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Autore: MyLandOfDreams    02/07/2013    6 recensioni
Sono passati 4 anni dall’ultima volta che l’ha visto. Quattro anni da quando le ha dichiarato il suo amore. Quattro anni senza ricevere sue notizie.
Fino ai 12 anni Mike occupava una parte importante nella vita e nel cuore di Lucia, e, ora che lui è lontano, lei non fa altro che aspettare il suo ritorno. Ormai ha compreso quali sono i sentimenti che prova per il suo amico, ma quest’ultimo non ha mai provato a mettersi in contatto con lei.
Lei non ha più amici. Ha solo la sua famiglia.
Fin quando, il primo giorno del terzo anno di liceo, non incontra lui.
Claudio che, in punta di piedi, entrerà nella sua vita aiutandola a rifarsi una vita.
Ma il passato non si può cancellare.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Capitolo 1

 

  Dicono che il tempo guarisca tutte le ferite. Dicono anche che il dolore renda più forti. Io non ci credo.
  Il tempo può guarire solo quelle ferite superficiali, quelle che non dovrebbero neanche essere definite tali. Ma il tempo non può guarire le ferite vere, quelle profonde, anzi, a volte non può far altro che peggiorare la situazione.
  Il dolore non rende forti. Il dolore porta a fare cavolate, alla disperazione, a rinunciare a tutto ciò che si ha e che si desidera.
  Quando ci si taglia profondamente con un coltello arrugginito, se si lascia la ferita guarire da sola, questa col tempo si potrà cicatrizzare, ma si verrà a creare un'infezione che ci renderà deboli, che potrebbe benissimo portarci alla morte. Per evitare tutto ciò si ricorre ai medicinali.
  Questi medicinali, nel caso delle ferite al cuore, non sono altro che quelle persone tanto importanti da fare passare il dolore, i problemi e quant'altro, in secondo piano. Sono quelle persone che ti stanno accanto nei momenti felici e, soprattutto, in quelli bui. Quelle persone per cui vale la pena lottare con tutte le proprie forze.
 
 «Lucia, vuoi muovere il culo per piacere? Non so te, ma io non ci tengo poi molto ad arrivare in ritardo sin dal primo giorno di scuola».
  Adoravo mio fratello. Era sempre stata la mia ancora di salvezza durante le tempeste, il mio porto sicuro. Più volte aveva rinunciato alla sua tranquillità pur di risollevare il mio umore nero. Era sempre stato pronto a sorridermi, anche quando era lui ad aver bisogno di essere confortato. Mi era sempre stato accanto in quei quattro lunghi e difficili anni. Eppure c'erano momenti come quello, in cui tutto ciò che desideravo, era prenderlo e sbattergli violentemente la testa al muro per ore ed ore.
  «Magari, se invece di specchiarti in bagno per tre quarti d'ora, l'avessi fatto in camera tua dove c'è uno specchio che è il doppio di me, a quest'ora saremmo già fuori casa, non credi? Perché sì caro, so perfettamente che stai tutto il tempo a specchiarti e basta».
  Senza davvero ascoltare il suo discorso sul perché fosse più comodo usare lo specchio del bagno, indossai i jeans e la prima maglietta che mi capitò a tiro senza neanche guardarla.
  Osservai per pochi secondi il mio riflesso allo specchio. Non vedevo nulla di speciale, nulla degno di nota.
  Ero una semplice ragazza dai capelli castani leggermente mossi e gli occhi verdi screziati di sfumature di grigio.
  Istintivamente mi voltai verso il cassettone di mogano sul quale giaceva una foto raffigurante quattro bambini di cui due maschietti e due femminucce. I due bambini di sette anni tenevano in braccio i due di cinque.
  Erano tutti dei bambini semplicemente stupendi, eppure, tra loro, spiccava il maschietto più piccolo.
  Aveva degli occhi quasi ipnotici a causa di quell'azzurro tanto intenso da sembrare irreale. Chiunque sarebbe potuto rimanere a fissare quegli occhi stupendi senza mai stancarsi.
  «Lucia, allora? Che fine hai fatto?». La voce di mio fratello mi riscosse dai miei pensieri. Mi accorsi solo allora di avere una guancia umida a causa della solita lacrima silenziosa che mi era sfuggita. Velocemente la asciugai per poi mettere nella tasca anteriore dello zaino cellulare, chiavi di casa e portafoglio.
