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L’Onomaklutòn era
universalmente riconosciuto dalla comunità LGBT quale vero e proprio Paradiso
in terra.
Era un piccolo locale alla periferia di Dion, una
sorta di disco-pub con pareti color carta da zucchero, pannelli a campitura
nera e rossa che riproducevano le maggiori meraviglie della pittura vascolare
greca, un juke-box dei bei tempi andati e un artista di punta che da solo
valeva l’intera storia della musica, da Omero fino ai giorni nostri.
Il complesso era circondato da un fitto bosco, e una
strada non asfaltata serpeggiava tra i tronchi e i cespugli spinosi,
attraversando la selva buia, per poi aprirsi a ventaglio dinanzi l’entrata:
colonnine doriche a venti scanalature, tre per lato, accompagnavano gli
avventori oltre l’architrave e gli occhi assenti di Apollo, Calliope ed Eagro, a
rilievo contro il timpano. Il tutto -Interno
ed esterno- contribuiva a dare l’idea di un sacro tempio dei bei tempi andati
–Sebbene un po’ kitsch e ampollosamente retrò.
A fare la fortuna dell’Onomaklutòn, però, era l’invulnerabilità
di cui il locale pareva essere avvolto.
Nessuno sarebbe mai stato in grado di dire con
esattezza quando avesse aperto, né chi fossero stati i primi proprietari: la
famosa sera del 28 Giugno 1969, Sylvia Rivera stava scagliando la bottiglia
contro uno dei poliziotti che avevano fatto irruzione allo Stonewall Inn, e il
cantore dell’Onomaklutòn sussurrava
parole d’amore col solo danzare dell’archetto. Nel 1940, quando i fascisti
sciamarono a frotte tra le rocce dell’aspra Grecia, la direzione del locale
venne ceduta proprio ad un soldato semplice del battaglione italiano. Sulla
parete di destra, appena entrati, ancora oggi era possibile notare la foto
incorniciata che ritraeva Gaetano Pasolini abbracciato al suo compagno di vita,
l’allora diciassettenne Filoandro di Olimpia.
E prima di allora a tenere l’Onomaklutòn era stata una giovane tedesca che da Berlino era
scappata a Dion per fuggire lo scandalo cui altrimenti avrebbe condannato la
sua famiglia, e poi uno svizzero, una francese, finanche un turco…! Non c’era
guerra, né movimento sociale o politico che fosse in grado di abbattere il
locale: era un rifugio sicuro per gay, lesbiche, bisessuali e transgender, e tutti
era pronti a scommettere che non avrebbe cessato di esserlo tanto presto.
Se non fosse stato impossibile si sarebbe detto nato
dalla stessa terra o da una delle tante fonti che chiacchieravano e
gorgogliavano in mille ruscelletti argentini.
«Forse il merito è anche dell’Artista, eh!» la
giovane rise, portandosi il dolcetto alle labbra. Afferrò il quadretto di
cioccolato bianco tra i denti e lo staccò di netto: alcune bricioline candide
le caddero sul ginocchio accavallato e lei le rimosse dalle balze cremisi della
gonna con gesto distratto.
Bruce osservò il movimento veloce delle dita, quindi
si schiarì la voce e decise di sorseggiare il caffè ormai freddo prima che
l’Altro prendesse il sopravvento perché Hulk
noia. Hulk spacca e no, non sarebbe stato molto educato far scoppiare un
pandemonio nel centro di Dion, tanto meno fracassare tavolini e seggiole del
bar, visto e considerando quanto erano stati gentili i proprietari. Natasha -O
sarebbe stato meglio parlare di Scarlett?-
annotò qualche parola sul taccuino posto con diligenza davanti a sé, tra una
brioche intoccata e dello yogurt greco lasciato a metà.
Stava interpretando il ruolo da giornalista a
meraviglia e Bruce si chiese perché fosse così sciocco da stupirsene. Era
probabile che a destabilizzarlo fosse la scioltezza e la disinvoltura con cui
l’Agente Romanoff passava da un’identità all’altra, scindendole con tale
perfezione da non correre mai il rischio di contaminarle: per uno come lui, che
a stento riusciva a mantenere la propria, la cosa era impensabile.
«Una volta, mi hanno raccontato al locale, erano
arrivati una decina di “attivisti”» la ragazza mimò le virgolette con le dita
«Contro i diritti delle persone omosessuali. Ecco. Tutti pensavano che sarebbe
successo il finimondo, e invece…!»
Lasciò la frase in sospeso e l’Agente Romanoff si
chinò di riflesso in avanti, una nota interessata a piegarle l’angolo destro
della labbra.
«E invece..?»
La giovane non si ritrasse, anzi, si piegò anche a
lei, gli occhi che roteavano in giro con una buffissima aria cospiratoria.
«Invece ha proposto loro di rimanere per lo
spettacolo del pomeriggio. Indovinate un po’? Ora sono clienti abituali dell’Onomaklutòn! Sembra quasi sia riuscito
ad ammansirli…»
Natasha lanciò un’occhiata cui Bruce rispose con un quieto
sollevarsi delle sopracciglia. Grazie ad una firma particolare riscontrata su
Thor e su un uomo di Los Angeles che, a quanto pareva, altri non era che
l’Ercole di cui aveva parlato il Dio, S.H.I.E.L.D. e S.W.O.R.D. erano stati
capaci di circoscrivere un’area d’azione relativamente piccola dove poter
cominciare le ricerche. Scoprire che Odisseo, Orfeo ed Enea potevano davvero
trovarsi nei luoghi da loro selezionati –Più per disperazione che per altre
motivazioni- era stata allo stesso tempo una sferza di ottimismo e una nota di
perplessità.
Come se ci stessero
aspettando aveva
mormorato il Dottor Banner, analizzando i dati che Nick Fury aveva passato sui
computer del Quinjet che stava portando lui e l’Agente Romanoff in Grecia.
Il problema fondamentale era trovare effettivamente il loro obiettivo, cosa
che non era per nulla facile e sulla cui riuscita Bruce aveva ancora parecchi
dubbi: Tony li aveva chiamati più volte per fare rapporto e tutte si erano
rivelate essere un vero e proprio buco nell’acqua. Se Odisseo era ad Itaca come
riportavano i controlli incrociati, non sembrava essere dell’idea di farsi
trovare; allo stesso modo, scovare Orfeo dalla sua tana si stava rivelando ben
più complicato di quanto il Dottore si era permesso di pensare appena sbarcato
a Dion.
Natasha, dopo i primi tentativi andati a vuoto,
aveva chiesto una ricerca attraverso parole chiave per restringere
ulteriormente il campo e l’unica traccia era stata quella relativa all’Onomaklutòn. Caso volle –E dopo quello
che Stark aveva raccontato loro, Bruce non sapeva se esserne felice o meno- che
a Dion-Olympos stesse soggiornando la giovane che in quel momento stava finendo
di sbocconcellare il quadratino di cioccolato.
Da quanto aveva capito dalle risposte monosillabiche
dell’Agente Romanoff, Alley -Così si faceva chiamare- era una conoscenza di
un’Agente di un non meglio specificato dipartimento dello S.H.I.E.L.D. ed era
stato proprio questa Agente a permettere loro l’incontro con la studentessa al
primo anno di Filosofia.
Natasha si era presentata come una giornalista
venuta a Dion per scrivere un articolo sui locali pro-LGBT; il Dottor Banner le
aveva stretto cortesemente la mano, smozzicando qualcosa riguardo un
supporter/fotografo/agente di Scarlett: aveva passato così tanto tempo a
nascondersi, isolarsi e abbandonare il proprio nome dietro le spalle, che
doversi inventare una nuova identità e professione di punto in bianco era stato
piuttosto complicato.
Un piccolo shock culturale ed emotivo, cui Hulk
aveva risposto con un torcersi bollente delle budella e infiammarsi di neuroni.
A Hulk non piaceva essere messo da parte, a Hulk non piaceva essere
dimenticato, a Hulk non piaceva, non piaceva e basta, non piaceva, non piaceva,
non piaceva…
Bruce deglutì e serrò la mano destra a pugno, le
unghie conficcate nella carne. Il gesto non sfuggì all’Agente Romanoff, che
subito roteò lo sguardo su di lui, riducendo la bocca ad un cordoncino nero e
scarlatto. I muscoli agli angoli delle labbra ebbero uno spasmo impercettibile,
ma come ogni volta che Hulk gli ringhiava nella testa, i sensi del Dottor
Banner risposero agli stimoli più attivi che mai: poteva vedere un filo di
sudore freddo brillare lungo la linea della tempia, colorando d’una tonalità
sanguigna l’attaccatura rossa dei capelli, appena sopra l’orecchio. Vide il
respiro scivolarle limaccioso lungo la gola e poi espandersi nei polmoni,
sollevandole il petto oltre la scollatura circolare della maglietta. Le nocche
appuntite erano livide attorno alla penna e una piccola crepa biancheggiava,
traslucida, contro il tubicino pallidiccio contenente l’inchiostro.
