.: *** :.
Fu allora che Steve aprì gli occhi.
Si rialzò di scatto e ricadde all’indietro,
scoprendo con sommo stupore di essere già in piedi. Gli occhi guizzarono da una
parte all’altra e l’istinto del soldato prese il sopravvento sui tentacoli di
panico che minacciavano di arroventargli lo stomaco. Per prima cosa, capire
dove fosse finito. Quindi elaborare una strategia basandosi sull’ambiente
circostante –Luoghi sopraelevati per una visione d’insieme, postazioni riparate
dove nascondersi in caso di pericolo, indizi che lo aiutassero a costruire una
mappa mentale, anche incompleta, anche grossolana, del posto.
Il fiato gli mancò nei polmoni.
Pur con l’esperienza accumulata durante la Guerra,
pur dopo essere rimasto intrappolato settant’anni dentro un blocco di ghiaccio,
pur avendo affrontato Loki e il suo esercito di Chitauri, il Capitano fu
costretto ad ammettere di non avere la benché minima idea di dove si trovasse,
né in che anno e soprattutto in che
mondo.
Davanti, attorno, sotto di lui un’uniformità tanto
grigia da sembrare solida: dava l’impressione di un cubo delimitato da spesse
pareti metalliche, ma appena Steve socchiudeva le palpebre alla ricerca di un
particolare in più, ecco che l’orizzonte si curvava
e il soffitto lo sormontava come una cupola o l’abside di una chiesa. Non
c’era nulla a sostenere la volta, non colonne o trabeazioni di alcun genere e
forse nemmeno si trattava di una vera e propria volta, forse neanche di un vero
e proprio soffitto. L’idea stessa di una delimitazione
era illogica, quando il pavimento, o il terreno o in qualunque modo lo si
volesse chiamare, si estendeva per miglia oltre lo sguardo e s’innalzava
improvvisamente, staccando dal grigiore opprimente una corona di merli e
cuspidi.
Un mondo di eterna fissità in continuo divenire.
Avanzare gli parve l’unica soluzione appetibile,
salvo poi accorgersi di come non fosse lui a muoversi, ma l’intorno a balzagli
addosso. D’un tratto non c’erano più né il sopra, né il sotto, nemmeno erano
mai esistiti se non come preconcetti della propria mente: destra, sinistra,
secondi e minuti, qualsiasi qualificazione e quantificazione si dimostrava vana
in un luogo che sembrava trascendere ogni tentativo di modellarla al volere
umano.
Camminò, camminò e camminò ancora. Grigio, sempre
grigio, solo grigio.
Steve aveva la nausea. O meglio, sapeva di dover provare un senso di
nausea. Anzi, sapeva di dover sentire e
basta.
Un tremito, una lieve vertigine, un cerchio alla
testa…Nulla. Cominciava persino a non avere più una percezione completa di sè,
doveva concentrarsi per ricordare di possedere muscoli, nervi,
ossa e sangue. Doveva accorgersi di
esistere, il che non era normale: si esisteva e basta, di solito.
Il malore al Madison Square Garden era stato più
forte del previsto se l’aveva condotto ad un simile stato confusionale –Perché
altro non poteva essere, giusto?
Non che ricordasse con esattezza cosa fosse successo:
le immagini si liquefacevano e scolorivano, diventavano grigie, piatte, si
confondevano l’un l’altra, perdevano la voce, non avevano odori, nessun confine
temporale. Per un attimo aveva sin pensato che a spedirlo in quel luogo fosse
stato Loki, ma la minaccia di Loki risaliva ad un anno prima ed era impossibile
che il Dio fosse presente allo spettacolo.
Confusione, spaesamento, probabili allucinazioni…Forse
era sotto anestesia o forse avevano dovuto riempirlo di una dose più che
massiccia di antidolorifici per scavalcare gli effetti del Siero. No, era un’opzione
da scartare a priori: antidolorifici e anestesia con lui non funzionavano, non
importavano i cc iniettati.
Una volta un membro dell’A.I.M. gli aveva piantato
una pallottola nello stomaco e Tony aveva dovuto operarlo da cosciente; i ferri
di J.A.R.V.I.S. dentro la carne non erano stati piacevoli e non si era morso la
lingua solo grazie al tubo che Stark gli aveva piazzato malamente tra le
mandibole.
Se era stato Tony ad operarlo,
adesso ne stava dubitando.
Forse si era sbagliato e il proiettile lo aveva
estratto un normale chirurgo. Però ricordava gli occhi del figlio di Howard: il
terrore, l’angoscia, il sollievo, ma aveva mai indossato un camicie verde? E un
membro dell’A.I.M. gli aveva mai davvero sparato o stava solo sovrapponendo
alla memoria un episodio di C.S.I.?
Si portò una mano alla fronte, o almeno ebbe
l’impressione di averlo fatto, perché sotto le dita non avvertì nulla, neanche
la consistenza delle dita, né delle falangi, delle nocche e del polso, non
avvertiva la consistenza di alcuna parte del corpo. Fu sul punto di trattenere
il fiato, ma si accorse con orrore di non saper più come fare.
«E’ destabilizzante la prima volta che si arriva, lo
so. Non ti preoccupare, ti ci abituerai presto»
La voce era rimbalzata da una parete all’altra,
tracciando unghiate fumose su quello che il Capitano aveva arbitrariamente
deciso di considerare “intonaco”; crepe e polvere insozzarono il terreno e s’accumularono
un po’ ovunque, agglomerati nerastri come orbite d’un teschio brillarono livide
un istante e l’attimo dopo erano già sparite, inghiottite da un borbottio
informe.
«Dove sono?» Steve la domanda l’aveva solo pensata,
ma le parole gli colarono lo stesso dalle labbra e da lì penzolarono indecise
prima di prendere una forma effettiva, pallide viscere tra sterpaglie
purulente. Si girò, ma si accorse che il Grigio aveva di nuovo voltato la
faccia per lui.
«Sei tornato a casa: sei mancato più a lungo di
quanto ti fosse lecito»
Il mantello svolazzò bianco sulle spalle e le ali
che cingevano le tempie ebbero un fremito, causando un bagliore biondo sui
capelli trattenuti dalla fascia scarlatta.
Il Capitano non aveva mai visto un Dio Greco, ma la
figura che gli stava davanti aveva troppe rassomiglianze con le statue dei volumi
d’arte della New York Public Library, perché le potesse ignorare
deliberatamente.
Non c’era luce in quel luogo, ma Steve colse
comunque il barbaglio bronzeo dei bracciali, la fibula rossa che tracciava
linee d’ombra sul torace scoperto, mentre il gonnellino purpureo si piegava
indolente contro le cosce, la cintura d’argento e l’orlo candido che
palpitavano ad ogni passo dei sandali alati.
Capitan America fece il gesto di prendere lo scudo
dalle cinghie che lo trattenevano alla schiena, ma non c’era più uno scudo cui
aggrapparsi e non c’era nemmeno una
schiena.
«Perdona il ritardo, mortale, ma nemmeno un Dio si
negherebbe al desiderio di Venere. Io sono Ermete il Messaggero, figlio di
Giove, Padre degli Olimpici»
Ermete tracciò una linea dritta con l’indice ed il
medio tesi, lasciando un solco nero nello spazio: dai bordi slabbrati si
srotolarono due serpenti che, sibilando, strisciarono e s’avvoltolarono attorno
a quello che era divenuto un bastone vero e proprio, cesellato come il guscio
di una tartaruga.
«Sono qui per te, Steven Rogers…» continuò,
afferrando il caduceo. Lo osservò per lunghi istanti, quindi drizzò gli occhi
verso di lui e Steve percepì chiaramente il poco sangue che ancora aveva nelle
vene mutarsi in fumo.
Ma non ebbe paura.
Ogni terrore, ogni diffidenza e ogni dubbio si erano
ritratti, rimpiccioliti fino a svanire: provava solo una gran spossatezza nel
corpo, una quieta leggerezza nell’animo. Non sapeva se fosse sogno o meno
l’uomo che aveva dinanzi, ma ne accettò la
venuta, come un amico perso da lungo tempo, da tarda memoria atteso.
