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Autore: LaMicheCoria    18/06/2013    2 recensioni
«Non so come funzioni il sistema di notizie nell’Ade, Capitano, ma si dà il caso che io mi sia spezzato la schiena pur di venire a tirarti fuori da questo piattume greco e tu…»
«Io sono morto, Tony. I morti devono rimanere coi morti. Noi non apparteniamo alla vita. Noi apparteniamo all’Ade. Non abbiamo più passato, non c’è concesso futuro. Possediamo solo il presente. E il presente è nell’Ade. Insieme ai morti. Noi non apparteniamo alla vita. I morti devono rimanere coi morti. Io sono morto, Tony.»

Per ordine di Giove, Atropo recide il Filo della Vita di Steve Rogers. Un sacrificio necessario per riportare l'Equilibrio nell'esistenza dei mortali, perchè è giunto il momento che il Destino di Capitan America finalmente si compia.
Ma forse non tutto è così semplice e se Temi, la Giustizia Divina, non interviene più nelle vicende degli uomini, sarà il Caso a far sì che l'inganno -Se esiste, venga svelato.
Per riportare indietro il loro compagno i Vendicatori si spingeranno fino alla bocca dell'Ade -E anche oltre.
[Steve/Tony] [Clint/Coulson] [Bruce/Natasha] [Thor/Jane - Amora/Thor] [ CONCLUSA ]
Genere: Avventura, Azione, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio, Steve Rogers/Captain America, Thor, Tony Stark/Iron Man
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cause Nobody Wants To Be The Last One There :.'
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.:  *** :.

 