L’odore della paura e della tensione era più acuto
del profumo acidulo dello yogurt greco, più dolciastro del cioccolato bianco,
più forte del sole battente sugli ombrelloni a fasce arancioni e gialle fuori
dal bar, più denso del liquore che stava bevendo un anziano dietro loro, più
acre del sudore che gli disegnava chiazze mollicce sotto le ascelle, più
impertinente delle scarpette di vernice di una bambina contro il selciato che
divideva i tavolinetti dalla strada e da un negozietto di casalinghi.
«Oh, dannazione! La lezione di maieutica!» l’urlo di
Alley fu tanto improvviso che persino l’Altro grugnì, sorpreso e stupito, dando
il tempo a Bruce di riprendere il controllo; Natasha si rilassò immediatamente
e rivolse alla ragazza un sorriso impalpabile, mentre questa si alzava veloce e
lasciava accanto al caffè due biglietti colorati.
«Ascoltate, questi sono per lo spettacolo delle quattro»
spiegò, battendo con un’unghia smaltata di rosa pallido sul cartoncino «Il
problema dell’Onomaklutòn è che ci
puoi entrare se qualcuno ti invita. E’ inquietante, ti sembra di essere in un
circolo privato o di partecipare a qualche culto misterico o che so io…» una
risatina non troppo convinta, quindi si umettò il labbro superiore «Conosco il
barista, con questi avete un lasciapassare sicuro. Per gli amici di Salmace
questo ed altro! Non vi preoccupate per il conto, offro io, signorina Rushman,
signor…?» la frase sfumò in un’evidente domanda.
«Ruffalo. Edward Ruffalo.» rispose Bruce, mettendosi
in piedi e porgendole la mano. Alley ricambiò la stretta e modellò il nome
sulla lingua, forse non troppo convinta del modo in cui i due nomi suonavano
insieme. Bruce si chiese se la risata che sentiva vibrare sottopelle era
l’ilarità non detta di Natasha oppure l’Altro che si prendeva una sana
rivincita.
«Arrivederci e godetevi lo spettacolo!» li salutò la
ragazza, sventolando allegra la mano e correndo via sulla stradicciola
acciottolata bagnata di sole.
«Edward Ruffalo?»
s’informò l’Agente Romanoff e inarcò il sopracciglio con palese divertimento.
Il Dottor Banner si risedette, tossicchiando e allungò le dita a prendere i
biglietti. Spese alcuni istanti a rigirargli con attenzione tra i polpastrelli,
senza dire una parola di più.
«Avevo pensato anche a Norton, ma dubito che l’Altro avrebbe apprezzato l’ironia di
chiamarsi come un antivirus.» le rivolse un’occhiata spruzzata di lieve riso,
la bocca che si sollevava a sottolineare la strana tranquillità che lo pervadeva
nel vedere Natasha scuotere la testa, i riccioli che palpitavano contro le
orecchie e le tempie, irrorati di cremisi e di sole, le palpebre socchiuse a
lasciar intravedere una falce brillante d’iride.
Lei era l’unica che riuscisse a rilassarlo davvero,
in quel luogo: a Dion si respiravano ovunque effluvi di calma, pizzicori di
pace che risalivano inesorabilmente, inevitabilmente la carne, distendevano i
nervi, pesavano sul respiro e illanguidivano il cuore. Come una musica che
riverberasse ad infrasuoni e si diffondesse in creste e spuma di serenità
sibillina, rigagnoli iridescenti di quiete a scorrere densi, caldi nelle vene
al posto del sangue.
L’Agente Romanoff subiva a tratti l’effetto
dell’atmosfera infida, Bruce lo vedeva da come ogni tanto abbandonava lo
sguardo ad un orizzonte indefinito, l’espressione liquida e nebbiosa, la bocca
schiusa, pesante, le dita che premevano per pura inerzia contro la
ricetrasmittente all’orecchio. Ascoltava i resoconti di Tony in virtù di un
senso del dovere radicato in lei più a fondo dell’atto stesso di respirare, ma
dallo sguardo assente si capiva che del rapporto non le era rimasta alcuna
traccia.
Su di lui quel ristagno dei sensi non aveva altra
conseguenza che tendere i nervi tanto a lungo da strapparli, altro rischio che
spingerlo al punto di non ritorno: Hulk avvertiva il tentativo di Dion di
acquietarlo, di ammansirlo come una bieca bestia, e ciò lo infastidiva, lo
rendeva furioso, lo faceva ringhiare e sbraitare, colpire le costole con
poderosi pugni, mordere lo spirito, lacerare la coscienza brano dopo brano.
Osservare l’Agente Romanoff, la linea della nuca che
scivolava a formare la curva delle spalle e della schiena, la clavicola che
sporgeva dallo scollo, il profilo aguzzo delle scapole e i movimenti sicuri del
polso, la danza delle dita, il canto delle nocche, tutto di lei riusciva a
rilassarlo senza che l’Altro protestasse con la selvaggia veemenza che gli era
propria –E questo, oltre a confonderlo, riusciva a renderlo paradossalmente
inquieto.
«Natasha, non ha anche lei l’impressione che la
ricerca si stia rivelando troppo…Facile?»
le chiese, gli occhi fissi sulla lira e sul serpente intrecciati, stagliati
contro il cartoncino azzurro.
Lei rimase in silenzio per alcuni istanti, l’unghia
che percorreva a filo la trama a tralci di vite della tovaglia in plastica.
«Le è familiare il concetto di Deus Ex Machina, Dottore?» rispose con un’ulteriore domanda, ma
senza dargli il tempo di parlare «Era un espediente usato dai tragediografi
greci: quando la situazione si era fatta troppo intricata perché fosse
possibile una via di uscita, arrivava la divinità a risolvere ogni cosa.»
Bruce aggrottò la fronte e Natasha continuò.
«Quale che sia il nostro Deus Ex Machina, sta operando in ogni modo per condurci
all’Ade. Lui vuole farci arrivare lì,
sempre che tutto questo non sia solo una fortunata serie di coincidenze al
limite dell’insensato e della follia. Cosa di cui, lo ammetto, sto cominciando
a dubitare seriamente.»
Il Dottor Banner annuì, per poi girare la testa a
contemplare la placida Dion distesa sotto di loro, un labirinto di terrazze e
cupole bianche cinto dalla lingua grigio-perla del litorale, il mare una
fantasmagoria di sole e scaglie d’azzurro.
«Noi siamo attori, Agente Romanoff?»
«No, dottore. Noi siamo pedine.»
***
Thor si strinse nel mantello e il respiro si condensò
in piccole nuvole ghiacciate.
Roteò gli occhi verso l’alto, a contemplare le insignificanti,
fastidiose gocce marrognole che da
uno spunzone della roccia s’infrangevano a terra. Plic plic plic, un ritmato conteggio di secondi che il figlio di
Odino da un tempo non più quantificabile aveva smesso di trasformare in minuti
e poi in ore.
La via che l’aveva condotto lì era deserta,
sconosciuta ai più, un acciottolato di nebbia e miasmi nel ventre stesso di
Asgard. A Thor venne spontaneo chiedersi se Padre sospettasse dell’esistenza di
quel luogo o se la memoria fosse divenuta nebbia con lo scorrere dei secoli:
nulla poteva sottrarsi alla vista di Odino, o così il Dio del Tuono aveva
sempre creduto –Poi erano arrivati gli Jotunheim e tutto ciò in cui aveva
creduto fino a quel momento era stato fatto a pezzi.
Loki…Forse, forse Loki conosceva quel luogo, forse aveva
già attraversato la via impervia di liquami e mormorii durante i lunghi vagabondaggi
negli anni dell’adolescenza. Forse era proprio per quella via che aveva trovato
la salvezza dopo il colloquio tra Odino e il Signore dell’Olimpo, forse
attendeva ancora dietro una lugubre ansa l’occasione per tornare, la
possibilità di redimersi. Forse…Forse Thor si stava solo illudendo.
Ovunque suo fratello fosse andato, ovunque
l’avessero esiliato, trovarlo non sarebbe stata un’impresa semplice, neppure
fattibile. Loki era disperso.
Per quel che ne sapeva, Loki poteva anche essere morto.
«Quali funerei pensieri occupano la tua mente ed il
tuo cuore, amore mio?»
Il figlio di Odino sollevò il capo e Amora si
palesò, calando il cappuccio della mantella. I capelli ebbero un barbaglio d’oro
nel posarlesi sulle spalle e la bocca scarlatta si piegò in un bieco sorriso,
piena d’amore e d’orgoglio, enfia di un sentimento che Thor non riuscì a
definire.