In qualunque luogo si trovasse, in qualunque tempo,
sentiva che era giusto: doveva essere
lì e da nessun’altra parte.
Ermete annuì, quasi avesse scorto i suoi pensieri,
quindi girò il caduceo tra le dita e lo conficcò a terra con un lampo: s’udì
attraverso il grigiore dell’etere un canto come di gallo e l’ambiente tremolò e
si svegliò con esso. Un vibrare convulso di nebbia e poi lo scoppio.
Si dileguò il grigio in gemiti silenziosi, colò il
non-essere dalle pareti curve e dai merli e dalle cuspidi, si sbriciolò
l’abside, crollò la volta; spuntoni di roccia emersero affilati agli angoli
della vista, speroni e denti lividi squarciarono la terra, pigolii di pietrisco
tintinnarono l’un con l’altro nel depositarsi a disegnare uno stretto sentieri.
Un ventre cavo nella pietra, caverna colma solo del costante filare di fuso,
miasmi dall’imboccatura oltre le spalle di Ermete, un ingoiatoio ribollente che
scendeva ed affondava, là, ben oltre l’umano.
Steve chiuse gli occhi e quando li riaprì si vide
circondato di teschi candidi, tutti uguali, nessuno diverso: costeggiavano la
via, non avevano espressione, guardavano fissi e tacevano. In un lontano non
collocabile, il suono di uno scafo che fende l’acqua, spumeggiare di onde, le
nenia di un fiume.
Il Dio Messaggero si affiancò al Capitano e gli mise
una mano sulla spalla. Col caduceo indicò l’entrata nera e fuligginosa.
«…Sono qui, per condurti alla Dimora dell’Ade»
***
Jane avrebbe amato Asgard.
Le alte colonne del Palazzo, lame d’oro a sbalzo
contro l’azzurro del cielo infinito, il mare dalle onde di nembi candidi e
scintillanti tempeste di spuma, le rocche e le dimore dei guerrieri, gli archi
bronzei sotto cui sostavano giovani e fanciulle, le risa che s’innalzavano in
un tripudio di canti attraverso la maestosa Galleria delle Statue! I suoi dolci
occhi si sarebbero abbeverati allo splendore di sguardi antichi quanto il
mondo, l’udito colmo di voci di Dei e di Spiriti, di Vento e di Sole, la snella
figura vestita di tessuti mai visti, impalpabili al tatto come brezza.
Thor diede di speroni e il sauro piegò il collo
possente, la criniera un riflesso candido tra le dita.
L’avrebbe portata con sé, un giorno. Frigga avrebbe
sorriso e le avrebbe teso una mano prima di posarle sulla fronte una corona di
gemme e foglie d’argento; Lady Sif le avrebbe donato un cinturone da
allacciarsi alla vita durante le cavalcate lungo il filo scarlatto del tramonto,
una giubba di cuoio per stringersi al freddo della caccia, schinieri e
spallacci di metallo smaltato per difendersi in un assalto d’allenamento -Perché,
Thor ne era sicuro, Sif avrebbe amato Jane come una sorella, le avrebbe
insegnato l’arte della spada, la danza dell’affondo e la preghiera del metallo-;
Hogun le avrebbe concesso le sue poche, ma rare e preziose parole,
l’espressione cupa un lontano ricordo al bagliore stellato degli occhi di lei;
Fandral avrebbe zittito con la spada chiunque avesse insinuato qualcosa sul suo
sangue mortale, e Volstagg l’avrebbe fatta sedere accanto a sé alla mensa di
Odino, le avrebbe offerto idromele e cinghiale salato, onorato i suoi avi con
larghe sorsate da un boccale intarsiato.
E Jane sarebbe stata sua fino ai giorni del Ragnarök
ed anche oltre, perché senza di lei non avrebbe saputo immaginare nemmeno la
Fine di Tutto. Vita o morte, le sarebbe stato accanto, sotto le volte del
Palazzo o al riverbero degli scudi del Valhalla.
Ma i tempi non erano maturi, altre faccende
richiedevano di essere risolte.
Thor aumentò l’andatura, gli zoccoli del cavallo che
schioccavano veloci contro il sentiero opalescente che una volta era stato
l’unica via per il Bifrost: il ponte dell’Arcobaleno ancora non era stato
ricostruito, ma Heimdall continuava la sua veglia e certo aveva visto il suo
arrivo prima di chiunque altro. Il
figlio di Odino si ripromise di andare a porgergli il proprio saluto non appena
avesse discusso col Padre degli Dei e il Signore degli Olimpici.
Il corvo messaggero che lo aveva preceduto
attraverso l’etere era scomparso e Thor corrugò la fronte. La perplessità
divenne maggiore quando, arrivato alle scuderie antistanti il Palazzo, non
trovò nessuno ad accoglierlo: i giardini erano vuoti, le acque silenziose,
nessuna guardia od ancella alcuna. Il Dio smontò da cavallo e l’animale ebbe un
moto di spavento, nitrì e recalcitrò fino a che il figlio di Odino non riuscì a
calmarlo con una carezza e qualche sussurro; un brivido gli colò freddo per la
colonna vertebrale, un rivolo di vento sogghignò tra gli stendardi color
bronzo.
«Allora è vero…» sussurrò penosa una voce tra i rami
scheletrici «Sei tornato ad Asgard»
Thor si girò di scatto e per un unico, folle attimo
scambiò l’ombra sottile che scivolava verso di lui per la figura di Loki. Ma
non fu l’amato fratello ad avvicinarsi, bensì una donna dal volto addolorato, i
capelli biondi lasciati cadere sulle spalle, vestita di verde dal busto alla
gonna a lamelle, dai bracciali che la coprivano sino al gomito alla tiara a
guisa d’aquila che teneva alte le ciocche e le incorniciava le tempie.
«Incantatrice» esalò il figlio di Odino, stupito e
finanche confuso «Amora!»
Lei gli fu accanto con pochi, aggraziati passi e
solo allora Thor s’accorse del corvo stretto tra le unghie scarlatte. Il Dio
corrugò la fronte e schiuse le labbra a domandarle il perché di un tale gesto;
Amora serrò nervosamente la presa: l’uccello gracchiò tra le sue dita, tentò di
liberarsi, sbatté le ali, roteò singhiozzando gli occhi impazziti.
«Non saresti dovuto venire, Thor, figlio di Odino»
rispose l’Incantatrice, con voce rotta «Allora è vero, è vero! Non facezie di
ancelle e serve! Thor, mio amato, ti prego! Ascolta la mia preghiera, torna a
Midgard!»
Il Dio socchiuse gli occhi, diffidando del suo tono
tanto appassionato.
«Cosa è vero? Cosa sai? Perché dovrei tornare
indietro?»
«So tutto, figlio di Odino. So del guerriero tuo
amico, del suo coraggio e della lealtà nei tuoi confronti. So quanto tenevi a
lui e quanto la sua morte t’abbia arrecato dolore. So che sei venuto qui per
chiedere udienza al Padre degli Dei, ma so anche del tuo duplice scopo: il
guerriero e Loki, il fratello che ti
è ancora così caro»
«Le mie azioni sono dunque tanto prevedibili?» Thor
si permise di atteggiare il volto ad un sorriso sardonico e Amora scosse il
capo, un bagliore disperato a tingerle l’iride.
«Il tuo cuore
lo è, amore mio. Per questo ti dico: torna a Midgard. Ora, prima che sia troppo tardi»
«Troppo tardi per cosa…?»
La donna si umettò le belle labbra e alzò gli occhi
tristi.
«Dacché ad Asgard si è diffusa la notizia della tua
perdita, ho scrutato il cielo in attesa di questo messaggio» sollevò appena il
corvo e l’animale provò un ultimo, disperato tentativo di levarsi in volo
«Sapevo che saresti tornato, lo sapevamo tutti: così ho atteso. Per fermarti,
amore mio, per salvarti in nome dell’affetto che provo per te…»
«Amora…» Thor cercò di dire qualcosa, ma
l’Incantatrice lo fermò con un’occhiata gelida, d’improvviso furiosa.