  Una volta uscita dalla camera mi ritrovai Marco appoggiato al muro, mani in tasca, lo sguardo annoiato e impaziente, e lo zaino abbandonato ai suoi piedi.
  Dovevo ammettere che era un vero figo con quei capelli biondi ramati così simili ai suoi, il viso squadrato, gli occhi dal colore indefinito che cambiavano secondo della luce e, sembrano assurdo dirlo, in base al suo umore. Inoltre aveva un fisico degno di una statua, merito di due anni di palestra.
  Senza proferire parola ci avviammo verso l'ingresso di casa, dove per poco non persi l'equilibrio a causa di una testolina bruna che sbucò dal nulla afferrandomi per una gamba.
  «Lucy! Ucy! Non mi dai il bacio?». Istintivamente mi aprii in un sorriso. Margaret era la copia di me da piccola: stessi occhi, stessi capelli, stesso carattere.
  Senza pensarci neanche mi chinai per posarle un leggero, ma non per questo breve, bacio sulla fronte. Una volta ricevuto il mio, se lo fece dare anche da Marco il quale s'inginocchiò per posarle le labbra sulla guancia.
  «Non fare impazzire la mamma piccola pulce». Si raccomandò Marco.
  Prima di uscire, Marco ed io, all'unisono, augurammo buona giornata ai nostri genitori.
  Velocemente ci allacciammo i caschi per poi montare in sella alla moto di cui non ho mai saputo il modello. Non riuscivo a capire l'ossessione che avevano i ragazzi per le moto che li portavano a scegliere un modello piuttosto che un altro. In compenso amavo la sensazione del vento che mi scompigliava i capelli e che s'infrangeva sul mio viso.
  Era una sensazione bellissima, rilassante. Marco mise in moto e, in pochi secondi, ci ritrovammo a sfrecciare lungo le strade della città infilandoci tra le macchine bloccate nel traffico mattutino.
  Come sempre la mia mente si liberò da qualsiasi pensiero. Le corse in moto avevano sempre questo effetto su di me: il piacere che mi procurava era tanto immenso da farmi dimenticare perfino il mio nome.
  La moto era la medicina alla mia tristezza.
  Ogni volta che mi ritrovavo a deprimermi, non dovevo far altro che bussare alla porta accanto alla mia per non dover più pensare ad altro.
  Mi dispiaceva disturbare Marco, ma con uno sguardo capiva sempre se qualcosa in me non andava, e, se provavo a spiegargli che non lo avevo voluto disturbare, semplicemente mi urlava contro dicendo che non dovevo tenermi per me tristezza o depressione che fosse.
  Pochi minuti dopo avvertii il vento cessare, segno che eravamo giunti a destinazione.
  Senza neanche salutare mio fratello mi avviai all'interno della scuola.
  Mi trovavo ancora una volta tra le mura di quell'edificio chiamato comunemente liceo. I muri dal colore indefinito a causa dello sporco, il portone principale in stile castello medievale, le sbarre alle finestre. Sì, la mia scuola aveva le sbarre alle finestre.
  Secondo alcune voci di corridoio, prima di essere un liceo, quell'edificio fosse stato un manicomio, secondo altre addirittura un carcere minorile. Comunque sia, che fosse stato un manicomio, o un carcere, l'atmosfera che vi si respirava all'interno era sempre la stessa, anche una volta diventato un liceo.
  Trovai facilmente la mia classe e una volta arrivataci notai che circa la metà dei miei compagni erano già arrivati occupando principalmente quelli in fondo alla classe.
  Salutai tutti con un buongiorno generale e mi accomodai al mio solito banco accanto alla finestra.
  Fortunatamente, nonostante il “contrattempo” di quella mattina, eravamo arrivati cinque minuti prima del suono della campanella per cui nessun professore era ancora giunto in classe. Senza curarmi di ciò che mi capitava attorno, iniziai a vagare con la mente.
  A scuola non avevo degli amici, erano semplicemente dei conoscenti per me. Certo, c'era chi mi stava più simpatico di altri, ma non sono mai riuscita a farmi un solo amico per via del mio carattere. Tendevo a essere un po' fredda verso coloro che mi si avvicinavano, non li volevo come amici.
  Il mio unico amico rimasto era mio fratello.
  Belle e Mike erano scomparsi.
  Erano stati loro i miei veri amici.
  Non avrei permesso a nessuno di occupare il loro posto nella mia vita e nel mio cuore.
  Ancora non riuscivo a capacitarmi del fatto che Mike una sera mi avesse confessato i suoi sentimenti per poi partire senza avvertire la notte stessa e quindi non farsi sentire per quattro lunghi anni.