«Hai fatto attenzione che nessuno ti seguisse,
Incantatrice?» l’apostrofò il Dio, le braccia incrociate al petto e la voce
diffidente. Lo sguardo della donna s’irrigidì a quelle parole, ma si trattenne
dal rispondere e lo precedette per la stretta gola che conduceva ancora più a
fondo nei meandri di Asgard.
Uno strapiombo gorgogliante di buio si gettava
suicida nel nulla ai loro piedi, grossi denti rocciosi saettavano
all’improvviso fuori dalla nebbia che ribolliva asmatica entro fenditure e
graffi litici; il loro sentiero s’incuneò più volte in spazi angusti e
strettoie al limite della claustrofobia, dove traballare anche un istante col
peso squilibrato verso destra –O sinistra, a seconda delle curve- significava
una caduta senza ritorno dentro l’abisso. Non c’erano sterpi, né segno di
vegetazione o corsi d’acqua, neanche la più labile traccia di vita. Ovunque
respiri e sussurri di granito, alcuna luce se non la sfera violacea che
gravitava sul palmo di Amora, nient’altro che i loro passi scricchiolanti lungo
la via sempre più fredda.
Scendevano e scendevano e scendevano, tanto che Thor
si chiese quanto avrebbero impiegato a risalire e se mai l’avrebbero fatto: si
fidava e allo stesso tempo non si fidava dell’Incantatrice, sia per la passione
incontrastabile che ella provava nei suoi confronti, sia perché nessuno che
possedesse il più miserevole granello di saggezza si sarebbe mai affidato
completamente ad una strega allieva delle Norne. Conosceva quella strada
unicamente grazie al retaggio funereo sulla quali aveva costruito le arti
magiche che padroneggiava con deplorevole maestria: il nero strisciante che si
appollaiava gracchiando di massi caduti accanto e sopra e sotto di loro era per
lei un animale da compagnia, da nutrire ed allevare con cure premurose, da
tenere al seno e allattare con formule e rituali oscuri quanto gli occhi di
Hela.
Amora era l’unica speranza che al figlio di Odino
era rimasta per accedere all’Ade senza che il Padre di Tutto venisse a saperlo,
ma non ne era felice. Da ciò che gli aveva detto Amora, poi, Sif e i Tre
Guerrieri stavano sviando le loro tracce, conducendo le guardie e i corvi di
Odino per ben altre strade, più accessibili e meno dimenticate, dominio del Re
e sottostanti le sue leggi. Tornare indietro avrebbe significato vanificare
ogni sforzo e condurli più inesorabilmente –O forse sarebbe stato meglio dire più velocemente ?- alla condanna e,
forse, all’esilio.
Quanto e in che modo il dolore avesse piegato Padre,
Thor non sapeva dirlo, ma una volta tornato dagli Inferi Olimpici avrebbe dato
se stesso pur di fargli tornare il senno.
Era ancora immerso in riflessioni di tal genere,
quando s’accorse che la via, ora, procedeva retta e senza più ostacoli, una
lingua grigia e nera che si stendeva dritta fino all’orizzonte; ai lati del
sentiero si ergevano fianchi di terra lucida, bagnati, tanto alti e livellati
da dare l’impressione di essere rinchiusi tra le pareti di un enorme pozzo.
Un’eco d’acqua frullava tra le pieghe dell’etere, unito ad un soffocato
zampettare e sdrucciolare di sassi, scrosciare di onde e battere d’ali. Un
riverbero perlato baluginava alla fine della strada, come pagliuzze di luna
adagiate sulle creste del mare; da terra si levava un odore indefinito di latte
cagliato, sangue e viscere di animali, e Thor poté sentire il robusto sapore
del vino macchiargli distintamente la bocca.
«Amora…» tentò di domandare, ma l’Incantatrice torse
il collo verso di lui, fece segno di tacere e continuò imperterrita a
camminare.
Più si avvicinavano all’inconsueto bagliore, più
l’olezzo aumentava e intorno si rincorreva un salmodiare lamentoso quanto
antico: nenie di donne, lacrime di fanciulli, grida di guerrieri tuonavano
contro la roccia e la roccia ripeteva i loro nomi, le loro preghiere, i loro
pianti all’infinito, perché la terra ne avesse costante memoria. Cominciarono a
profilarsi rami di piante rachitiche, bassi contorcimenti di radici grossolane
e occhi smeraldini di belva dietro il soffio gelido di guaiti infantili.
Amora s’arrestò, la sfera di luce che gettava
riflessi lividi sulla corona smaltata; alzò il braccio e indicò solenne davanti
a sé.
«Ecco il tuo passaggio per il mondo dei morti,
figlio di Odino.»
Thor la superò e fu lui, questa volta, a non
rispondere. Stracci di vento e bave di refoli gli si appiccicarono alle
caviglie, ma il Dio del Tuono non si diede per vinto e non si fermò fino a che
non fu davanti ad una porta.
Non aveva serrature, non aveva cardini né infissi:
era un semplice, seppur perfetto nella sua geometria, ritaglio della roccia. La
fascia scarlatta spessa più di cinque dita, intramezzata da due cornici dorate
più sottili, era sormontata ed affiancata, sul lato superiore e sui due
laterali, da triangoli a campitura azzurra, gialla e rossa; a destra e a
sinistra due pannelli ciascuno, uno sull’altro, con figure umane in alto e
scene di animali e belve feroci sui due più in basso. Un uomo a cavallo con un
palafreniere ad aprire la via ed un cucciolo maculato sul dorso del baio, si
dirigeva verso il lato destro della porta e sul pannello opposto un secondo
cavaliere attendeva il suo arrivo con le briglie ben strette in una mano.
Oltre la porta doveva esserci un altro luogo, ma era
indistinto, indefinito, una girandola grottesca di fumi e odore di fango. Ogni
tanto si avvertiva un rumore come uno starnazzo e un battito d’ali
sull’increspatura dell’acqua, ma oltre a quello ed il profumo umido d’un rivo,
non esisteva altro.
Il figlio di Odino sfiorò a punta di dita il profilo
della creatura alata dal volto umano che veniva aggredita da un leone con
criniera gialla e puntinata, il pelo viola e il ventre cremisi.
«Le Norne mi spiegarono…» e Thor trasalì alla voce
improvvisamente vicina dell’Incantatrice, di nuovo al proprio fianco «Che il Padre
degli Olimpici possedeva più nomi tra i mortali, sebbene per loro fosse stato
designato solamente un destino ultimo. Questa…» e passò un palmo nello spazio
etereo e vuoto della porta, che al suo tocco s’animò di mille cerchi
concentrici «E’ la via di Tinia dei Rasna, il Giove dei Tyrsenoi.»
***
«Quelle persone sembrano sotto l’effetto di
stupefacenti: guarda la dilatazione della pupilla.»
Natasha non commentò la diagnosi del Dottor Banner:
che qualcosa non andasse nel locale e in coloro che lo frequentavano le era
stato chiaro non appena superata la soglia d’ingresso.
Un’atmosfera strana ristagnava all’interno della
stanza, un’attesa languente, una calma fangosa intessuta d’invisibili fumi
d’oppiacei, una pace artificiosa dell’animo che a Vedova Nera sembrava la
conseguenza dell’hashish descritta da Baudelaire che qualche bicchiere di
troppo. Gli avventori stavano in silenzio con le teste reclinate su una spalla,
lo sguardo perso in lontananza ed un respiro sempre appeso alle labbra.
Sospiravano in continuazione, non per noia, non per dolore, non era un gemito
di dolore, né frustrazione. Semplicemente…sospiravano. Estatici. Osservavano un mondo oltre l’umano, si sarebbe detto,
immersi fin dentro le ossa in una realtà sconosciuta e impenetrabile per
chiunque non avesse ricevuto l’invito a penetrare i loro segreti più reconditi.
Una sospensione, un’attesa misterica che a Natasha
faceva salire i brividi lungo la schiena.
Lei e Bruce scelsero un tavolino in ombra, sotto la
stampa che riproduceva una pittura vascolare a figure rosse; un cono di luce
soffusa si adagiava pigramente sulla curva delle sedie metalliche e una piccola
candela ardeva entro una sfera di plastica verde tagliata sulla sommità.
Nessuno venne a chiedere loro l’ordinazione, per quanto il barista sembrasse il
più ricettivo tra i presenti.
Il Dottor Banner le rivolse un’occhiata
interrogativa, cui la Romanoff rispose con un sollevarsi perplesso del
sopracciglio. Non avevano molte scelte, l’unica cosa che potevano fare era
aspettare.