L’Onomaklutòn era universalmente riconosciuto dalla comunità LGBT quale vero e proprio Paradiso in terra.
Era un piccolo locale alla periferia di Dion, una sorta di disco-pub con pareti color carta da zucchero, pannelli a campitura nera e rossa che riproducevano le maggiori meraviglie della pittura vascolare greca, un juke-box dei bei tempi andati e un artista di punta che da solo valeva l’intera storia della musica, da Omero fino ai giorni nostri.
Il complesso era circondato da un fitto bosco, e una strada non asfaltata serpeggiava tra i tronchi e i cespugli spinosi, attraversando la selva buia, per poi aprirsi a ventaglio dinanzi l’entrata: colonnine doriche a venti scanalature, tre per lato, accompagnavano gli avventori oltre l’architrave e gli occhi assenti di Apollo, Calliope ed Eagro, a  rilievo contro il timpano. Il tutto -Interno ed esterno- contribuiva a dare l’idea di un sacro tempio dei bei tempi andati –Sebbene un po’ kitsch e ampollosamente retrò. 
A fare la fortuna dell’Onomaklutòn, però, era l’invulnerabilità di cui il locale pareva essere avvolto.
Nessuno sarebbe mai stato in grado di dire con esattezza quando avesse aperto, né chi fossero stati i primi proprietari: la famosa sera del 28 Giugno 1969, Sylvia Rivera stava scagliando la bottiglia contro uno dei poliziotti che avevano fatto irruzione allo Stonewall Inn, e il cantore dell’Onomaklutòn sussurrava parole d’amore col solo danzare dell’archetto. Nel 1940, quando i fascisti sciamarono a frotte tra le rocce dell’aspra Grecia, la direzione del locale venne ceduta proprio ad un soldato semplice del battaglione italiano. Sulla parete di destra, appena entrati, ancora oggi era possibile notare la foto incorniciata che ritraeva Gaetano Pasolini abbracciato al suo compagno di vita, l’allora diciassettenne Filoandro di Olimpia.
E prima di allora a tenere l’Onomaklutòn era stata una giovane tedesca che da Berlino era scappata a Dion per fuggire lo scandalo cui altrimenti avrebbe condannato la sua famiglia, e poi uno svizzero, una francese, finanche un turco…! Non c’era guerra, né movimento sociale o politico che fosse in grado di abbattere il locale: era un rifugio sicuro per gay, lesbiche, bisessuali e transgender, e tutti era pronti a scommettere che non avrebbe cessato di esserlo tanto presto.
Se non fosse stato impossibile si sarebbe detto nato dalla stessa terra o da una delle tante fonti che chiacchieravano e gorgogliavano in mille ruscelletti argentini.
«Forse il merito è anche dell’Artista, eh!» la giovane rise, portandosi il dolcetto alle labbra. Afferrò il quadretto di cioccolato bianco tra i denti e lo staccò di netto: alcune bricioline candide le caddero sul ginocchio accavallato e lei le rimosse dalle balze cremisi della gonna con gesto distratto.
Bruce osservò il movimento veloce delle dita, quindi si schiarì la voce e decise di sorseggiare il caffè ormai freddo prima che l’Altro prendesse il sopravvento perché Hulk noia. Hulk spacca e no, non sarebbe stato molto educato far scoppiare un pandemonio nel centro di Dion, tanto meno fracassare tavolini e seggiole del bar, visto e considerando quanto erano stati gentili i proprietari. Natasha -O sarebbe stato meglio parlare di Scarlett?- annotò qualche parola sul taccuino posto con diligenza davanti a sé, tra una brioche intoccata e dello yogurt greco lasciato a metà.
Stava interpretando il ruolo da giornalista a meraviglia e Bruce si chiese perché fosse così sciocco da stupirsene. Era probabile che a destabilizzarlo fosse la scioltezza e la disinvoltura con cui l’Agente Romanoff passava da un’identità all’altra, scindendole con tale perfezione da non correre mai il rischio di contaminarle: per uno come lui, che a stento riusciva a mantenere la propria, la cosa era impensabile.
«Una volta, mi hanno raccontato al locale, erano arrivati una decina di “attivisti”» la ragazza mimò le virgolette con le dita «Contro i diritti delle persone omosessuali. Ecco. Tutti pensavano che sarebbe successo il finimondo, e invece…!»
Lasciò la frase in sospeso e l’Agente Romanoff si chinò di riflesso in avanti, una nota interessata a piegarle l’angolo destro della labbra.
«E invece..?»
La giovane non si ritrasse, anzi, si piegò anche a lei, gli occhi che roteavano in giro con una buffissima aria cospiratoria.
«Invece ha proposto loro di rimanere per lo spettacolo del pomeriggio. Indovinate un po’? Ora sono clienti abituali dell’Onomaklutòn! Sembra quasi sia riuscito ad ammansirli…»
Natasha lanciò un’occhiata cui Bruce rispose con un quieto sollevarsi delle sopracciglia. Grazie ad una firma particolare riscontrata su Thor e su un uomo di Los Angeles che, a quanto pareva, altri non era che l’Ercole di cui aveva parlato il Dio, S.H.I.E.L.D. e S.W.O.R.D. erano stati capaci di circoscrivere un’area d’azione relativamente piccola dove poter cominciare le ricerche. Scoprire che Odisseo, Orfeo ed Enea potevano davvero trovarsi nei luoghi da loro selezionati –Più per disperazione che per altre motivazioni- era stata allo stesso tempo una sferza di ottimismo e una nota di perplessità.
Come se ci stessero aspettando aveva mormorato il Dottor Banner, analizzando i dati che Nick Fury aveva passato sui computer del Quinjet che stava portando lui e l’Agente Romanoff in Grecia.
Il problema fondamentale era trovare effettivamente il loro obiettivo, cosa che non era per nulla facile e sulla cui riuscita Bruce aveva ancora parecchi dubbi: Tony li aveva chiamati più volte per fare rapporto e tutte si erano rivelate essere un vero e proprio buco nell’acqua. Se Odisseo era ad Itaca come riportavano i controlli incrociati, non sembrava essere dell’idea di farsi trovare; allo stesso modo, scovare Orfeo dalla sua tana si stava rivelando ben più complicato di quanto il Dottore si era permesso di pensare appena sbarcato a Dion.
Natasha, dopo i primi tentativi andati a vuoto, aveva chiesto una ricerca attraverso parole chiave per restringere ulteriormente il campo e l’unica traccia era stata quella relativa all’Onomaklutòn. Caso volle –E dopo quello che Stark aveva raccontato loro, Bruce non sapeva se esserne felice o meno- che a Dion-Olympos stesse soggiornando la giovane che in quel momento stava finendo di sbocconcellare il quadratino di cioccolato.
Da quanto aveva capito dalle risposte monosillabiche dell’Agente Romanoff, Alley -Così si faceva chiamare- era una conoscenza di un’Agente di un non meglio specificato dipartimento dello S.H.I.E.L.D. ed era stato proprio questa Agente a permettere loro l’incontro con la studentessa al primo anno di Filosofia.
Natasha si era presentata come una giornalista venuta a Dion per scrivere un articolo sui locali pro-LGBT; il Dottor Banner le aveva stretto cortesemente la mano, smozzicando qualcosa riguardo un supporter/fotografo/agente di Scarlett: aveva passato così tanto tempo a nascondersi, isolarsi e abbandonare il proprio nome dietro le spalle, che doversi inventare una nuova identità e professione di punto in bianco era stato piuttosto complicato.
Un piccolo shock culturale ed emotivo, cui Hulk aveva risposto con un torcersi bollente delle budella e infiammarsi di neuroni. A Hulk non piaceva essere messo da parte, a Hulk non piaceva essere dimenticato, a Hulk non piaceva, non piaceva e basta, non piaceva, non piaceva, non piaceva…
Bruce deglutì e serrò la mano destra a pugno, le unghie conficcate nella carne. Il gesto non sfuggì all’Agente Romanoff, che subito roteò lo sguardo su di lui, riducendo la bocca ad un cordoncino nero e scarlatto. I muscoli agli angoli delle labbra ebbero uno spasmo impercettibile, ma come ogni volta che Hulk gli ringhiava nella testa, i sensi del Dottor Banner risposero agli stimoli più attivi che mai: poteva vedere un filo di sudore freddo brillare lungo la linea della tempia, colorando d’una tonalità sanguigna l’attaccatura rossa dei capelli, appena sopra l’orecchio. Vide il respiro scivolarle limaccioso lungo la gola e poi espandersi nei polmoni, sollevandole il petto oltre la scollatura circolare della maglietta. Le nocche appuntite erano livide attorno alla penna e una piccola crepa biancheggiava, traslucida, contro il tubicino pallidiccio contenente l’inchiostro.
L’odore della paura e della tensione era più acuto del profumo acidulo dello yogurt greco, più dolciastro del cioccolato bianco, più forte del sole battente sugli ombrelloni a fasce arancioni e gialle fuori dal bar, più denso del liquore che stava bevendo un anziano dietro loro, più acre del sudore che gli disegnava chiazze mollicce sotto le ascelle, più impertinente delle scarpette di vernice di una bambina contro il selciato che divideva i tavolinetti dalla strada e da un negozietto di casalinghi.
«Oh, dannazione! La lezione di maieutica!» l’urlo di Alley fu tanto improvviso che persino l’Altro grugnì, sorpreso e stupito, dando il tempo a Bruce di riprendere il controllo; Natasha si rilassò immediatamente e rivolse alla ragazza un sorriso impalpabile, mentre questa si alzava veloce e lasciava accanto al caffè due biglietti colorati.
«Ascoltate, questi sono per lo spettacolo delle quattro» spiegò, battendo con un’unghia smaltata di rosa pallido sul cartoncino «Il problema dell’Onomaklutòn è che ci puoi entrare se qualcuno ti invita. E’ inquietante, ti sembra di essere in un circolo privato o di partecipare a qualche culto misterico o che so io…» una risatina non troppo convinta, quindi si umettò il labbro superiore «Conosco il barista, con questi avete un lasciapassare sicuro. Per gli amici di Salmace questo ed altro! Non vi preoccupate per il conto, offro io, signorina Rushman, signor…?» la frase sfumò in un’evidente domanda.
«Ruffalo. Edward Ruffalo.» rispose Bruce, mettendosi in piedi e porgendole la mano. Alley ricambiò la stretta e modellò il nome sulla lingua, forse non troppo convinta del modo in cui i due nomi suonavano insieme. Bruce si chiese se la risata che sentiva vibrare sottopelle era l’ilarità non detta di Natasha oppure l’Altro che si prendeva una sana rivincita.
«Arrivederci e godetevi lo spettacolo!» li salutò la ragazza, sventolando allegra la mano e correndo via sulla stradicciola acciottolata bagnata di sole.
«Edward Ruffalo?» s’informò l’Agente Romanoff e inarcò il sopracciglio con palese divertimento. Il Dottor Banner si risedette, tossicchiando e allungò le dita a prendere i biglietti. Spese alcuni istanti a rigirargli con attenzione tra i polpastrelli, senza dire una parola di più.
«Avevo pensato anche a Norton, ma dubito che l’Altro avrebbe apprezzato l’ironia di chiamarsi come un antivirus.» le rivolse un’occhiata spruzzata di lieve riso, la bocca che si sollevava a sottolineare la strana tranquillità che lo pervadeva nel vedere Natasha scuotere la testa, i riccioli che palpitavano contro le orecchie e le tempie, irrorati di cremisi e di sole, le palpebre socchiuse a lasciar intravedere una falce brillante d’iride.
Lei era l’unica che riuscisse a rilassarlo davvero, in quel luogo: a Dion si respiravano ovunque effluvi di calma, pizzicori di pace che risalivano inesorabilmente, inevitabilmente la carne, distendevano i nervi, pesavano sul respiro e illanguidivano il cuore. Come una musica che riverberasse ad infrasuoni e si diffondesse in creste e spuma di serenità sibillina, rigagnoli iridescenti di quiete a scorrere densi, caldi nelle vene al posto del sangue.
L’Agente Romanoff subiva a tratti l’effetto dell’atmosfera infida, Bruce lo vedeva da come ogni tanto abbandonava lo sguardo ad un orizzonte indefinito, l’espressione liquida e nebbiosa, la bocca schiusa, pesante, le dita che premevano per pura inerzia contro la ricetrasmittente all’orecchio. Ascoltava i resoconti di Tony in virtù di un senso del dovere radicato in lei più a fondo dell’atto stesso di respirare, ma dallo sguardo assente si capiva che del rapporto non le era rimasta alcuna traccia.
Su di lui quel ristagno dei sensi non aveva altra conseguenza che tendere i nervi tanto a lungo da strapparli, altro rischio che spingerlo al punto di non ritorno: Hulk avvertiva il tentativo di Dion di acquietarlo, di ammansirlo come una bieca bestia, e ciò lo infastidiva, lo rendeva furioso, lo faceva ringhiare e sbraitare, colpire le costole con poderosi pugni, mordere lo spirito, lacerare la coscienza brano dopo brano.
Osservare l’Agente Romanoff, la linea della nuca che scivolava a formare la curva delle spalle e della schiena, la clavicola che sporgeva dallo scollo, il profilo aguzzo delle scapole e i movimenti sicuri del polso, la danza delle dita, il canto delle nocche, tutto di lei riusciva a rilassarlo senza che l’Altro protestasse con la selvaggia veemenza che gli era propria –E questo, oltre a confonderlo, riusciva a renderlo paradossalmente inquieto.
«Natasha, non ha anche lei l’impressione che la ricerca si stia rivelando troppo…Facile?» le chiese, gli occhi fissi sulla lira e sul serpente intrecciati, stagliati contro il cartoncino azzurro.
Lei rimase in silenzio per alcuni istanti, l’unghia che percorreva a filo la trama a tralci di vite della tovaglia in plastica.
«Le è familiare il concetto di Deus Ex Machina, Dottore?» rispose con un’ulteriore domanda, ma senza dargli il tempo di parlare «Era un espediente usato dai tragediografi greci: quando la situazione si era fatta troppo intricata perché fosse possibile una via di uscita, arrivava la divinità a risolvere ogni cosa.»
Bruce aggrottò la fronte e Natasha continuò.
«Quale che sia il nostro Deus Ex Machina, sta operando in ogni modo per condurci all’Ade. Lui vuole farci arrivare lì, sempre che tutto questo non sia solo una fortunata serie di coincidenze al limite dell’insensato e della follia. Cosa di cui, lo ammetto, sto cominciando a dubitare seriamente.»
Il Dottor Banner annuì, per poi girare la testa a contemplare la placida Dion distesa sotto di loro, un labirinto di terrazze e cupole bianche cinto dalla lingua grigio-perla del litorale, il mare una fantasmagoria di sole e scaglie d’azzurro.
«Noi siamo attori, Agente Romanoff?»
«No, dottore. Noi siamo pedine.»  

