Capitolo XXXI
Where there is desire
There is gonna be a flame
Where there is a flame
Someone’s bound to get burned
But just because it burns
Doesn’t mean you’re gonna die
You’ve gotta get up and try try try…
I raggi del sole entravano di sbieco dalle ampie finestre alte e
strette dell’aula del tribunale, scivolando sul marmo lucido
del pavimento e creando
una strana atmosfera di solennità e rigore che neppure i
più bravi registi
americani sarebbero riusciti a riprodurre in qualcuna delle
loro pellicole.
Se ci fosse stato appena un po’ più di silenzio mi
sarebbe sembrato di essere
in una cattedrale. Ogni cosa era di legno, dalle panche che ospitavano
il
pubblico al banco dei testimoni, dalla postazione della giuria alle
assi che
rivestivano le pareti. Era un legno scuro e opaco che sembrava
assorbire la
luce proveniente dall’esterno per intrappolarla nelle sue
venature; l’unica
cosa che scintillava erano le lettere dorate che capeggiavano sotto la
pedana
del giudice formando la frase più famosa e allo stesso tempo
più falsa che il
mondo avesse mai conosciuto: La legge è
uguale per tutti.
Dalla mia postazione, seduta tra mio padre e mia madre, avevo una
visuale perfetta su ciò che accadeva nell’aula:
davanti a me, appena più verso
destra, si trovavano Enrico e il suo avvocato, mentre
dall’altra parte, sotto
le vetrate, c’era il banco della giuria posto
perpendicolarmente a quello del
pubblico ministero. Guardandomi intorno mi resi conto che
c’erano tutti, a
partire dai genitori di Enrico ad Alessandra e Riccardo, per finire con
Stefano
e gli altri membri della loro combriccola; gli unici che mancavano
all’appello erano
i genitori di Lorenzo, che a quanto pare nessuno era riuscito a
rintracciare.
Non volevo pensare che ci fosse lo zampino degli Occhi Belli, ma a buon
intenditor… Ormai sapevo abbastanza di quella famiglia da
non stupirmi più per
così poco.
Per quanto mi sforzassi, nonostante ciò, di seguire con
attenzione
tutto lo svolgimento dell’udienza, riuscirci era impossibile;
le arringhe degli
avvocati erano per me chiacchiere soporifere e senza senso che facevano
da sottofondo ai
miei pensieri, ed ero così distratta – tutto
merito della breve discussione
avuta con Enrico prima di entrare in aula – che se non fosse
stato per mia
madre non avrei neppure udito l’avvocato Martis chiamarmi in
causa.
Quella fu la parte peggiore – attraversare la sala per
avvicinarmi
al banco dei testimoni; sentivo gli occhi di tutti i presenti scavarmi
la
schiena, e non era una bella sensazione. Il mio intervento in
sé fu piuttosto
breve, e dubito anche che fosse così incisivo come mi
avevano voluto far credere:
fondamentalmente si trattava della testimonianza di una ragazzina che
al
momento del “crimine” era sotto shock –
provate un po’ a indovinare come mai –
e che dunque poteva avere dei dubbi riguardo quanto accaduto in quella
camera
da letto. Senza contare che, come ritenne opportuno precisare
l’accusa, i miei
precedenti sentimentali con l’imputato avrebbero potuto
offuscare il mio
giudizio. Ah, se solo avessero saputo!
Enrico non mi aveva staccato lo sguardo di dosso nemmeno per un
istante mentre cercavo di rispondere con quanta più calma
possibile alle domande
dell’avvocato Martis e del pubblico ministero. Aveva
un’espressione mortalmente
seria, era persino leggermente pallido e in più mi accorsi
che, mentre stavo
raccontando di come Lorenzo mi aveva rapita e aggredita, tutto il suo
corpo pareva
essersi irrigidito nello sforzo di non alzarsi dalla postazione per
venire
da me. In effetti, ripensandoci, quella doveva essere la prima volta
che mi
sentiva parlare dell’accaduto – e con tutta quella
dovizia di particolari, poi
– e non potei evitare di chiedermi se sarebbe stato capace di
“sistemare”
Lorenzo anche a sangue freddo, qualora non lo avesse,
diciamo accidentalmente, ucciso
il giorno stesso.
Sapevo benissimo che rimuginare sulla predisposizione di Enrico
alla violenza non serviva a niente e a nessuno – forse era
uno strano istinto
masochistico quello che mi spingeva sempre più a fondo nella
spirale del
compatimento e dell’autocommiserazione. Non bisognava
dimenticare però che, se
lui non fosse intervenuto, probabilmente in quel momento mi sarei
trovata in
terapia per cercare di dimenticare uno stupro – sempre se
Lorenzo non avesse
avuto intenzione di farmi fuori, dopo. Forse era un tantino disturbante
la noncuranza con cui pensavo alla mia morte, ma il tempo che era
trascorso dal fattaccio era servito a farmi metabolizzare e digerire
l'intera situazione - motivo per il quale adesso sembravo terribilmente
cinica. Comunque, da qualsiasi parte la guardassi
non vedevo un lieto fine in quella faccenda; nell’attimo in
cui Lorenzo aveva
deciso di portare a termine quella sua discutibile vendetta nei
confronti di
Enrico, di cui tuttora mi sfuggivano i particolari, era sparita ogni
opportunità di risolvere la cosa tra persone civili e
senza spargimenti di sangue. In poche parole qualcuno si sarebbe fatto
male
qualsiasi cosa fosse successa e, a quel punto, devo ammettere di aver
tirato un
sospiro di sollievo nel constatare che quel qualcuno non ero io
né tantomeno
Enrico.