E così fecero, ascoltando i sospiri degli uomini, i
fruscii delle gonne, il singhiozzare palpitante delle candele. Non c’erano
orologi, sicché l’aria era ancora più pesante, opprimente e non esisteva modo
di dire quanti minuti fossero passati, né se all’Onomaklutòn esistesse una effettiva quantificazione temporale. Era
un mondo a parte, un microcosmo di bottiglie lucide e bicchieri colmi di un
liquore che nessuno beveva, di dita intrecciate senza convinzione, mani strette
palmo contro palmo, ma prive di un vero contatto umano.
Il liquame si smosse quando quello che Alley aveva
chiamato l’Artista salì sul minuscolo
palco addossato alla parete di fondo. Natasha e Bruce trasalirono
all’apparizione improvvisa, perché non un rumore, non una voce o un balbettare
di passi avevano annunciato l’arrivo dell’uomo. Nessuno lo aveva presentato e
lui si fermò con tranquilla noncuranza al centro della scena, fasci tubolari di
luci che chiazzavano di bianco le spalle appuntite del soprabito nero.
Dinoccolato, col viso rettangolare e dai tratti
lunghi, rigidi, decisi, l’Artista appoggiò una custodia di pelle scura sullo
sgabello al suo fianco; i led affondarono negli zigomi alti e affilati, che
sporgevano da sotto gli occhi come perfette cuspidi triangolari. Le iridi
grigio-verdi, sovrastate da spesse sopracciglia brune, quasi rosse,
scandagliarono con freddezza l’intorno, le labbra piene incurvate in
un’inflessibile espressione di superiorità. I capelli scendevano in un ruggito
di riccioli neri dietro alle orecchie e s’arrestavano appena sopra la nuca,
mentre sulla fronte curvavano a formare un’onda che andava a solleticare, in
parte, la terminazione dell’occhio destro.
La sciarpa antracite gli cingeva ferrea la gola,
scomparendo all’altezza del petto nel colletto triangolare tenuto alzato sulle
spalle. La camicia bianca s’intravide appena nel momento in cui sollevò il
violino e lo pose elegantemente sulla clavicola, l’archetto alto sopra la
testa, le dita affusolate ne trattenevano con dolce costrizione crine e corpo
ligneo.
Sorrise con un ghigno di vuoto divertimento e un
riverbero d’eccitazione vibrò crocchiolando per tutta la sala.
L’Artista accarezzò le corde e Natasha tornò Natalia
in un singhiozzo bianco di neve.
C’era la penombra della platea, una lunga mano nera
stretta al velluto dei sedili; una donna in prima fila, una folta pelliccia
nera attorno al collo bianco da cigno, bocca carminia stretta a delineare la
forma di un cuore trasudante sensualità e bellezza; i capelli erano tirati in
una crocchia ramata di diamanti, alta sulla testa. Come tanti lumini, come
tante stelle, la tiara le ricadeva sulle tempie e sulla fronte in tante gocce
dalle cento e mille sfaccettature. Ogni angolo del gioiello catturava il
luminoso brulichio delle lampade a gas, il canto arancio della fiammella, e
sfarfallava all’intorno meravigliosi giochi rubicondi, colando con un che di
misterioso e attraente negli occhi scuri, concedendo un malizioso buffetto di
colore alle gote appena spruzzate di belletto.
Natalia si nascose ancora e di nuovo, il tremito del
sipario arabescato a ridacchiarle dietro le spalle. Sentiva il cuore in gola,
le ginocchia come fango: era sgraziata, era priva di talento, perché, oh,
perché il Bol'šoj aveva voluto farla prima ballerina? Ah! Mamma, povera mamma,
guarda con che scherno la Russia ancora si prende gioco di noi, della nostra
famiglia decaduta! Dell’ultima figlia degli Zar hanno fatto una bambola vestita
di puntolini luminescenti, l’hanno imbellettata come una di quelle poco di
buono che agli angoli delle strade si svendono alle pance della Nomenklatura,
oh, mamma, povera mamma! Sangue di regina muffito di trecento anni, ecco cos’è
Natalia Alianovna Romanova! Credevo fosse un sogno e invece…! Il sangue che
macchia la Mano asperge ghignando le mie dita e forse questo non è che un
ricordo, forse non è che illusione, e la donna dalla tiara paradisiaca è solo
un ultimo, mero disgregarsi dei sensi.
Però com’è bella, mamma. Mi ricorda te, la stessa
alterigia, la stessa bellezza della più splendida delle donne russe, tu, Sovrana
del vento, Duchessa della steppa. Vorrei che fossi qui a vedermi ballare, che
sia sogno o realtà non importa, perché la tua mancanza trascende finanche il
disfarsi del vero.
Quando il sipario rivelò la sua schiena bianca, Natalia
aveva ancora le mani giunte al petto e l’espressione persa agli attrezzi di
scena sopra la testa, quel labirinto di ruggenti mostri metallici. Il violino
le urlò nelle orecchie e le scorse nelle vene, nuovo sangue e nuovo spirito:
spiegò le braccia e sulle ali della melodia girò il viso ai mali del mondo. Con
gli occhi socchiusi e ottenebrati di bellezza, non c’erano né incendi né
fiamme, non calci di pistole e tanto meno addestramenti tanto duri da
desiderare la morte, cadere e non più svegliarsi, dormire un sonno infinito
senza colori e senza suoni.
Esisteva solo la musica e le scarpette che
sfioravano in un turbine impercettibile di gesso le assi del palco e le dita di
Natalia che disegnavano l’amore del Cigno, i polsi che con un schioccante
roteare dei legamenti ne preannunciavano l’ultimo canto, la dolce, serena
disperazione, mille occhi di vecchi passati, vestigia antiche, bicchieri di
cristallo che brindavano alla Russia, alla Guerra più fredda del ghiaccio, e
no, non pensare, Natalia, lascia che il violino parli per te e per te canti e
urli e gridi e immagini altri mondi e altri universi e altri amori e altre
vite! Un passo ancora nel boato della musica, le unghie artigliate al tessuto
dell’esistenza, a strappare e squarciare i toni cupi del mondo, a sostituirli
con armonie di albe e sussurri di tramonti e bisbigli sorridenti di stelle e
baci caldi di luna, le carezze del sole al ventre e sopra il seno. Una
piroetta, il torace spinto in avanti, il palco che si allarga, la luce che
esplode e deflagra nel salto finale in tanti rigagnoli palpitanti.
La Regina in prima fila si alza e, oh, meraviglia
delle meraviglie! Natalia-ballerina osserva e anela con sguardo estatico gli
occhi amorevoli di Natalia-Sovrana e nessuno più comanda, nessuno più ordina,
le catene dei capi si sciolgono con un clangore di libertà e la pace si
diffonde e ramifica nel petto. Natalia si fonde a se stessa, chiude gli occhi,
s’abbandona.
La musica scema, il violino permane e crea per lei
una culla di pentagrammi, un cuscino di note. Il mondo, ah, che importa del
mondo? Si spengono le luci del Bol'šoj, cala lento il sipario, si allontanano
gli attori e l’orchestra depone gli strumenti. Resta solo il violinista dagli
occhi grigio-verdi, ritto e splendido nello sfolgorio di un lampo misterico.
Non parla, ma le rivela ogni cosa ed ogni parola, e ogni amplesso tra archetto
e violino è una nuova onda di pace che le monta nel cuore e le scivola via
dalle labbra aperte in un guaito di piacevole sconfitta.
Continua a suonare, Artista, suona ancora, suona per
sempre, cancella il dolore e la rabbia, suona e sgretola la nota rossa, il
sangue purpureo, l’obbligazione e l’amore, cancella anche me e suona, suona per
sempre, suona ancora, suona e annullami, annullami e rendimi musica, rendimi musica
e…
«Natasha…»
Vedova Nera sussultò e riemerse in un rombare di
brividi. La carne fremette, i nervi s’accartocciarono e s’avvoltolarono attorno
alle ossa piegate, gemendo e piangendo una litania disperata di rimpianto e
costernazione. L’Artista stava ancora suonando, ma la sua melodia era divenuta
meno di un sussurro alle orecchie di Natasha, ora pieni del battito frenetico
del proprio cuore.
Sbatté le palpebre più volte, per schiarirsi la
vista e la mente, quindi si girò ad osservare il volto esangue del Dottor
Banner: era provato da una strenua resistenza, lo vedeva dal colorito livido
delle guance e dell’orbita, dalla linea dura della mascella, da come il respiro
claudicava nella gola a causa della deglutizione forzata. Dietro le lenti
rettangolari, gli occhi erano tinti d’un verde intenso, segno che una parte di
lui –Hulk, la bestia, il mostro- lottava senza requie contro l’annullamento e
l’incanto.
A cosa si fosse appigliato per evitare la
trasformazione, Natasha non seppe dirlo fino a che non si accorse delle dita di
Banner strette con violenza alle proprie.