 

***

 

Thor si strinse nel mantello e il respiro si condensò in piccole nuvole ghiacciate.
Roteò gli occhi verso l’alto, a contemplare le insignificanti, fastidiose gocce marrognole che da uno spunzone della roccia s’infrangevano a terra. Plic plic plic, un ritmato conteggio di secondi che il figlio di Odino da un tempo non più quantificabile aveva smesso di trasformare in minuti e poi in ore.
La via che l’aveva condotto lì era deserta, sconosciuta ai più, un acciottolato di nebbia e miasmi nel ventre stesso di Asgard. A Thor venne spontaneo chiedersi se Padre sospettasse dell’esistenza di quel luogo o se la memoria fosse divenuta nebbia con lo scorrere dei secoli: nulla poteva sottrarsi alla vista di Odino, o così il Dio del Tuono aveva sempre creduto –Poi erano arrivati gli Jotunheim e tutto ciò in cui aveva creduto fino a quel momento era stato fatto a pezzi.
Loki…Forse, forse Loki conosceva quel luogo, forse aveva già attraversato la via impervia di liquami e mormorii durante i lunghi vagabondaggi negli anni dell’adolescenza. Forse era proprio per quella via che aveva trovato la salvezza dopo il colloquio tra Odino e il Signore dell’Olimpo, forse attendeva ancora dietro una lugubre ansa l’occasione per tornare, la possibilità di redimersi. Forse…Forse Thor si stava solo illudendo.
Ovunque suo fratello fosse andato, ovunque l’avessero esiliato, trovarlo non sarebbe stata un’impresa semplice, neppure fattibile. Loki era disperso.
Per quel che ne sapeva, Loki poteva anche essere morto.
«Quali funerei pensieri occupano la tua mente ed il tuo cuore, amore mio?»
Il figlio di Odino sollevò il capo e Amora si palesò, calando il cappuccio della mantella. I capelli ebbero un barbaglio d’oro nel posarlesi sulle spalle e la bocca scarlatta si piegò in un bieco sorriso, piena d’amore e d’orgoglio, enfia di un sentimento che Thor non riuscì a definire.
«Hai fatto attenzione che nessuno ti seguisse, Incantatrice?» l’apostrofò il Dio, le braccia incrociate al petto e la voce diffidente. Lo sguardo della donna s’irrigidì a quelle parole, ma si trattenne dal rispondere e lo precedette per la stretta gola che conduceva ancora più a fondo nei meandri di Asgard.
Uno strapiombo gorgogliante di buio si gettava suicida nel nulla ai loro piedi, grossi denti rocciosi saettavano all’improvviso fuori dalla nebbia che ribolliva asmatica entro fenditure e graffi litici; il loro sentiero s’incuneò più volte in spazi angusti e strettoie al limite della claustrofobia, dove traballare anche un istante col peso squilibrato verso destra –O sinistra, a seconda delle curve- significava una caduta senza ritorno dentro l’abisso. Non c’erano sterpi, né segno di vegetazione o corsi d’acqua, neanche la più labile traccia di vita. Ovunque respiri e sussurri di granito, alcuna luce se non la sfera violacea che gravitava sul palmo di Amora, nient’altro che i loro passi scricchiolanti lungo la via sempre più fredda.
Scendevano e scendevano e scendevano, tanto che Thor si chiese quanto avrebbero impiegato a risalire e se mai l’avrebbero fatto: si fidava e allo stesso tempo non si fidava dell’Incantatrice, sia per la passione incontrastabile che ella provava nei suoi confronti, sia perché nessuno che possedesse il più miserevole granello di saggezza si sarebbe mai affidato completamente ad una strega allieva delle Norne. Conosceva quella strada unicamente grazie al retaggio funereo sulla quali aveva costruito le arti magiche che padroneggiava con deplorevole maestria: il nero strisciante che si appollaiava gracchiando di massi caduti accanto e sopra e sotto di loro era per lei un animale da compagnia, da nutrire ed allevare con cure premurose, da tenere al seno e allattare con formule e rituali oscuri quanto gli occhi di Hela.
Amora era l’unica speranza che al figlio di Odino era rimasta per accedere all’Ade senza che il Padre di Tutto venisse a saperlo, ma non ne era felice. Da ciò che gli aveva detto Amora, poi, Sif e i Tre Guerrieri stavano sviando le loro tracce, conducendo le guardie e i corvi di Odino per ben altre strade, più accessibili e meno dimenticate, dominio del Re e sottostanti le sue leggi. Tornare indietro avrebbe significato vanificare ogni sforzo e condurli più inesorabilmente –O forse sarebbe stato meglio dire più velocemente ?- alla condanna e, forse, all’esilio.
Quanto e in che modo il dolore avesse piegato Padre, Thor non sapeva dirlo, ma una volta tornato dagli Inferi Olimpici avrebbe dato se stesso pur di fargli tornare il senno.
Era ancora immerso in riflessioni di tal genere, quando s’accorse che la via, ora, procedeva retta e senza più ostacoli, una lingua grigia e nera che si stendeva dritta fino all’orizzonte; ai lati del sentiero si ergevano fianchi di terra lucida, bagnati, tanto alti e livellati da dare l’impressione di essere rinchiusi tra le pareti di un enorme pozzo. Un’eco d’acqua frullava tra le pieghe dell’etere, unito ad un soffocato zampettare e sdrucciolare di sassi, scrosciare di onde e battere d’ali. Un riverbero perlato baluginava alla fine della strada, come pagliuzze di luna adagiate sulle creste del mare; da terra si levava un odore indefinito di latte cagliato, sangue e viscere di animali, e Thor poté sentire il robusto sapore del vino macchiargli distintamente la bocca.
«Amora…» tentò di domandare, ma l’Incantatrice torse il collo verso di lui, fece segno di tacere e continuò imperterrita a camminare.
Più si avvicinavano all’inconsueto bagliore, più l’olezzo aumentava e intorno si rincorreva un salmodiare lamentoso quanto antico: nenie di donne, lacrime di fanciulli, grida di guerrieri tuonavano contro la roccia e la roccia ripeteva i loro nomi, le loro preghiere, i loro pianti all’infinito, perché la terra ne avesse costante memoria. Cominciarono a profilarsi rami di piante rachitiche, bassi contorcimenti di radici grossolane e occhi smeraldini di belva dietro il soffio gelido di guaiti infantili.
Amora s’arrestò, la sfera di luce che gettava riflessi lividi sulla corona smaltata; alzò il braccio e indicò solenne davanti a sé.
«Ecco il tuo passaggio per il mondo dei morti, figlio di Odino.»
Thor la superò e fu lui, questa volta, a non rispondere. Stracci di vento e bave di refoli gli si appiccicarono alle caviglie, ma il Dio del Tuono non si diede per vinto e non si fermò fino a che non fu davanti ad una porta.
Non aveva serrature, non aveva cardini né infissi: era un semplice, seppur perfetto nella sua geometria, ritaglio della roccia. La fascia scarlatta spessa più di cinque dita, intramezzata da due cornici dorate più sottili, era sormontata ed affiancata, sul lato superiore e sui due laterali, da triangoli a campitura azzurra, gialla e rossa; a destra e a sinistra due pannelli ciascuno, uno sull’altro, con figure umane in alto e scene di animali e belve feroci sui due più in basso. Un uomo a cavallo con un palafreniere ad aprire la via ed un cucciolo maculato sul dorso del baio, si dirigeva verso il lato destro della porta e sul pannello opposto un secondo cavaliere attendeva il suo arrivo con le briglie ben strette in una mano.
Oltre la porta doveva esserci un altro luogo, ma era indistinto, indefinito, una girandola grottesca di fumi e odore di fango. Ogni tanto si avvertiva un rumore come uno starnazzo e un battito d’ali sull’increspatura dell’acqua, ma oltre a quello ed il profumo umido d’un rivo, non esisteva altro.
Il figlio di Odino sfiorò a punta di dita il profilo della creatura alata dal volto umano che veniva aggredita da un leone con criniera gialla e puntinata, il pelo viola e il ventre cremisi.
«Le Norne mi spiegarono…» e Thor trasalì alla voce improvvisamente vicina dell’Incantatrice, di nuovo al proprio fianco «Che il Padre degli Olimpici possedeva più nomi tra i mortali, sebbene per loro fosse stato designato solamente un destino ultimo. Questa…» e passò un palmo nello spazio etereo e vuoto della porta, che al suo tocco s’animò di mille cerchi concentrici «E’ la via di Tinia dei Rasna, il Giove dei Tyrsenoi.»

