Capitolo
8
La
Torre d’Argento
«Alex,
la finisci quella?» disse una voce stranamente familiare.
Il
ragazzo fissò perplesso
il bicchiere posato davanti a lui. Il ghiaccio era quasi sciolto, ma c’era
ancora un dito di Whisky all’interno.
Era
il suo? Quando lo aveva ordinato?
«Allora,
lo finisci o no?» insistette la
voce, spezzando il filo di quei
pensieri.
«No,
non mi va più» disse Alex,
passando il bicchiere alla ragazza seduta al tavolo con lui.
Ci
mise qualche secondo per riconoscerla, era Valentine.
Portava
un elegante tailleur nero, con una camicia di seta bianca. Il collo era
adornato da una lunga collana di
perle e un rossetto, di
un porpora
intenso, le colorava le labbra. I
capelli invece, erano insolitamente lisci e raccolti in un elegantissimo
chignon laterale,
mentre in testa,
portava un Fascinator rosso ricamato con piume nere, dal
quale scendeva una veletta a rete che le copriva metà del viso,
dalla tempia sinistra sino
alla guancia destra.
Era
di una bellezza mozzafiato, ma c’era qualcosa; un qualche tipo di incongruenza
che la mente di Alex non riusciva in nessun modo a conciliare. Era come se la
ragazza che aveva di fronte fosse un
qualche tipo di sosia della sua amica.
«Che
ti prende Alex? Hai una faccia…» disse Vall vagamente ammiccante.
Il
quel momento, una
ragazza in abiti succinti si avvicino al loro tavolo, portava un largo vassoio
in legno carico di ogni genere di tabacchi immaginabile, sorretto
grazie una raffinata fascia nera che gli passava intorno al collo.
«Desiderate
qualcosa signori?» disse, avvicinandosi a
Vall.
«Si
grazie Poliene, il solito per me» rispose lei.
«Come
desidera signorina» aggiunse la giovane hostess, allungandogli un
pacchetto di sigarette senza filtro.
Alex
assistette alla scena allibito.
Valentine? che fuma? Qui c’è decisamente qualcosa
che non quadra.
Con
le mani velate da dei deliziosi guanti di velluto,
Valentine carico l’estremità di un lungo bocchino di ebano
nero adornato d’avorio.
«Che
sbadata, hai per caso da accendere?» disse, muovendo voluttuosamente
lo strumento di fronte ad Alex.
«Si
certo» rispose lui senza pensare «Tieni» aggiunse, passandogli dalla tasca
interna del suo gessato nero, un accendino d’argento ricamato.
Ma che diavolo? Il vestito? L’accendino?
Come…
Vall
si accese la sigaretta, e dopo qualche lungo tiro sorrise bonaria
e, come
se gli leggesse nella mente disse:
«Non
ti crucciare troppo Alex, non in porta il come o il perché» poi, indicando un palchetto di fronte al loro tavolo, dove
appena qualche secondo prima Alex avrebbe giurato non ci fosse stato nulla,
aggiunse:
«Guarda,
è la tua canzone preferita, sta per cominciare»
Il
sipario si aprì e
una bella donna avvolta in abito lungo
di seta rossa inizio
a cantare, mentre le note di un saxofono la accompagnavano
riempiendo l’aria già densa di un’eterea
cortina di fumo, con una
struggente melodia Blues.
Alex
stette ad ascoltare in silenzio, lasciando che la musica gli entrasse dentro,
toccandogli ogni corda del suo animo. Alla fine del brano, una lacrima gli
rigava la guancia.
La
canzone parlava di come il protagonista era
convinto di conoscere bene un’altra persona
ma, in realtà,
scopre di essere stato ingannato per tutto il tempo. Alex
non l’aveva mai sentita prima di allora ma Vall aveva ragione, era di gran
lunga la sua canzone preferita, sembrava stata scritta apposta per lui e
ora che l’aveva ascoltata si sentiva leggero e svuotato, come
dopo aver pianto per ore, quando dentro l’anima non ti resta più nulla, se
non quel leggero retrogusto amaro della
malinconia.
«Mi
spiace Alex, non era mia intenzione rattristarti, ma era necessario»
disse Vall, quando la cantante sparì
dietro il drappo rosso del sipario.