***
Clint sollevò la freccia, rigirando l’asta metallica
tra le dita e sollevando il mento per meglio controllare la cosa da ogni
angolazione possibile. Il ratto conficcato nella cuspide ebbe un ultimo spasmo
e infine si rilassò con un unico, rigido distendersi delle zampette pallide. Le
vibrisse si afflosciarono sul muso triangolare, gli occhi liquidi scolorirono,
virando da un nero intenso a un insignificante grigio slavato.
L’Agente pressò le labbra fino a ridurle ad una
linea tagliente sul volto cupo, quindi esalò un respiro, tolse l’animale dalla
punta della freccia e lo lanciò di malagrazia nel mucchietto di roditori poco
distante; si piegò sulle ginocchia e col braccio teso dietro alla schiena
rimise il dardo nella faretra. Sotto di lui, la camera ardente era solo un
ritaglio obliquo dalla penombra delle scale, un frammento poligonale di teste e
occhi, mani tremule di donne strette al fazzoletto, dita sicure di Agenti a
sfiorare prudentemente il calcio della pistola.
Aveva già riferito a Stark dell’allegra brigata
squittente –Sorvolando sul fatto che l’arciere migliore dello S.H.I.E.L.D.
fosse stato costretto ad improvvisarsi Pifferaio di Hamelin-, ma quello che
all’inizio era passato per una semplice necessità di derattizzazione, da alcune
ore aveva cominciato ad assumere tratti appena appena inquietanti: vero che
voci non confermate –Pepper- avevano
più volte raccontato di Sandwich redivivi che sgambettavano felici e gioiosi
nel laboratorio di Stark, ma a tutto c’era un limite. Soprattutto se il “tutto”
ed il “limite” erano la stessa cosa, ossia la stanza dove Capitan America dormiva
il suo ultimo sonno.
Due topi erano una facile battuta, cinque una
raccomandata espressa al servizio di igiene statale, dieci qualcosa che non quadrava né nel cerchio, né oltre.
Undici si corresse Barton, voltandosi
di scatto, la freccia già incoccata. Un istante, clock, il sibilo, uno squittio sommesso e un grumo d’ombra dove
l’animale si era appena accasciato.
«Signore» Clint portò due dita a premere la
ricetrasmittente che teneva nell’orecchio «Venga, abbiamo un problema»
Coulson impiegò esattamente tre minuti e
cinquantotto secondi ad arrivare e in quell’impercettibile lasso, l’arciere
aveva fatto in tempo a colpire un altro ratto.
Dodici pensò, lanciando la bestiola
verso il mucchietto peloso che già aveva cominciato a sollevare un odore
parecchio fastidioso. Che l’odore
fosse vero e proprio tanfo, Occhio di
Falco lo sospettò da come Phil si fermò sull’ultimo scalino, sbatté le palpebre
e deglutì con esasperata lentezza quel poco di ossigeno depurato proveniente
dalla camera sottostante.
«Cosa succede?» chiese poi, la voce arrochita e gli
occhi lucidi per lo sgradevole olezzo.
«Mi spiace averla distolta dal suo animato dialogo
con la signorina Danvers» a quelle parole, Coulson rispose col più eloquente
inarcamento sopraccigliare del repertorio «Ma temo che loro non siano sulla
lista degli invitati» e indicò col pollice la grottesca piramide.
Clint se ne stette in un angolo mentre il superiore
procedeva all’ispezione: questi, per prima cosa, afferrò i pantaloni a livello
delle ginocchia e ne alzò l’orlo, quindi piegò la gamba destra e sottili grinze
si crearono sul dorso della scarpa quando la fece scivolare piano dietro di sé.
Con un ginocchio a terra e l’altro poggiato contro l’addome, Coulson chinò la
schiena in avanti: rigature profonde incidevano la fronte altrimenti piana, le
labbra erano appena schiuse nell’atto di concentrare ogni sforzo a capire come
tanti, ma pur sempre topi, potessero costituire un problema, il pelo irto degli
animaletti che si genufletteva al tocco metodico dei polpastrelli.
«Cos’hai in mente, Barton?» domandò, alla fine
l’avambraccio abbandonato sul ginocchio. Il Falco passò una nocca sulla punta
del naso, per poi puntare l’indice contro l’ammasso di ratti.
«Vermin.» rispose e annuì a se stesso con un
movimento convinto del capo.
Phil, sbalordito, lo guardò e tornò ad osservare il
mucchio ispido di cadaveri. Scrollò il capo e tolse un po’ di polvere dalla
spalla, ma Barton conosceva l’uomo abbastanza bene per capire come quel gesto
servisse solo a dargli la possibilità di connettere quanti più particolari possibili,
il tutto ad una velocità disarmante.
Stark era bravo, dannatamente bravo, a sciorinare
ipotesi e proporre teorie che nemmeno Sherlock Holmes della BBC, ma Phil era…strabiliante, non esisteva maniera
diversa per definirlo. Tony Stark
poteva anche essere il Robert Downey Jr. della situazione, ma Coulson era
uscito direttamente dall’inchiostro di Sir Arthur Conan Doyle –E per il
comportamento, la lealtà, il coraggio, per il suo essere così dannatamente Phil
Coulson, Barton lo accostava senza problemi a Watson, o, ancora meglio, lo
considerava la perfetta, esplosiva miscela tra i due. Sebbene Phil non avesse
nulla di Jude Law e nemmeno di Martin Freeman.
Se solo non avesse avuto quell’aria paciosa di
perenne buontempone, forse la gente -Villains o meno che fossero- avrebbe
cominciato a prenderlo più sul serio e meno per i fondelli. Sebbene, a onor del
vero, l’essere minacciati da quel suo sorrisetto mefistofelico era parecchio
terrorizzante.
Oh, non che Clint avesse pensato chissà quale
meraviglia nell’incontrarlo la prima volta. Chi avrebbe mai preso sul serio un
tizio qualunque del pubblico che dal niente lanciava una monetina in aria,
sfidandolo in maniera plateale a colpirla e a dimostrare di essere davvero Il più grande tiratore scelto del mondo.
“Sono l’Agente
Coulson, signor Barton. Dallo S.H.I.E.L.D. E lei mi deve un nichelino”
«Vermin è un caso archiviato anni fa, Agente, e si
trattava di pedinamento, nulla di più. Non avrebbe motivo di appostare i suoi
amichetti qui.»
Occhio di Falco non disse nulla.
Si alzò. Sganciò l’arco dalle spalle. Sfiorò a punta
di dita l’impennaggio ferreo della freccia mentre la sfilava dalla faretra.
Incoccò.
Un singulto d’aria.
Phil non si mosse, nemmeno quando la cuspide del
dardo gli passò tanto vicino da disegnare un’ombra scura sulla tempia.
«Allora consiglierei di portare qui qualche gatto, signore.»
L’ennesimo topo scricchiolò gemendo contro il
pavimento.
Tredici.
Il prossimo che si alza sarà il primo a morire.
Coulson gettò
un’occhiata veloce al minuscolo cadavere. Quindi si rimise in piedi.
Il cuore di
Barton perse istantaneamente un battito.
***
L’Artista chiuse la porticina dietro le spalle e
rimase per qualche secondo con le dita attorno al pomello. Sollevò le
sopracciglia rosso-bruno, sospirò e quindi, inarcando un poco le spalle
all’indietro, girò il volto a fissare un punto preciso tra le ombre chiazzate
di rosso che dominavano il retro dell’ Onomaklutòn.
«E’ probabile che non sappia bene come rapportarmi
con i miei…come li chiamate, oggi? Fans…?
Ma non vedo alcun bisogno di nascondersi. Prego, venite avanti.»
Bruce stette a fissare la schiena di Natasha che si
allontanava dal loro nascondiglio, salvo poi seguirla con una certa e quanto
mai palpabile riluttanza. Affondò i pugni nelle tasche del giaccone, la testa
incassata tra le spalle, ben sapendo di assomigliare così ad una sottospecie di
bozzolo bitorzoluto e infagottato dentro una sgualcita camicia a quadri.
L’Agente Romanoff fece qualche passo in avanti e
Hulk si agitò in un angolo recondito del suo animo: dacché lo spettacolo si era
concluso, Natasha non pareva essersi ripresa del tutto dagli effetti del
violino. Traballava incerta sulle gambe, ogni tanto, e perdeva il filo dei
discorsi e dei propri pensieri; lui, invece, era riuscito a mantenere la presa
su di sé grazie al moto di ribellione dell’Altro, per nulla disposto a
lasciarsi domare come un leone da circo.
L’Artista pressò le labbra e pose la custodia sul
gradino che scendeva dall’uscita di servizio, sedendosi poi accanto ad essa.
Appoggiò i palmi delle mani uno contro l’altro, la bocca schiusa a mostrare la
fila di denti superiori e i lati degli indici che sfioravano la punta del naso.