Quando l’avvocato mi congedò, dandomi il permesso
di tornare a
sedermi accanto alla mia famiglia, mi accorsi di avere le mani che
tremavano
come foglie: cercai di celarle sistemandomi le pieghe del vestito e
affrettando il passo verso le panche, ma Enrico aveva seguito ogni
attimo del
mio passaggio attraverso l’aula e potrei mettere la mano sul
fuoco sul fatto
che se ne fosse accorto. Dio mio, c’era mai qualcosa che gli
sfuggiva? Mi risedetti con aria indifferente vicino a mia madre e mi
passai una
mano tra i capelli, riprendendo a respirare circondata
com’ero da persone
fidate; solo allora mi decisi a spostare lo sguardo su Enrico, e come
mi ero
immaginata lui era lì, voltato di due quarti sulla sua sedia
in modo da potermi
vedere. La sua espressione era così preoccupata che fu un
gesto istintivo, da
parte mia, accennare un sorriso che lo tranquillizzasse.
Sicuramente stupito ma indubbiamente rassicurato da
quell’inaspettato accenno di intimità, Enrico fece
un movimento affermativo col
capo e anche sulle sue labbra si distese una debole ombra di sorriso,
prima che
il suo avvocato lo richiamasse sottovoce all’attenzione
costringendolo a darmi
le spalle e a seguire il proseguirsi del processo.
Alla mia sinistra, mia madre mi prese la mano e la strinse con
fare affettuoso: evidentemente non si era persa quel breve scambio di
occhiate
tra me e lui, confermandosi così l’unica capace di
capirmi in tutto e per
tutto. Sospirai e ricambiai la stretta. Non vedevo l’ora di
tornare a casa…
E invece la giornata sembrava non voler finire ancora.
Dopo la mia testimonianza e una breve discussione tra gli avvocati,
il giudice ritenne opportuno aggiornare la seduta e accordare quaranta
minuti
di pausa, in modo che i membri della giuria potessero riunirsi e tirare
le
somme di quello che era stato il processo fino ad ora; una volta che
l’uomo fu uscito
l’aula si svuotò abbastanza rapidamente, e mentre
mi avvicinavo alla porta
insieme ai miei genitori – quasi invidiavo mia madre che
poteva tenere a bada l’ansia
con le sue sigarette – notai Stefano e gli altri ragazzi
raggiungere Enrico
per, supposi, tirargli su il morale.
In quel momento, un pensiero inatteso mi colpì con forza.
Ci sarei dovuta essere io,
lì.
In qualche modo, sembrava la cosa più giusta che avrei
dovuto
fare: d’altra parte, come mi aveva detto Stefano qualche
tempo prima, era
Enrico quello che rischiava la galera – la
propria libertà – per un crimine
commesso al solo scopo di proteggere me.
Eppure i miei piedi non si mossero in quella direzione, e presto
fui fuori dall’aula, al sicuro tra la mia famiglia, insieme
ad Alessandra e
Riccardo, lontana da lui. Forse Enrico avrebbe voluto scambiare due
parole con
me durante quella pausa, ma le circostanze non glielo permisero;
avrebbe dovuto
affrontare la seconda parte del processo come già aveva
affrontato la prima,
ossia con un sacco di faccende in sospeso con la ragazza per la quale
aveva
rischiato tutto.
Questo pensiero mi fece sentire incomprensibilmente a disagio.
*
Ma, come si dice in casi simili, tutto è bene quel che
finisce bene: più o meno. Alla fine il giudice aveva
pronunciato la sentenza definitiva, e come ci
aspettavamo e speravamo che accadesse, Enrico venne scagionato
dall’accusa di
omicidio, giustificato come legittima difesa come peraltro era giusto
che
fosse, per chi non era stato presente al momento del fatto, e tutti noi
fummo
liberi di andarcene.
Era finita.
Aspettavo quel momento da mesi, ormai, e quando finalmente sentii
quelle parole rimbombare chiare e limpide nella maestosa aula di
tribunale, fu
come se l’enorme peso che gravava sulle mie spalle si fosse
volatilizzato. D’un
tratto mi sentii leggera, come se fossi stata io quella ad essere
assolta. Non
avrei più dovuto avere niente a che fare con quel
mondo, il suo
mondo, niente più messaggi, né chiamate,
né incontri con l’avvocato – forse avrei
potuto smettere di prendere anche quelle
pillole che mi aiutavano a dormire! Sarebbe tornato tutto come prima.
Ero libera…
No, non era del tutto vero. Avevo ancora una questione da
sistemare: dovevo chiudere tutti i conti in sospeso che erano rimasti
tra me e
Enrico. Dovevo farlo. Glielo dovevo, tutto sommato, ma soprattutto lo
dovevo a
me stessa; non sarei più riuscita a prendere sonno,
altrimenti, se quella porta
fosse rimasta aperta.
In ogni caso, che cosa avrei dovuto dirgli? Forse
è vero, forse anch’io ricambio i tuoi sentimenti,
ma non possiamo
stare insieme, dimenticami? L’esperienza dimostrava
che un passo del genere
sarebbe stato inutile, oltre che autodistruttivo: Enrico tendeva a fare
sempre
il contrario di ciò che gli si diceva di fare. E poi, no, no,
non potevo rischiare di dargli neanche un briciolo di speranza
se volevo che sparisse una volta per tutte dalla mia vita.
Ma era davvero questo che volevo?
La voce di mia madre si insinuò tra i miei pensieri e fu
come se
rispondesse ad essi, riportandomi alla realtà.
“Che cosa vuoi fare, tesoro?” Mi
chiese infatti a bassa voce, passandomi un braccio intorno alla vita.
Mi voltai
verso di lei, guardandola con un’espressione sicuramente
smarrita, perché lei
sorrise dolcemente e aggiunse, comprensiva: “Se gli vuoi
parlare, noi ti
aspettiamo fuori.”
Che cosa potevo fare? Esitai solo un attimo, prima di annuire
lentamente. Anche mia madre sapeva che avevo bisogno di parlare con
Enrico, di
parlarci davvero – non con due frasi per liquidarlo, ma con
una cauta ed
attenta scelta di parole – e se lei stessa mi spingeva a
farlo, beh… Non c’era
via di scampo.
