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Autore: hanabi    31/05/2013    1 recensioni
Lontano, molto lontano, un mondo è pieno di leggende sulla propria origine e la propria storia. E in questo mondo tutto sembra duale: due soli, due continenti, due culture impermeabili, due etnie nemiche. Ma c'è un terzo incomodo, che esiste ed agisce nell'ombra...
Ed è quel terzo incomodo che unisce gli estremi di quel mondo, in una vicenda che sprofonda le radici nel remoto passato, tra intrighi e grandi imprese, sogni e vendette, misteri da svelare e sentimenti contrastanti, ferocia e sensualità. E alla luce di una luna che non è più solo un decoro del cielo, si dipana la storia dei protagonisti... come un gioco dei loro dèi. E di qualcun altro.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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La cabina della nave era spaziosa e comoda, foderata di nobili stoffe, profumata da essenze delicate che ricacciavano fuori il tanfo delle sentine, e dei marinai compressi nei loro rustici quartieri. La nave era ancorata, le vele ripiegate, i rematori schiavi chiusi nelle loro gabbie: solo un lieve scricchiolio del fasciame disturbava la notte. 

Jenna-shir guardava dalla finestrella aperta verso oriente lo spettacolo di Luna di Fuoco che sorgeva, ridotta a falce, dietro a terre indistinte all’orizzonte. 

Ormai ci siamo, il tempo indicato è giunto, il pilota assicura che la posizione è questa. Ma le vedette non hanno visto neanche una nave. Una beffa, una trappola? 

Sospirò. Una volta di più si disse che il suo compito era avere pazienza, e poi ancora pazienza. La pazienza era la base della sua intera esistenza.

Tutto era andato nel migliore dei modi: i venti erano stati costanti e l’Oceano benevolo, la sua Corrente d’Oro aveva abbracciato la veloce nave kelith facendola volare sulle acque. In molto meno tempo di quanto avesse immaginato, Jenna si era trovato a rimirare le coste di Sayanna: il capitano gli aveva spiegato con deferenza che il viaggio di ritorno sarebbe stato assai più lento, col mare che si riprendeva i suoi diritti; ed era il motivo per cui le flotte sayanni preferivano attaccare partendo dal lato orientale del loro continente, e non da quello occidentale. 

Non che i sayanni tentassero spesso di restituire la pariglia a Kelitha: da barbari quali erano, e privi della rapacità dei più civili nemici, si allontanavano a malincuore dal loro paese che consideravano il più perfetto dell’intero pianeta. Ma ogni tanto colpivano dolorosamente i porti kelith con spedizioni suicide: mandavano navi ricolme di guerrieri fanatici che sbarcavano, bruciavano le loro stesse imbarcazioni per indicare che non intendevano ritornare, e si lasciavano andare alla distruzione e alla carneficina più sfrenate, finché non venivano tutti uccisi. Alcune città ci mettevano decadi, per riprendersi dopo attacchi del genere. 

Dopo i primi giorni in cui il corpo di Jenna si era ribellato alla scomodità della navigazione, qualcosa in lui si era svegliato, e si era adeguato mirabilmente. Gli stessi marinai si erano sentiti onorati e inorgogliti della sua presenza a bordo: un membro della Razza Sovrana sulla loro nave! Era come se questo l’avesse trasformata in una propaggine del Palazzo, e tutti loro promossi al rango di servi della corte. Il capitano aveva visto vecchi lupi di mare impegnati a lucidare gli ottoni della nave, nella speranza di un’occhiata di approvazione di quegli occhi rossi. E il carnefice di bordo era rimasto inoperoso, perché tutti facevano impeccabilmente il loro dovere: tale era la magia che aveva operato Jenna con la sua sola presenza. 

Per rifornirsi avevano razziato qualche villaggio sulla costa sayanni, singolarmente sprovvisto di guerrieri: gli abitanti erano fuggiti nell’entroterra non appena avevano avvistato la potente nave kelith, senza nemmeno provare a opporre resistenza. Il bottino era stato magro: viveri a parte, solo qualche robusto contadino per sostituire gli schiavi ai remi morti nella traversata, e un fanciullo catturato e portato a bordo a scopo ricreativo. Jenna era stato contento del regalo, aveva molti ingegnosi esperimenti in mente: erano stati un argomento di piacevole discussione tra i nobili più altolocati. Ovviamente sulla nave non aveva i mezzi adeguati, ma si era ingegnato con ciò che c’era a disposizione; e anche se il piacere era durato poco, aveva avuto un sapore rustico che aveva stuzzicato un palato stanco di raffinatezze. I servi che avevano sbarazzato dei residui la sua cabina avevano tremato dall’orrore, ma era normale perché erano creature inferiori. Jenna era al di là dei sentimenti del volgo.

Non abbiamo colore, e non abbiamo limite. 

Era il motto della prima casa imperiale kelith, e Jenna l’aveva fatto proprio sin da quando l’aveva letto sulle rovine di Mahajana, l’antica capitale squarciata dalle guerre dinastiche. Raccoglieva meticolosamente rari reperti storici del periodo nella sua casa, che era quasi un museo, e a cui anelava tornare: ma il destino gli aveva sempre dato in sorte una vita raminga. 

Schioccò le dita, senza distogliere lo sguardo da quell’immagine da quadro davanti ai suoi occhi. Il servo gli mise tra le dita il calice di cristallo, ricolmo di dolce liquore di palma. Era una specialità Shanì a cui aveva finito per affezionarsi: la linfa di una particolare pianta veniva estratta dopo un decennio di attesa per poi essere fermentata e concentrata per altri tre, fino a trasformarsi in una festa di aromi dal singolare colore argentato. Era una bevanda regale, anche se veniva evitata dai nobili per i suoi effetti anafrodisiaci: ma Jenna aveva lasciato la sua shanda a Deera e preferiva non aver desideri carnali a ottenebrargli la mente. O almeno, non del tipo grossolano che si potesse soddisfare con qualche femmina, e quelli elevati - quelli nobili - si alimentavano col ricordo.

Era assolutamente naturale provare attrazione per il fiore della razza bianca, l’acme dell’evoluzione e della perfezione dell’intero pianeta: e Jenna era un finissimo esteta, sensibile a questo fascino e orgoglioso di esserlo. Alla corte di Shana si era riempito gli occhi con ragazzi albini meravigliosi e allegri, rampolli vanitosi e viziati dagli sguardi deliziosamente perversi, la cui vita era un passaggio da un piacere all’altro. Tutti costoro però erano stati eclissati dalla presentazione del principe Bakar: un giovane esuberante e sensuale che era apparso carico di gioielli sin nelle dita dei piedi, dipinto e profumato quasi come una donna e con un sorriso seducente verso tutti, un vero dio dell’amore. 