«Necessario,
per cosa?» domandò lui, con la voce spezzata, cercando
di ingoiare il nodo che gli si era formato in gola.
«Prestò
capirai, ma andiamo per gradi...» rispose l’amica.
«Ho
solo una domanda prima» la interruppe «Chi sei? Perché è evidente che non sei
la vera Vall»
«Perspicace
come sempre, eh! Me ne compiaccio, da cosa lo hai intuito…» disse lei.
«Alex.
Non hai fatto che chiamarmi così per tutto
il tempo, la vera Valentine non lo fa mai, non
aggiunge mai la X» spiegò.
«Non
credevo te ne saresti accorto, a quanto pare
mi sono sottovalutato» lo liquidò, sorridendo.
Alex
inarcò il sopracciglio, fissando la
sua misteriosa interlocutrice.
«Che
intendi dire?» domandò.
«Andiamo,
lo sai benissimo che intendo dire… Fammi l’altra domanda, quella che ti frulla
in testa da quando ti sei ritrovato qui in
questo luogo.» rispose.
«Basta
giochetti!» tuonò lui «O
altrimenti…» aggiunse scattando in piedi,
lanciando la sedia su cui era seduto a
parecchi metri di distanza, estraendo nel
contempo la bacchetta dalla manica sinistra della
giacca, puntandola
verso Valentine. La ragazza rise di gusto.
«O
altrimenti cosa?» lo schernì «Questa non ti servirà a
niente qui…» continuò, porgendogli la sua stessa bacchetta.
Alex,
fissando il suo pugno destro stringere null’altro che aria, andò nel panico.
Come ha fatto? Mi ha disarmato senza battere ciglio…sono spacciato.
«Smettila
di farti queste stupide domande» disse la ragazza, adirata per la prima volta
«Te l’ho già detto. Non è il come o il perché che conta!»
Alex,
terrorizzato a morte, cercò di fare qualche incerto
passo indietro, per
mettere più distanza possibile fra lui e il personaggio che aveva di fronte ma le
gambe gli cedettero, diventando molli come
la gomma dallo sgomento e perdendo l’equilibrio, si ritrovò seduto sulla sedia che aveva scagliato pochi minuti prima.
Il
viso di Valentine tornò benevolo e, avvicinandosi, posò le mani sulle ginocchia
del ragazzo, chinandosi per poterlo guardare negli occhi.
«Non
sono un nemico da battere, e non intendo farti del male»
disse rassicurante «Questa cosa la devi risolvere da solo, o non potrò
aiutarti»
«Cosa!
Quale cosa! Non capisco… chi sei? Cosa mi hai fatto? Cos’è questo posto?»
Chiese Alex, sull’orlo di una crisi di nervi.
«Calmati,
concentrati. Sei sulla strada giusta, ricordati come ti sentivi
poco fa, alla fine della canzone, svuota la mente… chiudi gli occhi, respira…»
Alex
ubbidì, non gli restava null’altro da fare se non assecondare le istruzioni
della ragazza, che ora sembravano provenirgli direttamente da dentro la testa. Appena chiuse le palpebre però, fu subito scosso da
brividi di freddo, che lo costrinsero a riaprire immediatamente gli occhi.
Era
ancora seduto sulla sedia del bar e Valentine
era lì con lui, entrambi però, erano ora vestiti alla babbana e si
trovavano in un bosco. Sembrava
il faggeto vicino casa di Alex, se
non fosse che qui tutto era morto, anzi,
congelato. L’aria era gelida, gli alberi completamente spogli, una spessa brina
ricopriva qualsiasi cosa e il
biancore di quel posto era quasi accecante.
«Vieni,
voglio mostrarti una cosa» disse Valentine, prendendolo per mano.
I due
camminarono per quella distesa ghiacciata per
qualche minuto, o qualche ora, Alex non avrebbe potuto
dirlo con certezza. Sembrava che il tempo in quel luogo non esistesse, non se
ne riusciva a percepire lo scorrere. Il
silenzio poi, era
assordante, solo il rumore di cristalli frantumati prodotto dalle foglie che
calpestavano, spezzava quella monotonia. Improvvisamente, il
faggeto lascio spazio a una radura, dove
sorgeva una piccola casa a due piani, il
primo in pietra, il secondo in legno, una
balconata in di tronchi di pino grezzo ne
decorava la facciata ma, alcune
finestre erano divelte, quasi tutti i vetri erano infranti
e delle pietre giacevano ai piedi
della parete mentre il legno era grigio e crepato in più punti. Sembrava che lì
non vivesse nessuno da decenni.