Così lasciai che la mia ultima occasione di fuggire mi
scivolasse
via dalle mani come acqua, osservando distrattamente i miei genitori
lasciarmi sola
ad affrontare i miei demoni. E se pensate che io sia troppo
melodrammatica
allora avete perso qualche passaggio durante il corso degli eventi!
Lo ammetto, ero a disagio. Enrico era circondato dai suoi amici
–
gli stessi che mi avevano rapita all’inizio di quella storia,
e che mi avevano
spiato e seguito in diverse occasioni per ordine di Enrico, e che
avevano
chiamato la polizia e l’ambulanza quando, beh, era morto
Lorenzo, ma con i
quali io non avevo praticamente mai scambiato una sola parola, se si
escludeva
Stefano; e adesso erano tutti palesemente felici, ridevano e
scherzavano, lo
abbracciavano, tiravano sospiri di sollievo nel rendersi conto di
averla
scampata per l’ennesima volta. Rimasi per un attimo in
disparte, raccogliendo
il coraggio, salutando con un mezzo sorriso Betta e il signor
D’Angelo che si
avviavano verso l’uscita dell’aula insieme al resto
delle persone che avevano
assistito al processo; e solo alla fine, quando nella stanza rimanemmo
solo io
e i ragazzi, presi un profondo respiro e mi avvicinai a loro.
Il rumore dei miei tacchi sul parquet parve passare inosservato,
così non feci nulla per dar prova della mia presenza fino
all’ultimo momento;
ma quando, inevitabilmente, si accorsero di me, tacquero
pressoché nello stesso
istante e mi guardarono, in attesa – suppongo. Furono i
cinque secondi più
imbarazzanti della mia vita.
Mi schiarii la voce, torturando i manici della mia borsa, senza
ben sapere come esordire. Avrei dovuto fargli le congratulazioni? Gli
auguri?
Non sarebbe stato troppo ridicolo?
“Sono felice che ti abbiano assolto”, dissi alla
fine optando per
una frase un po’ più neutra per attaccare bottone,
focalizzandomi solo su
Enrico e cercando – a fatica – di ignorare gli
altri.
Enrico non sembrò dare cenno di voler rispondere,
così Stefano
prese in mano la situazione e strinse affettuosamente la spalla del
cugino, accennando
un sorriso. “Ti aspettiamo fuori. Quando hai finito ci trovi
al bar.” L’altro
annuì, senza distogliere lo sguardo da me, e i ragazzi se ne
andarono
velocemente, fingendo di non riconoscesse
l’eccezionalità dell’intera
situazione – io che mi avvicinavo di mia spontanea
volontà ad Enrico, quando
invece sarei potuta fuggire con i miei genitori subito dopo che la
seduta era
stata tolta, tanto per essere chiari. Lo trovavo assurdo io stessa,
immaginavo
come dovesse sembrare ai loro occhi.
A quel punto, rimasti soli, Enrico smise di guardarmi e
d’improvviso parve estremamente occupato a mettere in ordine
alcuni fogli
ancora sparsi sul tavolo, riuscendo a non far trapelare nulla dalla sua
espressione. “Dici davvero? Credevo che avresti preferito
vedermi in prigione,
in modo da poter vivere la tua vita in tutta tranquillità
senza di me”, fece
gelidamente, chiudendo la cartella con un elastico.
Malgrado il tono, non riuscivo a capire se stesse scherzando o
meno; nel dubbio decisi di prenderlo sul serio. “Anche se
puoi pensare il
contrario, non sono così stronza”, ribattei a
mezza voce. Ero andata da lui con
la mezza intenzione di salutarlo e andarmene, ma avrei dovuto sapere
che non
sarei stata in grado di cavarmela così a buon mercato. O
forse… forse,
semplicemente, non volevo farlo.
Anzi, mi resi conto che mia madre aveva visto giusto, e che io avevo
ancora
alcune cose da dirgli.
Cosa che feci dopo aver preso un bel respiro profondo.
“Senti. Quello che è successo è
terribilmente sbagliato, e
scioccante, e discutibile, ed è probabile che
continuerò a farci gli incubi,
ma… Da un lato, e ascoltami bene perché non
mi sentirai ripeterlo più, hai
cercato di fare qualcosa che in quel momento ti è sembrata
la cosa giusta. Non
so se tra te e Lorenzo c’erano davvero dei precedenti, o se
lui era solo un
sociopatico, ma sono convinta che se non ci fossi andata di mezzo io tu
non
saresti mai arrivato a tanto – e se mi sbaglio, per favore,
non correggermi.
Lasciami l’illusione che tutto sia andato come è
andato perché hai cercato di
proteggermi, o di vendicarmi, fai tu – e non parliamo
più di questa storia.
Okay?”
Per un attimo non parlò: forse non si aspettava quella
valanga di
parole da parte mia. Poi sollevò una mano a massaggiarsi le
tempie, sospirò e
scosse appena la testa. “Per quanto apprezzi il tuo discorso,
Giulia, e dico
sul serio, non sistema neanche la metà delle questioni in
sospeso che ci sono
tra noi.”
Aggrottai la fronte, ma non ero sorpresa: in fondo mi aspettavo
che non si sarebbe arreso così in fretta, benché
una parte di me ci avesse,
ingenuamente, un po’ sperato. “Enrico, ne abbiamo
già parlato. Non rovinare---”
“Ancora? Io non sto rovinando un bel niente. Ti ho detto
prima
dell’udienza che avremmo ripreso il discorso, o ti sei
già dimenticata? Perché
io non sono riuscito a smettere di pensarci, e sapere che eri seduta
qualche
fila dietro di me, durante il processo, non mi ha aiutato a tenermi
concentrato
neppure su una cosa dalla quale dipendeva la mia vita.”
Non riuscii a trattenermi dal roteare gli occhi, esasperata da
quella sua tendenza al melodrammatico, stanca di sentire sempre le
solite
storie, i soliti discorsi triti e ritriti. “Qui stiamo
andando di nuovo fuori
tema…”
Inutile sottolineare che il mio pallido tentativo di fare
dell’ironia non aveva attecchito.