Bellissimo.

Jenna l’aveva ammirato, e gli si era avvicinato secondo l’etichetta per porgergli i suoi omaggi a nome del suo principato. Ma Bakar non l’aveva neanche considerato, troppo occupato a parlare di argomenti futili con la sua corte pedissequa: il nobile aveva temprato la propria delusione, e si era ritirato con un inchino e un sorriso, contento in cuor suo di vedere Shana finire nelle mani di un erede così sciocco.  

Nulla cambierà in questo paese. Ma almeno i miei occhi faranno festa.

Era stato deluso: Bakar era morto tragicamente, e al suo posto era stato eletto un principe misconosciuto, che alla presentazione l’aveva lasciato stupefatto: un giovane dal singolare aspetto misurato e quasi ascetico, l’esatto contrario dell’esuberante fratello.

Il misterioso Deyan, su cui nessuno chiacchiera, ma tutti sussurrano.

Aveva notato che era guardato a distanza anche dalla sua stessa corte, e specialmente dalla parte più allegra che ne era chiaramente sconcertata: il nuovo erede infatti non si lasciava andare alla levità degli argomenti in voga, né sembrava apprezzare la compagnia dei suoi coetanei. Un’ostentazione di quieta superiorità inattaccabile, che poteva sembrare superbia se non fosse stata accompagnata da modi impeccabili: ma era chiaro che quella figura austera era ben consapevole di chi fosse, e dell’omaggio che le era dovuto.

Jenna gli si era presentato formalmente, secondo l’etichetta, e con sua sorpresa si era visto invitato ad accomodarsi e rimanere, come persona di riguardo. Aveva scoperto che quel giovane in realtà era anche più bello del suo celebrato fratello, ma in un modo puro e sobrio che travalicava le convenzioni del tempo, e che rendeva di colpo volgari altri paragoni. Si era incantato a studiarlo, confrontandolo mentalmente con le eleganti figure degli affreschi di Mahajana, mentre veniva interrogato sui commerci di Deera, i suoi costumi, i suoi paesaggi, le sue rotte di navigazione... 

L’ambasciatore, sia pur irrimediabilmente affascinato, si era sentito tremare dentro.

E questo ragazzo sveglio e serio sarà il prossimo principe di Shana?

Il suo rapporto a Khandar-shir era stato pieno di entusiasmo, ma anche di timore. Quel Deyan non sembrava persona dappoco, e non sembrava incline a lasciarsi intrappolare dal fascino di una vita oziosa sprofondata nel lusso. Un principe così aveva la potenzialità per cambiare radicalmente il ruolo di Shana, fino a quel momento un paese il cui splendore si concentrava quasi esclusivamente nella corte famelica, lasciando i sudditi miserabili a produrre merci pregiate a basso prezzo. 

E quanto questo è convenuto a molti nell’Augusto Consorzio... 

Il principe Khandar gli aveva suggerito di stringere rapporti con Gamosh, nell’eventualità che convenisse usarlo contro Deyan se fosse diventato un pericolo per l’equilibrio di potere. Era stato l’ordine più rivoltante che Jenna avesse mai ricevuto, e aveva obbedito di malavoglia. Gamosh era stato rude al limite dell’insulto, vedendo nella raffinatezza di Jenna il compendio di tutto quel che odiava. L’ambasciatore aveva stomaco per ingoiare tutto e non aveva lasciato trapelare il fatto che l’antipatia fosse reciproca. La sua deferenza era stata naturalmente interpretata come abietta paura. 

Poi era andata com’era andata. Quell’incredibile vicenda per cui Deyan aveva perduto tutto, anche se stesso. E Shana, imprimendo quel marchio terribile sul suo volto, aveva ucciso forse un futuro di prosperità inimmaginabile, mettendosi nelle mani di un arrogante che pensava di poter sfidare tutto il resto di Kelitha con un esercito raccolto tra le sabbie del deserto. 

E adesso qual’è il mio ruolo in questo gioco? Come ricavare il massimo da questa situazione?

Voleva ardentemente rivedere Deyan, per capire cosa fosse diventato nel frattempo. Poteva essere stato distrutto nell’animo, come tutti immaginavano: un essere involgarito dalla sua esperienza di schiavo, probabilmente usato nelle maniere più turpi per sfogare il risentimento verso tanta perfezione. Poteva essere diventato semplicemente un nemico della sua razza, pieno solo di odio senza fine. 

O poteva essersi semplicemente indurito ancora di più, come una buona lama battuta dal fabbro: e in tal caso sarebbe stato un uomo formidabile, da non sprecare assolutamente... 

Vide un punto di luce, sulla costa. Si levò in un arco e scomparve, come un rapido sogno. Trasalì, nello stesso istante in cui sentì il grido dalla vedetta sulla coffa. 

Un razzo di segnalazione!... Il mercenario ha rispettato il suo patto. Le sue labbra si stesero in un duro sorriso. Mai sottovalutare l’onestà tra criminali.

Vuotò il liquore, posò il bicchiere e andò alla porta della cabina. Uscì sul ponte, la sua bianca figura evidentissima nella notte. Fissò l’orizzonte, poi alzò gli occhi al cassero, dove il pilota era già pronto assieme al capitano. 

E fece un gesto con la mano.

“Ai vostri posti!” gridò il capitano. “Rotta per Zakkara!...”

 

 

 

 

 

“Perché ci sono tutti questi guerrieri qua intorno?” chiese Ran, alla stazione di posta, presentando all’oste il contrassegno per avere la ciotola di amma, il cibo d’ordinanza dei corrieri; e guardò con faccia scontenta la tazza d’acqua e aceto che l’accompagnava, perché il vino non era ammesso tra i portatori di messaggi. 

“C’è una nave kelith nei dintorni,” spiegò l’oste. “Sono giorni ormai che è stata avvistata.”

“Cosa c’è da proteggere a Zakkara? Solo un mucchio di rovine incenerite.”

“Il sacro suolo di Sayanna, ecco cosa c’è da proteggere.” L’oste lo guardò male. “Sei troppo cinico, fratello. Quand’è stata l’ultima volta che sei andato al tempio?”

“Ci sono stato di recente,” fece Ran, incupendosi.

Ma le Divinità non mi hanno ancora perdonato. 

