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Autore: Benoit    07/07/2013    0 recensioni
Tante storie che non si intrecciano. Tante piccole occhiate su finestre che ho aperto una volta di sfuggita e in cui non ho mai più rimesso piede. Diventano un puzzle di racconti tutti diversi, per sognare, ridere, piangere, vivere.
Genere: Fantasy, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
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13. Fumo negli occhi


“Ehi.”

“Marsha…”
“che fai, neanche saluti?”
“hm…”

Marsha lo colpì piano con il gomito e si strinse nelle maglie di lana della giacca. Tirò su col naso e se lo strisciò sulla manica, portando via gli ultimi granelli invisibili di coca. Gettò la testa all’indietro, perdendo l’equilibrio sul ciglio della strada, dove i lampioni illuminavano l’asfalto bucato e incrociando i piedi per non rischiare di afflosciarsi sul marciapiede. Lì dove migliaia e migliaia di scarpe e piedi nudi e tacchi vertiginosi erano passati, avevano calpestato, avevano sorretto corpi più o meno pesanti. Lì dove erano cadute monete e banconote, lì dove volteggiavano aloni di fumo spesso e dove si stracciavano le calze a rete e dove si facevano nuove, strane conoscenze. Lì dove non si diceva di no a nessuno. Lì dove si accorreva se si aveva bisogno di non pensare o di una buona dose di sensi di colpa.

“ti prendo in giro, coglione…”

Chaz non rispose.
Davanti agli occhi, fissi lontano, forse sul marciapiede dirimpetto o forse proprio sintonizzati su un’altra frequenza, aveva stampati i pensieri. Uno dopo l’altro si davano la caccia, annegati in un accenno di lacrime. Continuò a guardare senza vedere. A fissare qualcosa in lontananza che solo il suo sguardo era in grado di percepire, come una moviola invisibile che gli scorreva davanti agli occhi. La sua testa, con i capelli neri e crespi era immersa in una nube di fumo grigiastro, mentre tra l’indice e il pollice, tra quelle due dita lunghe e nervose, strizzava il mozzicone di una sigaretta. Con una pioggia di scintille, la cicca sprofondò in una pozzanghera, per poi ritornare a galla e rimanere qualche attimo lì, immobile, a galleggiare e sfrigolare piano. Chaz si frugò nelle tasche, strisciò le mani nei jeans fuori moda; quelli a vita alta, attillati lungo le gambe magre.
Marsha sputò condensa fuori dalle labbra e incassò la testa nelle spalle, mentre a piccoli, ingenui, passi laterali si avvicinava a Chaz, al suo corpo, che come tutto ciò che è triste, malinconico, sgualcito, amareggiato, cinico e disincantato, sprigiona un’energia capace di riscaldare anche le menti e le membra più gelide. I lunghi capelli castani che le precipitavano sulle spalle in ciocche scompigliate e umide, le guance arrossate e gli occhi lucidi per le raffiche di vento gelido. Chaz sollevò un pacchetto stropicciato di Pall Mall tra le dita, sfilò l’ultima sigaretta, quella che fluttuava tra le schegge di tabacco e i pezzetti di carta velina e la strinse in mezzo alle labbra. Con una mano accartocciò il pacchetto e con l’altra…

click…

Con l’altra, grattò sulla rotella dello zippo.

Malinconica e testarda.
Puttana. Puttana che vende amore.
Mani da zingara, fine e scaltre,
unghie mangiate dalla noia e dalla malinconia…


“Chaz…” sussurrò con un filo di voce, tentando di carpire quegli occhi scuri che sembravano voler scappare via, sembravano voler essere ovunque, in qualsiasi altro posto piuttosto che lì.

“lo sai che fumi troppo?” Chaz espirò nicotina dalle labbra, osservando con le palpebre socchiuse la scia di fumo che si disperdeva contro il cielo.

“no.”

Gonna di jeans piena di strappi, scalfita, sporca di fango, di rossetto, sporca di erba e terra e smalto,
top sdrucito da quattro soldi,
un paio di occhi azzurri cerchiati di chiaro, cullati da uno strato spesso di matita nera,
rossetto viola pieno di pieghe.


Marsha gli si avvicinò ancora, sperando che Chaz non se ne accorgesse. Lui aspirò ancora, con una fitta ai polmoni. Sì, fumava troppo. Sì, anche quando si era appena accesa la decima pensava già all’undicesima, alla dodicesima sigaretta. Sì, i suoi polmoni si andavano sgretolando pian piano senza che lui potesse farci niente; senza che lui potesse farci altro che biasimare, disapprovare, criticare, procrastinare, sputare sopra le sue stesse scelte sbagliate e non prendere mai quelle giuste.

Che poi, qualcuno mi spieghi quali cazzo sono queste scelte giuste…

Sì, fumava troppo e pensava ad altro. Pensava ai cazzi suoi. Pensava a suo fratello, a Gale, da solo in una casa di cui non ricordava le pareti, il tasto per accendere la luce. A Gale che se ne stava al buio, con solo le mutande addosso, con un libro fra le mani, con un unico pensiero nella mente e fra le dita: il ricordo del piacere fisico.