«Dunque, donna?»
L’appellativo fece scattare qualcosa dentro Natasha,
che si fermò proprio davanti all’Artista e mise le braccia conserte al petto. A
prima vista sembrava aver assunto la stessa aria con cui gli si era presentata
in India, pensò Bruce, eppure c’era una nota profondamente diversa: nella
catapecchia l’atteggiamento denotava comunque una lieve apertura, una pacifica
prospettiva di dialogo. In quel momento a regnare era solo il gelo.
«Tale astio da parte sua non è necessario» mormorò,
piegando appena la testa sulla spalla «Non sono una Menade, non è mia
intenzione farla a pezzi.»
Banner notò la pupilla dell’Artista dilatarsi per la
sorpresa e per una sorta di piacere inaspettato, quasi quella notizia fosse per
lui un delizioso passatempo.
«Dunque è così!» esclamò, abbassando le braccia e
posizionando la custodia sulle ginocchia «Le voci dell’etere non erano
menzogne! L’Ade si concede ad un mortale, come la peggiore delle puttane!»
L’Agente Romanoff arcuò un sopracciglio mentre Orfeo
continuava nel suo soliloquio e giocherellava con la doppia chiusura della
custodia. Hulk ringhiò un avvertimento sordo nel cervello di Bruce, che dovette
portarsi una mano alla tempia per attutire il dolore e la confusione
improvvisa.
«Ma i ruscelli parlavano di un uomo vestito di
ferro, un morto che cammina fra di noi. Cosa mi mandano gli Dei, invece? Una donna e tu» Banner alzò la testa, chiamato
in causa senza che riuscisse a comprenderne il motivo «Un uomo i cui occhi non
sono quelli di chi ha perso l’Amore della propria esistenza, ma di colui che ha
appena ritrovato un barlume di speranza!» Orfeo ghignò, malevolo, e prese il
violino fra le mani, la custodia di nuovo a terra «Ma chiunque voi siate,
qualunque sia la vostra missione, non potete concluderla da soli: avete bisogno
di un segugio a tre teste che vi conduca ai Templi Acherontei» pose lo
strumento sulla spalla, l’archetto già pronto sulle corde «E venite qui, alla
mia Dimora, venite a disturbare i miei Riti Misterici, gli ultimi, forse, che
ancora si celebrano in questo luogo di vestigia polverose!» rise di una risata
fredda, tanto vuota e impersonale da pizzicare la colonna vertebrale con
brividi irosi «Venite qui e pensate che io vi accordi il mio aiuto senza
questione alcuna, piegando il capo e Sì,
dicendo, sì, verrò! Vi guiderò alle ombre
che hanno preso la mia sposa! Alla morte che ha trasformato il suo bel volto in
un teschio, in una casa di vermi e di fango! Sì, sì, verrò!» si levò in
piedi, gli occhi socchiusi, le iridi frammenti di specchio, vitrei e scuri.
Il ringhio di Hulk nel torace si fece più forte,
tanto da coprire ogni altro rumore.
«Troppe
preoccupazioni nel vostro cuore, mortali. Lasciate che Orfeo ponga loro fine…»
E Bruce avrebbe voluto gridare a Natasha di stare
attenta, Natasha che già guardava un mondo che non apparteneva ad altri che a
lei, Natasha che aveva lasciato cadere le spalle non appena la prima nota aveva
piroettato sulle corde del violino, Natasha che era la persona per cui non
ficcarsi un’altra volta la canna della pistola tra i denti.
Avrebbe voluto gridare, ma ciò che gli proruppe
dalla gola fu un ruggito di rabbia, un convulso vomitare di ira e furia cieca.
Il fuoco divampò nei polmoni, l’Altro gli afferrò le costole e le aprì come
avrebbe fatto con le sbarre di una gabbia, gli ruppe il petto, fuoriuscì con un
ennesimo urlo, Hulk spacca! Hulk vendica!
perchè a Hulk non piaceva essere messo da parte, a Hulk non piaceva essere addomesticato,
a Hulk non piaceva essere domato, a Hulk non piaceva che Natasha fissasse il
vuoto, a Hulk piaceva Natasha viva, a Hulk non piaceva un involucro vuoto di
carne e respiro.
Hulk si abbatté su di Orfeo e lo scaraventò con un
pugno oltre il retro del locale. Snudò i denti lucidi di saliva e si batté il
petto, strappandosi di dosso gli ultimi resti della camicia; si piegò sulle
ginocchia, saltò in avanti, ruggì e latrò, mentre il piccolo uomo col violino
rotolava tra il fogliame e tentava malamente di rimettersi in piedi. Lo
raggiunse con un balzo, lo colpì al viso con le nocche e lo mandò contro un
albero: la corteccia scricchiolò e s’infranse in un tripudio di schegge, il
tronco gemette, si sfaldò, il piccolo uomo col violino si aggrappò al ceppo
dentellato, rialzò gli occhi sgranati e Hulk gli fu addosso, di nuovo e ancora,
lo afferrò per il colletto e lo lanciò lontano, quasi fosse una marionetta o
meno di un giocattolo, lo lanciò contro i rami e le sterpaglie e sterpaglie e
rami gli lacerarono il soprabito e gli graffiarono il volto e quando atterrò
sul piazzale, Hulk era già pronto ad assalirlo un’altra volta.
Il violino del piccolo uomo era ancora integro e
questo fece ribollire Hulk di rabbia: la voce fastidiosa e ronzante di Banner
gli disse all’orecchio che era il violino a rendere Natasha non più Natasha, a
farlo innervosire, perché il violino poteva ammansire le belve, placare gli
animali, ma lui non era un animale, non era una belva, era Hulk e Hulk era
meglio di una bestia, era più di un essere umano e sapeva, sapeva bene che il
violino era da distruggere e spaccare e fare a pezzi e lo avrebbe fatto a
pezzi, spaccato, distrutto, doveva solo mettergli le mani addosso.
Ruggì, le vene del collo sul limite di scoppiare, i
denti che stridevano e strillavano l’uno contro l’altro, e Natasha era dietro
di lui e lo chiamava, Bruce! Bruce!
Diceva e pregava, ma Hulk non sarebbe tornato Banner, perché Banner era debole
e si sarebbe ammansito, ma Hulk no e se Hulk non si ammansiva poteva difendere
Natasha, poteva proteggerla dal piccolo uomo col violino, poteva difenderla dal
suono di zanzara che le appiattiva gli occhi e Hulk spacca! Hulk vendica! Hulk protegge!
Il piccolo uomo col violino gattonò in avanti, ma Hulk
non gli permise di allontanarsi oltre: lo sollevò, gli strappò il soprabito
sporco e lercio e lurido, lo scosse più e più volte, con molta, tanta forza
fino a che il violino del piccolo uomo non cadde a terra e tintinnò e
l’archetto lo raggiunse, e allora Hulk ragliò soddisfatto e abbaiò divertito e
la faccia del piccolo uomo era pallida e viola e lo guardava ed era
terrorizzato e aveva paura di Hulk e Hulk sentiva ancora Natasha che lo
chiamava e gli diceva di farlo scendere, perché l’avrebbe ucciso e a loro
serviva, ma Hulk non voleva ucciderlo, voleva solo giocare col piccolo uomo,
fargli vedere e capire che non poteva ammansire e addestrare nessuno e che lui,
Hulk, non glielo avrebbe permesso, perché il suo violino era fastidioso, era
una zanzara, era un insetto e gli insetti si schiacciano e Hulk spacca! Hulk vendica! Hulk protegge! e non lo avrebbe fatto
suonare di nuovo, a Hulk non piaceva, come non gli piaceva quel posto, non gli
piaceva quel bosco, quell’aria di pace che lo imprigionava e tentava di rimpicciolirlo
e ridimensionarlo e Hulk non ci stava, Hulk non sarebbe stato zitto, Hulk
avrebbe urlato e gridato e gridato e urlato perché lui c’era, lui esisteva e
Banner voleva solo rinchiuderlo e lui non voleva e Banner non l’avrebbe mai
fatto, mai, neanche in quel posto, neanche in quel bosco, neanche con quel
violino che tutto placava.
«Hulk! Hulk, lascialo! Hulk, lo stai uccidendo!»
Hulk. Lascialo.
Senti Natasha, non è vero? Lo stai uccidendo. Non possiamo ucciderlo. Non
possiamo.
Hulk roteò il piccolo uomo sopra la testa, ignorandone
il gemito strozzato.
Banner sta zitto, Banner non dice nulla, Banner
vuole solo prendere il posto di Hulk, Hulk
no, lascialo, ora. Lascia spazio a me, Hulk, Hulk non vuole essere
dimenticato, Banner dimentica e frena Hulk e lo soffoca e lo tiene nascosto e Hulk, per favore, per favore fammi tornare.