Si cacciò in bocca una cucchiaiata di amma. Il cibo era insipido, al solito: nutriente e sano, splendidamente sayanni sia nel colore dei semi germogliati, che nella solida collosità. Si chiese distrattamente cosa ne avrebbe pensato Deyan, che mangiava forse un terzo di lui a pasto, ma diviso in almeno cinque pietanze diverse condite con un concerto delle sue spezie; tra cui una incredibilmente piccante, che Ran aveva assaggiato per finire in lacrime con la faccia in un secchio d’acqua, mentre quel kelith delicato non batteva ciglio...

 “Da dove vieni, guerriero?”

“Arendia,” rispose Ran, con la bocca piena.

“Come vanno le cose lassù?”

“Al solito. Non cambia mai nulla nel nostro glorioso paese.”

“È cambiato il governatore.”

Ran deglutì e prese la tazza. “Prosegue nell’opera sicura del suo predecessore.”

“Il precedente governatore è stato destituito e crocefisso per comportamento non conforme.”

Ran impallidì, ma mascherò l’ennesima cantonata bevendo quella mistura acida, e guardandosi attorno come se stesse per rivelare un segreto.

“Può darsi che erigeranno un’altra croce... ma mi raccomando, io non ho detto niente.”

L’oste era costernato. “In che tempi viviamo,” mormorò. 

“Eh già. Meno male che le Divinità tutto vedono e tutto controllano. Dicevi che c’è una nave kelith da queste parti: è normale qui vedere i diavoli all’opera?”

“No,” disse l’oste. “Era molto tempo che non si facevano vedere. E non capiamo il perché: ci sono zone molto più interessanti della nostra.” Una pausa. “Non che auguri questa sventura ad altre città, ci mancherebbe.”

Ran rise. “La chiami sventura? Vedo che vi siete organizzati per dar loro il benvenuto: il vostro comandante ha l’opportunità di ammazzare dei pellebianca. Pagherei, per avere la stessa sventura.”

Una volta, adesso non più...

“Il nostro comandante pagherebbe anche più di te.” L’oste abbassò la voce. “Dicono che... sia stata disonorata da un’intera truppa di kelith: vive solo per vendicarsi.”

Ran emise un fischio sommesso. 

“Capisco allora perché qui ci siano tanti guerrieri: non è solo il sacro suolo di Sayanna che si vuol difendere...”

“Tu hai l’aria di essere un guerriero in gamba. Potresti fermarti e raccogliere la tua parte di gloria.”

“Ho già la mia missione, fratello.” Finì il suo pasto e colse un’occhiata intenta. “Spiacente, ho il divieto di parlarne.” Spinse via da sé la ciotola e la tazza. “Kamoh e Lilia ti accompagnino, buon uomo.”

“E illuminino il tuo cammino, guerriero.”

Ran si avvolse nel suo mantello e uscì, incamminandosi sul sentiero che scendeva dalla costa. Da lì vedeva il crudo panorama, tutto di rocce aguzze e scarni cespugli, e la spiaggia di ciottoli neri, frustata dalle onde schiumanti. Le rovine della fortezza dominavano la spiaggia, e molti uomini si aggiravano nei dintorni: la situazione era diversa da come Deyan l’aveva pianificata... avrebbe saputo trarne vantaggio?

A una certa distanza Ran si fermò, si guardò bene intorno. Poi andò verso delle rocce, come un uomo che cercasse un riparo per espletare le proprie funzioni corporali: si chinò in un anfratto, e da lì si buttò a pancia a terra e strisciò fino a infilarsi in una stretta apertura del suolo. L’oscurità era quasi totale, ma intravide i gradini scolpiti da mani umane: era l’ingresso di una caverna-magazzino.

Immediatamente sentì un contatto proprio sulla colonna vertebrale, a livello dei lombi. E rabbrividì, riconoscendo quella particolare tecnica. 

“Sono io,” sussurrò in fretta, prima che Deyan procedesse a paralizzarlo tagliandogli il grande nervo della schiena: gliel’aveva già visto fare con altri sayanni. Era il suo modo di azzerare lo svantaggio fisico che aveva contro di loro, ed era squisitamente kelith nella sua lucida crudeltà. 

Deyan ritirò la lama. “Ben arrivato, Ran.” 

Un fruscio, e gli altri uomini che si trovavano lì smisero di celarsi. 

Ran si voltò verso l’amico, faticando a distinguerlo incappucciato e velato com’era, e in quella poca luce. 

“Cos’hai saputo?” 

“C’è una nave kelith qua intorno, forse diretta proprio qui. Che sia coincidenza o no, i tuoi compatrioti ci stanno rendendo le cose difficili: il comandante locale, una donna disonorata dai tuoi, ha tutte le intenzioni di catturare quella nave e ha portato qui tutti i guerrieri che ha saputo raccogliere...”

“La fortezza è sorvegliata?”

“No. Ma molti dei guerrieri si accamperanno sicuramente lì, è il posto migliore per controllare il mare.”

Una pausa di silenzio. “Quanti dei nostri sayanni sono guerrieri?”

Ran esitò. Poi fece un sorriso da lupo. 

“Vuoi che ci mescoliamo con i guerrieri del comandante, vero?”

“Precisamente. E quelli che non lo sono resteranno celati, finché non arriverà il momento di entrare in azione.”

“Questo vale soprattutto per te.”

Deyan scosse la testa.

“Io sarò il primo ad entrare in azione. La mia utilità qui è quasi esclusivamente tattica, su Sayanna non posso offrire la mia forza... tocca a me il ruolo di esploratore.”

“Sarei stato più tranquillo se ti fossi portato dietro la tua guardia del corpo.”

“Ne abbiamo già parlato: non mi fido ancora. Liberatore o meno, io sono quello che lei chiama demone bianco: qui è più dura essermi leale.”

“Sarà in collera.”

Ran intravide appena un’occhiata sardonica. 

“Oh, sì. È in collera.”

Lo sente attraverso il loro legame? Da un mondo all’altro? O lo intuisce?... Povera Xarani: come schiava non potrebbe comunque avere accesso al Vortice, senza il suo padrone. Deyan è riuscito a inchiodarla su Luna di Fuoco. 

Non era stato facile, Naysiak aveva giurato di seguirlo e proteggerlo ovunque, e non aveva accettato di rimanere indietro; Deyan gliel’aveva ordinato, e vedendo che non bastava si era avvalso di altri mezzi.

E prima di partire si era inginocchiato accanto alla sua stuoia, mentre Ibal scostava la pelliccia di quel fagotto immobile per controllare i suoi segni vitali. Lei ancora lottava, ma tre narcotici insieme (tra cui il famigerato Loto Rosso, a cui la fisiologia sayanni era sensibilissima) erano troppi... gli aveva rivolto un tremante sguardo d’odio, a cui lui aveva risposto con un remoto sorriso. 