Quella
desolazione, Alex se la ricordava bene, l’aveva già provata sulla
sua pelle.
«Dove
siamo?»
chiese.
Una
bagliore lo accecò e quando
riaprì gli occhi era da solo, il
prato intorno a lui era
verde e ricoperto di fiori la casa
era in perfette condizioni, sotto il balcone, a lato dell’ingresso erano appese
delle campanelle che suonavano pigramente mosse dal vento. Splendeva un bel
sole e la temperatura era
gradevole mentre
nell’aria risuonavano allegri i cinguettii degli uccelli
nel bosco lì
vicino anch’esso rinvigorito e pieno di
vita.
Quel sovraccarico di percezioni, investirono Alex, lasciandolo stordito.
Tutto tornò freddo e immobile.
«Io
abitavo qui una volta» disse Valentine, con una punta di nostalgia nella voce
guardando la vecchia casa in rovina «Il periodo più bello della mia vita…»
Alex
si girò per guardarla, lei ricambiò.
«Non
parlare, seguimi…» lo interruppe, prima ancora che avesse il tempo di dire
qualcosa. «C’è ancora una cosa che voglio mostrarti»
Appena
girarono l’angolo che dava sul retro della casa, un altro flash.
Si
sentiva il rumore dell’acqua
scorrere, un
piccolo fiume passava sul retro della baita.
Alex questa volta lo riconobbe, non aveva dubbi.
Questo è il torrente che passava dietro
casa di Vall, in
Italia, ci siamo stati due
estati fa in vacanza.
Una
serie di risate e schiamazzi provenienti dalla riva
attirarono la sua attenzione, fu come guardare
la sena di un film.
Adesso
era nel fiume, l’acqua gli arrivava
all’incirca al ginocchio, era fresca e corroborante,
aveva un ricordo molto preciso di quell’episodio. Stava
giocando a pallavolo con Matthew e
degli altri ragazzi, amici babbani
di
Valentine.
Sulla riva stese al sole su degli asciugamani, quattro ragazze: Vall, due sue amiche italiane, poi
lei, Cassandra. Stavano ridendo, qualcuna doveva aver appena fatto una battuta,
le risa lo distrassero e, dopo
aver rilanciato la palla, si
disinteressò del gioco,
catturato com’era dal suono cristallino della voce di Cass, i
loro sguardi si incrociarono per caso.
Dio quegli occhi, sembra una dea, la mia dea. Si
ricordò di aver pensato.
Avrebbe
potuto perdersi in quelle pozze color nocciola striate di una miriade di
pagliuzze d’orate. Il
mondo, il suo mondo, vi era racchiuso. Buffo, come
un gesto così semplice, cosi casuale,
avesse la forza di provocargli tanta felicità. Amava
quella ragazza, la amava con tutto il cuore, e
avrebbe voluto urlarlo a squarciagola là, in quell’istante, ma il sorriso che
gli si dipinse in volto e quello
che ricevette di contrappunto,
furono dichiarazioni più intime e potenti di quanto le parole non avrebbero mai
potuto fare e tanto bastò per renderlo l’essere più felice sulla faccia della
terra.
La
prospettiva cambiò di nuovo, la scena al fiume continuava ma ora Alex ne era solo mero
spettatore, vicino a lui, la
controfigura di Vall.
«Era
davvero un bel posto dove vivere» disse lei
mestamente.
«Ne
sono convinto anche io, e…» Alex fece una pausa, ora consapevole dell’identità
del suo Virgilio «Mi spiace» aggiunse senza riuscire a guardarla negli
occhi.
«Non
è con me che devi scusarti» disse lei,
«Piuttosto devi fare pace con te stesso, o questo posto non guarirà mai»
Una
folata di vento gelido investì il fiume facendone congelare le acque, la
vegetazione sulle sponde venne intrappolata nel mortale
pallore della brina mentre le figure del ricordo di Alex si dissolsero
nell’aria come se fossero state fatte di sabbia.
