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Autore: Niglia    27/06/2013    8 recensioni
{Vecchio titolo: The Wrong Man}
Giulia è una normale ragazza di 18 anni; va a scuola, esce con le amiche e, quando capita, con qualche ragazzo, ma non è certo alla ricerca del Principe Azzurro.
Sembra l'inizio di un'estate come le altre quando, all'improvviso, compare Enrico: l'erede di un impero criminale, bello e affascinante, che si invaghisce di lei e la obbliga, un po' con le buone e un po' con le cattive, a frequentarlo...
"I tuoi amici non sanno dove sei, però loro sono al sicuro." Mormorò, avvicinando le labbra al mio orecchio e facendomi rabbrividire con il suo caldo respiro. "Cerca di fare in modo che rimangano tali... Se mi disobbedisci in qualsiasi modo, farò loro del male, e ti assicuro che sembrerà un incidente."
Parlava come farebbe un amante nell'intimità di una camera da letto, con la stessa voce calda e rassicurante, leggermente roca: eppure le sue parole erano tutto fuorchè rassicuranti. La sua era una minaccia bella e buona...
[dal Capitolo 7]
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo XXXI

















Where there is desire
There is gonna be a flame
Where there is a flame
Someone’s bound to get burned
But just because it burns
Doesn’t mean you’re gonna die
You’ve gotta get up and try try try…


I raggi del sole entravano di sbieco dalle ampie finestre alte e strette dell’aula del tribunale, scivolando sul marmo lucido del pavimento e creando una strana atmosfera di solennità e rigore che neppure i più bravi registi americani sarebbero riusciti a riprodurre in qualcuna delle loro pellicole. Se ci fosse stato appena un po’ più di silenzio mi sarebbe sembrato di essere in una cattedrale. Ogni cosa era di legno, dalle panche che ospitavano il pubblico al banco dei testimoni, dalla postazione della giuria alle assi che rivestivano le pareti. Era un legno scuro e opaco che sembrava assorbire la luce proveniente dall’esterno per intrappolarla nelle sue venature; l’unica cosa che scintillava erano le lettere dorate che capeggiavano sotto la pedana del giudice formando la frase più famosa e allo stesso tempo più falsa che il mondo avesse mai conosciuto: La legge è uguale per tutti.
Dalla mia postazione, seduta tra mio padre e mia madre, avevo una visuale perfetta su ciò che accadeva nell’aula: davanti a me, appena più verso destra, si trovavano Enrico e il suo avvocato, mentre dall’altra parte, sotto le vetrate, c’era il banco della giuria posto perpendicolarmente a quello del pubblico ministero. Guardandomi intorno mi resi conto che c’erano tutti, a partire dai genitori di Enrico ad Alessandra e Riccardo, per finire con Stefano e gli altri membri della loro combriccola; gli unici che mancavano all’appello erano i genitori di Lorenzo, che a quanto pare nessuno era riuscito a rintracciare. Non volevo pensare che ci fosse lo zampino degli Occhi Belli, ma a buon intenditor… Ormai sapevo abbastanza di quella famiglia da non stupirmi più per così poco.
Per quanto mi sforzassi, nonostante ciò, di seguire con attenzione tutto lo svolgimento dell’udienza, riuscirci era impossibile; le arringhe degli avvocati erano per me chiacchiere soporifere e senza senso che facevano da sottofondo ai miei pensieri, ed ero così distratta – tutto merito della breve discussione avuta con Enrico prima di entrare in aula – che se non fosse stato per mia madre non avrei neppure udito l’avvocato Martis chiamarmi in causa.
Quella fu la parte peggiore – attraversare la sala per avvicinarmi al banco dei testimoni; sentivo gli occhi di tutti i presenti scavarmi la schiena, e non era una bella sensazione. Il mio intervento in sé fu piuttosto breve, e dubito anche che fosse così incisivo come mi avevano voluto far credere: fondamentalmente si trattava della testimonianza di una ragazzina che al momento del “crimine” era sotto shock – provate un po’ a indovinare come mai – e che dunque poteva avere dei dubbi riguardo quanto accaduto in quella camera da letto. Senza contare che, come ritenne opportuno precisare l’accusa, i miei precedenti sentimentali con l’imputato avrebbero potuto offuscare il mio giudizio. Ah, se solo avessero saputo!
Enrico non mi aveva staccato lo sguardo di dosso nemmeno per un istante mentre cercavo di rispondere con quanta più calma possibile alle domande dell’avvocato Martis e del pubblico ministero. Aveva un’espressione mortalmente seria, era persino leggermente pallido e in più mi accorsi che, mentre stavo raccontando di come Lorenzo mi aveva rapita e aggredita, tutto il suo corpo pareva essersi irrigidito nello sforzo di non alzarsi dalla postazione per venire da me. In effetti, ripensandoci, quella doveva essere la prima volta che mi sentiva parlare dell’accaduto – e con tutta quella dovizia di particolari, poi – e non potei evitare di chiedermi se sarebbe stato capace di “sistemare” Lorenzo anche a sangue freddo, qualora non lo avesse, diciamo accidentalmente, ucciso il giorno stesso.