“Addio, Naysiak degli Huanai. Se non torno, Saal ha già le sue istruzioni per te.”

“T’shish,” era stato il suo commiato, prima di sprofondare nell’incoscienza.

Barbara incorreggibile.

“Ran, cerca di allontanare più uomini che puoi dalle rovine. Se vieni a sapere qualcosa sull’ingresso ai piani inferiori, segnalalo nel modo che abbiamo concordato. Io userò queste ore di luce per esplorare la zona: se quel che mi hai detto è vero, e lì sotto ci sono degli forzieri di metallo nero...” Deyan estrasse dalla borsa un piccolo strumento, delicatamente costruito.

“Che cos’è, un oggetto magico?”

“Non è magia, è scienza. Il metallo nero influenza una scheggia sua simile sospesa in questo liquido, ermeticamente chiuso.”

Ran lo fissò, incredulo. Ma quante volte Deyan l’aveva stupito, con quella sua scienza...

“Traccerò un percorso sicuro per scendere alla fortezza senza essere visti,” disse il kelith, rivolgendosi anche agli altri uomini. “Molti di voi sono cacciatori: lascerò le tracce di una lucertola crestata, ne ho viste a riscaldarsi sulle rocce, eventuali guerrieri sayanni non si insospettiranno.”

Molte teste annuirono. 

“Non torneremo tutti in una volta,” continuò lui. “Siamo in tanti e recuperare il bottino è essenziale. Man mano che avremo qualcosa lo manderemo nel Vortice con qualcuno dei nostri.”

“Ci costerà di più,” brontolò Ran, che sapeva le tariffe dei Marjaban per ogni volta che aprivano il Vortice.

“Lo so,” ribatté lui, “ma è il sistema più sicuro. Tu controlla la situazione e occupati dei nostri guerrieri, cercando di tenerli qui vicino: potrebbero doverci coprire la ritirata.”

“Preferirei di no: anche se non ho gli scrupoli della tua Xarani, non mi piace combattere la mia gente.”

“Pensa a quello che farebbero a un disertore.”

“E tu pensa a quel che farebbero a un albino.”

Deyan portò una mano al pugnale alla cintura, con un lontano sorriso. “Quel che farebbero al mio cadavere. Non mi lascerei mai catturare vivo da loro.”

Ran sentì un groppo in gola. “Abbi cura di te. Se muori, la tua Xarani mi ucciderà.”

“Se muoio, lei sarà la tua schiava.”

Con quelle parole Deyan si calò la maschera di cristallo verde sugli occhi, e in un istante scomparve dall’apertura della caverna. Ran restò a fissare il vuoto, con occhi dilatati.

Cosa?!...

Si morse le labbra: non c’era tempo per pensare, non c’era tempo per distrarsi. Si voltò verso le tenebre.

“Chi ha tatuaggi da guerriero venga con me: la caccia comincia.”

 

 

 

 

 

Naysiak, furibonda, cercava la pace perduta studiando un sasso che aveva raccolto sul lato della strada. Era grigio, e pieno di piccole scintillanti scaglie di mica: cercò di concentrarsi su quel piccolo universo di minuscoli crateri, schegge bianche e venature di ossidiana. 

Sono la dea di questo mondo.

La lima era già molto usata, ma era di buona qualità e ancora ruvida; lo scalpello invece si era già smussato. Lo puntò comunque con precisione sul sasso posato a terra, e con un’altra pietra diede delicati colpettini, finché il sasso non lasciò andare la scheggia che lei desiderava. Sospirò, con il solito misto di sollievo e concentrazione, pulì il sasso contro i gambali, e poi prese in mano la lima per lisciare l’incisione.

Con la coda dell’occhio vide Saal che usciva dalla bottega kelith che era andato a visitare. Ovviamente a mani vuote: gli acquisti sarebbero stati portati dal mercante stesso, con grande cerimonia, quasi fosse stato un privilegio servire la casa di un bianco signore. Naysiak fece una smorfia, soffiò via la polvere dal sasso e ripose tutto in una sacchetta che teneva appesa alla cintura, dove teneva gli strumenti e quel che trovava in giro, a volte tra i rifiuti: pietre morbide, pezzetti di legno non carbonizzato, ossa. Era un’abitudine che Saal giudicava disgustosa (come tutte le altre, peraltro), ma lei se ne infischiava: e in un angolo del cortile custodiva quel mucchietto di roba disparata che poi lavorava in tutti i suoi momenti di riposo.

E Deyan l’aveva costretta ad averne più di quanto lei desiderasse. 

Maledetto Liberatore! Se non torni più, come mi giustificherò davanti ai miei dèi? Sarò una Xarani che si è lasciata ingannare per mancare al suo dovere. Ho sopportato in silenzio tutte le umiliazioni che mi hai inflitto, e ancora non ti fidi di me? Ho strappato il cuoio capelluto a un tuo nemico, e ancora non ti fidi di me? Non ti ho ucciso con le mie stesse mani, quando morirei dalla voglia di farlo; e ancora non ti fidi di me? 

Si alzò dal ciglio della strada e si mise a seguire Saal. Il maggiordomo fece il disdegnoso e guardò avanti: non aveva richiesto i servigi di Naysiak - inconcepibile un kelith che chiedesse la protezione di una femmina - ma lei, non potendo più seguire Deyan, aveva deciso di proteggere la sua famiglia. 

Non poteva però proteggere se stessa dall’ostilità di parte della sua comunità, che non aveva compreso il perché del suo asservimento a un kelith; e che tutto sommato avrebbe preferito uno Shartip, disonorato e bestiale ma pur sempre sayanni in più, e un nobile depravato in meno. 

E siccome era schiava, e quindi privata anche del diritto di difendersi dalle ingiurie degli uomini liberi, aveva dovuto imparare a sopportarle in silenzio: e che a ingiuriarla fossero i sayanni era una cosa che l’aveva ferita profondamente, molto più della diffidenza e del disprezzo dei kelith, che tutto sommato aveva sempre messo in conto. 

Non ho più amici, nemmeno tra la mia gente...

Quella sensazione le bruciava dentro come una piaga. Anche quando arrivavano ai massimi livelli delle loro gerarchie, i sayanni restavano sempre sayanni: non sopportavano la solitudine, avevano bisogno dell’affetto e del cameratismo per sentirsi completi. Naysiak aveva dovuto vivere momenti di pesante isolamento durante il suo addestramento, che l’avevano costretta a cercare quel sentimento anche fuori dall’umanità: l’aveva trovato, ma dentro di sé aveva tanto bisogno arretrato di compagni, di risate in comune, di calore.