«Lo so. La mortale»
sputò quel nome come fosse il più terribile dei veleni «La midgardiana che ti
ha rubato il cuore, come dimenticare? Ma come non si può impedire all’acqua di
scorrere, nemmeno Padre Odino potrebbe impedirmi di amarti. Dunque fa’ silenzio
e prendi di coscienza di quanto sia disperato il mio sentimento per te, se sono
giunta a contrastare persino il Signore di Asgard» assottigliò lo sguardo, la
voce ridotta ad un sussurro «La perdita di Loki lo ha sconvolto nel profondo,
la sua mente ne è stata intaccata e ora è cieco anche nell’animo: ha contato i
giorni della sua pena lacrima dopo lacrima, gemito dopo gemito, e a nulla è
valso l’amore di tua Madre Frigga, non è rinsavito. Bada bene, ciò che ti dico
si mormora appena nelle stanze del Palazzo, è proibito parlarne, e se io sono
qui a riferirtelo è grazie all’amicizia che ancora lega Lady Sif e i Tre
Guerrieri alla tua persona»
Thor era confuso.
Non aveva avuto sentore di tutto quello, il quadro
che Amora stava dipingendo per lui mai gli era apparso alla vista: non era così
stolto ed insensibile da pensare che Padre non avrebbe sofferto alla perdita di
Loki, ma un simile regime di silenzio e paura, di intrighi, sembravano voler
dire le parole non pronunciate, quando…? Quando Asgard era diventata un’alcova
di timore e terrore?
«Non capisco»
L’Incantatrice gli fece
cenno di avvicinarsi, quindi continuò.
«Mentre discorriamo, i
tuoi compagni stanno volgendo altrove l’attenzione di Odino. Tuo Padre sapeva
che saresti venuto qui non appena il soffio della vita avesse lasciato il petto
del guerriero, sapeva che avresti ricollegato a lui la morte del tuo…»
Il Dio levò un braccio, inorridito, il cuore fattosi
muto e il respiro marcio dentro i polmoni.
«No! E’ dunque vero? Padre ha…?»
«Ordinato la morte del tuo compagno?» concluse la
donna «Esattamente. Il Padre degli Olimpici ha interferito una volta di troppo
negli affari di Asgard e Odino, offuscato dalla rabbia e dalla perdita, ha
deciso di portar via loro quanto è di più caro a Giove, così come Giove gli ha
portato via il figlio ed il senno. Ma per impedire un tuo intervento che
ripristini l’Equilibrio che egli ha volutamente infranto quale sorta di
rappresaglia, Odino ha ordinato la tua cattura»
«Non mentire, Incantatrice!» tuonò Thor e Mjolnir
comparve con un crepitare di fulmini nella sua mano «Già una volta mi è fatto
stato credere il falso sulle decisioni del Padre degli Dei! Non accadrà ancora!»
Lo sguardo di Amora divenne affilato, le labbra si
sollevarono a snudare i denti, le nocche sbiancarono contro le piume nere del
corvo.
«Io non sono tuo fratello, Thor, non sono qui per ingannarti!
Sono qui per aiutarti!»
«E come mai potresti fare, strega?» ringhiò e il
Martello fremeva bollente tra le dita.
«Conducendoti dall’unica Divinità che potrebbe
davvero darti udienza e ascolto. Fidati di me, Thor, amore mio, giacché non
potrei in alcun modo ingannarti: non devi cercare l’aiuto del Padre, né quello
di Giove –A meno che non sia tuo desiderio una nuova guerra tra Regni a parole legati
da eterna alleanza»
Il figlio di Odino non rispose, il ricordo di
Jotunheim –E di ciò che ne era seguito- una ferita ancora fresca nonostante il
tempo e l’amore di Jane.
«E’ al cospetto del Signore degli Inferi che ti devi
genuflettere, l’Ade è la meta che cerchi, l’ombra il sentiero che ti condurrà
lì»
«Dimentichi che le porte del Regno Olimpico sono
sotto lo stretto controllo di mio Padre, Incantatrice: due sole le guardie,
mille occhi ed altrettante voci»
Un ghigno sibillino arcuò la bocca della donna e le
unghie affondarono con un lampo rosso nel cuore piumato e ancora palpitante del
corvo.
«E tu dimentichi, oh mio Principe, che molti sono i
sentieri che conducono fuori da Asgard. E chi meglio dell’allieva di Karnilla,
Regina delle Norne, potrebbe mai conoscere gli ingressi funebri celati finanche
al Padre degli Dei?»
***
La vecchia allargò la bocca, in modo dargli una
chiara visione delle tonsille oltre la fila di denti mancanti.
…Affascinante ribrezzo.
«No, signora, non ha capito» Tony fece per metterle
le mani sulle spalle, ma ci ripensò quando vide un batuffolo di polvere
salutarlo con un tentacolo unticcio «Le sono grato per avermi dato la
possibilità di osservare da vicino le condizioni in cui versa la sua gola dopo
svariati attacchi di reflusso laringo faringeo, ma non sono un dottore. Sono un
genio e conosco un dottore: non è un
medico a tutti gli effetti, ma se la cava piuttosto bene quando si tratta di
risistemarti le costole in un seguito all’abbraccio particolarmente affettuoso di un conglomerato rabbioso di raggi
gamma, ma---No, signora, molto gentile, non voglio il pesce, io vorrei---»
Nulla da fare. La vecchina col fazzoletto in testa
ciancicò qualche parola in greco tra i moncherini gengivali e gli piazzò una
cesta di vimini sotto il naso; Stark ritrasse la testa all’indietro, schifato
dal lezzo che mandava quel residuato branchiato del Mesozoico –Il pesce, eh,
non la vecchia.
«Lasci perdere, guardi. Molto gentile ancora»
Tony sventolò una mano nella direzione dell’affabile
anziana ed esalò un sospiro frustato. Scese per la viuzza lastricata che si
gettava a capofitto verso il porto, il sole pomeridiano che tagliava di
traverso i tetti rossi delle case.
A Vathy le persone erano gentili, non lo negava, peccato
che non capissero nulla di americano o, quando fingevano di capirlo, non gli davano alcuna informazione utile. Era
stato mandato, nell’ordine: in una libreria, in una biblioteca sgangherata, in
un negozio di tatuaggi e a…In un altro posto. Gli abitanti erano affabili, per
carità, ogni tanto gli offrivano anche della feta o del latte di capra, e il
posto di per sè era parecchio tranquillo, bello, decisamente non lo si poteva
escludere da un itinerario vacanziero. Ma era da quella mattina che girava in
lungo e in largo il paese senza trovare traccia alcuna della presenza di
Odisseo.
E Odisseo era
lì, Thor l’aveva giurato e spergiurato mille volte sulla memoria di qualche
avo defunto. E poi c’erano i resoconti congiunti di S.H.I.E.L.D. e S.W.O.R.D.:
basandosi su una traccia biologica non meglio definita -Ma su cui Tony avrebbe
speso ben più di una notte, conclusa la faccenda della Catabasi- emessa proprio
del Dio Norreno, le teste d’uovo delle due organizzazioni erano risaliti ad una
seconda traccia, accostabile alla sua
e del tutto differente da quella di un qualsiasi essere umano.
Il che era in qualche modo rassicurante.
Preparandosi psicologicamente ad un nuovo tour per i
vicoli, Tony sistemò gli occhiali da sole ed il cappellino con visiera –Odiava dover indossare abiti dismessi
per confondersi tra i turisti, ma in quel caso preferiva evitare di essere
fermato da qualcuno che voleva una foto con lui o proporgli il progetto per un
rivoluzionario tostapane a fissione nucleare.
Anche se forse un’eccezione per la biondina in
shorts alla bancarella dei souvenir poteva anche farla.
«Allora? Chi cerchi?»
Oh, dannazione. No. Non ancora lui.