Sapevo benissimo che rimuginare sulla predisposizione di Enrico alla violenza non serviva a niente e a nessuno – forse era uno strano istinto masochistico quello che mi spingeva sempre più a fondo nella spirale del compatimento e dell’autocommiserazione. Non bisognava dimenticare però che, se lui non fosse intervenuto, probabilmente in quel momento mi sarei trovata in terapia per cercare di dimenticare uno stupro – sempre se Lorenzo non avesse avuto intenzione di farmi fuori, dopo. Forse era un tantino disturbante la noncuranza con cui pensavo alla mia morte, ma il tempo che era trascorso dal fattaccio era servito a farmi metabolizzare e digerire l'intera situazione - motivo per il quale adesso sembravo terribilmente cinica. Comunque, da qualsiasi parte la guardassi non vedevo un lieto fine in quella faccenda; nell’attimo in cui Lorenzo aveva deciso di portare a termine quella sua discutibile vendetta nei confronti di Enrico, di cui tuttora mi sfuggivano i particolari, era sparita ogni opportunità di risolvere la cosa tra persone civili e senza spargimenti di sangue. In poche parole qualcuno si sarebbe fatto male qualsiasi cosa fosse successa e, a quel punto, devo ammettere di aver tirato un sospiro di sollievo nel constatare che quel qualcuno non ero io né tantomeno Enrico.
Quando l’avvocato mi congedò, dandomi il permesso di tornare a sedermi accanto alla mia famiglia, mi accorsi di avere le mani che tremavano come foglie: cercai di celarle sistemandomi le pieghe del vestito e affrettando il passo verso le panche, ma Enrico aveva seguito ogni attimo del mio passaggio attraverso l’aula e potrei mettere la mano sul fuoco sul fatto che se ne fosse accorto. Dio mio, c’era mai qualcosa che gli sfuggiva? Mi risedetti con aria indifferente vicino a mia madre e mi passai una mano tra i capelli, riprendendo a respirare circondata com’ero da persone fidate; solo allora mi decisi a spostare lo sguardo su Enrico, e come mi ero immaginata lui era lì, voltato di due quarti sulla sua sedia in modo da potermi vedere. La sua espressione era così preoccupata che fu un gesto istintivo, da parte mia, accennare un sorriso che lo tranquillizzasse.
Sicuramente stupito ma indubbiamente rassicurato da quell’inaspettato accenno di intimità, Enrico fece un movimento affermativo col capo e anche sulle sue labbra si distese una debole ombra di sorriso, prima che il suo avvocato lo richiamasse sottovoce all’attenzione costringendolo a darmi le spalle e a seguire il proseguirsi del processo.
Alla mia sinistra, mia madre mi prese la mano e la strinse con fare affettuoso: evidentemente non si era persa quel breve scambio di occhiate tra me e lui, confermandosi così l’unica capace di capirmi in tutto e per tutto. Sospirai e ricambiai la stretta. Non vedevo l’ora di tornare a casa…
E invece la giornata sembrava non voler finire ancora.
Dopo la mia testimonianza e una breve discussione tra gli avvocati, il giudice ritenne opportuno aggiornare la seduta e accordare quaranta minuti di pausa, in modo che i membri della giuria potessero riunirsi e tirare le somme di quello che era stato il processo fino ad ora; una volta che l’uomo fu uscito l’aula si svuotò abbastanza rapidamente, e mentre mi avvicinavo alla porta insieme ai miei genitori – quasi invidiavo mia madre che poteva tenere a bada l’ansia con le sue sigarette – notai Stefano e gli altri ragazzi raggiungere Enrico per, supposi, tirargli su il morale.
In quel momento, un pensiero inatteso mi colpì con forza.
Ci sarei dovuta essere io, lì.
In qualche modo, sembrava la cosa più giusta che avrei dovuto fare: d’altra parte, come mi aveva detto Stefano qualche tempo prima, era Enrico quello che rischiava la galera – la propria libertà – per un crimine commesso al solo scopo di proteggere me.
Eppure i miei piedi non si mossero in quella direzione, e presto fui fuori dall’aula, al sicuro tra la mia famiglia, insieme ad Alessandra e Riccardo, lontana da lui. Forse Enrico avrebbe voluto scambiare due parole con me durante quella pausa, ma le circostanze non glielo permisero; avrebbe dovuto affrontare la seconda parte del processo come già aveva affrontato la prima, ossia con un sacco di faccende in sospeso con la ragazza per la quale aveva rischiato tutto.
Questo pensiero mi fece sentire incomprensibilmente a disagio.





*





Ma, come si dice in casi simili, tutto è bene quel che finisce bene: più o meno. Alla fine il giudice aveva pronunciato la sentenza definitiva, e come ci aspettavamo e speravamo che accadesse, Enrico venne scagionato dall’accusa di omicidio, giustificato come legittima difesa come peraltro era giusto che fosse, per chi non era stato presente al momento del fatto, e tutti noi fummo liberi di andarcene.
Era finita.
Aspettavo quel momento da mesi, ormai, e quando finalmente sentii quelle parole rimbombare chiare e limpide nella maestosa aula di tribunale, fu come se l’enorme peso che gravava sulle mie spalle si fosse volatilizzato. D’un tratto mi sentii leggera, come se fossi stata io quella ad essere assolta. Non avrei più dovuto avere niente a che fare con quel mondo, il suo mondo, niente più messaggi, né chiamate, né incontri con l’avvocato – forse avrei potuto smettere di prendere anche quelle pillole che mi aiutavano a dormire! Sarebbe tornato tutto come prima. Ero libera
No, non era del tutto vero. Avevo ancora una questione da sistemare: dovevo chiudere tutti i conti in sospeso che erano rimasti tra me e Enrico. Dovevo farlo. Glielo dovevo, tutto sommato, ma soprattutto lo dovevo a me stessa; non sarei più riuscita a prendere sonno, altrimenti, se quella porta fosse rimasta aperta.