 

 

***

«Quelle persone sembrano sotto l’effetto di stupefacenti: guarda la dilatazione della pupilla.»
Natasha non commentò la diagnosi del Dottor Banner: che qualcosa non andasse nel locale e in coloro che lo frequentavano le era stato chiaro non appena superata la soglia d’ingresso.
Un’atmosfera strana ristagnava all’interno della stanza, un’attesa languente, una calma fangosa intessuta d’invisibili fumi d’oppiacei, una pace artificiosa dell’animo che a Vedova Nera sembrava la conseguenza dell’hashish descritta da Baudelaire che qualche bicchiere di troppo. Gli avventori stavano in silenzio con le teste reclinate su una spalla, lo sguardo perso in lontananza ed un respiro sempre appeso alle labbra. Sospiravano in continuazione, non per noia, non per dolore, non era un gemito di dolore, né frustrazione. Semplicemente…sospiravano. Estatici. Osservavano un mondo oltre l’umano, si sarebbe detto, immersi fin dentro le ossa in una realtà sconosciuta e impenetrabile per chiunque non avesse ricevuto l’invito a penetrare i loro segreti più reconditi.
Una sospensione, un’attesa misterica che a Natasha faceva salire i brividi lungo la schiena.
Lei e Bruce scelsero un tavolino in ombra, sotto la stampa che riproduceva una pittura vascolare a figure rosse; un cono di luce soffusa si adagiava pigramente sulla curva delle sedie metalliche e una piccola candela ardeva entro una sfera di plastica verde tagliata sulla sommità. Nessuno venne a chiedere loro l’ordinazione, per quanto il barista sembrasse il più ricettivo tra i presenti.
Il Dottor Banner le rivolse un’occhiata interrogativa, cui la Romanoff rispose con un sollevarsi perplesso del sopracciglio. Non avevano molte scelte, l’unica cosa che potevano fare era aspettare.
E così fecero, ascoltando i sospiri degli uomini, i fruscii delle gonne, il singhiozzare palpitante delle candele. Non c’erano orologi, sicché l’aria era ancora più pesante, opprimente e non esisteva modo di dire quanti minuti fossero passati, né se all’Onomaklutòn esistesse una effettiva quantificazione temporale. Era un mondo a parte, un microcosmo di bottiglie lucide e bicchieri colmi di un liquore che nessuno beveva, di dita intrecciate senza convinzione, mani strette palmo contro palmo, ma prive di un vero contatto umano.
Il liquame si smosse quando quello che Alley aveva chiamato l’Artista salì sul minuscolo palco addossato alla parete di fondo. Natasha e Bruce trasalirono all’apparizione improvvisa, perché non un rumore, non una voce o un balbettare di passi avevano annunciato l’arrivo dell’uomo. Nessuno lo aveva presentato e lui si fermò con tranquilla noncuranza al centro della scena, fasci tubolari di luci che chiazzavano di bianco le spalle appuntite del soprabito nero.
Dinoccolato, col viso rettangolare e dai tratti lunghi, rigidi, decisi, l’Artista appoggiò una custodia di pelle scura sullo sgabello al suo fianco; i led affondarono negli zigomi alti e affilati, che sporgevano da sotto gli occhi come perfette cuspidi triangolari. Le iridi grigio-verdi, sovrastate da spesse sopracciglia brune, quasi rosse, scandagliarono con freddezza l’intorno, le labbra piene incurvate in un’inflessibile espressione di superiorità. I capelli scendevano in un ruggito di riccioli neri dietro alle orecchie e s’arrestavano appena sopra la nuca, mentre sulla fronte curvavano a formare un’onda che andava a solleticare, in parte, la terminazione dell’occhio destro.
La sciarpa antracite gli cingeva ferrea la gola, scomparendo all’altezza del petto nel colletto triangolare tenuto alzato sulle spalle. La camicia bianca s’intravide appena nel momento in cui sollevò il violino e lo pose elegantemente sulla clavicola, l’archetto alto sopra la testa, le dita affusolate ne trattenevano con dolce costrizione crine e corpo ligneo.
Sorrise con un ghigno di vuoto divertimento e un riverbero d’eccitazione vibrò crocchiolando per tutta la sala.
L’Artista accarezzò le corde e Natasha tornò Natalia in un singhiozzo bianco di neve.
C’era la penombra della platea, una lunga mano nera stretta al velluto dei sedili; una donna in prima fila, una folta pelliccia nera attorno al collo bianco da cigno, bocca carminia stretta a delineare la forma di un cuore trasudante sensualità e bellezza; i capelli erano tirati in una crocchia ramata di diamanti, alta sulla testa. Come tanti lumini, come tante stelle, la tiara le ricadeva sulle tempie e sulla fronte in tante gocce dalle cento e mille sfaccettature. Ogni angolo del gioiello catturava il luminoso brulichio delle lampade a gas, il canto arancio della fiammella, e sfarfallava all’intorno meravigliosi giochi rubicondi, colando con un che di misterioso e attraente negli occhi scuri, concedendo un malizioso buffetto di colore alle gote appena spruzzate di belletto.
Natalia si nascose ancora e di nuovo, il tremito del sipario arabescato a ridacchiarle dietro le spalle. Sentiva il cuore in gola, le ginocchia come fango: era sgraziata, era priva di talento, perché, oh, perché il Bol'šoj aveva voluto farla prima ballerina? Ah! Mamma, povera mamma, guarda con che scherno la Russia ancora si prende gioco di noi, della nostra famiglia decaduta! Dell’ultima figlia degli Zar hanno fatto una bambola vestita di puntolini luminescenti, l’hanno imbellettata come una di quelle poco di buono che agli angoli delle strade si svendono alle pance della Nomenklatura, oh, mamma, povera mamma! Sangue di regina muffito di trecento anni, ecco cos’è Natalia Alianovna Romanova! Credevo fosse un sogno e invece…! Il sangue che macchia la Mano asperge ghignando le mie dita e forse questo non è che un ricordo, forse non è che illusione, e la donna dalla tiara paradisiaca è solo un ultimo, mero disgregarsi dei sensi.
Però com’è bella, mamma. Mi ricorda te, la stessa alterigia, la stessa bellezza della più splendida delle donne russe, tu, Sovrana del vento, Duchessa della steppa. Vorrei che fossi qui a vedermi ballare, che sia sogno o realtà non importa, perché la tua mancanza trascende finanche il disfarsi del vero.
Quando il sipario rivelò la sua schiena bianca, Natalia aveva ancora le mani giunte al petto e l’espressione persa agli attrezzi di scena sopra la testa, quel labirinto di ruggenti mostri metallici. Il violino le urlò nelle orecchie e le scorse nelle vene, nuovo sangue e nuovo spirito: spiegò le braccia e sulle ali della melodia girò il viso ai mali del mondo. Con gli occhi socchiusi e ottenebrati di bellezza, non c’erano né incendi né fiamme, non calci di pistole e tanto meno addestramenti tanto duri da desiderare la morte, cadere e non più svegliarsi, dormire un sonno infinito senza colori e senza suoni.
Esisteva solo la musica e le scarpette che sfioravano in un turbine impercettibile di gesso le assi del palco e le dita di Natalia che disegnavano l’amore del Cigno, i polsi che con un schioccante roteare dei legamenti ne preannunciavano l’ultimo canto, la dolce, serena disperazione, mille occhi di vecchi passati, vestigia antiche, bicchieri di cristallo che brindavano alla Russia, alla Guerra più fredda del ghiaccio, e no, non pensare, Natalia, lascia che il violino parli per te e per te canti e urli e gridi e immagini altri mondi e altri universi e altri amori e altre vite! Un passo ancora nel boato della musica, le unghie artigliate al tessuto dell’esistenza, a strappare e squarciare i toni cupi del mondo, a sostituirli con armonie di albe e sussurri di tramonti e bisbigli sorridenti di stelle e baci caldi di luna, le carezze del sole al ventre e sopra il seno. Una piroetta, il torace spinto in avanti, il palco che si allarga, la luce che esplode e deflagra nel salto finale in tanti rigagnoli palpitanti.
La Regina in prima fila si alza e, oh, meraviglia delle meraviglie! Natalia-ballerina osserva e anela con sguardo estatico gli occhi amorevoli di Natalia-Sovrana e nessuno più comanda, nessuno più ordina, le catene dei capi si sciolgono con un clangore di libertà e la pace si diffonde e ramifica nel petto. Natalia si fonde a se stessa, chiude gli occhi, s’abbandona.
La musica scema, il violino permane e crea per lei una culla di pentagrammi, un cuscino di note. Il mondo, ah, che importa del mondo? Si spengono le luci del Bol'šoj, cala lento il sipario, si allontanano gli attori e l’orchestra depone gli strumenti. Resta solo il violinista dagli occhi grigio-verdi, ritto e splendido nello sfolgorio di un lampo misterico. Non parla, ma le rivela ogni cosa ed ogni parola, e ogni amplesso tra archetto e violino è una nuova onda di pace che le monta nel cuore e le scivola via dalle labbra aperte in un guaito di piacevole sconfitta.
Continua a suonare, Artista, suona ancora, suona per sempre, cancella il dolore e la rabbia, suona e sgretola la nota rossa, il sangue purpureo, l’obbligazione e l’amore, cancella anche me e suona, suona per sempre, suona ancora, suona e annullami, annullami e rendimi musica, rendimi musica e…
«Natasha…»
Vedova Nera sussultò e riemerse in un rombare di brividi. La carne fremette, i nervi s’accartocciarono e s’avvoltolarono attorno alle ossa piegate, gemendo e piangendo una litania disperata di rimpianto e costernazione. L’Artista stava ancora suonando, ma la sua melodia era divenuta meno di un sussurro alle orecchie di Natasha, ora pieni del battito frenetico del proprio cuore.
Sbatté le palpebre più volte, per schiarirsi la vista e la mente, quindi si girò ad osservare il volto esangue del Dottor Banner: era provato da una strenua resistenza, lo vedeva dal colorito livido delle guance e dell’orbita, dalla linea dura della mascella, da come il respiro claudicava nella gola a causa della deglutizione forzata. Dietro le lenti rettangolari, gli occhi erano tinti d’un verde intenso, segno che una parte di lui –Hulk, la bestia, il mostro- lottava senza requie contro l’annullamento e l’incanto. 
A cosa si fosse appigliato per evitare la trasformazione, Natasha non seppe dirlo fino a che non si accorse delle dita di Banner strette con violenza alle proprie.