“Il tema è sempre lo stesso. Tu ti ostini a non
voler vedere
quello che hai davanti, solo perché hai paura di…
di annegare in un sentimento
che non vuoi, che ritieni sbagliato! Sei sempre stata tanto paziente
con me,
Giulia, mi hai tollerato, lo ammetto, quando probabilmente volevi
soltanto
picchiarmi, hai sopportato la mia presenza per così tanto
tempo che alla fine
non puoi biasimarmi se mi sono convinto che anche tu provi qualcosa!
Insomma,
dai, non puoi negare che stessimo iniziando ad avere qualcosa di
più, che
stessimo andando oltre l’iniziale rapporto del
‘esci con me o me la prenderò
con i tuoi amici’… Mi sbaglio? E adesso, tutto
quello che voglio, tutto quello
che ti chiedo è di non rinunciare a quel qualcosa che si
è creato tra di noi e
che potrebbe essere davvero bello, soltanto a causa di un mio gesto
più
avventato di altri.”
Lo osservavo in silenzio, assorbendo le sue parole, cercando di
accantonare i miei pregiudizi e sforzandomi, davvero, sforzandomi di
comprendere il suo punto di vista. Lo so, lo so, su una cosa aveva
ragione:
prima che succedesse tutta quella faccenda di Lorenzo, qualcosa nel
nostro
rapporto era cambiato, evolvendosi in… beh, non lo so bene
neppure io in che
cosa si stava evolvendo. Al di là dei baci e degli abbracci,
per un momento c’era
stato qualcosa di più, qualcosa che mi teneva sveglia la
notte e che aveva
iniziato a farmi mettere in dubbio i miei sentimenti, arrivando al
punto da
confidarli alla mia migliore amica, che peraltro aveva cercato di farmi
cambiare idea. Quel qualcosa era anche la causa del mio essere
lì, adesso, di
fronte a lui, invece che da tutt’altra parte a cercare di
dimenticarlo. Per cui
sì, Enrico aveva ragione: volendo fare un paragone
romantico, mi sentivo come
la volpe che era stata addestrata dal Piccolo Principe. Adesso che
conoscevo
Enrico, che lui mi aveva mio malgrado addomesticato,
non sarei più stata capace di guardare il mondo e non vedere
lui riflesso in
ogni cosa: il verde cupo del mare mi avrebbe fatto pensare ai suoi
occhi, il
nero ai suoi capelli, la fresca fragranza del dopobarba al profumo che
sentivo
ogni volta che ero vicina a lui e che lo abbracciavo, per non parlare
di
quando, andando a portare un fiore a mio nonno, avrei ripensato a come
mi aveva
consolato il giorno del funerale… Enrico sarebbe stato
dappertutto, non me lo
sarei levato dalla testa neppure se l’avessi evitato come la
peste fino alla
fine dei miei giorni – come peraltro dimostrava
l’anno appena trascorso.
E questo, sinceramente, mi terrorizzava a morte.
Compresi di avere gli occhi lucidi quando lui sollevò una
mano a
sfiorarmi la guancia, con una certa titubanza che poteva essere
interpretata
come cautela.
“Ascolta, non ti sto chiedendo di sposarmi”,
mormorò, muovendo
gentilmente il pollice appena al di sotto del mio zigomo.
“Vorrei solo che mi
dessi un’altra possibilità, un’altra
occasione di conoscermi, di conquistarti.
Nessuna minaccia stavolta, te lo giuro, partiamo alla pari –
e te lo sto
chiedendo per favore, come te lo chiederebbe chiunque altro. Poi,
vedremo come
andrà… Magari sarà un fiasco completo
e ci lasceremo da buoni amici, chi lo sa?
Non potremo mai toglierci questo dubbio se non ci proveremo. Comunque
io so che
non sarà così. So quello che provo, e perdonami
l’arroganza ma credo di sapere
anche cosa provi tu. Non saresti qui, in questo momento, se io ti fossi
del
tutto indifferente!”
Come contraddire tanta sicurezza? Mi sedetti, spezzando il
contatto della sua mano sul mio viso – reggermi in piedi
stava iniziando a
diventare difficile – e iniziai a tamburellare le dita sulla
superficie liscia
del tavolo per scaricare il nervosismo.
“No, infatti. Non sarei qui”, ripetei piano, senza
guardarlo. Avvertii
un movimento davanti a me, uno spostamento d’aria, e poi lui
apparve all’interno
del mio capo visivo accucciato per terra, le mani ai lati della mia
sedia e un’espressione
gentile e paziente sul volto. Mi limitai ad osservarlo per un
po’ – compresi che
lui stava solo aspettando che io facessi ordine tra i miei pensieri
prima di
esprimermi ad alta voce – ma in realtà non sapevo
più che cosa dirgli senza
sbilanciarmi troppo. Non ero mai stata molto brava con le parole, e con
i discorsi
facevo addirittura schifo, per cui non avevo idea di
cos’altro potessi
aggiungere a ciò che già era stato ampiamente
detto e ridetto.
Tuttavia io sapevo la verità, solo che era troppo spaventosa
per
ammetterla. Eppure se non l’avessi fatto me ne sarei pentita
per tutta la vita,
me ne rendevo conto, senza contare poi che lui meritava di sentirla e
che io avevo
bisogno di condividerla per alleggerirmi l’animo; insomma,
era una confessione
che avevo necessità di fare per poter continuare a vivere
senza rimorsi. E poi
non era forse quello lo scopo di tutta questa messinscena? Non ero
forse
rimasta per la resa dei conti?
Avrei potuto dire un sacco di cose, fare infiniti giri di parole
per prolungare la sofferenza e rimandare il momento della
verità: ma a cosa
sarebbe servito? Non avevo intenzione di dirgli che credevo di aver
iniziato ad
innamorarmi di lui perché innanzitutto avevo ancora un
orgoglio e una
reputazione da difendere; e, in secondo luogo, dopo tutto quello che
era
successo, una frase del genere avrebbe accelerato troppo le cose e io
ancora non me la sentivo – però
su un altro punto potevo essere sincera.
