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Autore: Dira_    16/07/2013    11 recensioni
Sono trascorsi cinque anni da quando Al, Tom e Lily hanno messo fine alla vicenda terribile che ha segnato la loro adolescenza. Grazie al mondo fuori da Hogwarts sembrano essersi lasciato tutto alle spalle. Chi è un promettente tirocinante, chi si è dedicato alla ricerca e chi, incredibilmente, studia.
Un'indagine trans-continentale, il ritorno di un vecchio, complicato amico e una nuova minaccia per il Mondo Magico li porteranno ad affrontare questioni irrisolte.
"Perchè quando succede qualcosa ci siete sempre di mezzo voi tre?"
Crescere, per un Potter-Weasley, vuol dire anche questo.
[Seguito di Ab Umbra Lumen]
Genere: Azione, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Albus Severus Potter, James Sirius Potter, Lily Luna Potter, Nuovo personaggio, Scorpius Malfoy
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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- Questa storia fa parte della serie 'Doppelgaenger's Saga'
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Capitolo XXIV

 
 


I am softly watching you
Oh boy, your eyes betray what burns inside you
(Woodkid, I Love You)
 
 
10 Luglio 2028
Londra, Casa di Michel Zabini.
Mattina.
 
Michel rotolando su un fianco contemplò lo splendido fondoschiena che gli aveva tenuto compagnia per una notte intera … mentre se ne andava.
Altro non poteva essere dato che Emil si stava infilando i boxer e i pantaloni di soppiatto mentre fuori baluginava il sempiterno lattiginoso sole londinese.
Combattendo con la voglia incipiente di tirargli qualcosa – istintivo forse, ma non certo virile – si schiarì la voce arrochita dal sonno. “Non era mia intenzione incatenarti al letto.” Esordì. “Potevi tranquillamente svegliarmi e andartene.”
Stronzo.

Appena sveglio non riusciva ad essere elegante nel manifestare il proprio disappunto.
Emil si voltò per guardarlo: sembrava stupito più che colpevole e Michel realizzò di aver frainteso grossolanamente. Anche perché gli venne restituita un’occhiataccia.
“Ansia da abbandono?” Replicò. “Stavo soltanto scendendo a prendere qualcosa da mangiare. Non so tu, ma quando salto la cena per stare tra le lenzuola tutta la notte la mattina dopo muoio di fame.”
Michel, che a quel punto doveva rimediare la sua pessima propensione a giudicare prima di chiedere, si alzò a sedere sul letto. “Ho fame anch’io.” Offrì.  
Abbiamo un talento naturale per litigare, pare.
E comunque è troppo permaloso.
“Ho il frigo pieno.” Aggiunse.
Il tedesco lo guardò divertito, ma domato da come lanciò la maglietta su una delle sedie. “Perché, sai far altro oltre a scaldare l’acqua per il the?”
Quello era farsi cadere il calderone sui piedi. “Forse ho qualcosa di pronto…” Ipotizzò mentre l’idea di tirargli la sveglia addosso, o una scarpa, cominciava ad essere sensata. Emil aveva una faccia da schiaffi notevole, e il sorrisetto supponente era solo la summa dell’irritazione che riusciva a provocargli.
Il problema, supponeva, era vederlo con i capelli arruffati da una doccia, il sorriso di un monello di strada e pensare a quanto fosse l’incarnazione fisica del sesso.
“Questi Purosangue…” Sospirò l’altro crollando a sedere sul letto e sporgendosi nella sua direzione, mentre gli passava una mano sulla gamba coperta solo dal lenzuolo. Michel inspirò, sentendo che non era il solo ad essere sveglio adesso; la notte prima era stata un’esatta ed appagante copia di quello che era successo al loro primo incontro. Lui ed Emil potevano beccarsi a morte fuori dalle lenzuola, ma tra di esse funzionavano con una naturalezza che non aveva ancora cessato di stupirlo.
Affinità elettive?
Qualunque cosa fosse, anche l’altro doveva averla notata se era ancora lì.
“Lo sei anche tu.” Ribatté bloccando la mano nella corsa al suo inguine. Fare la perenne figura del ragazzino arrapato non era nelle sue intenzioni.
Anche se lo è nelle mie voglie. Ma comunque…
“Sì, ma a differenza di qualcuno io mi sono tolto il palo dal culo.” Ghignò il tedesco prima di tirarselo contro in modo rudemente delizioso. Emil era consapevole della sua fisicità, con riflessi naturali e morbidi. Dubitava fosse mai inciampato in vita sua.
Michel ruppe quasi subito il bacio languido in cui l’aveva coinvolto l’altro: non doveva dargliela vinta. “Non avevi fame?” Domandò cercando di mostrarsi distaccato: se il suo corpo aveva deciso di gestirsi in ribelle autonomia ormonale, questo non significava che lui fosse d’accordo. “Perché posso offrirti la mia cucina o una colazione fuori, ma al momento non mi sembri orientato su nessuna delle due.”
Emil per tutta risposta si chinò a baciargli il collo, dando un discreto scossone alla sua lucidità mentale. “Vada per la cucina.” Mormorò contro la sua pelle.
Cucinerai per me?”