E quando finalmente li aveva avuti, l’avevano strappata dal suo mondo per chiuderla nel Feretro. 

Ricordava il terrore di quei momenti, le sue lacrime di fronte alla lucida superficie che era il volto del Tirri, e le sue mani d’argento che le premevano sul volto quella molle cappa di vapori. I suoi stessi ultimi respiri l’avevano assordata, mentre la voce del dio le arrivava da molto lontano, per dirle che quello era l’unico modo per salvarla... 

Salvarmi?

Si era svegliata nell’oscurità. In un utero immobile. Cercando disperatamente un modo per contare il tempo che passava. Le aveva risposto la montagna, con la lenta voce di un essere che si sentiva giovane con milioni di cicli di soli alle spalle. Le avevano risposto le creature viventi, con le loro vite che bruciavano in un istante. Le avevano risposto le nuvole, insopportabilmente veloci, e il movimento degli astri, un balletto solenne e indifferente. E lei si era smarrita, diventando tutti e nessuno, aggrappata ai suoi ricordi eternamente rivissuti, chiamando nel vuoto il suo Liberatore, e sentendo solo il silenzio... quel particolare, immenso silenzio, in cui nemmeno i fruscii della carne erano percepibili. Il silenzio tra i mondi. Il silenzio degli dèi. 

Speranza, disperazione, speranza... disperazione. Intercalati da un vuoto sfinito, e da esplorazioni minuziose della propria stessa follia. Visioni. Frammenti di conversazioni che il suo spirito forse captava: e di cui comprendeva le parole quando chi le aveva pronunciate era decrepito. Il lento, lentissimo strisciare di un verme sulla superficie del Feretro, che era diventato per lei come una strana pelle, il bozzolo di una farfalla pietrificata. Le urla della sua anima torturata, quando decideva di smettere i suoi viaggi tra i mondi e tornare in quel corpo che era il suo, ma che non riconosceva più: e non poteva nemmeno piangere o pregare, poteva soltanto... aspettare.

Liberatore, dove sei? Sei già nato? O sono nati solo i tuoi antenati? Esisterai?  

Tutta la sua coscienza si era concentrata in quel punto, dandole la forza. 

La speranza nel Liberatore è stata l’unica luce in più di un millennio d’inferno... 

Ed era per quel motivo che gli era fedele, che non poteva fare a meno di essergli fedele. Anche se le costava un mare di sofferenza. Anche se la rendeva una reietta.

Non è solo un giuramento a legarmi. È qualcosa di così profondo e immenso da trascendere le parole. Ma nessuno tranne me è in grado di comprenderlo, perché sono la sola al mondo ad aver provato cosa vuol dire aspettare  e sperare per più di mille cicli di soli. 

Un’occhiata al cielo. 

E forse gli dèi mi hanno creato così forte perché sapevano che avrei dovuto portare questo fardello...

“Ehi, schiava! Dov’è il tuo padrone?”

“Te l’ha dato, un osso da succhiare?”

Voci volgari ridevano. Di cosa, lei non si sforzava di comprenderlo. 

Ma Saal mostrava tutta la sua indignazione: ci doveva essere qualcosa di insultante anche per il suo padrone, in quella battuta.

“Muoviti!” sibilò alla sayanni, quasi fosse colpa sua. 

Lei emise un lieve sospiro. Si distrasse a ricordare quando da Guerriero della Cometa le avevano dedicato una gran festa, con canti e balli. Adesso si sarebbe accontentata di molto meno. Di essere almeno lasciata in pace...

Ciac!

Un impatto contro la sua nuca. Una sensazione bagnata tra i capelli. 

Le avevano tirato contro qualcosa. 

Le era già successo. Si portò una mano alla testa, giusto per controllare che non fosse la sostanza immonda della volta precedente. No, era un frutto, la cui fatica di esistere era stata sprecata solo per sporcarla e ferirla. Si tenne la polpa fradicia tra i capelli, senza neanche guardare l’uomo che gliel’aveva lanciata. 

Una volta mi lanciavano fiori.

Ricominciò a camminare e sentì dei passi che si avvicinavano alle sue spalle. Le vennero le lacrime agli occhi.

No, vi prego, basta. Non costringetemi a uccidervi...

“Siamo in vena di giocare?”

I passi si fermarono bruscamente. 

Naysiak si voltò appena, per vedere chi aveva osato interrompere i suoi tormentatori. Era Aydie, che spuntava da una bettola, occupato a pulire il suo pugnale con uno straccio. 

“Che vuoi, kelith?!” lo apostrofarono i sayanni. 

Lui li fissò con un sorriso orribile nel suo volto sfigurato, ed emise un particolare schiocco con la bocca. 

Altri kelith cominciarono ad affacciarsi qua e là, e ad apparire dagli angoli delle case. Pellebianca che di bianco non avevano più nulla, cotti dal sole, duri come cuoio stagionato, infagottati nelle loro tuniche stazzonate e spesso rammendate, però adornate di fibbie d’argento. 

Naysiak li riconobbe, stupita.

I kelith della Squadra Sacrilega!

Erano rimasti su Luna di Fuoco, ad attendere l’esito della missione su Sayanna. 

Un brivido di tensione passò per la strada.

“Statevene alla larga, feccia,” ringhiò uno dei sayanni. “La faccenda non vi riguarda.”

“State molestando una nostra compagna.”

Naysiak trasalì. Compagna?

“Proprio una bella squadra, quella che chiama compagna una lurida schiava.”

“Hai detto bene,” replicò Aydie. “È una schiava. Proprietà privata del nostro capo. La proprietà degli altri si rispetta, qui su Luna di Fuoco.”

“Altrimenti?” lo sfidò il sayanni. “Intervenite voi deboli pellebianca a proteggerla?”

“No.” Aydie rinfoderò il pugnale, sogghignando. “Lei non ha affatto bisogno di noi per difendersi. Ha bisogno solo... di essere autorizzata a farlo.” Un’occhiata sardonica. “E per quel che ne sapete voi, Deyan-shir può avermela prestata durante la sua assenza, quindi come suo custode potrei autorizzarla io...”

I sayanni esitarono, e quando Naysiak si voltò verso di loro fecero un passo indietro. 

“Che ne dici, ragazza azzurra?” fece Aydie, incrociando le braccia sul petto. “Ti autorizzo? Senza ammazzarli, eh, mi raccomando. Solo una bella lezione di buone maniere...”

