e alleviargli il dolore e per lo stesso motivo, forse, non ha mai
gridato il nome del compagno per avere soccorso.
È
rimasto a piangerlo. E questo è il gesto più umano e sincero che io abbia visto
da quando siamo a Capitol.
Allontanandomi
ho pensato che se sopravvivrò, sarà ironico: sarò diventato come Miyaji, che ho
tanto criticato ma che finalmente ho compreso. Ad ucciderlo dentro non è stato
solo l’abbandono del tributo del suo Distretto.
È
stato assistere alle morti di altri esseri umani senza poterne salvare nessuno,
salvo mettere automaticamente in pericolo la propria stessa vita.
Può
sembrare scontato dire che “avrebbero dovuto aiutarli”, ma la verità è che agli
Hunger Games nessuno mai diventa un eroe.
Avevo
capito di aver tralasciato un dettaglio importante della mia strategia; o
meglio, che la cosa che devo fare non può andare a buon fine, continuando così.
Dovevo
e devo sopravvivere, e per farlo intanto
avrei dovuto presumibilmente avere uno scontro diretto che, contrariamente al
mio affrettato pensiero iniziale, non implicava un’uccisione. Non
dall’annuncio.
L’occasione
si è presentata mentre mettevo distanza tra me e Wakamatsu. Spostandomi nell’erba
alta tra alcuni arbusti, mi sono ritrovato per la seconda volta osservatore di
uno scontro in mezzo a cui nessuno sano di mente si sarebbe messo: Midorima del
3 e Reo dell’1. Inutile sottolineare chi stesse avendo la meglio.
Io
e Shun non avevamo in comune forza fisica o capacità strategica, ma una sola
abilità: non è tipica del 5, è solo che a noi è capitata. Alcuni la chiamano
“visione periferica”, ma di solito c’è almeno un punto cieco. La mia non lo ha,
e quella di Shun non era di molto inferiore. Può sembrare inutile, ma in mezzo
all’erba alta e non visibile al tuo nemico la capacità di vedere tutto ciò che ti circonda è un vantaggio
notevole; ti fa prendere in considerazione fattori che normalmente saresti
portato a tralasciare.
Ed
è stato in quel momento che l’ho capito: uno scontro poteva essere anche un
combattimento finito in parità, dopotutto. Almeno per stavolta.
Ci
ho rimesso un pugnale, ma non è una gran perdita, sia perché ne ho altri ancora
inutilizzati e sia perché l’aver costretto Reo alla ritirata mi è valso la
sopravvivenza di oggi. Anche se quando Midorima ha dato segno di avermi visto
ho pensato che, a conti fatti, fosse comunque finita.
«Non
sapevo che nei giochi ci fossero anche gli eroi stupidi.» ha commentato,
lasciandomi intendere di avermi individuato o di aver almeno capito che c’era
qualcuno ancora nei paraggi.
Mi
è sembrato sciocco nascondermi e sono uscito allo scoperto, anche se in
guardia.
«Niente
eroismo, ma dovevo partecipare almeno ad uno scontro, no?» dirlo con la consapevolezza
che mi stanno ascoltando non mi preoccupa particolarmente, perché è una
mancanza degli Strateghi non aver specificato di uccidere. Anche se non credo
che Akashi Seijuro lasci nulla al caso o faccia
errori grossolani di questo tipo.
Ci
siamo studiati per qualche istante poi, non so bene perché, ho pensato di
doverglielo dire: «Uno dei colpi era Hanamiya.»
Forse
ho pensato che di Shun io avrei voluto saperlo prima di un riepilogo serale che
vedrebbero tutti; lui però ha taciuto, fatto un sospiro impercettibile, si è
sistemato gli occhiali sul naso. Sembrava si aspettasse qualcosa. Non sapevo
nemmeno se provare ad allontanarmi.