«Hai
capito ora?» chiese Vall, continuando a fissare il fiume ghiacciato davanti a
lei.
«Si,
la foresta, la baita, anche quella l’ho riconosciuta, è stato dove Cass ha
detto per le prima volta di amarmi. Il fiume…Sono tutti posti distanti
geograficamente fra loro, ma hanno in comune il fatto che,
in quei luoghi io sia stato…Felice»
Alex
fece una pausa per cercare di riordinare il pensiero che
aveva in mente.
«Hai
detto che tu abitavi qui…O forse dovrei dire…Che io, abitavo qui?» si
girò, cercando il contatto visivo «Tu sei me, e io sono te, giusto?»
Valentine
sorrise compiaciuta, facendo un cenno con la testa.
«E il
fatto che questi posti siano tutti qui, mi fa pensare che, in realtà, questo
stia succedendo nella mia testa, una
specie di sogno» Alex impallidì «O…o…forse,
sono morto?» domandò.
«Hehe, no,
tranquillo, non sei morto» disse Vall
«Ma non stai nemmeno sognando» continuò,
facendosi scura in volto.
«In
che senso, spiegati…» insistette Alex.
«Non
ho tutte le risposte, cosa credi che sia? Il
genio della lampada?» rispose lei stizzita.
«Wow,
sembravi proprio Vall quando si incazza…» sdrammatizzò lui «A proposito perché le somigli?»
«Questa?»
rispose lei,
guardandosi le mani «E
solo una forma come un'altra, avrei potuto assumere le nostro sembianza se
avessi voluto, ma già ti ho incasinato abbastanza così, pensa
se ti fossi trovato davanti un clone che rivendicava di essere te. Da qui la
necessità di farti capire certe cose da solo, se non le avessi accettate
autonomamente ma te le avessi imposte…diciamo che le conseguenze non sarebbero
state piacevoli, né
per me, né
per te» spiegò «Comunque ho scelto Vall perché lei è l’unica a cui dai sempre
retta, ho pensato che questa cosa mi avrebbe semplificato il lavoro»
«Ha un
suo senso» concluse Alex.
«Comunque non hai ancora risposto alla mia domanda, se non sono morto e non sto sognando, cosa ci faccio qui?»
«Beh
la verità è che non lo so con precisione, so solo che non sei capitato qui per
caso, è successo qualcosa…Qualcosa che non mi so spiegare» poi,
indicando un punto all’orizzonte aggiunse «Guarda laggiù, la vedi?»
Alex
seguì con lo sguardo il punto che stava indicando Vall finché all’orizzonte non
vide un imponente roccaforte in marmo
bianco, posta ai piedi di un crinale montuoso.
«E
quella che diavolo è?» esclamò stupito.
«Quella,
è casa nostra» disse lei con semplicità «Vieni, ti faccio
strada»
Alex
gli porse le mano e in un batter d’occhio furono trasportati ai piedi
dell’imponente fortificazione. Ora che la vedeva da vicino, le proporzioni
lo lasciarono sbigottito. Era essenzialmente un gigantesco torrione, alto più
di duecento metri, per
metà incassato nella montagna stessa,
circondato da un’enorme muro di
pietra bianca, spesso quasi dieci metri,
alto più di cinquanta. L’unico
accesso era costituito da un ampia arcata nel mezzo della muraglia,
sbarrata da un impressionante portone d’argento, ci
sarebbero potuti passare comodamente tre Tir babbani, uno
a fianco all’altro, e
sarebbe comunque avanzato dello spazio.
La
fortificazione, nonostante la sua innegabile solidità, doveva aver visto giorni
migliori: il muro esterno era annerito e crepato in più punti
mentre alcune parti della merlatura erano spaccate e i detriti giacevano sparsi
lungo tutto il perimetro.
Anche la struttura principale del torrione era segnata da qualche sfregio, che ne
intaccava il marmoreo rivestimento.
«Santa madre…» disse Alex
pieno di meraviglia.