Iron Man roteò gli occhi al cielo e fu solo grazie
alla propria coscienza –Che aveva l’inquietante tono di voce di J.A.R.V.I.S.-
che decise di non ricorrere all’armatura, trasformata per l’occasione in una
valigia rosso e oro, sul modello usato a Monaco.
Bei tempi, quelli.
Tranne per Vanko, ovvio. E il palladio, non
dimentichiamoci del palladio. Brutta questione. I cruciverba non gli erano mai
stati simpatici, i tatuaggi pure, figurarsi ritrovarsi entrambi a stampo sulla
pelle.
Una vera tragedia.
«Allora? Chi cerchi?»
Da quando era arrivato sull’isola quel mendicante
mezzo zoppo non aveva smesso un istante di dargli la caccia e la cosa iniziava
ad infastidirlo parecchio. Non lo aveva abbandonato un minuto, era come
un’ombra: lo aveva seguito al porto e tra le barche, alla biblioteca e alla
libreria, e ogni volta che Stark si fermava a riprendere fiato, ecco che lo
assillava con probabilmente l’unica frase che sapeva pronunciare in inglese.
«Allora? Chi cerchi?»
«Senti, non ho spiccioli con me, per cui…sciò. Via.
Va’ dove vuoi, tranne in un bar: conciato come sei protesti bere l’intera
cantina e io avrò bisogno di rimpinguare la mia scorta personale di alcool in
un lasso di tempo variabile dai cinque minuti alle sei ore e mezza»
Il mendico piegò la testa sulla spalla, il naso
adunco incrostato di salsedine.
Un istante di silenzio e poi…
«Allora? Chi cerchi?»
Sembrava un disco rotto e Tony provava un
particolare piacere nell’immaginare quella sua linguaccia pallida staccata di
netto dal fedele Ferrovecchio –Anche se Ferrovecchio era un pezzo di ferraglia
inutile, quindi sarebbe stata più plausibile una scena in cui il braccio
meccanico agitava un po’ ovunque un estintore debitamente carico. Se il suddetto estintore fosse finito
sulla testa del mendico, allora
poteva anche aggiungere una stellina d’oro sulla graduatoria dell’utilità di
Ferrovecchio. Graduatoria che versava ancora in uno stato imbarazzante e
desolato e soprattutto vuoto.
«Allora? Chi cerchi?»
«Odisseo, il leggendario Re di Itaca, va bene?»
Non era così folle da credere che il cencioso
stalker sapesse qualcosa a riguardo, ma a parte un raggio fotonico in pieno
petto non gli veniva in mente altra soluzione per toglierselo dai piedi.
«Mh» il mendicante prolungò il suono tra le labbra
pressate, le nocche nodose schiacciate sul cappellaccio conico. Strizzò le
palpebre rugose e l’Mh che ancora gli
risuonava dentro la gola prese a fargli tremolare le pieghe di carne molliccia
sotto il mento.
Uno spettacolo che aspettava solo di essere
cancellato con un sorso di buon whiskey.
«No! Odisseo, no!» saltò su, gli stracci che
sbuffavano sulle braccia magre e le spalle –Stranamente ampie per uno
scricciolo del genere- curve in avanti «Nessuno, sì! Nessuno»
Tony si massaggiò le tempie con le dita, quindi si
girò di nuovo verso la vecchietta.
«Signora, è ancora valida l’offerta del pesce?»
***
Un ruggito di fiamme ed un’altra anima tremula
osservò sparuta le grandi spalle d’Eaco.
Il Giudice guardò dapprima Minosse, quindi Radamanto
e insieme annuirono: un vento di cenere si levò dal nulla e mugghiò e nitrì e
l’anima, terrorizzata oltre ogni limite, cadde in ginocchio e pregò e gemette.
Radamanto non si fece intenerire e afferratolo per la collottola come si
farebbe con la più bieca delle bestie, lo trascinò con sé verso il gorgo
profondo del Tartaro. Urla di sadico giubilo dai Titani, gracchiare di catene,
sghignazzanti effluvi mefitici, e del defunto, poi, più nulla.
Il Dio storse la bocca dall’alto dello scranno nero,
il disgusto palese negli occhi e nel volto; la Regina Persefone pressò tra loro
le labbra truccate di carminio, gli occhi d’ossidiana sputarono lampi di
indignazione: scosse la testa con fare altero e a quel gesto le lunghe trecce
tintinnarono di mille ninnoli sulle spalle e contro il seno. Il gallo ai suoi
piedi le becchettò stizzito una cinghia dei sandali ed ella subito lo allontanò
con gesto deciso, il lembo della veste che frusciava sibillino sulla cista.
«Ancora mi chiedo per quale motivo mai Giove, Padre
degli Olimpici, abbia accettato un simile compromesso, per quale motivo mai
abbia arrecato al nostro popolo una tale vergogna» sibilò, stringendo con forza
le dita inanellate «Mio marito era il Signore dell’Ade, tu non sei altro che…»
«Taci!» l’ammonì il Dio, gli occhi socchiusi e la
mascella serrata. Le puntò un dito contro, il collare a mezzaluna sul torace
ebbe un guizzo «Tu non sai nulla, mia signora, del destino che mi era stato
riservato! Pensi che sia felice di trovarmi qui? Tra le cenere e le anime
perdute?»
Persefone dilatò le narici, irritata.
«Perché mai dovrei crederlo, giacché non passa un
solo istante senza che le tue azioni me lo ricordino?»
La divinità masticò un’invettiva diretta alla donna
e piegò il gomito sul bracciolo destro dello scranno. Le dita affusolate
corsero a torturare il labbro inferiore, mentre la mano sinistra stringeva e
torceva la presa attorno allo scettro. Era quello l’unico oggetto di Plutone
che aveva tenuto per sé, rifiutando la patera ed il groviglio di serpenti ai
piedi.
Tale scelta, la prima volta che s’era assiso sul
trono dei Morti, aveva provocato un tale sconvolgimento nella gemmea Persefone
che le spighe di grano intrecciate ai capelli erano appassite e torte, imbevute
di nero mortale; s’era levata in piedi e per l’ira furibonda che la pervadeva
aveva gettato nella pietraia il calato ed il grano, le unghie affondate con
tanta ferocia nel melograno, che il frutto s’era raggrinzito in un sibilo di
succo acidulo.
“Non puoi
rinunciare alle insegne del tuo potere!” aveva strillato, le guance
scarlatte e gonfie e gli occhi globosi che donavano al suo volto un tocco ben
poco divino e ben poco piacente “E’
grazie ad esse che i mortali ci riconoscono per chi siamo!”
Sciocchezze! Idiozie! Avrebbe voluto gridarle e
colpirla al viso e vederla in ginocchio a chiedere perdono, invocare querula la
grazia. E i mortali avrebbero dovuto riconoscerlo unicamente per via d’una
scodella od un intrico di serpi? Ah! Quale bestemmia in un luogo che Persefone
giudicava tanto sacro! I mortali dovevano riconoscerlo per il timore che egli
incuteva nei loro cuori, riconoscerlo come signore legittimo delle loro
miserevoli esistenze!
Patere e serpenti, ah!
Il Dio emise un verso derisorio e non si fece
scrupolo o remora ad indirizzare il proprio sguardo in quello di Persefone; la
Regina deglutì a fatica e a fatica parve ricordarsi di quale fosse il ruolo
impostole. Non disse più nulla e fissò gli occhi bagnati di rugiada e rabbia
dinanzi a sé, al rigurgito di fiamme che annunciava la venuta di un nuovo
defunto.
Per quanto gli costasse ammetterlo, però, la
presenza della sposa di Ade al proprio fianco era un passatempo forzato, ma
necessario: tre mesi era rimasta assente, perché scesa tra i mortali a donar
loro la vigoria della primavera, e in quel lasso di tempo, il Dio non aveva
avuto nessuno con cui conversare. Non coi tre Giudici, che poco avevano da dire
nella loro lingua rozza e gracchiante, troppo impegnati ad accogliere,
confabulare e decretare il Destino dei morti, troppo presi dal loro compito e dall’astio
che provavano nei suoi confronti per intrattenersi a discorrere. Con chi altri,
poi? I servi muti che preparavano un banchetto di leziose leccornie? Con lo
sbavante segugio a tre teste?