I sayanni si ritirarono, in un torvo silenzio. E i kelith scoppiarono a ridere. 

“Eccoli, i coraggiosi pelleblu...” Aydie si avvicinò a lei, scuotendo la testa. “Saremo feccia noi, ma quella del tuo popolo ci tiene una più che degna compagnia, quassù.” Le porse lo straccio che aveva usato per lucidare il pugnale. “Pulisciti con questo, ragazza. Scusa, ma non ho di meglio.” 

“Grazie,” mormorò lei, commossa. 

“Di nulla,” replicò lui, e fece per andarsene. Ma si fermò e le diede un’occhiata di sguincio. “Oh, naturalmente ho mentito... i principi kelith non prestano mai nulla: o si tengono tutto, o lo regalano.”

Naysiak lo guardò, perplessa.

“Non avrei potuto autorizzarti.” Si mise un dito davanti alle labbra. “Ma... non lo diciamo in giro, d’accordo?”

Fece un gesto, e così come i kelith erano apparsi, scomparvero.

E Naysiak corse dietro a Saal, sentendosi un po’ meno triste, e un po’ meno sola.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mare rombava, le onde tracciavano righe bianche di schiuma. Quando era sceso come un’ombra verso la fortezza, Deyan si era tolto un istante la maschera di cristallo, per rimirarne il vero colore: identico a quello del ricordo che Naysiak gli aveva trasmesso.

Non aveva provato alcun stupore davanti a quello spettacolo, benché fosse in realtà la prima volta che lo vedesse: frastuono a parte, impressionante alle sue orecchie, era davvero simile al kannah-ri amini, il Mare Immobile del suo perduto paese. 

Oh, Shana...

Ma non era laggiù, tra le dune dorate, bensì su Sayanna; e quel continente ostile lo opprimeva, aumentando il suo peso e avvelenandogli l’aria con tutta quella sconcertante umidità. 

Perché sono qui per rubare un suo tesoro.

L’aveva trovato abbastanza agevolmente, grazie al suo strumento, e a un segno che Ran aveva inciso su un muro scrostato: un cerchio con sovrapposta una freccia. Evidentemente la parlantina del suo socio gli aveva fatto guadagnare qualche altra preziosa informazione. Sotto un mucchio di mattoni calcinati, adorni di ciuffi di vegetazione stentata, aveva trovato una robusta porta di metallo, chiusa da un chiavistello arrugginito. E aveva sorriso, sotto al velo.

Bene, qualcosa qua sotto c’è. 

Della porta si erano occupati i predoni sayanni che l’avevano seguito, intanto che i guerrieri agli ordini di Ran fingevano di fare la guardia con cipigli marziali; alla distanza era difficile distinguerli da quelli inquadrati. L’attenzione dei soldati era infatti tutta fissa al mare, da cui si attendevano il pericolo, e non alle loro spalle. 

Deyan era penetrato nel sotterraneo della fortezza, dove l’aria era chiusa da decadi: non aveva mostrato paura, a differenza dei sayanni che erano più superstiziosi. Con una torcia schermata e la sua droga a dilatargli le pupille, aveva esplorato e tracciato un percorso per i suoi uomini, tra rocce infiorate di cristalli di sale e giganteschi ragni appostati negli angoli. Il suo strumento era impazzito indicando il fondo di una rustica scalinata, alla fine della quale quindici scrigni erano apparsi, coperti da almeno una spanna di polvere: perfettamente disposti e sigillati. 

Ma non c’era serratura che Deyan non avesse appreso a forzare; e lui era stato addestrato con quelle kelith, che erano infinitamente più complicate di quelle sayanni. Gli era bastato qualche strumento e un poco di pazienza, per aprire uno di quei pesantissimi scrigni e vederne il contenuto. 

Pietre nobili, coralli multicolori, barre d’argento.

I sayanni che erano stati di Saraji diffidavano di lui e lo odiavano, ma quando avevano visto cos’erano venuti a rubare si erano dimenticati di colpo del colore della sua pelle e dei capelli, e avevano esultato. Lui aveva imposto loro di mantenere il silenzio e di comunicare solo col codice di segni dei ladri: avevano obbedito con la stessa prontezza che avevano offerto al loro precedente capo. 

Deyan sapeva che il Vortice non poteva penetrare nelle viscere della terra, ma aveva individuato un anfratto fuori dal sotterraneo, circondato da alte rocce, che poteva essere un buon posto per effettuare il trasferimento: ci stavano solo pochi uomini alla volta, ma era impossibile scorgerli per un uomo a livello della spiaggia. Aveva segnalato ai predoni di dividersi in coppie, e provvedere a trasportare gli scrigni fuori da quel nascondiglio, uno alla volta. Quindi era andato a presidiare l’uscita, per dare i tempi del rientro. 

Era una procedura lunga e delicata, ma lui non si era lasciato prendere dalla fretta. Al momento giusto, un segnale e un’indicazione, e i primi due avevano trasportato lo scrigno nel luogo preposto.

Stava per partire il sesto scrigno, quando Deyan fermò tutti: un guerriero si stava avvicinando di corsa alla fortezza. Non sapendo chi fosse, si mantenne nascosto: l’uomo si voltò intorno cercando qualcuno, poi cavò di tasca il pugnale e graffiò in fretta qualcosa su un muro cadente, correndo via. 

Deyan attese, contando mentalmente fino a cento, poi uscì dal nascondiglio, scivolò tra le ombre come una vipera e in silenzio raggiunse quel muro. 

Quel che vide lo agghiacciò. 

Il disegno schematico di un uomo su un triangolo, con le braccia alzate e una riga tra polsi e collo.

Hanno catturato Ran.

 

 

 

 

 

 

Chiuso tra le quattro mura di una capanna, legato con robusti canapi nel classico modo sayanni per costringerlo a restare in ginocchio (e meditare sui suoi peccati), Ran fissava la porta chiusa, chiedendosi se quella beffa del destino non fosse una vendetta delle Divinità. 

Era sembrato tutto così semplice: si era presentato baldanzosamente, con la sua lancia in pugno, per offrire i suoi servigi, e i guerrieri sayanni l’avevano salutato con piacere, soprattutto vedendo la sua stazza imponente. Ran era stato affabile, parlando con entusiasmo del suo desiderio di lavare la sua lancia nel sangue degli immondi pirati bianchi; e dopo un po’ di movimento, aveva detto di aver visto qualcosa verso nord: poteva essere una delle immense creature marine, o anche una nave kelith, il cui fasciame era dipinto per confondersi alla vista...