  In quel periodo avevo continuato a riflettere su ciò che mi aveva rivelato. Avevo pian piano compreso che quella che inizialmente provavo, e che definivo amore, non era altro che una cotta, cotta che si avvicinava sempre più all'amore. Eppure non potevo dire di amarlo. Io amavo il Mike dolce, sensibile, sempre pronto a sostenermi, pronto a farmi sorridere sempre.
  Una parte di me continuava a sperare che dietro a quel silenzio si celasse un motivo più che valido, un motivo che avrebbe reso il mio perdono più raggiungibile una volta che sarebbe tornato. E speravo che non fosse cambiato, che fosse ancora innamorato di me. Dopotutto io gli avevo fatto una promessa, e non importa se lui non aveva mantenuto la sua: io la volevo mantenere a tutti i costi.
  L'altra parte di me però, quella razionale, era convinta che lui fosse cambiato, così come fossero cambiati i suoi sentimenti per me, che fosse perché si era stancato di me che non si era fatto più sentire, che non aveva mantenuto la promessa.
  Le mie riflessioni furono interrotte dallo stridere della sedia accanto a me.
  Fino a quel momento non avevo mai avuto alcun compagno di banco.
  Ero proprio curiosa di sapere chi fosse colui o colei che voleva sedermi accanto quest'anno.
  Volendo una risposta a quel mio quesito interiore, sollevai lo sguardo e i miei occhi si persero in un azzurro tanto intenso da sembrare irreale.
  Il cuore perse un battito, e per poco non caddi dalla sedia.
  Quelli erano i suoi occhi. Quegli occhi che tanto amavo, occhi che rispecchiavano la sua gioia di vivere, gli occhi che fissavo ogni sera, prima di andare a dormire, per ore e ore, per poi ritrovarmi la mattina ad abbracciare la cornice con la sua fotografia.
  Eppure non era lui. I capelli non erano biondi ma color pece. Gli zigomi erano più sporgenti.
  Ero così concentrata sul suo aspetto che non sentii la domanda chi mi rivolse.
  Mi sventolò una mano davanti agli occhi facendomi tornare in me «Allora?».
  «Oh scusa, cosa stavi dicendo?». Non capii il perché, ma abbassai lo sguardo e arrossii. Non ero in me! Io non arrossivo. Io ero la ragazza di ghiaccio che non lasciava nessuno avvicinarsi a sé.
  «Ti ho chiesto se questo posto è libero, sai tutti gli altri sono occupati.» mi rivolse un sorriso a trentadue denti. Non era un sorriso beffardo, era dolce, quasi come quello che una bimba rivolge alla sua bambola preferita.
  Mi accertai delle sue parole volgendo lo sguardo verso il resto della classe costatando che aveva ragione. «Siediti pure».
  Accennai un lieve sorriso. Se con sorriso si potesse intendere un sollevamento degli angoli della bocca leggermente increspata. A me sembrava più una smorfia.
  Continuando a sorridere si sedette alla mia destra e mi tese la mano. «Piacere, io sono Claudio, il nuovo studente proveniente dall'Inghilterra».
  Nonostante non avessi un gran rapporto con i miei compagni di classe, mi era giunta voce che avremmo avuto un nuovo compagno, ma non avevo dato peso a questa notizia.
  Fui colpita dalla sua rivelazione: veniva dall'Inghilterra.
  Inghilterra.
  Mike.
  Senza dar a vedere la mia sorpresa gli rivolsi uno sguardo interrogativo «Però parli bene l'italiano»
  Da qui iniziò a raccontarmi di sé. Era nato in Italia ma, all'età di otto anni, si trasferì in Inghilterra per una promozione che aveva ricevuto il padre. Una volta che i genitori divorziarono, ovvero quell’estate appena trascorsa, tornò al paese natale con la madre.
  Era strano come lo ascoltassi rapita. Non davo mai confidenza a nessuno, eppure lui aveva in qualche modo abbattuto le mie barriere lasciandomi indifesa, in balia dei suoi modi gentili e dolci.
  Sentivo lo sguardo di quasi tutta la classe addosso e non potevo di certo biasimarli: stavo sorridendo e parlando allegramente con un compagno, per di più uno sconosciuto.
  Ben presto però il nostro discorso fu interrotto dall'arrivo della professoressa di matematica: era appena iniziato quell'inferno comunemente chiamato anno scolastico.
 

  
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