In ogni caso, che cosa avrei dovuto dirgli? Forse è vero, forse anch’io ricambio i tuoi sentimenti, ma non possiamo stare insieme, dimenticami? L’esperienza dimostrava che un passo del genere sarebbe stato inutile, oltre che autodistruttivo: Enrico tendeva a fare sempre il contrario di ciò che gli si diceva di fare. E poi, no, no, non potevo rischiare di dargli neanche un briciolo di speranza se volevo che sparisse una volta per tutte dalla mia vita.
Ma era davvero questo che volevo?
La voce di mia madre si insinuò tra i miei pensieri e fu come se rispondesse ad essi, riportandomi alla realtà. “Che cosa vuoi fare, tesoro?” Mi chiese infatti a bassa voce, passandomi un braccio intorno alla vita. Mi voltai verso di lei, guardandola con un’espressione sicuramente smarrita, perché lei sorrise dolcemente e aggiunse, comprensiva: “Se gli vuoi parlare, noi ti aspettiamo fuori.”
Che cosa potevo fare? Esitai solo un attimo, prima di annuire lentamente. Anche mia madre sapeva che avevo bisogno di parlare con Enrico, di parlarci davvero – non con due frasi per liquidarlo, ma con una cauta ed attenta scelta di parole – e se lei stessa mi spingeva a farlo, beh… Non c’era via di scampo.
Così lasciai che la mia ultima occasione di fuggire mi scivolasse via dalle mani come acqua, osservando distrattamente i miei genitori lasciarmi sola ad affrontare i miei demoni. E se pensate che io sia troppo melodrammatica allora avete perso qualche passaggio durante il corso degli eventi!
Lo ammetto, ero a disagio. Enrico era circondato dai suoi amici – gli stessi che mi avevano rapita all’inizio di quella storia, e che mi avevano spiato e seguito in diverse occasioni per ordine di Enrico, e che avevano chiamato la polizia e l’ambulanza quando, beh, era morto Lorenzo, ma con i quali io non avevo praticamente mai scambiato una sola parola, se si escludeva Stefano; e adesso erano tutti palesemente felici, ridevano e scherzavano, lo abbracciavano, tiravano sospiri di sollievo nel rendersi conto di averla scampata per l’ennesima volta. Rimasi per un attimo in disparte, raccogliendo il coraggio, salutando con un mezzo sorriso Betta e il signor D’Angelo che si avviavano verso l’uscita dell’aula insieme al resto delle persone che avevano assistito al processo; e solo alla fine, quando nella stanza rimanemmo solo io e i ragazzi, presi un profondo respiro e mi avvicinai a loro.
Il rumore dei miei tacchi sul parquet parve passare inosservato, così non feci nulla per dar prova della mia presenza fino all’ultimo momento; ma quando, inevitabilmente, si accorsero di me, tacquero pressoché nello stesso istante e mi guardarono, in attesa – suppongo. Furono i cinque secondi più imbarazzanti della mia vita.
Mi schiarii la voce, torturando i manici della mia borsa, senza ben sapere come esordire. Avrei dovuto fargli le congratulazioni? Gli auguri? Non sarebbe stato troppo ridicolo?
“Sono felice che ti abbiano assolto”, dissi alla fine optando per una frase un po’ più neutra per attaccare bottone, focalizzandomi solo su Enrico e cercando – a fatica – di ignorare gli altri.
Enrico non sembrò dare cenno di voler rispondere, così Stefano prese in mano la situazione e strinse affettuosamente la spalla del cugino, accennando un sorriso. “Ti aspettiamo fuori. Quando hai finito ci trovi al bar.” L’altro annuì, senza distogliere lo sguardo da me, e i ragazzi se ne andarono velocemente, fingendo di non riconoscesse l’eccezionalità dell’intera situazione – io che mi avvicinavo di mia spontanea volontà ad Enrico, quando invece sarei potuta fuggire con i miei genitori subito dopo che la seduta era stata tolta, tanto per essere chiari. Lo trovavo assurdo io stessa, immaginavo come dovesse sembrare ai loro occhi.
A quel punto, rimasti soli, Enrico smise di guardarmi e d’improvviso parve estremamente occupato a mettere in ordine alcuni fogli ancora sparsi sul tavolo, riuscendo a non far trapelare nulla dalla sua espressione. “Dici davvero? Credevo che avresti preferito vedermi in prigione, in modo da poter vivere la tua vita in tutta tranquillità senza di me”, fece gelidamente, chiudendo la cartella con un elastico.
Malgrado il tono, non riuscivo a capire se stesse scherzando o meno; nel dubbio decisi di prenderlo sul serio. “Anche se puoi pensare il contrario, non sono così stronza”, ribattei a mezza voce. Ero andata da lui con la mezza intenzione di salutarlo e andarmene, ma avrei dovuto sapere che non sarei stata in grado di cavarmela così a buon mercato. O forse… forse, semplicemente, non volevo farlo. Anzi, mi resi conto che mia madre aveva visto giusto, e che io avevo ancora alcune cose da dirgli.
Cosa che feci dopo aver preso un bel respiro profondo.