Abbozzai un sorriso, poi le parole vennero fuori con una
facilità
impressionante. “Lo sai, mi sei mancato in tutti questi
mesi.” Quella sudata
ammissione fu la cosa più difficile che avessi fatto fino a
quel momento –
ancora più difficile di testimoniare a suo favore
– ma se non altro mi liberò da
un grosso peso sul petto. Mi sembrò addirittura che
respirare fosse più facile.
Lo sguardo che Enrico mi dedicò in risposta alla mia
affermazione mi dimostrò che ne era valsa
la pena.
“Visto? Non era poi così difficile",
replicò, con un tono che parve davvero tenero. Si era
trattenuto dal fare una delle sue solite battute - soprattutto si era
trattenuto dal dirmi una qualche frase odiosa come te lo avevo detto
- e di questo gliene fui grata. "E per il momento potrebbe
anche bastarmi", aggiunse poi, sorridendo palesemente compiaciuto.
"Adesso possiamo andare a festeggiare, no? Su, alzati - ah, ma prima
devo avvisare i tuoi genitori che per il resto della
giornata ho intenzione di rapirti… Ah, aspetta!”
Si fermò all’improvviso dopo
avermi trascinato in piedi, senza riuscire a togliersi
quell’espressione soddisfatta
e felice dalla faccia che non avevo ancora deciso se mi piaceva o mi
faceva
paura. Sembrava essersi appena ricordato di una cosa molto importante.
“Posso
baciarti?” Chiese infatti, volutamente malizioso.
Questa poi mi fece scoppiare a ridere, forse un po' istericamente.
“Ah, adesso hai bisogno di chiederlo?”
Evidentemente non aspettava altro: in un attimo la sua bocca fu sulla
mia. Fu davvero rapido – forse aveva
paura che io cambiassi idea all’ultimo minuto – e
all’inizio si limitò a un
contatto casto e tenero, più una leggera carezza di labbra
che si sfioravano
che un vero bacio, e che peraltro interruppe quasi subito. Si
fermò per osservarmi con
aria quasi sbalordita, come se in fondo si stesse ancora aspettando una
qualche ribellione da parte mia o che dessi
di matto come mio solito, smorzandogli l’entusiasmo e
rovinando l’atmosfera con una battutina, ma con mia e sua
sorpresa non feci nulla di tutto questo. Rimasi
lì, vicina a lui, gli occhi socchiusi e un sorriso un
po’ meno accennato.
All’improvviso ebbi voglia di abbracciarlo, di rifugiarmi tra
le sue braccia e inspirare il suo profumo – e, sorpresa!, lo
feci
e basta, senza pensare a come avrebbe potuto fraintendere quel gesto o
chissà
cos’altro. Insomma, a quel punto c’era davvero poco
da fraintendere: Enrico mi
era mancato, io l’avevo ammesso sia a me stessa che a lui,
dunque adesso la
strada sarebbe dovuta essere tutta in discesa. Più o meno.
Fu lui dopo un po' ad allontanarmi gentilmente, ma solo per prendermi
il viso
tra le mani e guardare le lacrime in bilico tra le ciglia che stavo
cercando
disperatamente di trattenere. Era assurdo, ma sentivo il cuore battere
talmente
tanto forte in petto da farmi quasi male – sperai piuttosto
scioccamente che
lui non lo sentisse. Se erano questi i sintomi, allora mi ero cacciata
davvero
in un bel guaio…
Ma prima che la mia mente potesse riprendere freneticamente a
pensare rovinando il momento, Enrico mi passò una mano tra i
capelli, facendo
scorrere le dita tra le ciocche, e poi, dimostrando di saper davvero
cogliere l’attimo,
abbassò il viso su di me e mi baciò di nuovo. E
il secondo non fu un bacio
casto.
Stavolta, mentre lo baciavo, ebbi l’impressione di aver
spento ogni
interruttore. Sentivo solo silenzio. Non era un silenzio morto, freddo
o
triste, al contrario... Era un silenzio fatto dei miei sospiri, dei
suoi, di
deboli gemiti che nessun altro al di fuori di noi due avrebbe potuto
sentire,
dei battiti accelerati del mio cuore e del suo respiro leggermente
affannato...
Era il bacio che avrei voluto dargli quando era venuto a salvarmi da
Lorenzo, e
anche quando ero andata a trovarlo in ospedale e mi aveva detto che mi
amava, e
che per tutta una serie di ovvi motivi avevo dovuto rimandare.
Quando iniziò a mordicchiarmi il labbro inferiore per
spingermi ad
abbassare anche l’ultima difesa credetti che sarei potuta
morire. Non mi ero
aspettata tutto quell’entusiasmo tutto in una volta, anche se
forse dovevo
immaginare che una volta datogli il permesso Enrico si sarebbe rifatto
di tutte
le volte in cui, in passato, gli avevo impedito di prendersi
“troppe libertà”. Ebbi
appena il tempo di dischiudere leggermente le labbra per far entrare un
po’
d’aria, prima che lui si tuffasse nuovamente su di esse,
baciando, mordendo e
succhiando, come se da quel bacio dipendesse la sua stessa vita, come
se non
avesse potuto più respirare senza. Con entrambe le mani tra
i miei capelli mi tenne
dolcemente imprigionata, e riuscì ad approfittarne per
avvicinare ancora di più
il mio viso al suo – come se fosse stato possibile.
Fu imbarazzante venire interrotti da qualcuno che si schiariva
vigorosamente la voce. Mi staccai da Enrico come se fossi appena stata
sorpresa
a rubare, le guance in fiamme e uno sguardo colpevole, mentre invece lo
stoico
Occhi Belli si limitava a passarmi un braccio intorno alle spalle e a
ricambiare l’occhiata della guardia giurata che ci fissava
con cipiglio severo.