E poi quel volto.
Niente trucco su quegli occhi.
Niente stivali con la punta di ferro ai piedi.
Niente tanga.
Niente alito che sa di fumo cattivo e corde vocali bruciate.
Solo una luce. Una luce strana e un paio di occhi verdi, cazzo.
O quantomeno questo era quanto Gale gli aveva detto.


Sì, pensava a Gale, come sempre, come ogni giorno, ogni mattino, ogni sera e ogni attimo, cazzo. Sì. Sì. Marsha si avvicinò ancora e lui, nonostante fosse con la testa su un altro pianeta, si scansò. Spostò il corpo in maniera impercettibile. Infastidito da quel contatto, da quelle vibrazioni non richieste. Non per il momento.

“qualcosa che non va?”

Marsha gli si fece ancora più vicina, allungò una mano a sfiorare i suoi pensieri. Forse puntava alle labbra, quelle labbra sottili, spellate, leggermente socchiuse. Labbra che ne avevano viste di tutti i colori, di tutte le consistenze. Baci, schiaffi, morsi, tirapugni. Calci arrivati di striscio durante un coro violento allo stadio, con le bandiere che sventolano e i sassi che attraversano l’aria come proiettili, che atterrano contro i crani con quel rumore di ossa friabili e sgretolate. Il graffio, ancora ben visibile, di un serramanico…

Clack…

Di un serramanico che rischiava di arrivare più in profondità.
Lite tra fratelli o presunti tali per strada. Il graffio di un serramanico che ha colpito troppo in superficie, una lama iridescente che sarebbe dovuta arrivare più giù, tra le budella marcite e i neuroni lanciati in una corsa folle, lanciati a velocità supersonica a mordersi la coda. Chaz inspirò. Inspirò e inspirò ancora. E buttò il fumo fuori dal corpo stringendo le mascelle, cercando di espellere anche tutti i brutti pensieri. Si lasciò accarezzare la ferita ancora tumida sul labbro inferiore, chiudendo le palpebre e irrigidendo ogni singolo nervo.

“cosa c’è che non va? A me puoi dirlo...” Marsha passò dalle labbra ai capelli, infilò le dita, una dopo l’altra, tra i ricci corvini. Una zaffata di profumo stratificato e scadente gli attraversò le narici.

Niente profumo marcito.
Niente profumo. Solo odore di pelle.
Chi era?
Chi era l’unico ricordo di Gale? Chi cazzo era?
Perché non lui? Perché non suo fratello. Suo fratello che lo accudiva, che lo sosteneva, lo sopportava, lo amava più di sé stesso, lo pensava ogni istante della sua esistenza inutile… lo voleva, a volte.

Dio, Cristo! Ma che cazzo stai dicendo?


Si scostò di scatto. La sigaretta gli cadde dalle labbra. Bestemmiò.
Marsha ritrasse la mano, barcollando all’indietro e aggrappandosi con le mani alla sua giacca per non cadere.

Lo strinse forte.
Lo attirò a sé con più violenza di quanta non avesse desiderato. Gli finì addosso, col fiato caldo che le innaffiava il viso, con gli occhi ad un soffio dal suo, che la fissavano non solo fuori, ma dentro… lì dove lei non aveva neanche il coraggio di infilarsi. Lì con i capelli che la inglobavano come l’acqua di una cascata, con il petto solido che si alzava e si abbassava al ritmo del respiro, con quella vena sul collo che batteva veloce. No, non veloce… meno lenta, meno riflessiva, meno nostalgica. Batteva, batteva e batteva, spingendo in fuori la carne. Lì con la puzza di fumo che sentiva a malapena, con l’odore di pelle che le strisciava addosso.
Chaz la guardava con gli occhi spenti, vacui. Per un attimo era rimasto scosso da quel fremito di vita, da quel sussulto inaspettato, dall’aria che si era fatta più calda e più fredda assieme. Dalla sua vita monotona e insipida che pareva essersi per un attimo trasformata nella scintilla dell’accendino che dà fuoco alla sigaretta…

Sigaretta… vorrei un’altra sigaretta.
Una sigaretta…sigaretta…sigarettasigarettasigarettasigaretta.


Marsha l’afferrò per il bavero e gli stampò il suo rossetto caldo e pastoso sulle labbra. Sentì la sua lingua farsi strada all’interno del palato. La sentì muoversi. E allora fumo, alcool scadente, il sapore del caffè bruciato per smaltire i postumi delle sbornie, succo d’arancia, burro d’arachidi, pancake fatti in casa, burro e coca e cartine e carne. Tutti i sapori del mondo gli penetrarono in bocca e si impastarono alla sua saliva.