“Senti. Quello che è successo è terribilmente sbagliato, e scioccante, e discutibile, ed è probabile che continuerò a farci gli incubi, ma… Da un lato, e ascoltami bene perché non mi sentirai ripeterlo più, hai cercato di fare qualcosa che in quel momento ti è sembrata la cosa giusta. Non so se tra te e Lorenzo c’erano davvero dei precedenti, o se lui era solo un sociopatico, ma sono convinta che se non ci fossi andata di mezzo io tu non saresti mai arrivato a tanto – e se mi sbaglio, per favore, non correggermi. Lasciami l’illusione che tutto sia andato come è andato perché hai cercato di proteggermi, o di vendicarmi, fai tu – e non parliamo più di questa storia. Okay?”
Per un attimo non parlò: forse non si aspettava quella valanga di parole da parte mia. Poi sollevò una mano a massaggiarsi le tempie, sospirò e scosse appena la testa. “Per quanto apprezzi il tuo discorso, Giulia, e dico sul serio, non sistema neanche la metà delle questioni in sospeso che ci sono tra noi.”
Aggrottai la fronte, ma non ero sorpresa: in fondo mi aspettavo che non si sarebbe arreso così in fretta, benché una parte di me ci avesse, ingenuamente, un po’ sperato. “Enrico, ne abbiamo già parlato. Non rovinare---”
“Ancora? Io non sto rovinando un bel niente. Ti ho detto prima dell’udienza che avremmo ripreso il discorso, o ti sei già dimenticata? Perché io non sono riuscito a smettere di pensarci, e sapere che eri seduta qualche fila dietro di me, durante il processo, non mi ha aiutato a tenermi concentrato neppure su una cosa dalla quale dipendeva la mia vita.”
Non riuscii a trattenermi dal roteare gli occhi, esasperata da quella sua tendenza al melodrammatico, stanca di sentire sempre le solite storie, i soliti discorsi triti e ritriti. “Qui stiamo andando di nuovo fuori tema…”
Inutile sottolineare che il mio pallido tentativo di fare dell’ironia non aveva attecchito.
“Il tema è sempre lo stesso. Tu ti ostini a non voler vedere quello che hai davanti, solo perché hai paura di… di annegare in un sentimento che non vuoi, che ritieni sbagliato! Sei sempre stata tanto paziente con me, Giulia, mi hai tollerato, lo ammetto, quando probabilmente volevi soltanto picchiarmi, hai sopportato la mia presenza per così tanto tempo che alla fine non puoi biasimarmi se mi sono convinto che anche tu provi qualcosa! Insomma, dai, non puoi negare che stessimo iniziando ad avere qualcosa di più, che stessimo andando oltre l’iniziale rapporto del ‘esci con me o me la prenderò con i tuoi amici’… Mi sbaglio? E adesso, tutto quello che voglio, tutto quello che ti chiedo è di non rinunciare a quel qualcosa che si è creato tra di noi e che potrebbe essere davvero bello, soltanto a causa di un mio gesto più avventato di altri.”
Lo osservavo in silenzio, assorbendo le sue parole, cercando di accantonare i miei pregiudizi e sforzandomi, davvero, sforzandomi di comprendere il suo punto di vista. Lo so, lo so, su una cosa aveva ragione: prima che succedesse tutta quella faccenda di Lorenzo, qualcosa nel nostro rapporto era cambiato, evolvendosi in… beh, non lo so bene neppure io in che cosa si stava evolvendo. Al di là dei baci e degli abbracci, per un momento c’era stato qualcosa di più, qualcosa che mi teneva sveglia la notte e che aveva iniziato a farmi mettere in dubbio i miei sentimenti, arrivando al punto da confidarli alla mia migliore amica, che peraltro aveva cercato di farmi cambiare idea. Quel qualcosa era anche la causa del mio essere lì, adesso, di fronte a lui, invece che da tutt’altra parte a cercare di dimenticarlo. Per cui sì, Enrico aveva ragione: volendo fare un paragone romantico, mi sentivo come la volpe che era stata addestrata dal Piccolo Principe. Adesso che conoscevo Enrico, che lui mi aveva mio malgrado addomesticato, non sarei più stata capace di guardare il mondo e non vedere lui riflesso in ogni cosa: il verde cupo del mare mi avrebbe fatto pensare ai suoi occhi, il nero ai suoi capelli, la fresca fragranza del dopobarba al profumo che sentivo ogni volta che ero vicina a lui e che lo abbracciavo, per non parlare di quando, andando a portare un fiore a mio nonno, avrei ripensato a come mi aveva consolato il giorno del funerale… Enrico sarebbe stato dappertutto, non me lo sarei levato dalla testa neppure se l’avessi evitato come la peste fino alla fine dei miei giorni – come peraltro dimostrava l’anno appena trascorso.
E questo, sinceramente, mi terrorizzava a morte.
Compresi di avere gli occhi lucidi quando lui sollevò una mano a sfiorarmi la guancia, con una certa titubanza che poteva essere interpretata come cautela.
“Ascolta, non ti sto chiedendo di sposarmi”, mormorò, muovendo gentilmente il pollice appena al di sotto del mio zigomo. “Vorrei solo che mi dessi un’altra possibilità, un’altra occasione di conoscermi, di conquistarti. Nessuna minaccia stavolta, te lo giuro, partiamo alla pari – e te lo sto chiedendo per favore, come te lo chiederebbe chiunque altro. Poi, vedremo come andrà… Magari sarà un fiasco completo e ci lasceremo da buoni amici, chi lo sa? Non potremo mai toglierci questo dubbio se non ci proveremo. Comunque io so che non sarà così. So quello che provo, e perdonami l’arroganza ma credo di sapere anche cosa provi tu. Non saresti qui, in questo momento, se io ti fossi del tutto indifferente!”