 

***

 

Clint sollevò la freccia, rigirando l’asta metallica tra le dita e sollevando il mento per meglio controllare la cosa da ogni angolazione possibile. Il ratto conficcato nella cuspide ebbe un ultimo spasmo e infine si rilassò con un unico, rigido distendersi delle zampette pallide. Le vibrisse si afflosciarono sul muso triangolare, gli occhi liquidi scolorirono, virando da un nero intenso a un insignificante grigio slavato.
L’Agente pressò le labbra fino a ridurle ad una linea tagliente sul volto cupo, quindi esalò un respiro, tolse l’animale dalla punta della freccia e lo lanciò di malagrazia nel mucchietto di roditori poco distante; si piegò sulle ginocchia e col braccio teso dietro alla schiena rimise il dardo nella faretra. Sotto di lui, la camera ardente era solo un ritaglio obliquo dalla penombra delle scale, un frammento poligonale di teste e occhi, mani tremule di donne strette al fazzoletto, dita sicure di Agenti a sfiorare prudentemente il calcio della pistola.
Aveva già riferito a Stark dell’allegra brigata squittente –Sorvolando sul fatto che l’arciere migliore dello S.H.I.E.L.D. fosse stato costretto ad improvvisarsi Pifferaio di Hamelin-, ma quello che all’inizio era passato per una semplice necessità di derattizzazione, da alcune ore aveva cominciato ad assumere tratti appena appena inquietanti: vero che voci non confermate –Pepper- avevano più volte raccontato di Sandwich redivivi che sgambettavano felici e gioiosi nel laboratorio di Stark, ma a tutto c’era un limite. Soprattutto se il “tutto” ed il “limite” erano la stessa cosa, ossia la stanza dove Capitan America dormiva il suo ultimo sonno.
Due topi erano una facile battuta, cinque una raccomandata espressa al servizio di igiene statale, dieci qualcosa che non quadrava né nel cerchio, né oltre.
Undici si corresse Barton, voltandosi di scatto, la freccia già incoccata. Un istante, clock, il sibilo, uno squittio sommesso e un grumo d’ombra dove l’animale si era appena accasciato.
«Signore» Clint portò due dita a premere la ricetrasmittente che teneva nell’orecchio «Venga, abbiamo un problema»
Coulson impiegò esattamente tre minuti e cinquantotto secondi ad arrivare e in quell’impercettibile lasso, l’arciere aveva fatto in tempo a colpire un altro ratto.
Dodici pensò, lanciando la bestiola verso il mucchietto peloso che già aveva cominciato a sollevare un odore parecchio fastidioso. Che l’odore fosse vero e proprio tanfo, Occhio di Falco lo sospettò da come Phil si fermò sull’ultimo scalino, sbatté le palpebre e deglutì con esasperata lentezza quel poco di ossigeno depurato proveniente dalla camera sottostante.
«Cosa succede?» chiese poi, la voce arrochita e gli occhi lucidi per lo sgradevole olezzo.
«Mi spiace averla distolta dal suo animato dialogo con la signorina Danvers» a quelle parole, Coulson rispose col più eloquente inarcamento sopraccigliare del repertorio «Ma temo che loro non siano sulla lista degli invitati» e indicò col pollice la grottesca piramide.
Clint se ne stette in un angolo mentre il superiore procedeva all’ispezione: questi, per prima cosa, afferrò i pantaloni a livello delle ginocchia e ne alzò l’orlo, quindi piegò la gamba destra e sottili grinze si crearono sul dorso della scarpa quando la fece scivolare piano dietro di sé. Con un ginocchio a terra e l’altro poggiato contro l’addome, Coulson chinò la schiena in avanti: rigature profonde incidevano la fronte altrimenti piana, le labbra erano appena schiuse nell’atto di concentrare ogni sforzo a capire come tanti, ma pur sempre topi, potessero costituire un problema, il pelo irto degli animaletti che si genufletteva al tocco metodico dei polpastrelli.
«Cos’hai in mente, Barton?» domandò, alla fine l’avambraccio abbandonato sul ginocchio. Il Falco passò una nocca sulla punta del naso, per poi puntare l’indice contro l’ammasso di ratti.
«Vermin.» rispose e annuì a se stesso con un movimento convinto del capo.
Phil, sbalordito, lo guardò e tornò ad osservare il mucchio ispido di cadaveri. Scrollò il capo e tolse un po’ di polvere dalla spalla, ma Barton conosceva l’uomo abbastanza bene per capire come quel gesto servisse solo a dargli la possibilità di connettere quanti più particolari possibili, il tutto ad una velocità disarmante.
Stark era bravo, dannatamente bravo, a sciorinare ipotesi e proporre teorie che nemmeno Sherlock Holmes della BBC, ma Phil era…strabiliante, non esisteva maniera diversa per definirlo. Tony Stark poteva anche essere il Robert Downey Jr. della situazione, ma Coulson era uscito direttamente dall’inchiostro di Sir Arthur Conan Doyle –E per il comportamento, la lealtà, il coraggio, per il suo essere così dannatamente Phil Coulson, Barton lo accostava senza problemi a Watson, o, ancora meglio, lo considerava la perfetta, esplosiva miscela tra i due. Sebbene Phil non avesse nulla di Jude Law e nemmeno di Martin Freeman.
Se solo non avesse avuto quell’aria paciosa di perenne buontempone, forse la gente -Villains o meno che fossero- avrebbe cominciato a prenderlo più sul serio e meno per i fondelli. Sebbene, a onor del vero, l’essere minacciati da quel suo sorrisetto mefistofelico era parecchio terrorizzante.
Oh, non che Clint avesse pensato chissà quale meraviglia nell’incontrarlo la prima volta. Chi avrebbe mai preso sul serio un tizio qualunque del pubblico che dal niente lanciava una monetina in aria, sfidandolo in maniera plateale a colpirla e a dimostrare di essere davvero Il più grande tiratore scelto del mondo.
“Sono l’Agente Coulson, signor Barton. Dallo S.H.I.E.L.D. E lei mi deve un nichelino
«Vermin è un caso archiviato anni fa, Agente, e si trattava di pedinamento, nulla di più. Non avrebbe motivo di appostare i suoi amichetti qui.»
Occhio di Falco non disse nulla.
Si alzò. Sganciò l’arco dalle spalle. Sfiorò a punta di dita l’impennaggio ferreo della freccia mentre la sfilava dalla faretra. Incoccò.
Un singulto d’aria.
Phil non si mosse, nemmeno quando la cuspide del dardo gli passò tanto vicino da disegnare un’ombra scura sulla tempia.
«Allora consiglierei di portare qui qualche gatto, signore.»
L’ennesimo topo scricchiolò gemendo contro il pavimento.
Tredici.
Il prossimo che si alza sarà il primo a morire.

Coulson gettò un’occhiata veloce al minuscolo cadavere. Quindi si rimise in piedi.
Il cuore di Barton perse istantaneamente un battito.