Quel mondo di merda, che odiava tanto, quel mondo che riusciva a vedere puro e incerto e semplice solo in Gale e nelle sue fantasie (vere o false che fossero), gli si rifaceva contro, si mischiava ai suoi fluidi senza che, come al solito potesse farci nulla. Senza che potesse farci nulla se non serrare il naso e pensare insistentemente e disperatamente alla sigaretta dopo il sesso.
Sentì una mano scivolargli verso la cintura dei pantaloni. Sentì un paio di labbra che dagli zigomi glabri passavano al collo, i lobi delle orecchie, le clavicole. Sussultò quando Marsha gli addentò piano la spalla, quando si soffermò un attimo di troppo su quella vecchia ferita.

Tlack.

Gli slacciò la cintura e i pantaloni. Bottone dopo bottone. Lo rese esausto, i nervi del collo tesi come tiranti di ferro, il cuore che strattonava le costole, i muscoli, la pelle e la bocca che faticava sempre più a restare chiusa, a trattenere  i gemiti.

Allontanò la bocca di Marsha dalla giacca slacciata e dall’apertura della maglietta che dava sul petto. La allontanò piano, sussurrando parole che non riuscì a capire bene nemmeno lui. Lei rise sommessamente, si passò una manica di lana sulle labbra e lo prese per mano.

“vieni con me…”

Chaz la seguì. Docile. Osservò i suoi capelli ballonzolarle sulle spalle, osservò gli stivali lasciare impronte bagnate sull’asfalto, la gonna alzarsi e abbassarsi sulle cosce fasciate e piene. Le spalle gobbe e quella mano, quella mano intrecciata nella sua.

Puttana.
Puttana che si vende per amore.
Che si vende per amore con me. Forse.


Non riusciva ad immaginarselo. Eppure doveva essere così. Cazzo.
La sdraiò su un letto sgualcito e sfatto, con strati di lenzuola colorate, con una vecchia coperta di plaid appallottolata in fondo.

Perché aveva sempre così freddo?

La spogliò come avrebbe fatto con un pacchetto regalo.

Il primo regalo a Gale. Una carta da pacchi lilla col fiocco giallo.

Le annusò i capelli che sapevano di alghe e sabbia che non aveva mai calpestato. Le annusò il petto che sapeva di un latte che non aveva mai dato. Le passò le unghie sulla pancia. Dieci lunghi segni rossi a circondare l’ombelico. Marsha afferrò le sbarre della testiera e si morse a sangue il labbro.

Era un libro.
Un libro di fiabe. Un libro di fiabe con le immagini, come per i bambini.


Nella penombra della stanza, tra piccoli acchiappasogni, piume, tende pesanti, conchiglie che tintinnano, quadri dipinti con le mani, spruzzi di colore senza senso, solo specchi di un’anima che forse ha tanto da raccontare, forse ha tanto da nascondere e sotterrare. Insomma, nella penombra della stanza, prima di immergersi tra le sue gambe la guardò in viso. Gli occhi strizzati, le narici dilatate, gocce di sudore che cadevano lucide dalla fronte, le sopracciglia folte aggrottate, come se fosse sul punto di piangere. La guardò e la vide per un attimo diversa.

Niente tacchi.
Niente vita per strada.
Niente passaggi obbligati da sconosciuti.
Chi era, Gale?
Chi era quella ragazza di cui mi parlavi ultimamente?
Che aveva di speciale?


Le afferrò le cosce con le braccia, le aprì e gliele fece poggiare sul materasso. Continuò a guardarla per un attimo, muovendosi lento, cercando di leggere sul suo volto delle tracce di qualcosa. Senza avere la minima idea di cosa stesse cercando di preciso.

Che aveva di speciale?
Era pulita?
Era pura, almeno un po’?


Cercò per un attimo soltanto qualche accenno di purezza, anche minimo, sulle labbra, sulle espressioni di Marsha, sui movimenti scattosi e frementi, sui gemiti frettolosi e prolungati. Lei aprì gli occhi e abbassò gli occhi su di lui.

“Chaz, ti prego…”

Era pura lei, Gale?
Era limpida?


La fece venire. La lasciò rabbrividire e gemere per un po’. Poi si sdraiò ai piedi del letto. Si tastò le tasche dei pantaloni. Si sentiva sudicio. Si tastò le tasche dei pantaloni e prese una sigaretta. Non aveva avuto neanche la forza di spogliarsi.

“sei venuto?” Marsha si era issata a sedere sul materasso. La testa scompigliata e lo sguardo lucido, le mani che tremavano ancora un po’.

“sì.” Sussurrò con un filo di voce, aprendo a malapena le labbra. Non aveva più voglia di parlare. Non ne aveva mai avuta.

Silenzio.
Gravava e covava come una serpe. Come una nube più scura di una macchia di petrolio. Solo il rumore del fumo. Inspirò anche Marsha. Inspirò ed espirò, sdraiata sul letto con la testa appoggiata alle sbarre della testiera.

“a cosa stavi pensando?”
“hm?”
“a cosa stavi pensando mentre mi scopavi?”

Lasciò trascorrere un secondo. Un secondo di silenzio rinsecchito per riflettere.

“volevo un’altra sigaretta…”

Marsha sospirò. Forse quasi sollevata.

“sicuro? Non pensavi a nient’altro? Nessun’altro, Chaz?”
“nessun’altro. Giuro.”

Gale…


   
 
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