Come contraddire tanta sicurezza? Mi sedetti, spezzando il contatto della sua mano sul mio viso – reggermi in piedi stava iniziando a diventare difficile – e iniziai a tamburellare le dita sulla superficie liscia del tavolo per scaricare il nervosismo.
“No, infatti. Non sarei qui”, ripetei piano, senza guardarlo. Avvertii un movimento davanti a me, uno spostamento d’aria, e poi lui apparve all’interno del mio capo visivo accucciato per terra, le mani ai lati della mia sedia e un’espressione gentile e paziente sul volto. Mi limitai ad osservarlo per un po’ – compresi che lui stava solo aspettando che io facessi ordine tra i miei pensieri prima di esprimermi ad alta voce – ma in realtà non sapevo più che cosa dirgli senza sbilanciarmi troppo. Non ero mai stata molto brava con le parole, e con i discorsi facevo addirittura schifo, per cui non avevo idea di cos’altro potessi aggiungere a ciò che già era stato ampiamente detto e ridetto.
Tuttavia io sapevo la verità, solo che era troppo spaventosa per ammetterla. Eppure se non l’avessi fatto me ne sarei pentita per tutta la vita, me ne rendevo conto, senza contare poi che lui meritava di sentirla e che io avevo bisogno di condividerla per alleggerirmi l’animo; insomma, era una confessione che avevo necessità di fare per poter continuare a vivere senza rimorsi. E poi non era forse quello lo scopo di tutta questa messinscena? Non ero forse rimasta per la resa dei conti?
Avrei potuto dire un sacco di cose, fare infiniti giri di parole per prolungare la sofferenza e rimandare il momento della verità: ma a cosa sarebbe servito? Non avevo intenzione di dirgli che credevo di aver iniziato ad innamorarmi di lui perché innanzitutto avevo ancora un orgoglio e una reputazione da difendere; e, in secondo luogo, dopo tutto quello che era successo, una frase del genere avrebbe accelerato troppo le cose e io ancora non me la sentivo – però su un altro punto potevo essere sincera.
Abbozzai un sorriso, poi le parole vennero fuori con una facilità impressionante. “Lo sai, mi sei mancato in tutti questi mesi.” Quella sudata ammissione fu la cosa più difficile che avessi fatto fino a quel momento – ancora più difficile di testimoniare a suo favore – ma se non altro mi liberò da un grosso peso sul petto. Mi sembrò addirittura che respirare fosse più facile.
Lo sguardo che Enrico mi dedicò in risposta alla mia affermazione mi dimostrò che ne era valsa la pena.
“Visto? Non era poi così difficile", replicò, con un tono che parve davvero tenero. Si era trattenuto dal fare una delle sue solite battute - soprattutto si era trattenuto dal dirmi una qualche frase odiosa come te lo avevo detto - e di questo gliene fui grata. "E per il momento potrebbe anche bastarmi", aggiunse poi, sorridendo palesemente compiaciuto. "Adesso possiamo andare a festeggiare, no? Su, alzati - ah, ma prima devo avvisare i tuoi genitori che per il resto della giornata ho intenzione di rapirti… Ah, aspetta!” Si fermò all’improvviso dopo avermi trascinato in piedi, senza riuscire a togliersi quell’espressione soddisfatta e felice dalla faccia che non avevo ancora deciso se mi piaceva o mi faceva paura. Sembrava essersi appena ricordato di una cosa molto importante. “Posso baciarti?” Chiese infatti, volutamente malizioso.
Questa poi mi fece scoppiare a ridere, forse un po' istericamente. “Ah, adesso hai bisogno di chiederlo?”
Evidentemente non aspettava altro: in un attimo la sua bocca fu sulla mia. Fu davvero rapido – forse aveva paura che io cambiassi idea all’ultimo minuto – e all’inizio si limitò a un contatto casto e tenero, più una leggera carezza di labbra che si sfioravano che un vero bacio, e che peraltro interruppe quasi subito. Si fermò per osservarmi con aria quasi sbalordita, come se in fondo si stesse ancora aspettando una qualche ribellione da parte mia o che dessi di matto come mio solito, smorzandogli l’entusiasmo e rovinando l’atmosfera con una battutina, ma con mia e sua sorpresa non feci nulla di tutto questo. Rimasi lì, vicina a lui, gli occhi socchiusi e un sorriso un po’ meno accennato.
All’improvviso ebbi voglia di abbracciarlo, di rifugiarmi tra le sue braccia e inspirare il suo profumo – e, sorpresa!, lo feci e basta, senza pensare a come avrebbe potuto fraintendere quel gesto o chissà cos’altro. Insomma, a quel punto c’era davvero poco da fraintendere: Enrico mi era mancato, io l’avevo ammesso sia a me stessa che a lui, dunque adesso la strada sarebbe dovuta essere tutta in discesa. Più o meno.
Fu lui dopo un po' ad allontanarmi gentilmente, ma solo per prendermi il viso tra le mani e guardare le lacrime in bilico tra le ciglia che stavo cercando disperatamente di trattenere. Era assurdo, ma sentivo il cuore battere talmente tanto forte in petto da farmi quasi male – sperai piuttosto scioccamente che lui non lo sentisse. Se erano questi i sintomi, allora mi ero cacciata davvero in un bel guaio…
Ma prima che la mia mente potesse riprendere freneticamente a pensare rovinando il momento, Enrico mi passò una mano tra i capelli, facendo scorrere le dita tra le ciocche, e poi, dimostrando di saper davvero cogliere l’attimo, abbassò il viso su di me e mi baciò di nuovo. E il secondo non fu un bacio casto.