I guerrieri erano andati ad avvertire il comandante, che aveva mandato subito delle vedette e aveva chiamato a raccolta la truppa per ricollocarla sulla spiaggia. 

“Chi è il valoroso che ci ha portato questa notizia?”

Il suo luogotenente aveva indicato Ran e gli aveva fatto cenno di avvicinarsi. Lui aveva obbedito, con un gran sorriso. “Ai tuoi ordini, custode della nostra sacra terra!”

Il comandante l’aveva guardato in silenzio, dalle fessure del suo elmo foderato di cuoio. 

“Arrestatelo.”

Ran aveva sbarrato gli occhi, incredulo. “Che cosa?...”

“Gli altri si dividano in tre gruppi: uno rimanga qui. Gli altri due si spostino una lega a nord e l’altro a sud: portate le torce per i segnali, tra poco i soli tramonteranno.”

E aveva voltato le spalle per andarsene, senza degnarlo di una seconda occhiata, mentre lui veniva circondato. 

“Comandante!” aveva gridato. “Aspetta!...”

“Chiudetelo da qualche parte: mi occuperò di lui quando ne avrò il tempo.”

“Non provate a toccarmi!” Ran aveva alzato la lancia, minacciosamente. “Chi si avvicina...”

Qualcuno alle sue spalle era riuscito a sferrargli un accecante colpo alla testa, con qualcosa di molto duro. 

Era caduto sulle ginocchia, stordito, e in un istante era stato disarmato e trascinato via: aveva appena fatto in tempo a vedere Nemel che arretrava prudentemente tra gli uomini, e poi correva via...

Per tutti gli dèi, avverti Deyan-shir!

Scosse la testa: gli faceva ancora male. Sentiva la nuca pulsare, ma non poteva toccarsela: le mani erano saldamente legate alle caviglie. Probabilmente i capelli gli avevano protetto il capo da quel colpo pazzesco, ma non avrebbero potuto far molto per salvarlo dal Grande Martello. Quel pensiero gli scese come acido nello stomaco: aveva assistito a una di quelle esecuzioni e l’aveva odiata, per il modo in cui cancellava ogni parvenza umana del condannato. La morte era istantanea (a differenza dei supplizi kelith che prevedevano sofferenze prolungate, a volte di giorni interi); ma quel che restava, quando andava bene, era un corpo senza testa... quando andava male, una caricatura deforme e grottesca. Era un effetto chiaramente voluto, per impressionare il popolo e fargli preferire il gioioso servizio agli dèi, piuttosto di quella fine ignominiosa.

E dopo una vita a cercare di sfuggire a questa morte, ecco che le finisco in bocca. 

Non si faceva illusioni: anche se avevano diviso le loro forze, i guerrieri sayanni che erano rimasti erano più che sufficienti per vincere una battaglia campale contro i predoni della Squadra Sacrilega. Era meglio pensare alla sua cattura come una magnifica diversione, di cui Deyan avrebbe approfittato con la sua consueta lucidità e spietatezza: doveva pensare al vantaggio di tutta la squadra, non a quello di un uomo solo. Ran non gliene avrebbe voluto, il rischio era una componente naturale della vita di un predone.

Ho giocato la mia partita, e ho perso. E come dicevo a Saraji, un predone paga sempre le sue sconfitte... con la vita. Non posso pretendere che tutta la mia squadra rischi il disastro per salvarmi. 

Raccolse il proprio spirito guerriero e si impose quindi di non sperare: si concentrò sulla ricchezza munifica che sarebbe arrivata su Luna di Fuoco e la felicità dei suoi uomini, che avrebbero benedetto il suo nome e il suo ricordo. Salutò in cuor suo Deyan, l’amico più straordinario che il destino gli avesse regalato, rivivendo quei momenti in cui avevano condiviso un sorriso e ogni differenza nel colore della loro pelle e dei capelli aveva perduto di significato. Gli dispiaceva solo non aver trovato il coraggio di chiedere scusa alla sua Xarani, ma forse lei sapeva già tutto... e l’aveva perdonato con uno di quei sorrisi che la facevano sembrare così poco guerriera. Quelli, e quel piccolo naso che lui aveva pensato di romperle: invece era stata lei a rompergli quasi il suo. 

E me lo sarei meritato...

La porta della capanna si spalancò, strappandolo ai suoi pensieri. 

Il comandante entrò, col suo luogotenente. Diede un’occhiata al prigioniero, e vedendolo ben legato annuì al sottoposto. “Aspettami fuori.”

L’uomo obbedì, e chiuse la porta. 

“Ebbene, disertore?”

Lui ebbe un’espressione indignata. “Non sono un disertore: sono un guerriero, e tu sei in errore.”

L’ufficiale gli si avvicinò, lo prese per il mento e gli girò la faccia da un lato, e poi dall’altro.

“Sei lontano dalla tua terra, uomo del clan Kurya... come hai fatto a sopravvivere fino ad adesso?”

“Respirando,” replicò acidamente lui. 

“E sei riuscito a schivare il Grande Martello per tutto questo tempo? Notevole.” Una risata. “Vedo che non sei sposato. Il che, con un fuorilegge come te, non significa nulla.”

Si tolse l’elmo, gettandolo a terra e rivelando il volto lungo e maturo di una donna, segnato da una cicatrice orizzontale sullo zigomo sinistro che distorceva i tatuaggi sottostanti.

Ran sbarrò gli occhi e avvampò. Poi abbassò lo sguardo.

“Non sono un fuorilegge.”

“Su, montanaro, non fingere di non riconoscermi. E io non posso fare a meno di riconoscere te: non mi serve neanche consultare i registri per sapere che hai disertato. Certe cose... io non le dimentico.”

“Ti confondi con qualcun altro.”

Lei gli afferrò le trecce e gliele scostò dalle spalle, per guardargli il collo taurino. E con un dito percorse il segno di una cicatrice.

“Ma davvero... per poco non ti staccavo la testa, quella volta ad Arendia.”

Ran chiuse gli occhi, mormorando una maledizione. 

“Ne è passato di tempo,” ridacchiò lei. “Non pensavo che ti avrei mai più rivisto.”

“Che ci fai qui?” 

“Zakkara è stata la mia fortezza,” disse lei, raccogliendo uno sgabello e sedendocisi sopra pesantemente: lo sgabello scricchiolò. “Avevamo dodici catapulte, e i pellebianca hanno pensato bene di bruciarcele... quattro navi, piene di arpioni, gettafuoco, trabucchi e veleni. Ho perso quasi tutti i guerrieri ai miei ordini.”