Silenzio e defunti, defunti e silenzio, punizione
peggiore non poteva esistere. Ma non aveva mai avuto in animo la
predisposizione al compatirsi: nell’assenza di qualunque verbo, era stata la
propria voce a riverberare senza freno e nell’intrico di pensieri aveva infine
scorto il lume della vendetta.
«Mio marito non avrebbe mai permesso che una barbara s’accostasse alla nostra mensa»
soffiò Persefone e il Dio sollevò il capo, un sorriso di perfida letizia ad
arcuare le labbra seriche: la donna venne avanti, vestita di verde, la fronte
cinta da una tiara di smeraldo, i capelli sciolti in morbide onde sulle spalle
scoperte.
«Mio signore» cominciò, un ghigno compiaciuto a
brillarle negli occhi ferini «E’ arrivato,
proprio come avevi previsto»
«Una notizia che riempie il mio cuore di gioia!»
esclamò lui, voltandosi in direzione della Regina; questa teneva la mascella
contratta, piccoli semi di grano le cadevano tra le pieghe della veste «Per
quale motivo mai questo livore nei miei confronti, Signora dei Defunti?»
un’espressione beffarda, le palpebre socchiuse «Siete forse restia all’inganno? Ma non è proprio per mezzo
di esso che vostro marito v’ha preso?» una risata gelida gli sgorgò dalle
labbra e Persefone s’irrigidì, lo sguardo colmo di disprezzo.
Il Dio mosse la mano in un gesto vago, come a
disfarsi di un insetto fastidioso; quando si concentrò di nuovo sulla donna,
ogni traccia di divertimento era sparita dal suo viso: i tratti erano duri, la
bocca una linea nera arroccata sulla mandibola illividita dalla tensione.
«Va’, ora: porta l’ordine ai tuoi servi mortali. In
fondo, il ruolo di Messaggera abbiamo scoperto esserti piuttosto confacente»
Il fuoco di Radamanto si riflesse funereo negli
occhi ferini.
***
«Salve, sono l’Agente Coulson. C’è qualche
problema?»
A detta del fioraio portoricano, sì, c’era qualche problema. In primis le
spese di trasporto, a seguire il ritorno in negozio, assolutamente impensabile, di corona e cuscinetto funebre, senza
tenere conto dello stress cui le piante sarebbero state sottoposte a causa di
un ulteriore e non pianificato viaggio, con conseguente impossibilità di riuso
in altre occasioni del genere.
«Non sia mai che io stia augurando ad un povero
diavolo di tirare le cuoia, s’intende, ma deve pensare al compenso, ai soldi,
mi era stato chiesto esplicitamente---»
Phil alzò la mano e sorrise, calmo e cordiale come
aveva imparato ad essere dopo anni di addestramento sul campo. Non si diventava
Agenti S.H.I.E.L.D. unicamente grazie a mira, capacità diplomatiche o amene velleità
quali lo spezzare il collo di un uomo con l’unico ausilio della mano sinistra -Difficile,
dite voi? L’Agente Romanoff avrebbe qualcosa da ridire in proposito.
Ma comunque.
Essere Agenti S.H.I.E.L.D. significava possedere
nervi in grado di sopportare carichi di pressione inimmaginabili ed un certo
scompenso mentale che, nell’ottica dell’organizzazione, diventava normale e
assolutamente indispensabile equilibrio psico-fisico. La pazienza non era una
virtù, non era un dovere, era una missione
e non c’era nessuno che sapesse portarla a termine meglio di Phil Coulson.
«Comprendo la questione» annuì, aprì un lembo dalla
giacca e ne estrasse un rettangolino bianco e professionale. Sul biglietto da
visita un semplice numero di telefono. Sul volto di Phil il più intransigente
dei sorrisi «Chiami e un Agente si occuperà dell’indennizzo. La ringrazio per
il lavoro svolto, sono sicuro che il Capitano avrebbe apprezzato le sue
composizioni. Buona giornata»
Altra contrazione a livello della mandibola e
Coulson fece segno ad alcuni sottoposti di accompagnare il gentile signore al
camioncino dalla marmitta singhiozzante. Il portoricano guardò stralunato
dapprima il biglietto da visita, poi Phil, ma non ebbe il tempo di replicare
che già due Agenti si erano avvicinati per scortarlo al furgone.
Coulson resistette all’impulso di massaggiarsi le
tempie: dacché erano iniziati i lavori di allestimento della camera ardente
avevano dovuto rimandare indietro l’impresa di pompe funebri, due tipi del
Bronx presentatisi come “Arredatori” -Al che Phil Coulson aveva inarcato un
sopracciglio e portato una mano al taser con fare eloquente, perché, Fury o non
Fury, non avrebbe mai lasciato la preparazione della stanza e l’esposizione del
corpo di Steve Rogers a qualcuno che non fosse stato opportunamente schedato e
controllato almeno tre volte dai suoi
colleghi più fidati- e infine quattro fiorai diversi. Niente che non fosse
stato prima approvato dallo S.H.I.E.L.D. poteva entrare: la corona con nastro
da parte del Presidente era stato un caso a parte, per ovvi motivi –Sebbene
fosse stata studiata e praticamente sezionata fino all’ultimo pistillo perché
le venisse concordato il via libera.
L’Agente Attis gli aveva sorriso con un che di beffardo
negli occhi scuri e Phil aveva risposto con un fulmineo sguardo omicida.
Dannazione a lui e a quando le aveva permesso di assistere.
«Signore, il ragazzo è ancora lì»
«Mh?» Coulson aggrottò la fronte, sollevando il
mento a cercare il giovane Parker: era lì da quella mattina, niente macchina
fotografica, niente fiori, niente se non l’espressione desolata nella più
completa solitudine. Non si era mosso, non si era allontanato, non si era
spostato: ritto accanto all’entrata della Tower, aspettava nel trambusto e nel
via vai degli Agenti S.H.I.E.L.D., ogni tanto telefonava, rassicurava la zia,
riattaccava e taceva.
Phil decise di portargli un caffè non appena avesse
avuto un minuto libero da dedicargli.
«Non si preoccupi, Agente Torelli. Il ragazzo può
restare, si assicuri solo che non faccia foto»
Francamente dubitava che Peter avesse con sè una
qualche digitale o si fosse messo in testa di usare un I-Phone di ultima
generazione per gabbarli tutti e scattare delle foto in anteprima.
“Tu sei il
fotografo di Jonah Jameson?”
“Ah…Sì, signore”
“Sei qui perché ti
ha mandato il tuo capo? Se è così, devo chiederti di andartene: la stampa non è
ammessa”
“N-No, signore. Io
non---Io Sono qui perché…Perché non me la sento di stare da nessun’altra parte”
Coulson lo capiva benissimo.
Prima che l’Agente Torelli continuasse l’opera di
consolidamento del perimetro, Phil gli mise una mano sul braccio.
«L’Agente Barton?» chiese.
Torelli si schiarì la gola, a disagio, e le
sopracciglia di Phil schizzarono subito verso l’alto.
«Accanto al feretro, signore. Parla meno del solito
oggi»
Coulson annuì e gli fece segno di andare,
concedendosi finalmente il lusso di stringere la radice del naso tra le dita.
L’Agente Barton che osserva la situazione dal piano terra e non dalle scale? Pessimo
segno. Pessimo com’era stato il comportamento integerrimo che aveva tenuto nei suoi confronti fino a quel
momento: chiariamo, il Falco era uno degli Agenti migliori dello S.H.I.E.L.D. e
quando si trattava di portare a termine una missione i risultati erano sempre e
comunque ottimali.
Operava spesso sopra le righe, però, e più di una
volta Phil aveva dovuto riprendere il suo comportamento, quel suo ricorrere a metodi
non proprio ortodossi e non del tutto approvati –Ma non aveva mai messo in
pericolo i suoi compagni, né compromesso l’obiettivo da raggiungere, e di
questo l’Agente ne era piuttosto fiero.