 

 

***

L’Artista chiuse la porticina dietro le spalle e rimase per qualche secondo con le dita attorno al pomello. Sollevò le sopracciglia rosso-bruno, sospirò e quindi, inarcando un poco le spalle all’indietro, girò il volto a fissare un punto preciso tra le ombre chiazzate di rosso che dominavano il retro dell’ Onomaklutòn.
«E’ probabile che non sappia bene come rapportarmi con i miei…come li chiamate, oggi? Fans…? Ma non vedo alcun bisogno di nascondersi. Prego, venite avanti.»
Bruce stette a fissare la schiena di Natasha che si allontanava dal loro nascondiglio, salvo poi seguirla con una certa e quanto mai palpabile riluttanza. Affondò i pugni nelle tasche del giaccone, la testa incassata tra le spalle, ben sapendo di assomigliare così ad una sottospecie di bozzolo bitorzoluto e infagottato dentro una sgualcita camicia a quadri.
L’Agente Romanoff fece qualche passo in avanti e Hulk si agitò in un angolo recondito del suo animo: dacché lo spettacolo si era concluso, Natasha non pareva essersi ripresa del tutto dagli effetti del violino. Traballava incerta sulle gambe, ogni tanto, e perdeva il filo dei discorsi e dei propri pensieri; lui, invece, era riuscito a mantenere la presa su di sé grazie al moto di ribellione dell’Altro, per nulla disposto a lasciarsi domare come un leone da circo.
L’Artista pressò le labbra e pose la custodia sul gradino che scendeva dall’uscita di servizio, sedendosi poi accanto ad essa. Appoggiò i palmi delle mani uno contro l’altro, la bocca schiusa a mostrare la fila di denti superiori e i lati degli indici che sfioravano la punta del naso.
«Dunque, donna
L’appellativo fece scattare qualcosa dentro Natasha, che si fermò proprio davanti all’Artista e mise le braccia conserte al petto. A prima vista sembrava aver assunto la stessa aria con cui gli si era presentata in India, pensò Bruce, eppure c’era una nota profondamente diversa: nella catapecchia l’atteggiamento denotava comunque una lieve apertura, una pacifica prospettiva di dialogo. In quel momento a regnare era solo il gelo.
«Tale astio da parte sua non è necessario» mormorò, piegando appena la testa sulla spalla «Non sono una Menade, non è mia intenzione farla a pezzi.»
Banner notò la pupilla dell’Artista dilatarsi per la sorpresa e per una sorta di piacere inaspettato, quasi quella notizia fosse per lui un delizioso passatempo.
«Dunque è così!» esclamò, abbassando le braccia e posizionando la custodia sulle ginocchia «Le voci dell’etere non erano menzogne! L’Ade si concede ad un mortale, come la peggiore delle puttane!»
L’Agente Romanoff arcuò un sopracciglio mentre Orfeo continuava nel suo soliloquio e giocherellava con la doppia chiusura della custodia. Hulk ringhiò un avvertimento sordo nel cervello di Bruce, che dovette portarsi una mano alla tempia per attutire il dolore e la confusione improvvisa.
«Ma i ruscelli parlavano di un uomo vestito di ferro, un morto che cammina fra di noi. Cosa mi mandano gli Dei, invece? Una donna e tu» Banner alzò la testa, chiamato in causa senza che riuscisse a comprenderne il motivo «Un uomo i cui occhi non sono quelli di chi ha perso l’Amore della propria esistenza, ma di colui che ha appena ritrovato un barlume di speranza!» Orfeo ghignò, malevolo, e prese il violino fra le mani, la custodia di nuovo a terra «Ma chiunque voi siate, qualunque sia la vostra missione, non potete concluderla da soli: avete bisogno di un segugio a tre teste che vi conduca ai Templi Acherontei» pose lo strumento sulla spalla, l’archetto già pronto sulle corde «E venite qui, alla mia Dimora, venite a disturbare i miei Riti Misterici, gli ultimi, forse, che ancora si celebrano in questo luogo di vestigia polverose!» rise di una risata fredda, tanto vuota e impersonale da pizzicare la colonna vertebrale con brividi irosi «Venite qui e pensate che io vi accordi il mio aiuto senza questione alcuna, piegando il capo e Sì, dicendo, sì, verrò! Vi guiderò alle ombre che hanno preso la mia sposa! Alla morte che ha trasformato il suo bel volto in un teschio, in una casa di vermi e di fango! Sì, sì, verrò!» si levò in piedi, gli occhi socchiusi, le iridi frammenti di specchio, vitrei e scuri.
Il ringhio di Hulk nel torace si fece più forte, tanto da coprire ogni altro rumore.
 «Troppe preoccupazioni nel vostro cuore, mortali. Lasciate che Orfeo ponga loro fine…»
E Bruce avrebbe voluto gridare a Natasha di stare attenta, Natasha che già guardava un mondo che non apparteneva ad altri che a lei, Natasha che aveva lasciato cadere le spalle non appena la prima nota aveva piroettato sulle corde del violino, Natasha che era la persona per cui non ficcarsi un’altra volta la canna della pistola tra i denti.
Avrebbe voluto gridare, ma ciò che gli proruppe dalla gola fu un ruggito di rabbia, un convulso vomitare di ira e furia cieca. Il fuoco divampò nei polmoni, l’Altro gli afferrò le costole e le aprì come avrebbe fatto con le sbarre di una gabbia, gli ruppe il petto, fuoriuscì con un ennesimo urlo, Hulk spacca! Hulk vendica! perchè a Hulk non piaceva essere messo da parte, a Hulk non piaceva essere addomesticato, a Hulk non piaceva essere domato, a Hulk non piaceva che Natasha fissasse il vuoto, a Hulk piaceva Natasha viva, a Hulk non piaceva un involucro vuoto di carne e respiro.
Hulk si abbatté su di Orfeo e lo scaraventò con un pugno oltre il retro del locale. Snudò i denti lucidi di saliva e si batté il petto, strappandosi di dosso gli ultimi resti della camicia; si piegò sulle ginocchia, saltò in avanti, ruggì e latrò, mentre il piccolo uomo col violino rotolava tra il fogliame e tentava malamente di rimettersi in piedi. Lo raggiunse con un balzo, lo colpì al viso con le nocche e lo mandò contro un albero: la corteccia scricchiolò e s’infranse in un tripudio di schegge, il tronco gemette, si sfaldò, il piccolo uomo col violino si aggrappò al ceppo dentellato, rialzò gli occhi sgranati e Hulk gli fu addosso, di nuovo e ancora, lo afferrò per il colletto e lo lanciò lontano, quasi fosse una marionetta o meno di un giocattolo, lo lanciò contro i rami e le sterpaglie e sterpaglie e rami gli lacerarono il soprabito e gli graffiarono il volto e quando atterrò sul piazzale, Hulk era già pronto ad assalirlo un’altra volta.
Il violino del piccolo uomo era ancora integro e questo fece ribollire Hulk di rabbia: la voce fastidiosa e ronzante di Banner gli disse all’orecchio che era il violino a rendere Natasha non più Natasha, a farlo innervosire, perché il violino poteva ammansire le belve, placare gli animali, ma lui non era un animale, non era una belva, era Hulk e Hulk era meglio di una bestia, era più di un essere umano e sapeva, sapeva bene che il violino era da distruggere e spaccare e fare a pezzi e lo avrebbe fatto a pezzi, spaccato, distrutto, doveva solo mettergli le mani addosso.
Ruggì, le vene del collo sul limite di scoppiare, i denti che stridevano e strillavano l’uno contro l’altro, e Natasha era dietro di lui e lo chiamava, Bruce! Bruce! Diceva e pregava, ma Hulk non sarebbe tornato Banner, perché Banner era debole e si sarebbe ammansito, ma Hulk no e se Hulk non si ammansiva poteva difendere Natasha, poteva proteggerla dal piccolo uomo col violino, poteva difenderla dal suono di zanzara che le appiattiva gli occhi e Hulk spacca! Hulk vendica! Hulk protegge!
Il piccolo uomo col violino gattonò in avanti, ma Hulk non gli permise di allontanarsi oltre: lo sollevò, gli strappò il soprabito sporco e lercio e lurido, lo scosse più e più volte, con molta, tanta forza fino a che il violino del piccolo uomo non cadde a terra e tintinnò e l’archetto lo raggiunse, e allora Hulk ragliò soddisfatto e abbaiò divertito e la faccia del piccolo uomo era pallida e viola e lo guardava ed era terrorizzato e aveva paura di Hulk e Hulk sentiva ancora Natasha che lo chiamava e gli diceva di farlo scendere, perché l’avrebbe ucciso e a loro serviva, ma Hulk non voleva ucciderlo, voleva solo giocare col piccolo uomo, fargli vedere e capire che non poteva ammansire e addestrare nessuno e che lui, Hulk, non glielo avrebbe permesso, perché il suo violino era fastidioso, era una zanzara, era un insetto e gli insetti si schiacciano e Hulk spacca! Hulk vendica! Hulk protegge! e non lo avrebbe fatto suonare di nuovo, a Hulk non piaceva, come non gli piaceva quel posto, non gli piaceva quel bosco, quell’aria di pace che lo imprigionava e tentava di rimpicciolirlo e ridimensionarlo e Hulk non ci stava, Hulk non sarebbe stato zitto, Hulk avrebbe urlato e gridato e gridato e urlato perché lui c’era, lui esisteva e Banner voleva solo rinchiuderlo e lui non voleva e Banner non l’avrebbe mai fatto, mai, neanche in quel posto, neanche in quel bosco, neanche con quel violino che tutto placava.
«Hulk! Hulk, lascialo! Hulk, lo stai uccidendo!»
Hulk. Lascialo. Senti Natasha, non è vero? Lo stai uccidendo. Non possiamo ucciderlo. Non possiamo.
Hulk roteò il piccolo uomo sopra la testa, ignorandone il gemito strozzato.
Banner sta zitto, Banner non dice nulla, Banner vuole solo prendere il posto di Hulk, Hulk no, lascialo, ora. Lascia spazio a me, Hulk, Hulk non vuole essere dimenticato, Banner dimentica e frena Hulk e lo soffoca e lo tiene nascosto e Hulk, per favore, per favore fammi tornare. Lo stai uccidendo. Natasha non vuole che lo uccidiamo. Fammi tornare, Hulk, per favore, perché Banner dimentica Hulk e lo crede un mostro e una belva, per favore, Hulk!
«Hulk!»
Hulk grugnì e lanciò il piccolo uomo contro un albero. Vide la testa del piccolo uomo rimbalzare, blop blop, sul petto, e sangue sulla fronte e sulla faccia bianchiccia e cadere come un bambolotto senza fili ai piedi del tronco. Rimase lì e non si mosse, ma Hulk poteva sentire ancora il suo fiato, lo sentiva, puzzava di sudore e di paura e di cosa viva morta già da un po’ di tempo, non era cadavere, ma in qualche era morto, ma ad Hulk non importava, non l’aveva ucciso perché Natasha aveva detto di non farlo e Natasha ora aveva la mano sul suo braccio e il tocco era leggero, le dita erano sottili e belle, i polpastrelli carezzavano con dolcezza la pelle nuda. La voce era gentile, un sussurro appena, un quieto sussurro di vento e di brezza, una nenia rassicurante, il nome modellato avanti e indietro, indietro e avanti, piano, con calma, con calma, piano…
Bruce perse l’equilibrio, il cervello una pasta filamentosa di pensieri contorti, lontano il riverbero e l’eco dell’ultimo ruggito di Hulk.
Sarebbe caduto in avanti se non ci fossero state le braccia dell’Agente Romanoff a sostenerlo.