«Hehe
sapevo ti sarebbe piaciuta, questa, mio caro, è la Torre d’Argento»
disse Vall compiaciuta «Ma vieni, non è sicuro stare qui a lungo»
Solo
in quel momento Alex notò che, la
morsa implacabile del gelo di poco prima, aveva lasciato il
posto a un paesaggio completamente diverso, molto simile a una palude. Il
terreno era fangoso, interrotto a chiazze da larghi acquitrini dai quali
esalavano vapori mefitici, sulle rive crescevano strani e contorti arbusti, irti di spine.
«Che
razza di posto è questo, è perché diavolo è pericoloso stare qui?»
chiese allarmato Alex, mentre un brivido gelido gli
risaliva la spina dorsale.
«La
Torre d’Argento è la più antica delle fortificazioni
che hai costruito, è stato l’unico modo per arrestare l’avanzata
del gelo, anche le montagne nella quale è incastonata sono venute dopo.
Insieme formano un grande anello circolare posto a
protezione del circolo interno» spiegò velocemente la ragazza «Una
volta qui era tutto
rigoglioso, adesso invece, è un terreno di guerra. “Terra di nessuno” insomma, né
gelata ne verde, la Valle delle Lacrime mi piace chiamarla. Nome pittoresco lo
so, ma che ci vuoi fare, sono un inguaribile romantico,
fatto sta che è qui dove si combatte»
«Guerra? Combattimenti? Contro
chi poi?»
Domandò incredulo Alex.
Vall
stava per rispondere quando, un profondo rombo
scosse la terra facendo cadere qualche piccolo masso
dalla parete rocciosa.
«Non
ho tempo di spiegarti ora, e poi non credo tu
lo voglia sapere» disse lei, affrettando
il passo.
Quando
giunsero davanti alle porte, appostati
all’entrata, li
aspettavano due soldati completamente celati da un armatura bianca come la
neve. Era sicuramente fatta di un qualche tipo
di metallo ma era stremamente
aderente, tanto da sembrare un semplice vestito. Sopra di
essa portavano una sorcotta con
un araldica ricamata sopra: una stella coperta per metà da un
velo.
Quindi è così che
funziona, la fortezza non serve a rinchiudere, ma
a proteggere. E anche peggio di quanto pensassi. Pensò
Alex.
Le
guardie senza volto, incrociarono le loro lunghe alabarde
sbarrando il passo ai due.
«Lui
è con me, aprite il portone,
presto!»
I
soldati ubbidirono senza aprire bocca, spingendo
senza troppa fatica le immense ante d’argento, alte più di venti metri, larghe
cinque e spesse più di settanta centimetri, aprendo loro il varco. I due
entrarono veloci, e il portone si richiuse pesantemente
dietro di loro.
«Chi
erano quelli?» chiese Alex.
«Semplici
proiezioni, me ne servo per
“amministrare” meglio il circolo
interno e le difese, ci hanno fermato perché non ti conoscono, non ti hanno mai
visto quaggiù e ti hanno scambiato per un intruso» rispose lei. «E
comunque, non è così brutto come pensi, a
volte; la maggior parte delle volte,
vinciamo noi e il circolo interno diventa sempre più grande,
strappando terra al gelo. Altre
volte vince lui, e noi non possiamo far altro che rinchiuderci all’interno e difenderci al meglio, ma questo non
accadeva più da molto tempo. Stavamo vincendo, lentamente ma stavamo riconquistando sempre più spazio»
Un'altra
scossa, questa volta più violenta e intensa, altri pezzi, di montagna
franarono, assieme a qualche frammento di marmo staccatosi dal torrione.
«Mi
vuoi spiegare, per l’amor del cielo, che sta succedendo?»
Valentine
esitò per un istante «Faccio prima a mostrartelo» disse poi,
entrando all’interno del torrione.
Imboccarono
un’infinita
scalinata a
chiocciola fino a quando arrivarono nel punto
più alto della fortezza, un’ampia
balconata delle dimensioni di un campo di Quidditch
perfettamente piatta, senza parapetti
incastrata fra due picchi montuosi. Da
lassù si potevano
vedere, sia
le lande ghiacciate che
il circolo interno; una colossale città giardino,
verde, bella,
splendente delle tonalità dell’oro e
dell’argento che ne decoravano i tetti degli
edifici.
«Laggiù»
indicò Vall,
passandogli un binocolo.