Stavolta, mentre lo baciavo, ebbi l’impressione di aver spento ogni interruttore. Sentivo solo silenzio. Non era un silenzio morto, freddo o triste, al contrario... Era un silenzio fatto dei miei sospiri, dei suoi, di deboli gemiti che nessun altro al di fuori di noi due avrebbe potuto sentire, dei battiti accelerati del mio cuore e del suo respiro leggermente affannato... Era il bacio che avrei voluto dargli quando era venuto a salvarmi da Lorenzo, e anche quando ero andata a trovarlo in ospedale e mi aveva detto che mi amava, e che per tutta una serie di ovvi motivi avevo dovuto rimandare.
Quando iniziò a mordicchiarmi il labbro inferiore per spingermi ad abbassare anche l’ultima difesa credetti che sarei potuta morire. Non mi ero aspettata tutto quell’entusiasmo tutto in una volta, anche se forse dovevo immaginare che una volta datogli il permesso Enrico si sarebbe rifatto di tutte le volte in cui, in passato, gli avevo impedito di prendersi “troppe libertà”. Ebbi appena il tempo di dischiudere leggermente le labbra per far entrare un po’ d’aria, prima che lui si tuffasse nuovamente su di esse, baciando, mordendo e succhiando, come se da quel bacio dipendesse la sua stessa vita, come se non avesse potuto più respirare senza. Con entrambe le mani tra i miei capelli mi tenne dolcemente imprigionata, e riuscì ad approfittarne per avvicinare ancora di più il mio viso al suo – come se fosse stato possibile.
Fu imbarazzante venire interrotti da qualcuno che si schiariva vigorosamente la voce. Mi staccai da Enrico come se fossi appena stata sorpresa a rubare, le guance in fiamme e uno sguardo colpevole, mentre invece lo stoico Occhi Belli si limitava a passarmi un braccio intorno alle spalle e a ricambiare l’occhiata della guardia giurata che ci fissava con cipiglio severo.
“Dovete lasciare l’aula adesso, signori”, disse semplicemente, con un tono che tuttavia non ammetteva repliche. Rimase a guardarci fino a quando non raggiungemmo la porta della stanza – le mie scuse farfugliate non ebbero alcun effetto su di lui, a quanto pare – e a quel punto la chiuse senza troppe cerimonie alle nostre spalle.
L’entusiasmo di Enrico non sembrava essere stato minimamente scalfito dalla brusca interruzione. Sempre con il sorriso sulle labbra – uao, bastava davvero poco per farlo felice – si voltò verso di me e allungò una mano per riprendere a giocherellare con i miei capelli; non riusciva proprio a trattenersi dal toccarmi, sembrava quasi che avesse paura che gli potessi sparire da davanti non appena avesse abbassato un poco la guardia…
“Allora, torni a casa con me? Abbiamo ancora tanto di cui parlare”, mi chiese gentile, sperando in una risposta affermativa ma, per la prima volta, senza pretenderla.
Scrollai le spalle, guardandomi istintivamente intorno alla ricerca dei miei genitori che, però, non si vedevano da nessuna parte. “Non so, vuoi andare adesso?” Riportai la mia attenzione su di lui. “Dovrei chiedere ai miei, prima, e poi tu non devi festeggiare con i tuoi amici? Sono venuti per te, non puoi mollarli per sparire insieme a me.”
“Che stupidata, certo che posso. Loro li vedo tutti i giorni, io e te non ci parliamo da mesi…”
Appunto. E non è per niente carino che tu ora vada via con la stessa ragazza che ti ha evitato in tutto questo tempo, potrebbero rimanerci male.” Non era ancora convinto, lo dimostrava il modo in cui mi guardava, ma ormai credevo di sapere come prenderlo. Per cui sorrisi, avvicinandomi e tenendo impegnate le mani nel ravvivargli la camicia e la giacca un po’ sgualcite. “Non è una scusa per non rimanere sola con te, te lo assicuro. Abbiamo un’altra intera estate per recuperare il tempo perso, no? E poi, andiamoci piano. Piccoli passi, con calma e senza fretta, a partire da adesso. Che ne dici? Tu ora vai dai tuoi amici che ti aspettano al bar, dici a Stefano da parte mia che aveva ragione e festeggi insieme a loro com’è giusto che sia. Il mio numero ce l’hai ancora, suppongo… Anch’io ho il tuo. Quando vuoi mandami un messaggio, prometto di risponderti. Okay?”
Sì, l’avevo convinto. Lo salutai con un rapido abbraccio e un bacio sulla guancia – eravamo pur sempre in un salone pieno di gente – e sparii in mezzo alla folla prima che Enrico trovasse il modo di trattenermi. Alla fine avevo preso la mia decisione, e sorprendentemente mi sentivo bene. Benissimo! Quella era di sicuro la cosa più giusta che avessi fatto nell’ultimo anno.
Speravo solo di non dovermene pentire.









***





31 dicembre, sei mesi dopo.