 

***

 

«S.H.I.E.L.D.» Bruno sputò fuori quel nome con rabbia, accompagnandolo ad un bolo di saliva e ad un rigurgito di vino acido. Si passò il dorso della mano sulle labbra, per poi lanciare un’occhiata sprezzante al sudicio compagno accoccolato poco più avanti: avvolto in stracci che puzzavano peggio dei liquami dell’Arno, la sottospecie di pantegana umana rantolava piagnistei soffocati e si torceva le dita luride e biascicava qualche porcheria tra i denti gialli ed innaturalmente appuntiti.
«Erano ratti, per Dio! Ratti. Chissenefrega se sono crepati»
L’abitante delle fogne scattò in piedi e gli fu addosso in un balzo, le unghie artigliate al pastrano e il naso gocciolante a pochi centimetri dal suo; l’italiano storse le labbra, piantandogli una mano in mezzo alla faccia rognosa e rispendendolo indietro. Vermin zampettò e s’accucciò in un angolo, masticando poltiglia non meglio identificata tra le guance pelose.
«Ratti? Tu dici, ratti?» sibilò «Senza quei ratti, tu non avresti mai scoperto di…» un gesto vago con il braccio avvizzito «Loro!»
Bruno sollevò le sopracciglia. E che cazzo, ma certa gente viveva sulla Terra unicamente per rubare ossigeno?
«S.H.I.E.L.D. » spiegò, rimettendosi in piedi e togliendosi con fare schifato un rimasuglio di tampax dalla manica destra «Strategic Homeland Intervention, Enforcement and Logistic Division. Cristo, ma era ancora zeppo di sangue!»
Vermin rivolse su di lui gli occhietti acquosi, le narici dilatate e, Bruno ne era praticamente certo, le orecchie triangolari ben ritte contro le tempie.
«Tu non hai mai avuto problemi con la Cura, vero, sorcio amico mio?» un sorriso storto mentre si accovaccia a raccogliere la fedele bottiglia di vino e se la portava alle labbra «Buon per te»
Lui, oh, lui sì che aveva avuto la sfortuna di incappare nelle conseguenze che quegli idioti della Worthington avevano tirato su con la loro idea geniale di sopprimere il gene mutante. Magneto aveva fatto i suoi bei casini con la storia della rivolta, l’italiano non diceva di no, ma almeno aveva avuto il buon gusto di sparire dagli schermi per, uhm, facevano sette anni ormai, giusto? e non lasciare nulla dietro di sé.
La casa farmaceutica, invece, non aveva cancellato proprio tutti tutti i file relativi alla Cura –Che fossero stati tanti idioti da tenerla in serbo per quando i tempi fossero stati maturi e la gente ancora più cretina?- e lo S.H.I.E.L.D. non si era fatto certo scappare la possibilità di metterci le mani sopra.
Figurarsi.
A quei capoccioni non governativi avere dei mutanti dalla propria parte poteva ancora far comodo, ma gli schizzoidi fuori legge e potenzialmente pericolosi dovevano essere eliminati prima che fosse troppo tardi. E Bruno era un mutante schizzoide, che giocherellava col sangue in maniera non potenzialmente, ma decisamente pericolosa: ritrovarsi con un mandato di cattura tra capo e collo era stato più logico di quando avevano cercato di portarlo in gattabuia, dopo aver sgozzato il docente di Letteratura Latina.
Se non fosse stato per il senatore McCoy –Dannazione, quella Bestia aveva un fiuto niente male- e la sua ferrea opposizione all’uso della Cura come inibitore criminale, lui sarebbe stato ancora costretto a correre da una parte all’altra di Manhattan per sfuggire agli Agenti, ad accartocciarsi in qualche lurido pisciatoio, a non mangiare per giorni e a farsi venire il torcicollo a suon di guardare il cielo o a tendersi alla ricerca di un suono, uno scalpiccio di piede, il singulto di una pallottola.
Una vita ancora più di Inferno di quanto già non fosse e tutta per colpa loro, di quei bastardi vestiti di kevlar o simil pelle o che cazzo era. Tutta colpa loro. Di uno in particolare, quello che lo stanava dodici volte su dieci, che l’aveva trascinato in un bugigattolo rancido, che era arrivato ad un passo dal piantargli un ago in vena e che si era fermato giusto giusto perché dai piani alti era giunta la novella del Senatore Blu.
Bruno sorrise, un ghigno grottesco a tagliargli obliquamente la bocca.
Quella baldracca. Gli aveva parlato di vendetta, quando era venuta a reclutarlo.
Mannaggia a lei. Ne sapeva una più del demonio.
«Brindo a te, Phil Coulson» ridacchiò, stringendo le labbra della bottiglia tra i denti storti «E a quando ti taglierò di netto lingua e gola, figlio di puttana che non sei altro»

 

 