Lo stai uccidendo. Natasha non vuole che lo uccidiamo. Fammi tornare, Hulk, per
favore, perché Banner dimentica Hulk e lo crede un mostro e una belva, per favore, Hulk!
«Hulk!»
Hulk grugnì e lanciò il piccolo uomo contro un
albero. Vide la testa del piccolo uomo rimbalzare, blop blop, sul petto, e sangue sulla fronte e sulla faccia
bianchiccia e cadere come un bambolotto senza fili ai piedi del tronco. Rimase
lì e non si mosse, ma Hulk poteva sentire ancora il suo fiato, lo sentiva,
puzzava di sudore e di paura e di cosa viva morta già da un po’ di tempo, non
era cadavere, ma in qualche era morto, ma ad Hulk non importava, non l’aveva
ucciso perché Natasha aveva detto di non farlo e Natasha ora aveva la mano sul
suo braccio e il tocco era leggero, le dita erano sottili e belle, i
polpastrelli carezzavano con dolcezza la pelle nuda. La voce era gentile, un
sussurro appena, un quieto sussurro di vento e di brezza, una nenia
rassicurante, il nome modellato avanti e indietro, indietro e avanti, piano,
con calma, con calma, piano…
Bruce perse l’equilibrio, il cervello una pasta
filamentosa di pensieri contorti, lontano il riverbero e l’eco dell’ultimo
ruggito di Hulk.
Sarebbe caduto in avanti se non ci fossero state le
braccia dell’Agente Romanoff a sostenerlo.
***
«S.H.I.E.L.D.» Bruno sputò fuori quel nome con
rabbia, accompagnandolo ad un bolo di saliva e ad un rigurgito di vino acido.
Si passò il dorso della mano sulle labbra, per poi lanciare un’occhiata
sprezzante al sudicio compagno accoccolato poco più avanti: avvolto in stracci
che puzzavano peggio dei liquami dell’Arno, la sottospecie di pantegana umana
rantolava piagnistei soffocati e si torceva le dita luride e biascicava qualche
porcheria tra i denti gialli ed innaturalmente appuntiti.
«Erano ratti, per Dio! Ratti. Chissenefrega se sono crepati»
L’abitante delle fogne scattò in piedi e gli fu
addosso in un balzo, le unghie artigliate al pastrano e il naso gocciolante a
pochi centimetri dal suo; l’italiano storse le labbra, piantandogli una mano in
mezzo alla faccia rognosa e rispendendolo indietro. Vermin zampettò e
s’accucciò in un angolo, masticando poltiglia non meglio identificata tra le
guance pelose.
«Ratti? Tu dici, ratti?»
sibilò «Senza quei ratti, tu non
avresti mai scoperto di…» un gesto vago con il braccio avvizzito «Loro!»
Bruno sollevò le sopracciglia. E che cazzo, ma certa
gente viveva sulla Terra unicamente per rubare ossigeno?
«S.H.I.E.L.D. » spiegò, rimettendosi in piedi e
togliendosi con fare schifato un rimasuglio di tampax dalla manica destra
«Strategic Homeland Intervention, Enforcement and Logistic Division. Cristo, ma era ancora zeppo di sangue!»
Vermin rivolse su di lui gli occhietti acquosi, le
narici dilatate e, Bruno ne era praticamente certo, le orecchie triangolari ben
ritte contro le tempie.
«Tu non hai mai avuto problemi con la Cura, vero,
sorcio amico mio?» un sorriso storto mentre si accovaccia a raccogliere la
fedele bottiglia di vino e se la portava alle labbra «Buon per te»
Lui, oh,
lui sì che aveva avuto la sfortuna di incappare nelle conseguenze che quegli
idioti della Worthington avevano tirato su con la loro idea geniale di
sopprimere il gene mutante. Magneto aveva fatto i suoi bei casini con la storia
della rivolta, l’italiano non diceva di no, ma almeno aveva avuto il buon gusto
di sparire dagli schermi per, uhm, facevano sette anni ormai, giusto? e non
lasciare nulla dietro di sé.
La casa farmaceutica, invece, non aveva cancellato proprio
tutti tutti i file relativi alla Cura –Che fossero stati tanti idioti da
tenerla in serbo per quando i tempi fossero stati maturi e la gente ancora più
cretina?- e lo S.H.I.E.L.D. non si era fatto certo scappare la possibilità di
metterci le mani sopra.
Figurarsi.
A quei capoccioni non governativi avere dei mutanti
dalla propria parte poteva ancora far comodo, ma gli schizzoidi fuori legge e
potenzialmente pericolosi dovevano essere eliminati prima che fosse troppo
tardi. E Bruno era un mutante schizzoide, che giocherellava col sangue in
maniera non potenzialmente, ma decisamente
pericolosa: ritrovarsi con un mandato di cattura tra capo e collo era stato
più logico di quando avevano cercato di portarlo in gattabuia, dopo aver sgozzato
il docente di Letteratura Latina.
Se non fosse stato per il senatore McCoy
–Dannazione, quella Bestia aveva un fiuto niente male- e la sua ferrea
opposizione all’uso della Cura come inibitore criminale, lui sarebbe stato
ancora costretto a correre da una parte all’altra di Manhattan per sfuggire
agli Agenti, ad accartocciarsi in qualche lurido pisciatoio, a non mangiare per
giorni e a farsi venire il torcicollo a suon di guardare il cielo o a tendersi
alla ricerca di un suono, uno scalpiccio di piede, il singulto di una
pallottola.
Una vita ancora più di Inferno di quanto già non
fosse e tutta per colpa loro, di quei bastardi vestiti di kevlar o simil pelle
o che cazzo era. Tutta colpa loro. Di uno in particolare, quello che lo stanava
dodici volte su dieci, che l’aveva trascinato in un bugigattolo rancido, che
era arrivato ad un passo dal piantargli un ago in vena e che si era fermato
giusto giusto perché dai piani alti era giunta la novella del Senatore Blu.
Bruno sorrise, un ghigno grottesco a tagliargli
obliquamente la bocca.
Quella baldracca. Gli aveva parlato di vendetta,
quando era venuta a reclutarlo.
Mannaggia a lei. Ne sapeva una più del demonio.
«Brindo a te, Phil Coulson» ridacchiò, stringendo le
labbra della bottiglia tra i denti storti «E a quando ti taglierò di netto
lingua e gola, figlio di puttana che non sei altro»
***
Orfeo tamponò la ferita alla bocca con un angolo del
fazzoletto.
Una macchia rossa dai bordi slabbrati sbocciò
liquida sulla stoffa, colando con un che di appiccicoso contro le dita serrate
e pallide dell’Artista. Bruce corse con lo sguardo sui rimasugli di sangue che
ancora gli incrostavano il volto all’altezza dello zigomo destro, un bozzo
livido alla tempia e l’occhio sinistro cerchiato di nero-violaceo. Orfeo stirò
le labbra sottili in un sorrisetto derisorio e la minuscola ferita all’angolo
della bocca si riaprì, stillando una gocciolina gonfia di riflessi lividi.
«Contempli la tua opera, Uomo-Belva?»
Banner non raccolse la provocazione e si strinse negli
abiti dannatamente larghi che l’altro si era fatto procurare dal barista dell’Onomaklutòn, quasi accucciandosi e
rintanandosi dentro le falde del maglione più grande di due taglie. I muscoli
urlavano e le ossa gemevano, il sangue sgomitava contro le pareti delle arterie
spossate per farsi un po’ di strada nel di nuovo ristretto apparato
circolatorio.
Aveva smesso di tremare, il che era un bene, ma le
ginocchia si rifiutavano ostinatamente di reggere il suo peso, disfatte come un
gomitolo di lana: oltre che debole, si sentiva inutile, e la cosa non
migliorava certo il proprio umore –Già storto di per sé a causa della
trasformazione inversa da Hulk a Banner. L’Altro non era mai felice di tornare
alle dimensioni di essere umano e glielo faceva presente, glielo faceva pesare
ogni volta lasciandosi dietro nausea, giramenti di testa, problemi alla vista,
e soprattutto un palpabile senso di rabbia vertiginosa, di impotenza, di
umiliazione.
In simili condizioni non era la compagnia più
adatta, neanche dopo lo scontro che aveva convinto
Orfeo ad unirsi, seppur con qualche palese ritrosia, alla loro causa: aveva
quindi suggerito a Natasha ad allontanarsi per informare Tony sul risultato
della missione, mentre lui rimaneva di guardia, il violino ben lontano dal suo
proprietario.