Clint solitamente rispondeva con un borbottio ai
rimbrotti che gli propinava, prendeva una birra da portare al Nido oppure -E
questo era il caso più frequente- si appollaiava sul divano di Coulson, decretandone
l’avvenuta conquista -O il passaggio di proprietà, a seconda dell’umore.
Dal debrief sull’Helicar, Occhio di Falco non gli
aveva rivolto una parola che non fosse una domanda o una precisazione o un
chiarimento circa l’incarico assegnato. Sguardo freddo, voce atona, non era
certo lo stesso Agente Barton che lo aveva iniziato ai misteri di Supertata al
termine di una missione particolarmente dura in Mississippi. Esausti, erano
crollati entrambi di traverso su un materasso bitorzoluto e con parecchie
contusioni in parti del corpo che la scienza medica non aveva ancora scoperto, avevano
finito con l’imbambolarsi davanti al canale della Fox, l’unico che la parabola
del Motel ricevesse senza interferenze. Phil ricordava ancora i commenti
dell’arciere, il modo in cui storceva l’angolo destro delle labbra quando stava
per scoppiare impietosamente a ridere, la sensazione della cravatta allentata,
la linea rilassata delle spalle di Clint e…
«Fa effetto vederlo così, vero?» Coulson intrecciò
le dita dietro la schiena e assunse un’espressione di assoluta neutralità e
compostezza.
Barton si decise ad alzare finalmente gli occhi su
di lui –Nemmeno quando era entrato e gli si era accostato aveva dato segno di
voler tenere in considerazione la sua presenza-, salvo poi riabbassarli sulla
salma di Capitan America.
Il feretro era in legno scuro e rialzato su una base
rettangolare di marmo; il coperchio della cassa, tenuto aperto, era una
riproduzione fedele e dipinta a mano della bandiera americana, dai colori tanto
lucidi e sgargianti che quando un gioco di sole li colpiva, ecco! Sembrava
davvero di vederla garrire al vento. Steve Rogers indossava la divisa completa,
la maschera a coprirgli il volto –Gli sarebbe poi stata tolta alla fine dei due
giorni di esposizione, prima che la bara venisse chiusa e sigillata
definitivamente; lo scudo era stato appoggiato contro la parte terminale del
feretro e riposava, ormai inutile ed inutilizzabile, tra i fiori che gli Agenti
S.H.I.E.L.D. avevano portato come un estremo saluto alla Sentinella della
Libertà.
Il volto del Capitano era sereno, abbandonato ad una
quiete più profonda del sonno, ed era su quell’accenno di sorriso che gli occhi
di Clint si erano aggrappati con violenza. Che stesse vedendo tutt’altra persona,
però, era oltre ogni dubbio.
«Quelli del L.M.D. hanno fatto un ottimo lavoro»
commentò Occhio di Falco, dal nulla, e Coulson trasalì per la secca
immediatezza della frase. Girò la testa per rispondere, ma l’arciere lo
interruppe senza degnarlo di uno sguardo «Il sangue è stato un vero colpo di
classe. Ha ingannato tutti sull’Helicar, signore»
Phil si ritenne fortunato che le parole non fossero
in grado uccidere, perché il tono di voce dell’arciere non era stato poi così
dissimile dalla scarica di un M-16. Tossicchiò prima che potesse anche solo ribattere,
Clint si premurò di precederlo.
«Da quando lo S.H.I.E.L.D. si occupa di fotografi
free-lance?» e fece un gesto in direzione dell’uscita: era chiaro come non gli
fosse sfuggito nulla, né la conversazione avuta con Peter, né il perché, a conti fatti, Coulson gli avesse
permesso di rimanere entro il perimetro della Tower.
«A dire il vero, lo S.H.I.E.L.D. è più interessato al
suo strabiliante tempismo. Ti è mai
capitato di vedere alcuni dei suoi scatti? Sembra essere sempre lì un momento
prima che Spiderman faccia la propria, folkloristica comparsa»
Barton incrociò le braccia al petto e gli lanciò
un’occhiata in tralice.
«Spiderman? Quanto avrà mai? Quindici? Sedici anni?»
«Non ne avevi molti di più quando sono stato mandato
a reclutarti»
Questa volta la bocca di Clint si arricciò in un ghigno
storto. Non un sorriso, ma un passo avanti rispetto all’espressione di gelido
omicidio premeditato con cui Coulson si era ritrovato a fare i conti.
«Quel giorno Fury mi ha consegnato un biglietto per
il Circo Tiboldt e io sono rimasto spiazzato. Pensavo fosse un modo carino di
licenziarmi o una sorta di ultimo desiderio, perché avevo sbagliato chissà che
cosa, forse le zollette di zucchero nel caffè» uno sbuffo divertito da parte di
entrambi «”Mi serve un suo parere, Agente Coulson” mi ha detto, “Si vantano di
avere il più grande tiratore scelto del mondo e l’Agente Houyi ne è giustamente
risentito. Si goda lo spettacolo e poi faccia rapporto”.
“Da allora mando un cesto regalo al Direttore ogni
Natale. Sai, per ringraziarlo. È stato il secondo ultimo desiderio migliore
della mia vita»
Clint sbatté le palpebre, girandosi finalmente verso
di lui e osservandolo con sguardo perplesso. Phil annuì, un po’ sorrise, un po’
gli brillò negli occhi una stilla di pentimento e di scuse.
«Il primo è stato di chiedergli di tornare, in un modo o nell’altro»
***
L’ultima volta che gli avevano dato una botta di Emo stava ancora a San Frediano, e al
Sighieri sapevano metterti la mousse al cioccolato sul cono senza che colasse tutta
da una parte. Ricordava Beatrice, un’ossuta cavalla la cui unica enfasi erotica
era la quarta di seno che la costringeva a deambulare con le spalle chine in
avanti.
La quarta di seno e l’assoluta mancanza di riflesso
faringeo, ovviamente, e da come quel
giorno stava leccando la cappella della cialda le sue intenzioni erano più che
palesi -Così come era palese l’intenzione di Bruno di tenerla in ginocchio più
tempo possibile e soffocare la sua cazzo
di lisca di merda con ben altro
impedimento fisico.
Ingoio-Beatrice succhiava chupa-chups che era una
meraviglia, ma non era certo ricordata per la parlantina: solo il sentirla
pronunciare la parola sesso avrebbe
fatto ammosciare la Torre di Pisa.
Faceva il gentile, però, perché prima di
accompagnarla dal Sighieri si era scolato una fiaschetta di rosso, e a Beatrice
piaceva cercare un Principe Azzurro che ansimasse il suo nome mentre lei incrinava
diligentemente le rotule. E allora aveva cominciato a dirle che era
particolarmente carina -Balle, che
era assolutamente deliziosa -Come no,
che quel completino vinaccia la rendeva tremendamente sexy -Per Dio, sembrava una prostituta rachitica.
Beatrice aveva quasi finito il cono gelato e lui
stava già pregustando un pompino al retrogusto di cannella, quando il fratello
Pietro aveva fatto l’entrata in grande stile, cavalier servente al servizio di
una virginea innocenza che puzzava più della merda in Arno.
Ehi tu, emo del
cazzo! Sta’ lontano da mia sorella!
Bruno aveva sorriso, le dita ancora tra i capelli
stopposi della ragazza, le cicatrici pallide un cordone bianco lungo
l’avambraccio. Pietro aveva risposto al ghigno derisorio con voce grossa ed una
risata imbecille: aveva continuato a ridere anche con la carotide recisa di
netto, il sangue che ribolliva schiumoso tra le labbra torte in un’espressione
stupida e sorpresa.
Da lì erano cominciati i guai, le fughe, l’Italia e
la Francia e l’America, il vino perennemente in gola, il sangue sulle dita e
cicatrici sempre diverse a ricamargli la pelle.
Bruno “Brunello” Chianti, quarantacinque anni
d’aspetto e ventitre suonati da occhio e croce cinque minuti, si accasciò
all’angolo di una viuzza coperta di piscio; si lasciò scivolare fino a terra,
le ginocchia piegate al petto e la testa reclinata contro la spalla.