“Dovete lasciare l’aula adesso, signori”,
disse semplicemente, con
un tono che tuttavia non ammetteva repliche. Rimase a guardarci fino a
quando
non raggiungemmo la porta della stanza – le mie scuse
farfugliate non ebbero
alcun effetto su di lui, a quanto pare – e a quel punto la
chiuse senza troppe
cerimonie alle nostre spalle.
L’entusiasmo di Enrico non sembrava essere stato minimamente
scalfito dalla brusca interruzione. Sempre con il sorriso sulle labbra
– uao,
bastava davvero poco per farlo felice – si voltò
verso di me e allungò una mano
per riprendere a giocherellare con i miei capelli; non riusciva proprio
a
trattenersi dal toccarmi, sembrava quasi che avesse paura che gli
potessi
sparire da davanti non appena avesse abbassato un poco la
guardia…
“Allora, torni a casa con me? Abbiamo ancora tanto di cui
parlare”,
mi chiese gentile, sperando in una risposta affermativa ma, per la
prima volta,
senza pretenderla.
Scrollai le spalle, guardandomi istintivamente intorno alla
ricerca dei miei genitori che, però, non si vedevano da
nessuna parte. “Non so,
vuoi andare adesso?” Riportai la mia attenzione su di lui.
“Dovrei chiedere ai
miei, prima, e poi tu non devi festeggiare con i tuoi amici? Sono
venuti per
te, non puoi mollarli per sparire insieme a me.”
“Che stupidata, certo che posso. Loro li vedo tutti i giorni,
io e
te non ci parliamo da mesi…”
“Appunto. E non è per
niente carino che tu ora vada via con la stessa ragazza che ti ha
evitato in
tutto questo tempo, potrebbero rimanerci male.” Non era
ancora convinto, lo
dimostrava il modo in cui mi guardava, ma ormai credevo di sapere come
prenderlo. Per cui sorrisi, avvicinandomi e tenendo impegnate le mani
nel
ravvivargli la camicia e la giacca un po’ sgualcite.
“Non è una scusa per non
rimanere sola con te, te lo assicuro. Abbiamo un’altra intera
estate per
recuperare il tempo perso, no? E poi, andiamoci piano. Piccoli passi,
con calma
e senza fretta, a partire da adesso. Che ne dici? Tu ora vai dai tuoi
amici che
ti aspettano al bar, dici a Stefano da parte mia che aveva ragione e
festeggi
insieme a loro com’è giusto che sia. Il mio numero
ce l’hai ancora, suppongo…
Anch’io ho il tuo. Quando vuoi mandami un messaggio, prometto
di risponderti. Okay?”
Sì, l’avevo convinto. Lo salutai con un rapido
abbraccio e un
bacio sulla guancia – eravamo pur sempre in un salone pieno
di gente – e sparii
in mezzo alla folla prima che Enrico trovasse il modo di trattenermi.
Alla fine
avevo preso la mia decisione, e sorprendentemente mi sentivo bene.
Benissimo! Quella
era di sicuro la cosa più giusta che avessi fatto
nell’ultimo anno.
Speravo solo di non dovermene pentire.
***
31 dicembre, sei mesi dopo.
Le note di vecchie canzoni natalizie provenivano ininterrottamente
dallo stereo del soggiorno, anche se Natale ormai era già
passato. L’albero che
avevamo addobbato io ed Enrico era ancora in un angolo, accanto al
camino nel
quale scoppiettava un allegro fuocherello, e sotto c’era
ancora qualche regalo
impacchettato da consegnare ai nostri amici. Beh, quelli di Enrico, in
realtà;
io e Alessandra ci eravamo viste una settimana prima di Natale e
avevamo
festeggiato in anticipo a casa mia, scambiandoci i nostri pensierini e
facendo
ben attenzione a fingere di non essere fidanzate con due ragazzi che si
odiavano reciprocamente. Quello era stato il primo compromesso che
avevamo dovuto
fare in nome della nostra amicizia: Riccardo non sopportava Enrico, e
anzi lo disprezzava,
mentre Enrico da parte sua credo che semplicemente non volesse
più averci nulla
a che fare, pur senza provare chissà quale odio nei suoi
confronti. Per cui, né
io né Alessandra eravamo libere di parlare delle nostre
rispettive relazioni le
une con le altre, io perché sapevo che lei malgrado tutto
non mi appoggiava –
benché più volte avesse ribadito il contrario
– e lei per pura solidarietà.
Il secondo compromesso riguardava il modo in cui avremmo dovuto
trascorrere le festività: quello sarebbe stato il primo
capodanno che avrei festeggiato
senza la mia migliore amica, e di conseguenza anche senza Laura,
Federico e
Matteo.
Sì, nell’insieme era una cosa parecchio triste, ma
per alleviare
un poco l’amarezza di quella situazione si poteva anche dare
la colpa al fatto
che tutti noi frequentassimo università diverse. Alessandra
era iscritta in tossicologia
come aveva sempre desiderato, Laura in scienze della comunicazione,
Federico e
Matteo in economia e io in lingue: oggettivamente anche in una
situazione
normale sarebbe stato molto difficile, anche se non impossibile,
continuare a vederci come prima. Certo, la realtà era ben
diversa; ma ehi, chi voleva rovinarsi le
feste pensando a quelle cose? Io no di sicuro; e sinceramente non
volevo
neppure guastare il mio primo capodanno trascorso insieme ad Enrico,
considerando che da qualche tempo a questa parte aveva iniziato a
definirsi
ufficialmente – più o meno – il mio
ragazzo. Le prime volte lo avevo incenerito
con lo sguardo, ma alla fine avevo terminato le munizioni. E tutto
sommato chi
ero io per impedirgli di chiamarsi come voleva, dopo tutto quello che
avevamo
passato?