Sulla
sommità di una piccola collinetta,
situata perfettamente al centro della città,
sorgeva un maestoso
palazzo dal quale si stava alzando una
densa cortina di fumo nero, sembrava che qualcosa stesse andando a fuoco all’interno.
Alex notò anche del movimento fuori
dalle mura, ma la distanza era considerevole e non riusciva a vedere chiaramente.
«Quello
è il Palazzo d’Io, di
cui sono sovrano, o meglio… di cui ero sovrano» continuò lei, «Quando
sei arrivato, non eri solo, altri si sono presentai. Non so come ne perché, ma sono riusciti a superare ogni
difesa, colpendoci dritti
al cuore. Sono riuscito a rifugiarmi qui per
un soffio, altri non sono stati così fortunati. Chi ha attaccato non
credeva avessimo difese cosi solide, immagino abbia peccato di Hýbris nel sottovalutarci, il che ci dice che non è di queste parti. Tuttavia, sta
guadagnando potere, mentre noi ci stiamo indebolendo…»
«E cosa vogliono?» chiese Alex.
«Non
ne ho idea, ma
in quel palazzo ci sono cose che
è meglio tenere ben chiuse» fece
in tempo a rispondere, prima di bloccarsi con lo sguardo perso nel vuoto per
qualche istante.
Intanto, il
suono roco e stridulo di un corno si diffuse dalla collina
al centro del cratere, rimbalzando fra una cima delle
montagne,
facendo tremare di nuovo la terra.
«Ti
hanno trovato! Sanno che sei qui! Stanno
venendo a prenderti!» disse la ragazza in un soffio,
affacciandosi al bordo della balconata
a strapiombo che dava sul circolo interno.
Alex
la segui e, scrutando la città immediatamente sottostante la
fortezza, che
sorgeva esattamente speculare
anche dall’altro lato
delle montagne, vide un gran numero di figure nere e sfuggenti
aggirarsi veloci nei vicoli,
confluendo verso le mura del forte.
«Cosa
sono quelli?» domandò lui continuando a seguire l’avanzate
delle creature.
«Spettri,
ti basti sapere questo e…» Vall si interruppe, Alex si girò per capirne il motivo.
«Non posso permettere
che ti trovino, torna qui una volta che avrai capito cosa sta succedendo, fai
presto! Non c’è molto tempo»
«COSA?!
Tornare, andare di
che stai parlando? Cosa dovrei fare? Io…io…non ho idea di…» farfugliò confuso Alex
«Mi
spiace…» lo
interruppe lei, alzando una mano,
posandola sul suo petto «E’ l’unico modo che io conosca» aggiunse, chiudendo gli occhi.
Senza
nessun preavviso, una
forza misteriosa e irresistibile scaraventò Alex oltre il bordo della balconata,
facendolo precipitare per le centinaia di metri che lo
separavano dal suolo. La
persona che lo aveva spinto ora,
aveva ripreso il suo aspetto originale e osservava impotente la caduta del suo
sosia, che
scomparse nel
nulla appena prima di impattare contro la parete rocciosa.
«Fai presto ti prego, sei la tua ultima speranza» disse sottovoce, prima di infilarsi l’elmo bianco che teneva sotto il braccio.
Si
girò, e con passo marziale si diresse verso la grande scala a chiocciola che portava ai livelli inferiori del torrione. Aveva del
lavoro da fare, La Torre d’Argento doveva
prepararsi a sostener battaglia, l’ultima battaglia se la sua parte cosciente non si
fosse sbrigata a trovare una soluzione, di questo ne era certo.
WoW! Pisco deliri! Non vedevo l’ora.
Spero
che questo capitolo vi piaccia! Io l’ho trovato interessantissimo, perché verso la fine, quando ho dovuto cercare un nome che mi sembrava appropriato per il
Palazzo d’Io, nelle mie ricerche sulla sacra Wiki ho
scoperto che praticamente avevo appena descritto nel racconto, l’Io (psicologico) del signor Freud senza saperne assolutamente una cippa. Beh, quantomeno la cosa mi ha fatto un pochino riflettere.
Comunque,
colgo l’occasione per ringraziare tutti quelli che leggeranno questo capitolo.
Saluti
Alessandro.