«Il sogno del
Pisano è svegliarsi a mezzogiorno» gracchiò nel sollevare la bottiglia
mezza vuota, ingollando poi una generosa sorsata di schifezza liquorosa
«Americani del cazzo» sibilò, gli
occhi incavati nell’orbita stretti per il disgusto «Manco buoni a fare il vino»
Forse con i soldi che aveva appena incassato poteva andare in un negozio di
prodotti tipici italiani e arraffare del Monteregio come Dio comanda.
Singhiozzò un latrato, appoggiò la bottiglia tra le cicche di sigarette e un hot dog che aveva
visto tempi migliori, quindi estrasse dal pastrano lercio un rotolo di
banconote macchiate di rosso. Le contò tra un singulto ed una risata, le unghie
nere che insozzavano gli angoli di terra e polvere e grumi di sangue secco.
Per essere un bambinello di quindici anni, di soldi
ne aveva, il bastardo! Forse forse riusciva a mettere insieme abbastanza grana
per un Morellino di Scansano, gloria al finocchietto e alla sua linguaccia
lunga!
Affanculo, levati
dai coglioni, fottuto emo di merda
gli aveva ringhiato contro, mentre erano entrambi in fila per un po’ d’erba.
Bruno lo aveva giustamente guardato
come si guarderebbe un lombrico che si rotola nel lambrusco o un bulldog
francese che si masturba -Aveva rivisto da poco Due Date, problemi?-: un misto
di disgusto ed incredulità, finanche un pizzico di pena per l’umanità in
generale.
Il frocetto aveva scambiato un’occhiatina saputa con
la sua cricca di decerebrati, ritrovandosi pochi istanti dopo un sorrisone
scarlatto contro la gola e il portafogli alleggerito.
Il grande cerchio della vita, no?
«Guardare
verso il mare e non vedere più Livorno…!»
«Comincio a ricredermi sulla mia scelta, mortale. Dovrei cercare qualcuno che non
sia così dedito all’amor del vino, cosa ne pensi?»
Bruno drizzò lo sguardo verso l’alto, un’espressione
malevola a tirargli le labbra sporche; passò il dorso della mano sulla bocca,
ripulendo la barba rossiccia e grattandosi poi il mento bombato. Si issò
malamente in piedi, traballò e appoggiò la mano contro il muro lercio per non
cadere in avanti. Ridacchiò, quindi rassettò con due colpi la camicia a righe e
i pantaloni a coste sbiaditi e palesemente di proprietà di qualcun altro.
«In vino
veritas, mia bella schizzata, anche se non so cosa c’entri in questo
momento, ma so che il latino fa parecchio figo»
tossicchiò, assunse una posizione più composta, sistemò il colletto del
pastrano e rialzò gli occhialetti sul naso adunco. A quel gesto la manica
destra del giaccone gli scivolò lungo il polso, rivelando un taglio ancora
fresco sulla pelle, stille di sangue purpureo attaccate alla bell’e meglio ai
lembi della ferita.
La donna contrasse la bocca, gli occhi due specchi
vitrei e verdi.
«Non fare quella faccia, è il mio compleanno! Ce lo
facciamo un goccetto per festeggiare? Se non ti piace il vino, ho altre gocce da farti ingoiare»
Il ritrovarsi da un momento all’altro a mezzo metro
da terra, la schiena contro il muro e le unghie affilate conficcate nel collo,
fece sorgere in Bruno il dubbio che forse, forse,
la schizzata non aveva apprezzato la battuta.
«Rivolgiti a me con quel tono ancora una volta, abbi
l’ardire di usare con me quelle parole e sarà l’ultima cosa che farai, mortale. Uno schiocco di dita e ti
ritroveresti a strisciare a terra come il peggiore dei vermi»
«Mi è già successo, in realtà» esalò Bruno
«Breccanecca, due anni fa. Te lo sconsiglio caldament---»
Ed eccolo, di nuovo in ginocchio tra il marcio e la
muffa, il fiato conficcato a fatica nei polmoni. Lei era in piedi, gli stava di
fronte e lo fissava col sopracciglio inarcato in una deliziosa smorfia di
superiorità, la baldracca.
«Il momento è giunto. Tu e il ratto delle fogne
fareste meglio a mettervi in opera, o l’ira mia e del mio signore vi colpirà
con tale vigore da farvi desiderare d’esser morti ancor prima di nascere»
Fottuta troia,
sgualdrina, cagna, te lo fo vedere io, io, cosa vuol
dire desiderare di essere morti, puttana del cazzo. Bruno allargò le
braccia e sogghignò, chinando le spalle in avanti ad imitare un inchino falso
quanto grottesco.
«Come la mia dama desidera»
Sputò un bolo di saliva ai piedi della donna e la
lingua picchiettò maligna contro i canini neri.
***
“Il liquore più
forte che hai, voglio solo ubriacarmi e perdere conoscenza da qui fino a
dopodomani. Anzi, fammelo doppio, così tiro avanti a sbavare almeno per una
settimana”
“Dovresti provare
il vino d’Ismaro, mortale. Con Polifemo ha funzionato”
Tony uscì dal Karamela Cafè col fiato appeso alle
labbra e lo sguardo allucinato della barista conficcato tra le costole.
D’accordo, forse non aveva dato la migliore
impressione di sé alzandosi di scatto e correndo via come fosse stato appena
punto da una tarantola, ma…Dannazione, chiunque avesse parlato aveva tirato
fuori le parole magiche “mortale” e “Polifemo”. Non poteva lasciarsi sfuggire
una simile occasione, non dopo una giornata spesa dietro a fantasmi e leggende
e guide turistiche che lo guardavano come fosse sbronzo perso.
Il tizio, presumibilmente Odisseo, non poteva essere
andato lontano: Tony era schizzato via non appena la voce era sfumata nella
brezza salata che permeava il locale. Doveva essere ancora fuori, forse ad
attenderlo, forse a guardare il mare, forse a ridere della battuta –Indecente,
a dire il vero- che aveva fatto per attirare la sua attenzione.
Sul molo, però, non c’era nessuno.
I tavolini neri erano vuoti, non un turista sulle
seggiole ricurve o marinaio sulle barche a vela placidamente cullate dalla
corrente.
Col tramonto che lento bagnava la cresta delle onde
e piangeva lacrime rosse sulle cime degli alberi e sopra i comignoli, Tony
Stark si sentì improvvisamente solo.
Solo.
Inutile.
Idiota.
Si guardò attorno e Vathy gli sembrò d’un tratto
insignificante.
Cosa diavolo era venuto a fare in quel posto? Chi era venuto a cercare. Odisseo?
Davvero? Odisseo era un mito, era una leggenda. Una leggenda non-vivente, andava specificato, esisteva
soltanto tra le pagine di un poema o su qualche vaso o come personaggio di un
colossal italiano.
Aveva inseguito una chimera, o peggio: aveva inseguito il senso di colpa, un postumo da sbronza,
il frutto di una fantasticheria creatasi dalla mancata elaborazione del lutto.
Aveva condensato rifiuto-rabbia-patteggiamento-depressione
dentro un paio di bicchieri di Scotch, scartando a priori la possibilità di
accettare la…il fatto che Steve non
fosse più tra loro. Alla Tower. Con lui. A sradicargli dal soffitto il sacco di
sabbia un giorno sì e l’altro pure.
Con lui.
Il non riuscire a pronunciare la fatidica parola con
la “m” nemmeno in un dialogo unilaterale con se stesso era abbastanza per
capire e per comprendere. Era abbastanza per arrendersi. La cosa peggiore era l’essere stato tanto convincente
da trascinare tutti, Direttore
Bellosguardo compreso, nella propria crociata dei folli.
Prendere a calci il defunto fondoschiena di Rogers
per riportarlo in vita? Cliché abusato da anni, signor Stark, si trovi una
trama migliore da lanciare sul mercato e poi vediamo se vale la pena di
pubblicarla.
Tony si passò una mano sul volto e cominciò a
camminare sulla banchina, il sole che declinava all’orizzonte; alla fine del
molo si sedette, le gambe lasciate a penzolare oltre il cemento e gli occhiali
da sole calati sul naso.