Stavo preparando le ultime cose per il cenone di capodanno. Avevo
iniziato
a sistemare la tavola ed ero passata a preparare i primi antipasti,
quando
Enrico fece il suo ingresso nella sala da pranzo della sua villa di
campagna
carico di buste e vassoi e in evidente difficoltà
– era andato a casa mia a
prendere quello che mia madre aveva insistito per preparare per il
nostro
cenone, dato che loro sarebbero andati a cena da mia nonna insieme agli
zii e a
mia sorella e aveva l’intero pomeriggio libero. Mi pulii le
mani sul grembiule
e lo raggiunsi, aiutandolo a poggiare il suo carico sulla penisola
della
cucina.
Lui gemette, sgranchendosi le braccia. “Tua madre ci ha dato
roba
per un esercito. Lo sa che siamo solo in quattro, vero?”
Ridacchiai, iniziando a tirar fuori i recipienti dalle buste di
carta per capire che cosa ci fosse nei vari involucri. “Non
lamentarti, e
ringraziami piuttosto. Anche mia nonna stava per metterci del
suo...”
“Averlo saputo prima, avrei fatto venire anche gli
altri.”
“Ecco, perché non li chiami? Siamo ancora in
tempo, sono solo le
otto, e più siamo meglio è, no?
Sul suo viso passò un’ombra strana. “Lo
sai, non volevo importi la
loro presenza. E poi non mi sembrava giusto… visto che i
tuoi, di amici, non
sono voluti venire.”
“Sì, beh, è una cosa con cui sono
già venuta a patti. Sapevo che
sarebbe stato difficile, e hanno solo confermato le mie supposizioni.
Pazienza…
Si perderanno le lasagne e le melanzane alla parmigiana di mia
madre.”
Enrico rimase in silenzio, osservandomi mentre cercavo di tenermi
impegnata per non lasciarmi andare alla tristezza. “Mi
dispiace, Giuli. Davvero”, disse
a bassa voce dopo un po’. Sapevo che era sincero, ma questo
non cambiava le
cose.
Accennai un sorriso e scrollai le spalle, come a liquidare una
volta per tutte quell’argomento. “Dai, non
pensiamoci. Non voglio rovinare il
nostro capodanno.” E anch’io ero stata onesta, dato
che non ero per niente pentita
della mia scelta.
Per quanto fosse palesemente poco convinto, ricambiò il
sorriso. “Il nostro capodanno. Mi piace come
suona… nostro…”
Roteai gli occhi, sbuffando. “Oddio, no, per favore. Non ti
sopporto quando fai il vecchio sentimentale.”
“Sto cercando di essere romantico!”
“E ti riesce anche piuttosto male”, lo scoraggiai
subito, dandogli
le spalle e iniziando a infilare le teglie in forno per riscaldarle
prima che
arrivassero gli altri. In realtà quando si metteva
d'impegno gli riusciva piuttosto bene, ma provocarlo era tuttora
così divertente...
Come al solito era troppo cocciuto per farsi abbattere con
così
poco e mi venne appresso come un’ombra, fischiettando a ritmo
di un Jingle bells che suonava dalla radio. Mi
passò le braccia intorno ai fianchi e si strinse contro la
mia schiena, poggiando
il mento sui miei capelli. “Forse avrei dovuto mettere un
rametto di vischio da
qualche parte, magari ti saresti addolcita”,
scherzò, tamburellandomi il ventre
con le dita.
“Grazie a Dio è una pianta che qui non
cresce.”
“Grazie a Dio non ho bisogno di una pianta per
baciarti”, mi fece
il verso, chinandosi per seppellire il viso nell’incavo
scoperto tra il mio
collo e la spalla e dispensando piccoli baci umidi.
Il solletico che quel trattamento – per quanto piacevole
– mi
causava mi fece ridacchiare come una quindicenne. Cercai di spingerlo
via con
il gomito, ma sarebbe stato più facile cercare di staccare a
mani nude una
patella dalla roccia. “Dai, smettila! Che poi dobbiamo
lasciare le cose a metà
e sappiamo entrambi quanto diventi insofferente, in quel
caso”, lo ammonii,
sforzandomi di non ridere.
“Mmh, e chi lo dice che dobbiamo lasciare le cose a
metà?”
“Sta per arrivare Stefano! Con la fidanzata!”
“Appunto, credo che sarebbero più che
comprensivi…”
“Enrico, stai rischiando. Vai a finire di apparecchiare, devi
preparare i piatti con gli antipasti”, lo istruii cercando di
suonare quanto
più severa possibile. Magari se si fosse tenuto impegnato
avrebbe smesso di
pensare a palpeggiarmi, almeno per un po’.
Alla fine, ero riuscita a convincerlo a chiamare il resto dei suoi
amici in modo che ci raggiungessero per cena; arrivarono tutti insieme
poco
dopo Stefano e la ragazza, Cecilia, che mi aveva raggiunto in cucina
mentre gli
uomini facevano comunella in sala da pranzo. Ci eravamo già
viste prima di allora e
andavamo piuttosto d’accordo: l’unica differenza
tra me e lei risiedeva nel
fatto che lei non fosse a conoscenza della, per così dire, seconda
vita di Stefano, e visto che si stavano frequentando da
poco potevo ben capire la riluttanza di lui nel parlarle di certe cose.
Comunque
la presenza di una “esterna” come Cecilia avrebbe
aiutato a mantenere il
livello della serata il più normale possibile, e di questo
le ero davvero
grata; a volte mi sentivo ancora fuori luogo in mezzo a Enrico e ai
suoi amici,
perché sapevo che quello che condividevano era un qualcosa
che non mi sarebbe
mai piaciuto ma che purtroppo non potevo cambiare.
Eppure, quando scoccò la mezzanotte e nel vociare degli
auguri
Enrico stappò la bottiglia di spumante, voltandosi
immediatamente verso di me
in modo che fossi io la prima ad avere il bicchiere pieno, realizzai
che per il
momento non mi importava, ed ero sincera. Quello che davvero contava
eravamo io
e lui, i nostri bicchieri che tintinnavano l’uno contro
l’altro nel brindisi e
il rapporto che stavamo costruendo pazientemente giorno dopo giorno,
mattone
dopo mattone, raccogliendo con cura quelli che cadevano di tanto in
tanto e rimettendoli
a posto in modo che l’intera struttura non crollasse. E
finora dovevo ammettere
di essere parecchio soddisfatta della forma che la nostra relazione
stava
prendendo.