«Non
eravamo legati.» ha detto poi, niente più di questo, ma sempre una risposta. Mi
è scappato uno sbuffo divertito che è risultato comico nell’intera situazione:
«Non sei di tante parole, eh Shinchan?» ho commentato, e l’ho visto scomporsi
più per questo che per la notizia di occhi-cattivi. Forse non è abituato ai
nomignoli, o forse non si aspettava questo atteggiamento amichevole.
Ha
continuato a non sembrare ostile, e ho pensato che non avrei avuto un’occasione
migliore di quella; ho tentato il tutto per tutto.
«Alleiamoci.
Per un po’, s’intende.» perché non sono così stupido da credere che ad un certo
punto non ci ritroveremo l’uno contro l’altro. È la prassi del gioco.
L’alleanza
che intendo io è differente da quella di Wakamatsu e Sakurai, basata su un
legame che non hanno voluto calpestare solo per colpa degli Hunger Games, un
legame tale per il quale Wakamatsu si è offerto volontario al posto dell’altro
tributo estratto insieme a Sakurai, probabilmente nella speranza che almeno
questo gli salvasse la vita. Se non si è offerto per Sakurai è perché questi si
sarebbe fatto avanti dopo per affiancarlo comunque, rendendo il tutto vano.
L’alleanza
che voglio io è quella che ti permette per un po’ di preoccuparti di un tributo
in meno, e che mi vale il tassello mancante al raggiungimento del mio
obiettivo.
«È
fuori discussione.»
«Shinchan,
come sei freddo!» ho ribattuto, senza perdere di vista la zona in cui siamo; ci
mancava solo di farsi uccidere durante una chiacchierata: «Ma rimane il fatto
che mi devi la vita.» ho puntato – è stato meschino, lo ammetto – sul fatto che
se non è tipo dalla morale integra e inattaccabile, di sicuro Midorima
Shintarou è uno a cui non piace avere debiti.
«Non
mi stava uccidendo.»
«Non
ancora. Ma nessuno ci assicura che non l’avrebbe fatto senza il mio aiuto, no?»
Si
è preso una lunga pausa, e ho pensato che stesse ponderando come uccidermi e
farla finita; invece, inaspettatamente, ha sospirato rassegnato annuendo.<
«Cosa
vuoi da questa alleanza? Che ci guadagni, Takao?» ah, si è persino ricordato il
mio nome.
«Un
nemico in meno, almeno per un po’. Ognuno fa quello che vuole durante il
giorno, ma la sera ci ritroviamo. Scambio di informazioni e quello che serve.»
mi sono mantenuto sul vago, perché alleanza o no non ho intenzione di dire
tutto e subito. Forse un attimo prima della fine, qualunque essa sia.
«…Però piantala con quel nomignolo.»
Mi
è inevitabilmente scappato da ridere; non so con quali motivazioni abbia
accettato, ma mi basta che l’abbia fatto per ora.
A
svegliarlo in questo momento è il suono dell’inno; forse l’idea di qualcuno che
monti una sorta di turno di guardia gli ha permesso di rilassarsi il minimo
necessario a dormire un po’. Sbatte le palpebre, forse stupito lui stesso di
essersi appisolato.
«Quanti
siamo?»
«Otto.»
rispondo: «Hanamiya, Sakurai e Murasakibara sono
fuori. Il primo ha ucciso il secondo, poi Wakamatsu del 4 ha ucciso lui.
Murasakibara non lo so.» e questo mi preoccupa. Chi uccide un gigante di più di
due metri tra chi è rimasto di noi?
Shinchan
non dice nulla, non subito.
«Uccidere
Makoto non era facile.»
«Se
sei impazzito di dolore, probabilmente sì.» dico soltanto. Lui rimane in
silenzio per un tempo ancora più lungo, e alla fine mi guarda scettico: «Essere
sentimentali non ti aiuterà.»
Poi mi passa la
giacca con cui si era coperto per metà, e monta la guardia.