La verità era che si era abituato a non essere più
solo, ad avere qualcuno che gli ricordasse come ci fosse un mondo oltre le
porte del laboratorio –Un mondo noioso, un mondo stupido, un mondo da salvare
al primo starnuto radioattivo, ma pur sempre un mondo al dì di un’equazione e
di una cromatura-, come ci fosse qualcuno in grado di vedere dentro e di vedere
oltre il magnate della Stark
Industries.
Prima Pepper e poi…
La baia sussurrava un canto di onde scarlatte e
avanti e indietro e avanti si trascinava stancamente la spuma; lampi verdi dove
il sole colpiva le imposte chiuse, tassello dopo tassello nel quieto mosaico di
Vathy, adagiata nel golfo, circondata dall’azzurra distesa del mare.
Steve ne avrebbe ricavato uno schizzo perfetto.
Tony poteva quasi sentire la mano che scivolava
sulla superficie ruvida del foglio, lo zampettare della grafite là dove passava
e passava più volte la matita per ricreare il gioco movimentato delle foglie.
Avrebbe aggiunto una barca, forse, una sola, con la vela bianca e lo scafo che
si rifletteva nello specchio distorto dell’acqua, e infine due figure, piccole,
indistinguibili, ma ferme, fisse,
eterne, ad osservare l’orizzonte dal pontile. Un unico tratto nero per le mani
di entrambi.
Rogers sapeva essere parecchio criptico quando
voleva –Anche se non abbastanza da evitare l’occhio lungo di Barton.
Doveva guardare in faccia alla realtà: la ricerca
era finita. Non gli restava che Manhattan e la camera ardente, il saluto, il
cimitero, e poi il laboratorio e la solitudine. Una volta rientrato avrebbe
potuto occuparsi degli ultimi dettagli riguardanti la veglia e il trasporto
fino ad Arlington…Oh, e anche del problema dei ratti. Clint, durante l’ultima
chiamata, gli aveva riferito la comparsa
di almeno tre esemplari, consigliandogli poi di procurarsi una domestica –E
ignorando volutamente l’affermazione di Tony circa la dieta a base di sorci di qualunque
rapaci che si rispetti.
«Molto bene, Stark» si grattò la nuca e storse la
bocca «Sarà meglio tornare a casa, che dici? Puoi sempre farti un goccetto
prima di andare, d’accordo, te lo sei meritato. Poi avvisiamo Pepper di mettere
su qualche gallone di caffè, tanto per andare sul sicuro. Avvisare anche il
Dottor Banner e l’Agente Romanoff di ammainare le vele e giare la prua?» arcuò
le sopracciglia «Sì, potrei. Oppure potrei lasciarli soli a sfogare…E tu che ci
fai qui?»
Il mendico-stalker, apparso chissà quando e chissà
da dove, gli riserbò un sorriso a tutto denti, quindi cominciò a grattarsi
insistentemente la coscia, un’espressione beata sul volto. Gli occhi di Tony
scivolarono alla cicatrice bianca che l’altro continuava a tormentare, ma nel
vedere la robaccia incrostata sotto le sue unghie decise che, no, aveva
assistito anche troppo e che, ancora una volta assolutamente no, non aveva intenzione di scoprire un microcosmo di
cheratina e divulgare tale notizia alla stampa nell’immediato futuro.
Affondò allora la mano nella tasca dei pantaloni e
si portò il cellulare all’orecchio, con gesti resi impacciati dalla fretta e
dalla spasmodica voglia di andarsene, pregando che Natasha rispondesse il più velocemente
possibile. Un clic dall’altra parte e
stava già levando un ringraziamento all’Alto dei Cieli, quando un ruggito,
qualcosa –Mio Dio, ossa?- che si frantumava, un urlo, un grido -Hulk?-
Stark balzò in piedi e diede le spalle al mendico, abbaiando
più volte il nome dell’Agente Romanoff, chiamando Banner, urlando e inveendo.
Nulla. Silenzio.
La linea era interrotta.
Dio.
«Natasha! Banner! Cristo…!»
Doveva avvertire Fury, indossare l’armatura e
partire alla volta di Dion-Olympos coi propulsori al massimo dell’energia.
Doveva intervenire, doveva---
«Allora? Chi cerchi?»
---E no, ora basta. L’Agente Romanoff e il Dottore
erano in pericolo per colpa sua, per l’idea del cazzo di girovacchiare per la Grecia come se di Dei e Divinità
varie e variegate non ne avessero abbastanza, non aveva anche la pazienza
adatta per sopportare la litania stridula del mendicante.
«Nessuno, ti
va bene come risposta?»
Buttò la valigia-armatura sul pontile ed era già sul
punto di avviare il meccanismo di vestizione con la sola pressione del piede
che…
«Perfetto» dietro
di sè una voce profonda, eco lontano di mare e salsedine.
Tony sentì distintamente i capelli drizzarsi sulla
nuca.
Cor
Mortem Ducens
#04. Lo Zoppo Che Molto Si Volge
Note
Finali
E dai che ve lo aspettavate che il mendico fosse
Odisseo. Lo so, perché siete personcine care e vi voglio bene e avete
riconosciuto il pilos e il fatto che si fosse presentato come mendicante mezzo matto e poi
c’era la cosa della cicatrice E sto divagando. E’ apparsa Amora. Io amo,
Amora.
E Thor la tratta a pesci in faccia, povera.
…Oddio, non che sia uno stinco di santa, ma, ehi. Ha
stile. Ciao Amora Ti lovvo.
Gallo, caduceo e tartaruga
sono gli elementi iconografici di Ermete (il cui aspetto, però, si rifà
a quello datoci dalla Marvel),
così come il gallo, la cista mistica, le spighe e il catalo
lo sono di Persefone. Eaco, Radamanto e Minosse sono i
Giudici dell’Oltretomba.
La storia di Clint e del circo Timboldt vengono
dalla biografia del canone principale e NON CREDO che sia lo stesso nell’Universo
Ultimate, giacché non l’ho MAI LETTO. Perdonate.
Poi. San Frediano è un piccolo Comune sopra Pisa
ed il Sighieri è una gelateria realmente esistente (Così come a Vathy
esiste veramente un Karamela Cafè). E fa di quei gelati che sono una
meraviglia! Se mai vi capita di passare a Cascina, ANDATE. ANDATE, MANGERETE
UNO DEI GELATI MIGLIORI DELLA VOSTRA VITA. Breccanecca è un posto fra i
monti dalle mie parti bel nome, vero?
Un appunto su Bruno “Brunello” Chianti. Prima ancora
di scrivere il prologo di questa fan fiction, lui era un personaggio positivo.
Poi è diventato…Bhè, quel che è diventato, ecco. Non è colpa mia E di chi,
allora? E la canzoncina che canta su Pisa e Livorno…Sì, esiste. Vedete cosa
si impara fuori sede? (?)
Il titolo del capitolo viene dal nome latino di “Ulisse”,
che significa appunto “Lo Zoppo”, e dall’epiteto “Polytropon”, “Colui che molto
si volge”.
E DAL PROSSIMO CAPITOLO BOTTE DA ORBI COME SE
PIOVESSE! Chissà
cosa mai sarà successo a Natasha e a Hulk. Mboh BOTTEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE
OOOOOkay. Prima di continuare questo delirio, direi
di ringraziare tutti voi che mi sopportate mi supportate non solo nella
stesura di questa storia, ma anche di tutte le altre. Sono un mostro, non
riesco a rispondere alle recensioni, ma vi giuro, vi giuro che leggo tutte,
dalla prima all’ultima parola, e mi fate commuovere. Siete splendidi/e e vi
ringrazio tutti, nessuno escluso. Vi voglio davvero bene.
Ringrazio Ghia9614, Shi_Tsu_Geass e Alley Vathy
ti va bene come meta per il viaggio di nozze per le loro splendide recensioni!
Spero che questo capitolo infinito non vi abbia pesato, ecco D:
Alla prossima!