***

Orfeo tamponò la ferita alla bocca con un angolo del fazzoletto.
Una macchia rossa dai bordi slabbrati sbocciò liquida sulla stoffa, colando con un che di appiccicoso contro le dita serrate e pallide dell’Artista. Bruce corse con lo sguardo sui rimasugli di sangue che ancora gli incrostavano il volto all’altezza dello zigomo destro, un bozzo livido alla tempia e l’occhio sinistro cerchiato di nero-violaceo. Orfeo stirò le labbra sottili in un sorrisetto derisorio e la minuscola ferita all’angolo della bocca si riaprì, stillando una gocciolina gonfia di riflessi lividi.
«Contempli la tua opera, Uomo-Belva?»
Banner non raccolse la provocazione e si strinse negli abiti dannatamente larghi che l’altro si era fatto procurare dal barista dell’Onomaklutòn, quasi accucciandosi e rintanandosi dentro le falde del maglione più grande di due taglie. I muscoli urlavano e le ossa gemevano, il sangue sgomitava contro le pareti delle arterie spossate per farsi un po’ di strada nel di nuovo ristretto apparato circolatorio.
Aveva smesso di tremare, il che era un bene, ma le ginocchia si rifiutavano ostinatamente di reggere il suo peso, disfatte come un gomitolo di lana: oltre che debole, si sentiva inutile, e la cosa non migliorava certo il proprio umore –Già storto di per sé a causa della trasformazione inversa da Hulk a Banner. L’Altro non era mai felice di tornare alle dimensioni di essere umano e glielo faceva presente, glielo faceva pesare ogni volta lasciandosi dietro nausea, giramenti di testa, problemi alla vista, e soprattutto un palpabile senso di rabbia vertiginosa, di impotenza, di umiliazione.
In simili condizioni non era la compagnia più adatta, neanche dopo lo scontro che aveva convinto Orfeo ad unirsi, seppur con qualche palese ritrosia, alla loro causa: aveva quindi suggerito a Natasha ad allontanarsi per informare Tony sul risultato della missione, mentre lui rimaneva di guardia, il violino ben lontano dal suo proprietario.
Bruce tamburellò con le dita sulla custodia di pelle, il tump tump tump cadenzato dei polpastrelli che cominciava ad accordarsi al battito più regolare del cuore; l’Artista, seduto su un ceppo sbranato dalla furia di Hulk, contorse la bocca a formare una smorfia sogghignante e saputa, cui il Dottore, ancora volta, evitò accuratamente di rispondere. Torse invece il collo ad osservare l’Agente Romanoff, in piedi nella piazzola antistante l’entrata dell’Onomaklutòn.
La circondava la luce soffusa delle torce fuori dal locale, accesesi non appena il sole aveva levato un ultimo braccio rossastro contro l’orizzonte. Il tramonto si era spento con un guizzo e sul bosco gran parte distrutto giganteggiava il cielo scuro, velato a metà tra notte e crepuscolo; i capelli di Natasha erano una calotta di fiamme tremule sotto quei bagliori soffocati, gli occhi s’intravedevano appena all’ombra delle sopracciglia aggrottate. Il braccio destro era piegato, la linea polso-gomito un segmento nero praticamente rettilineo all’orecchio; la curva del seno e del petto s’affossava rigida nell’incavatura del ventre, aprendosi infine nelle gambe divaricate, l’ombra un proseguo indistinto della sua figura ancora all’erta.
Ancora una volta, Bruce si chiese se non fosse controproducente, se non fosse morboso e a tratti persino perverso aggrapparsi a lei, al profilo delle ciglia, del naso e delle labbra quale fonte di quiete in una realtà che sembrava solo volerlo trasformato in una bestia verde e urlante. Provò a porre il quesito persino ad Hulk, ma questi non gli diede risposta, segno che la tempesta era ormai passata e lui si stava preparando per l’agguato e l’assalto successivi.
«Come già ti dissi, non hai gli occhi di un uomo che ha perso l’Amore della propria esistenza, ma di colui che ha appena ritrovato un barlume di speranza. Ahimè, quale disdetta. Somigli tanto al cuore mio, al mio dolce Calais, possa Eracle ancora soffrire per ciò che gli ha fatto.»
La voce canzonatoria di Orfeo ebbe l’effetto di scuotere l’Altro dai ben poco pacifici piani di conquista della coscienza, oppure, considerò Banner, era lui a trovarlo insopportabile e fastidioso senza che l’Altro ci mettesse del proprio per fargli saltare i nervi.
«Non capisco di cosa lei stia parlando.»
L’Artista ghignò di nuovo, posando il braccio sul ginocchio piegato.
«Dovresti interrogare la Belva, Uomo. Pare abbia compreso molto più di te.»
Bruce fu sul punto di ribattere, ma Natasha li raggiunse e la sua presenza distolse entrambi dall’inscenare un nuovo, inutile e disfattivo. Dalle mani strette ai fianchi e la piega dura della bocca, il Dottor Banner capì che qualcosa, durante la conversazione con Tony, aveva preso una brutta piega. Brutta, se non addirittura pessima.
«L’incontro è sempre per domani, a Cuma.» esordì, scoccando ad Orfeo un’occhiata che prometteva le più terribili torture, forse peggiori di quelle inflittegli dalle Menadi, se avesse anche osato pensare di fuggire o compromettere il loro viaggio «La notizia buona è che ha trovato Odisseo. Quella cattiva è che al momento si trova a Termini Imerese. In Sicilia.»
«Come…?» Banner corrugò la fronte. Di tutti i momenti che Tony poteva scegliere per andare in vacanza al mare, quello era sicuramente meno adatto. «Cosa ci fa a…?»
«Ah…» esalò Orfeo, reclinando deliziato il capo all’indietro.
Sia Bruce che Natasha si voltarono nella sua direzione: l’Artista risollevò la testa, il volto contratto nel sorriso di chi tutto si aspettava dalle circostanze, tranne quanto era appena successo.
«Avrei dovuto immaginarlo, sapete? Ah, Laerziade, Odisseo Che Molto Si Volge, perché ancora mi sorprendo? Perché ancora mi stupisco?» il sorriso trasmutò in un ghigno sardonico «L’Erebo gli aprirà le porte e i morti parleranno a lui con voce di sangue.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cor Mortem Ducens
#05. Deus Ex Machina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note :

 

·         Moti di Stonewall

 

·         «Avevo pensato anche a Norton, ma dubito che l’Altro avrebbe apprezzato l’ironia di chiamarsi come un antivirus.» : Dovete sapere che quelli della Marvel sono dei trolloni assurdi. Soprattutto nelle ultime testate (Ultimates comprese) ci cacciano riferimenti agli attori che hanno interpretato i nostri eroi preferiti al cinema (Lo stesso Robert Downey Jr. cita se stesso in Iron Man 3!).
Dunque troviamo Natasha con falso nome di “Scarlett” riferimento alla Johansson e un giochetto stupido sui due interpreti di Bruce Banner: Mark Ruffalo e Edward Norton.
Allo stesso modo, quel trollone del Falco cita Robert Downey Jr. in rapporto al suo ruolo come Sherlock Holmes nella saga di Ritchie.

 

·         «E’ la via di Tinia dei Rasna, il Giove dei Tyrsenoi.»: quando dico che studiare troppo mi fa male. Andavo giusto preparandomi per l’esame di Etruscologia quando, oh meraviglia, oh portento! mi è venuto in mente questa cazzata idea. Visto e considerando che Amora sta conducendo Thor per una via traversa perché non scomodare gli Etruschi? La loro religione, infatti, ha subito una forte contaminazione dai contatti coi Greci e visto che ho inserito anche il personaggio di Enea nella storia nell’accezione del suo personaggio dell’Eneide, perché escludere la stirpe di Tarconte?
Tinia altro non è che il nome etrusco di Zeus, Rasna il nome con cui gli Etruschi chiamavano se stessi, Tyrsenoi il nome dato loro dai Greci.
La porta descritta esiste veramente e si trova nella Tomba Campana a Veio: è la prima in cui si trova la porta quale elemento centrale, fulcro attorno al quale ruota la decorazione, discrime tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

 

·         La nostra Natasha ha la bellezza di settant’anni ed è l’ultima discendente della famiglia Romanov, nonché prima ballerina del Bol’soj Mica pizza e fichi.

 

·         Carol Danvers è la nostra cara Mrs. Marvel.

 

·         Vermin

 

·         Quel coglione Quel bezugo Bruno, parlando della Cura e della soppressione del Gene Mutante, fa riferimento agli eventi del film X-Men: Conflitto Finale (2006). L’acronimo S.H.I.E.L.D. in realtà sta per Strategic Hazard Intervention, Espionage and Logistics Directorate, ma ho qui riportato la versione che ne dà Phil Coulson nel primo Iron Man.

 

·           Orfeo ha la nota più lunga, ecco perché l’ho lasciato per ultimo. Non perché mi stia sulle balle Un po’ sì, però, dai
Dunque, per prima cosa vi rimando alla
pagina di Wikipedia a lui dedicata, ché è sempre una cosa molto utile (?) Onomaklutòn è il termine con cui Ibico si riferisce a lui in un frammento del VI secolo, mentre Apollo, Calliope ed Eagro sono tre personaggi legati alla sua nascita. Calais è il giovane che egli amò dopo la morte di Euridice (Orfeo è, infatti, colui che lasciò da parte i riti di Bacco e promosse l’amore omosessuale, venendo poi fatto a pezzi dalle Menadi, per questo). Tutto, anche i particolari delle lira e del serpente sul biglietto, rimandano a lui e alla sua storia.
Poi…Cosa che credo di non aver mai fatto in altre storie, ma qui ha un prestavolto preciso. Spero solo si sia capito, ecco. Spero di averlo descritto in maniera decente.
Per chi se lo chiedesse, ho impunemente usato Benedict Cumberbatch nella sua veste di Sherlock Holmes, nella famosa serie della BBC.
Non so per quale motivo, ma pensando ad Orfeo mi è venuto in mente lui Altra prova che non sono normale, alèèèè

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note di Fine Capitolo

 

AVVISO! DAL 1 LUGLIO AL 16 AGOSTO SONO VIA PER UNO SCAVO E NONOSTANTE IL WEEK-END IO SIA A CASA, DUBITO DI RIUSCIRE A POSTARE UN NUOVO CAPITOLO. CERCHERO’ DI METTERLO PRIMA DELLA PARTENZA, MA NON VI ASSICURO NULLA.

 
Boia c’è Hulk. Io non ho mai descritto Hulk. Non mi sono mai infilata nella sua testa. Che dite? Plausibile o bocciata su tutta la linea?
Via, stavolta non mi dilungo, ché sto capitolo mi ha spossata del tutto XD
Ringrazio mia mogliaH Alley e Shi_Tsu_Geass per aver recensito! E poi bunnybenny per aver messo la storia tra le seguite!
Alla prossima!

   
 
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