Le note di vecchie canzoni natalizie provenivano ininterrottamente dallo stereo del soggiorno, anche se Natale ormai era già passato. L’albero che avevamo addobbato io ed Enrico era ancora in un angolo, accanto al camino nel quale scoppiettava un allegro fuocherello, e sotto c’era ancora qualche regalo impacchettato da consegnare ai nostri amici. Beh, quelli di Enrico, in realtà; io e Alessandra ci eravamo viste una settimana prima di Natale e avevamo festeggiato in anticipo a casa mia, scambiandoci i nostri pensierini e facendo ben attenzione a fingere di non essere fidanzate con due ragazzi che si odiavano reciprocamente. Quello era stato il primo compromesso che avevamo dovuto fare in nome della nostra amicizia: Riccardo non sopportava Enrico, e anzi lo disprezzava, mentre Enrico da parte sua credo che semplicemente non volesse più averci nulla a che fare, pur senza provare chissà quale odio nei suoi confronti. Per cui, né io né Alessandra eravamo libere di parlare delle nostre rispettive relazioni le une con le altre, io perché sapevo che lei malgrado tutto non mi appoggiava – benché più volte avesse ribadito il contrario – e lei per pura solidarietà.
Il secondo compromesso riguardava il modo in cui avremmo dovuto trascorrere le festività: quello sarebbe stato il primo capodanno che avrei festeggiato senza la mia migliore amica, e di conseguenza anche senza Laura, Federico e Matteo.
Sì, nell’insieme era una cosa parecchio triste, ma per alleviare un poco l’amarezza di quella situazione si poteva anche dare la colpa al fatto che tutti noi frequentassimo università diverse. Alessandra era iscritta in tossicologia come aveva sempre desiderato, Laura in scienze della comunicazione, Federico e Matteo in economia e io in lingue: oggettivamente anche in una situazione normale sarebbe stato molto difficile, anche se non impossibile, continuare a vederci come prima. Certo, la realtà era ben diversa; ma ehi, chi voleva rovinarsi le feste pensando a quelle cose? Io no di sicuro; e sinceramente non volevo neppure guastare il mio primo capodanno trascorso insieme ad Enrico, considerando che da qualche tempo a questa parte aveva iniziato a definirsi ufficialmente – più o meno – il mio ragazzo. Le prime volte lo avevo incenerito con lo sguardo, ma alla fine avevo terminato le munizioni. E tutto sommato chi ero io per impedirgli di chiamarsi come voleva, dopo tutto quello che avevamo passato?

Stavo preparando le ultime cose per il cenone di capodanno. Avevo iniziato a sistemare la tavola ed ero passata a preparare i primi antipasti, quando Enrico fece il suo ingresso nella sala da pranzo della sua villa di campagna carico di buste e vassoi e in evidente difficoltà – era andato a casa mia a prendere quello che mia madre aveva insistito per preparare per il nostro cenone, dato che loro sarebbero andati a cena da mia nonna insieme agli zii e a mia sorella e aveva l’intero pomeriggio libero. Mi pulii le mani sul grembiule e lo raggiunsi, aiutandolo a poggiare il suo carico sulla penisola della cucina.
Lui gemette, sgranchendosi le braccia. “Tua madre ci ha dato roba per un esercito. Lo sa che siamo solo in quattro, vero?”
Ridacchiai, iniziando a tirar fuori i recipienti dalle buste di carta per capire che cosa ci fosse nei vari involucri. “Non lamentarti, e ringraziami piuttosto. Anche mia nonna stava per metterci del suo...”
“Averlo saputo prima, avrei fatto venire anche gli altri.”
“Ecco, perché non li chiami? Siamo ancora in tempo, sono solo le otto, e più siamo meglio è, no?
Sul suo viso passò un’ombra strana. “Lo sai, non volevo importi la loro presenza. E poi non mi sembrava giusto… visto che i tuoi, di amici, non sono voluti venire.”
“Sì, beh, è una cosa con cui sono già venuta a patti. Sapevo che sarebbe stato difficile, e hanno solo confermato le mie supposizioni. Pazienza… Si perderanno le lasagne e le melanzane alla parmigiana di mia madre.”
Enrico rimase in silenzio, osservandomi mentre cercavo di tenermi impegnata per non lasciarmi andare alla tristezza. “Mi dispiace, Giuli. Davvero”, disse a bassa voce dopo un po’. Sapevo che era sincero, ma questo non cambiava le cose.
Accennai un sorriso e scrollai le spalle, come a liquidare una volta per tutte quell’argomento. “Dai, non pensiamoci. Non voglio rovinare il nostro capodanno.” E anch’io ero stata onesta, dato che non ero per niente pentita della mia scelta.
Per quanto fosse palesemente poco convinto, ricambiò il sorriso. “Il nostro capodanno. Mi piace come suona… nostro…”
Roteai gli occhi, sbuffando. “Oddio, no, per favore. Non ti sopporto quando fai il vecchio sentimentale.”
“Sto cercando di essere romantico!”
“E ti riesce anche piuttosto male”, lo scoraggiai subito, dandogli le spalle e iniziando a infilare le teglie in forno per riscaldarle prima che arrivassero gli altri.  In realtà quando si metteva d'impegno gli riusciva piuttosto bene, ma provocarlo era tuttora così divertente...
Come al solito era troppo cocciuto per farsi abbattere con così poco e mi venne appresso come un’ombra, fischiettando a ritmo di un Jingle bells che suonava dalla radio. Mi passò le braccia intorno ai fianchi e si strinse contro la mia schiena, poggiando il mento sui miei capelli. “Forse avrei dovuto mettere un rametto di vischio da qualche parte, magari ti saresti addolcita”, scherzò, tamburellandomi il ventre con le dita.
“Grazie a Dio è una pianta che qui non cresce.”
“Grazie a Dio non ho bisogno di una pianta per baciarti”, mi fece il verso, chinandosi per seppellire il viso nell’incavo scoperto tra il mio collo e la spalla e dispensando piccoli baci umidi.