“E non solo i guerrieri, mi hanno detto.”

Lei sorrise, senza alcuna piacevolezza.

“Ti hanno detto quel che volevo che si dicesse.”

Ran si mosse, per attenuare il dolore del suo corpo costretto da troppo tempo a quella posizione umiliante, e la guardò da sotto le sopracciglia corrugate.

“Quindi non è vero che sono stati i kelith.”

Lei esplose in una breve, aspra risata. “I kelith erano uno. Molto azzurro, e molto forte... e pure sposato.”

“Sposato?!” La guardò con tanto d’occhi. “Un sayanni adultero?!”

“Era il fabbro da cui mi facevo affilare le armi. Per molto tempo l’avevo rimirato al lavoro, coltivando desideri segreti dentro di me. Un giorno riuscii a farlo ubriacare... il resto fu semplice. Non so nemmeno se si rese conto che non ero sua moglie: avevo provveduto da me a liberarmi di un certo impiccio...”

Ran era scandalizzato. “Bugiarda e depravata! E hai il coraggio di giudicare me!”

“Io non ti giudico,” disse lei, guardandosi le unghie di una mano. “Quello l’hanno già fatto i capi del tuo clan. Sei colpevole di diserzione e condannato a morte.” Aprì le braccia. “Io? Una triste vittima di questa eterna guerra. Il mio disonore è anche motivo d’orgoglio, una ferita inferta dai maledetti kelith: non posso mostrarla... ma tutti sanno che c’è.” Lo guardò maliziosamente. “Non sei curioso di vederla?”

“No,” fece lui, con espressione schifata. 

“Peccato. Perché vedi... tu sei proprio il tipo di uomo che a me è sempre piaciuto.” Si sporse verso di lui. “Mi piace questa tua faccia così franca e aperta... e la fierezza di questi tuoi begli occhi blu, anche se non hai nulla di che essere fiero: sei soltanto la feccia della nostra casta... un guerriero che è scappato per non compiere il suo dovere.”

“Forse sono così fiero perché so che almeno non sono come te!”

“Sai cosa sei? Un uomo morto.” 

Lui deglutì a vuoto, ma mantenne lo stesso un’espressione spavalda. 

“Almeno nella mia vita mi sono divertito.”

Lei si alzò dallo sgabello, gli si avvicinò e gli accarezzò le spalle possenti, in un modo che gli mandò un brivido lungo la spina dorsale...

“Non sai nemmeno il significato di questa parola, guerriero. Volevo insegnartela quando ti vidi ad Arendia... una magnifica tigre di montagna, un po’ scarna e lacera, ma decisamente appetitosa per una donna delle pianure come me. Ma forse, in questi tuoi cicli a peregrinare come fuggiasco, hai finalmente trovato chi ha vinto i tuoi scrupoli morali...”

“Ero vergine allora, e sono vergine adesso.”

“Ah sì?” 

Lei si inginocchiò al suo fianco, gli slacciò i pantaloni. Guardandolo con intenzione.

“Non ho nulla da nascondere,” sibilò lui, affrontando quello sguardo. 

“È mio diritto... e dovere controllare, come ufficiale in comando.”

Ran lottò per non dibattersi, per rimanere monumentalmente fermo, ma sentì il sudore scivolargli lungo il collo... strinse i denti, sentendo la mano della donna infilarsi sotto l’indumento.

Udì il suo lievissimo sospiro di disappunto. 

“Contenta?” le ringhiò. 

“Non è un problema. Bastano due incisioni con un coltello.” Se lo cavò dalla cintura, e glielo mostrò. 

Ran impallidì spaventosamente. 

“Tocca la mia Membrana con quel coltello, e ti ammazzerò: non mi importerà quel che mi succederà dopo!”

“Suvvia, montanaro! Un vero guerriero non avrà paura del dolore, vero?” Gli si avvicinò, ad un palmo dal volto. “Pensando al piacere che ne seguirà. Ma soprattutto, pensando che con questo piccolo sacrificio si guadagna il diritto di respirare anche il giorno dopo...”

“Che razza di infame baratto mi proponi?!”

“Posso liberarti da questi legami... e dagli altri. Poi uscire di qui e dichiarare che il mio è stato un errore e che non sei il disertore che credevo. Potrei anche aiutarti a cambiare identità, in modo da tenerti con me...”

“E io come spiegherei a tutti il mio, di disonore?” La sua voce divenne sarcastica. “Racconto anch’io di essere stato violentato dai kelith?”

Lei storse la bocca. 

“Sei ostinato, come tutti quelli della tua razza. Forse non ti rendi conto che l’alternativa per te è trovarti con la testa su un masso: sei già stato condannato, e qualsiasi ufficiale che ti catturi è autorizzato ad eseguire la sentenza di morte sul posto.”

Ran distolse lo sguardo. 

Perdonami, Deyan-shir, vorrei tanto non lasciarti solo, ma questo prezzo è troppo caro per me...

“Allora?” lo spronò lei.

Lui inspirò profondamente... e lasciò andare un grido tonante, con tutta la forza dei suoi polmoni. 

“Guardie!...”

Lei sbarrò gli occhi, colta alla sprovvista. Alle sue spalle la porta si aprì immediatamente e le guardie si affacciarono, allarmate da quel grido. 

“È vero, sono un disertore,” dichiarò Ran, con voce alta e chiara. “E non solo! Sono un bandito e un ladro!”

Lei impallidì, si voltò a guardare i suoi uomini. Avevano sentito...

“E adesso che ho confessato, è la legge che mi protegge da te,” disse Ran, con un sorriso feroce. “Non puoi più disonorarmi. Puoi solo mettermi a morte.”

Gli uomini si guardarono, e poi fissarono la donna.

“Comandante?”

Lei si alzò, lentamente, con le labbra contratte. E poi, con un gesto di purissima furia, mollò a Ran un gran manrovescio che fece sobbalzare le guardie. 

“Dunque preferisci il Martello a me?” gli mormorò, a voce bassissima. “Come vuoi, disertore. Sarai accontentato.” 

Lui sputò il sangue e la guardò, con occhi di fuoco.

“Dove? Ad Arendia?”

“No,” ringhiò lei. “Non sei così importante.” Raccolse il suo elmo e se lo rimise in testa. “Stanotte stessa sarai giustiziato, qui, su questa spiaggia, e il tuo cadavere lo getteremo in pasto ai pesci. E questo è tutto quel che ti meriti.”

E se ne andò, sbattendo la porta alle sue spalle. 

  
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