“Felice anno nuovo, Giuli”, mi sussurrò
all’orecchio, prima di
baciarmi.
Funny how the heart can be
deceiving
More than just a couple
times
Why do we fall in love so easy
Even when it’s not right…
_____________________________________________________________________________________________________________________
La canzone che apre e chiude il capitolo è Try, di Pink. Non so, pensavo ci stesse bene.
_____________________________________________________________________________________________________________________
Angolo Autrice.
Dite la verità, da quanto tempo stavate aspettando? Ah? Lo so, lo so, come al solito sono imperdonabile - ma ehi, guardate il lato positivo! Questa è ufficialmente la prima storia che ho scritto e che sono riuscita a concludere (sorvolate sul fatto che mi ci sono voluti quattro anni per farlo, neanche fosse stata la saga di Harry Potter), e tutto ciò mi riempie di soddisfazione *_* Non riesco ancora a essere commossa perché questo è sì l'ultimo capitolo, però dopo ci sarà un epilogo, com'è giusto che sia, e quindi... E quindi niente, ci si rilegge lì :D Rimandiamo a dopo la lettura dell'epilogo eventuali lanci di mele marce e riserviamoci la facoltà di esprimere un giudizio "universale" sulla storia per allora... Perché sono quasi del tutto convinta che questo trentunesimo capitolo sia stato parecchio deludente, per molti di voi. Beh, pazienza... This was my design, tanto per citare Will Graham (se cogliete il riferimento vi sposo), e non c'è niente che possiate fare. xD
Dopotutto, se George R. R. Martin è ancora vivo dopo tutto quello che fa succedere nei suoi libri... io posso ancora dormire sonni tranquilli. 8D
Colgo l'occasione per ringraziare nuovamente tutti coloro che hanno dato un'occasione a questa storia, che hanno seguito le loro vicende dall'inizio o che si sono aggiunti in seguito, che l'hanno letta in silenzio o che di tanto in tanto mi facevano sapere che cosa ne pensavano, e che soprattutto sono qui, oggi, a un passo dalla fine, e potranno dire ai posteri "Io c'ero!" ç_ç
..... Nah, mi sono lasciata trasportare. Comunque il succo è: grazie, grazie, grazie mille, grazie infinite, grazie di tutto :***
Entrando nei particolari, grazie a _Malvine_, Utena, _Elisewin_, Ibelieveinniley, luck_Y, GreenRose93, Charity, Sylphs, _Artemide_, rodney, cate394rina, Mrs_Hran, MinguzXD, Sary01 e Brigida per aver recensito lo scorso capitolo, nonché a tutte le fantastiche persone che hanno aggiunto la storia alle Preferite e alle Seguite e, ripeto, a tutti voi che avete letto :)
Orbene, vi saluto! Ci diamo l'ultimo appuntamento all'Epilogo, lasciamo le lacrime (anche no) ad allora!
Vi bacio e vi abbraccio tutte, la vostra estremamente grata
Niglia.
Even when it’s not right…
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La canzone che apre e chiude il capitolo è Try, di Pink. Non so, pensavo ci stesse bene.
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Angolo Autrice.
Dite la verità, da quanto tempo stavate aspettando? Ah? Lo so, lo so, come al solito sono imperdonabile - ma ehi, guardate il lato positivo! Questa è ufficialmente la prima storia che ho scritto e che sono riuscita a concludere (sorvolate sul fatto che mi ci sono voluti quattro anni per farlo, neanche fosse stata la saga di Harry Potter), e tutto ciò mi riempie di soddisfazione *_* Non riesco ancora a essere commossa perché questo è sì l'ultimo capitolo, però dopo ci sarà un epilogo, com'è giusto che sia, e quindi... E quindi niente, ci si rilegge lì :D Rimandiamo a dopo la lettura dell'epilogo eventuali lanci di mele marce e riserviamoci la facoltà di esprimere un giudizio "universale" sulla storia per allora... Perché sono quasi del tutto convinta che questo trentunesimo capitolo sia stato parecchio deludente, per molti di voi. Beh, pazienza... This was my design, tanto per citare Will Graham (se cogliete il riferimento vi sposo), e non c'è niente che possiate fare. xD
Dopotutto, se George R. R. Martin è ancora vivo dopo tutto quello che fa succedere nei suoi libri... io posso ancora dormire sonni tranquilli. 8D
Colgo l'occasione per ringraziare nuovamente tutti coloro che hanno dato un'occasione a questa storia, che hanno seguito le loro vicende dall'inizio o che si sono aggiunti in seguito, che l'hanno letta in silenzio o che di tanto in tanto mi facevano sapere che cosa ne pensavano, e che soprattutto sono qui, oggi, a un passo dalla fine, e potranno dire ai posteri "Io c'ero!" ç_ç
..... Nah, mi sono lasciata trasportare. Comunque il succo è: grazie, grazie, grazie mille, grazie infinite, grazie di tutto :***
Entrando nei particolari, grazie a _Malvine_, Utena, _Elisewin_, Ibelieveinniley, luck_Y, GreenRose93, Charity, Sylphs, _Artemide_, rodney, cate394rina, Mrs_Hran, MinguzXD, Sary01 e Brigida per aver recensito lo scorso capitolo, nonché a tutte le fantastiche persone che hanno aggiunto la storia alle Preferite e alle Seguite e, ripeto, a tutti voi che avete letto :)
Orbene, vi saluto! Ci diamo l'ultimo appuntamento all'Epilogo, lasciamo le lacrime (anche no) ad allora!
Vi bacio e vi abbraccio tutte, la vostra estremamente grata
Niglia.