Il solletico che quel trattamento – per quanto piacevole – mi causava mi fece ridacchiare come una quindicenne. Cercai di spingerlo via con il gomito, ma sarebbe stato più facile cercare di staccare a mani nude una patella dalla roccia. “Dai, smettila! Che poi dobbiamo lasciare le cose a metà e sappiamo entrambi quanto diventi insofferente, in quel caso”, lo ammonii, sforzandomi di non ridere.
“Mmh, e chi lo dice che dobbiamo lasciare le cose a metà?”
“Sta per arrivare Stefano! Con la fidanzata!”
“Appunto, credo che sarebbero più che comprensivi…”
“Enrico, stai rischiando. Vai a finire di apparecchiare, devi preparare i piatti con gli antipasti”, lo istruii cercando di suonare quanto più severa possibile. Magari se si fosse tenuto impegnato avrebbe smesso di pensare a palpeggiarmi, almeno per un po’.
Alla fine, ero riuscita a convincerlo a chiamare il resto dei suoi amici in modo che ci raggiungessero per cena; arrivarono tutti insieme poco dopo Stefano e la ragazza, Cecilia, che mi aveva raggiunto in cucina mentre gli uomini facevano comunella in sala da pranzo. Ci eravamo già viste prima di allora e andavamo piuttosto d’accordo: l’unica differenza tra me e lei risiedeva nel fatto che lei non fosse a conoscenza della, per così dire, seconda vita di Stefano, e visto che si stavano frequentando da poco potevo ben capire la riluttanza di lui nel parlarle di certe cose. Comunque la presenza di una “esterna” come Cecilia avrebbe aiutato a mantenere il livello della serata il più normale possibile, e di questo le ero davvero grata; a volte mi sentivo ancora fuori luogo in mezzo a Enrico e ai suoi amici, perché sapevo che quello che condividevano era un qualcosa che non mi sarebbe mai piaciuto ma che purtroppo non potevo cambiare.
Eppure, quando scoccò la mezzanotte e nel vociare degli auguri Enrico stappò la bottiglia di spumante, voltandosi immediatamente verso di me in modo che fossi io la prima ad avere il bicchiere pieno, realizzai che per il momento non mi importava, ed ero sincera. Quello che davvero contava eravamo io e lui, i nostri bicchieri che tintinnavano l’uno contro l’altro nel brindisi e il rapporto che stavamo costruendo pazientemente giorno dopo giorno, mattone dopo mattone, raccogliendo con cura quelli che cadevano di tanto in tanto e rimettendoli a posto in modo che l’intera struttura non crollasse. E finora dovevo ammettere di essere parecchio soddisfatta della forma che la nostra relazione stava prendendo.
“Felice anno nuovo, Giuli”, mi sussurrò all’orecchio, prima di baciarmi.










Funny how the heart can be deceiving
More than just a couple times
Why do we fall in love so easy
Even when it’s not right…
















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La canzone che apre e chiude il capitolo è Try, di Pink. Non so, pensavo ci stesse bene.
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Angolo Autrice.

Dite la verità, da quanto tempo stavate aspettando? Ah? Lo so, lo so, come al solito sono imperdonabile - ma ehi, guardate il lato positivo! Questa è ufficialmente la prima storia che ho scritto e che sono riuscita a concludere (sorvolate sul fatto che mi ci sono voluti quattro anni per farlo, neanche fosse stata la saga di Harry Potter), e tutto ciò mi riempie di soddisfazione *_* Non riesco ancora a essere commossa perché questo è sì l'ultimo capitolo, però dopo ci sarà un epilogo, com'è giusto che sia, e quindi... E quindi niente, ci si rilegge lì :D Rimandiamo a dopo la lettura dell'epilogo eventuali lanci di mele marce e riserviamoci la facoltà di esprimere un giudizio "universale" sulla storia per allora... Perché sono quasi del tutto convinta che questo trentunesimo capitolo sia stato parecchio deludente, per molti di voi. Beh, pazienza... This was my design, tanto per citare Will Graham (se cogliete il riferimento vi sposo), e non c'è niente che possiate fare. xD
Dopotutto, se George R. R. Martin è ancora vivo dopo tutto quello che fa succedere nei suoi libri... io posso ancora dormire sonni tranquilli. 8D
Colgo l'occasione per ringraziare nuovamente tutti coloro che hanno dato un'occasione a questa storia, che hanno seguito le loro vicende dall'inizio o che si sono aggiunti in seguito, che l'hanno letta in silenzio o che di tanto in tanto mi facevano sapere che cosa ne pensavano, e che soprattutto sono qui, oggi, a un passo dalla fine, e potranno dire ai posteri "Io c'ero!" ç_ç
..... Nah, mi sono lasciata trasportare. Comunque il succo è: grazie, grazie, grazie mille, grazie infinite, grazie di tutto :***
Entrando nei particolari, grazie a _Malvine_, Utena, _Elisewin_, Ibelieveinniley, luck_Y, GreenRose93, Charity, Sylphs, _Artemide_, rodney, cate394rina, Mrs_Hran, MinguzXD, Sary01 e Brigida per aver recensito lo scorso capitolo, nonché a tutte le fantastiche persone che hanno aggiunto la storia alle Preferite e alle Seguite e, ripeto, a tutti voi che avete letto :)
Orbene, vi saluto! Ci diamo l'ultimo appuntamento all'Epilogo, lasciamo le lacrime (anche no) ad allora!
Vi bacio e vi abbraccio tutte, la vostra estremamente grata
Niglia.
   
 
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