Bruce tamburellò con le dita sulla custodia di
pelle, il tump tump tump cadenzato
dei polpastrelli che cominciava ad accordarsi al battito più regolare del
cuore; l’Artista, seduto su un ceppo sbranato dalla furia di Hulk, contorse la
bocca a formare una smorfia sogghignante e saputa, cui il Dottore, ancora
volta, evitò accuratamente di rispondere. Torse invece il collo ad osservare
l’Agente Romanoff, in piedi nella piazzola antistante l’entrata dell’Onomaklutòn.
La circondava la luce soffusa delle torce fuori dal
locale, accesesi non appena il sole aveva levato un ultimo braccio rossastro
contro l’orizzonte. Il tramonto si era spento con un guizzo e sul bosco gran
parte distrutto giganteggiava il cielo scuro, velato a metà tra notte e
crepuscolo; i capelli di Natasha erano una calotta di fiamme tremule sotto quei
bagliori soffocati, gli occhi s’intravedevano appena all’ombra delle
sopracciglia aggrottate. Il braccio destro era piegato, la linea polso-gomito
un segmento nero praticamente rettilineo all’orecchio; la curva del seno e del
petto s’affossava rigida nell’incavatura del ventre, aprendosi infine nelle
gambe divaricate, l’ombra un proseguo indistinto della sua figura ancora
all’erta.
Ancora una volta, Bruce si chiese se non fosse
controproducente, se non fosse morboso e a tratti persino perverso aggrapparsi
a lei, al profilo delle ciglia, del naso e delle labbra quale fonte di quiete
in una realtà che sembrava solo volerlo trasformato in una bestia verde e
urlante. Provò a porre il quesito persino ad Hulk, ma questi non gli diede
risposta, segno che la tempesta era ormai passata e lui si stava preparando per
l’agguato e l’assalto successivi.
«Come già ti dissi, non hai gli occhi di un uomo che
ha perso l’Amore della propria esistenza, ma di colui che ha appena ritrovato
un barlume di speranza. Ahimè, quale disdetta. Somigli tanto al cuore mio, al
mio dolce Calais, possa Eracle ancora soffrire per ciò che gli ha fatto.»
La voce canzonatoria di Orfeo ebbe l’effetto di
scuotere l’Altro dai ben poco pacifici piani di conquista della coscienza,
oppure, considerò Banner, era lui a trovarlo insopportabile e fastidioso senza
che l’Altro ci mettesse del proprio per fargli saltare i nervi.
«Non capisco di cosa lei stia parlando.»
L’Artista ghignò di nuovo, posando il braccio sul
ginocchio piegato.
«Dovresti interrogare la Belva, Uomo. Pare abbia compreso molto più di te.»
Bruce fu sul punto di ribattere, ma Natasha li
raggiunse e la sua presenza distolse entrambi dall’inscenare un nuovo, inutile
e disfattivo. Dalle mani strette ai fianchi e la piega dura della bocca, il
Dottor Banner capì che qualcosa, durante la conversazione con Tony, aveva preso
una brutta piega. Brutta, se non addirittura pessima.
«L’incontro è sempre per domani, a Cuma.» esordì,
scoccando ad Orfeo un’occhiata che prometteva le più terribili torture, forse
peggiori di quelle inflittegli dalle Menadi, se avesse anche osato pensare di fuggire o compromettere
il loro viaggio «La notizia buona è che ha trovato Odisseo. Quella cattiva è
che al momento si trova a Termini Imerese. In Sicilia.»
«Come…?» Banner corrugò la fronte. Di tutti i
momenti che Tony poteva scegliere per andare in vacanza al mare, quello era
sicuramente meno adatto. «Cosa ci fa a…?»
«Ah…» esalò Orfeo, reclinando deliziato il capo
all’indietro.
Sia Bruce che Natasha si voltarono nella sua
direzione: l’Artista risollevò la testa, il volto contratto nel sorriso di chi
tutto si aspettava dalle circostanze, tranne quanto era appena successo.
«Avrei dovuto immaginarlo, sapete? Ah, Laerziade,
Odisseo Che Molto Si Volge, perché ancora mi sorprendo? Perché ancora mi
stupisco?» il sorriso trasmutò in un ghigno sardonico «L’Erebo gli aprirà le porte
e i morti parleranno a lui con voce di sangue.»
Cor Mortem
Ducens
#05. Deus Ex
Machina
Note :
·
«Avevo pensato anche
a Norton, ma dubito che l’Altro avrebbe apprezzato l’ironia di chiamarsi come
un antivirus.»
: Dovete sapere che quelli della Marvel sono dei trolloni assurdi. Soprattutto
nelle ultime testate (Ultimates comprese) ci cacciano riferimenti agli attori
che hanno interpretato i nostri eroi preferiti al cinema (Lo stesso Robert
Downey Jr. cita se stesso in Iron Man 3!).
Dunque troviamo
Natasha con falso nome di “Scarlett” riferimento alla Johansson e un giochetto stupido
sui due interpreti di Bruce Banner: Mark Ruffalo e Edward Norton.
Allo stesso modo,
quel trollone del Falco cita Robert Downey Jr. in rapporto al suo ruolo come
Sherlock Holmes nella saga di Ritchie.
·
«E’ la via di Tinia
dei Rasna, il Giove dei Tyrsenoi.»: quando dico che studiare troppo mi fa male.
Andavo giusto preparandomi per l’esame di Etruscologia quando, oh meraviglia,
oh portento! mi è venuto in mente questa cazzata idea. Visto e
considerando che Amora sta conducendo Thor per una via traversa perché non
scomodare gli Etruschi? La loro religione, infatti, ha subito una forte
contaminazione dai contatti coi Greci e visto che ho inserito anche il
personaggio di Enea nella storia nell’accezione del suo personaggio
dell’Eneide, perché escludere la stirpe di Tarconte?
Tinia altro non è che il nome etrusco di Zeus, Rasna il nome con cui gli Etruschi
chiamavano se stessi, Tyrsenoi il
nome dato loro dai Greci.
La porta descritta
esiste veramente e si trova nella Tomba Campana a Veio: è la prima in cui si
trova la porta quale elemento centrale, fulcro attorno al quale ruota la
decorazione, discrime tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
·
La
nostra Natasha ha la bellezza di settant’anni ed è l’ultima discendente della
famiglia Romanov, nonché prima ballerina del Bol’soj Mica pizza e
fichi.
·
Carol
Danvers è la nostra cara Mrs. Marvel.
·
Vermin
·
Quel coglione Quel bezugo Bruno, parlando
della Cura e della soppressione del Gene Mutante, fa riferimento agli eventi
del film X-Men: Conflitto Finale (2006). L’acronimo S.H.I.E.L.D. in realtà sta
per Strategic Hazard Intervention, Espionage
and Logistics Directorate, ma ho qui riportato la versione che ne dà Phil Coulson nel primo Iron
Man.
·
Orfeo ha la nota più lunga, ecco perché l’ho
lasciato per ultimo. Non perché mi stia sulle balle Un po’ sì, però, dai
Dunque, per prima
cosa vi rimando alla pagina di Wikipedia
a lui dedicata,
ché è sempre una cosa molto utile (?) Onomaklutòn è il termine con cui Ibico si
riferisce a lui in un frammento del VI secolo, mentre Apollo, Calliope ed Eagro
sono tre personaggi legati alla sua nascita. Calais è il giovane che egli amò
dopo la morte di Euridice (Orfeo è, infatti, colui che lasciò da parte i riti
di Bacco e promosse l’amore omosessuale, venendo poi fatto a pezzi dalle
Menadi, per questo). Tutto, anche i particolari delle lira e del serpente sul
biglietto, rimandano a lui e alla sua storia.
Poi…Cosa che credo
di non aver mai fatto in altre storie, ma qui ha un prestavolto preciso. Spero
solo si sia capito, ecco. Spero di averlo descritto in maniera decente.
Per chi se lo
chiedesse, ho impunemente usato Benedict Cumberbatch nella sua veste di
Sherlock Holmes, nella famosa serie della BBC.
Non so per quale
motivo, ma pensando ad Orfeo mi è venuto in mente lui Altra prova che non
sono normale, alèèèè
Note
di Fine Capitolo
AVVISO!
DAL 1 LUGLIO AL 16 AGOSTO SONO VIA PER UNO SCAVO E NONOSTANTE IL WEEK-END IO
SIA A CASA, DUBITO DI RIUSCIRE A POSTARE UN NUOVO CAPITOLO. CERCHERO’ DI
METTERLO PRIMA DELLA PARTENZA, MA NON VI ASSICURO NULLA.
Boia c’è Hulk. Io non ho mai
descritto Hulk. Non mi sono mai infilata nella sua testa. Che dite? Plausibile
o bocciata su tutta la linea?
Via, stavolta non mi dilungo, ché sto
capitolo mi ha spossata del tutto XD
Ringrazio mia mogliaH Alley e Shi_Tsu_Geass per aver recensito! E poi bunnybenny per aver messo la storia tra le seguite!
Alla prossima!