L’altro alzò gli occhi al cielo. “La chiudi mai quella bocca?”
“Non è quello che mi hai detto ieri notte.”
“Ehi, se è impegnata con me, perché dovrei lamentarmi?”
Touché.  
A Milo piaceva baciare, era piuttosto chiaro dalla frequenza con cui aveva cercato le sue labbra quella notte e in quel momento. Michel, che non apprezza molto quell’effusione, si trovò a non lamentarsene. Quella battaglia, dopotutto, poteva concedergliela. Baciava in maniera straordinaria. 
 
Un rapido remake della sessione notturna e una doccia dopo, Michel era pronto a godersi quello che era, nei fatti, il suo giorno libero. Questo finché non sentì la voce di Nott arrivare dalla cucina.
Quel dannato idiota non si alza mai prima di mezzogiorno. Perché proprio oggi?!
Cercare di evitare l’incontro tra Loki ed Emil era ormai inutile e se inoltre avesse fatto capire al suo ospite che non desiderava annunciarlo avrebbe rischiato di rompere il fragile equilibrio che si era creato tra di loro.
Finì di indossare il suo completo da casa – che suo padre giudicava oltraggiosamente Babbano perché non prevedeva asole e bottoni, ma una maglietta e pantaloni di lino – e si diresse con calma verso la cucina. Aveva ben un corridoio per pensare a come comportarsi.
Il punto non era Emil, naturalmente: il punto era la propensione al pettegolezzo del suo migliore amico e il fatto che già sapesse troppo.  
Chissà cosa dovrò scucire o concedergli perché tenga la bocca chiusa …
Arrivò alla porta senza avere uno straccio di strategia.
Al diavolo. Sei Michel Zabini. Non ti serve una strategia, ma eleganza.
Entrò e  non fu sorpreso di trovare i due intenti a chiacchierare; Loki era una lingua lunga di natura ed Emil sembrava la tipologia di persona capace di trovare un argomento di conversazione con chiunque, quando voleva.
Non che con me si sia mai sforzato…
Il suo ingresso fu subito notato. “Mio buon Zabini!” Lo salutò Nott seduto ad uno degli sgabelli con l’immancabile pipa trai denti. “Buongiorno a te.”
“Nott.” Lo salutò. “Com’è che non sei a letto a riprenderti dai bagordi?”

Emil era ai fornelli come aveva promesso; l’immagine, che avrebbe dovuto sembrargli inverosimile – da quando si era trasferito non se ne era mai servito nessuno se non per scaldare liquidi – era in realtà … piacevole. Lo sguardo che si scambiarono gli fece realizzare che l’altro era in attesa.
Ma certo. Si aspetta che giustifichi la sua presenza.
Non gli avrebbe dato quella soddisfazione. Soprattutto, non avrebbe perso la poca fiducia che si era guadagnata.
Non scherzavo quando ti ho detto che eri il primo a vedere la mia stanza della musica.
Non sacrifico qualcosa di mio per perdere, ma per guadagnarci.
“Sono stato svegliato dal profumo di fornelli in funzione.” Rispose nel frattempo Loki. “Ero talmente sorpreso che sono dovuto venire a controllare … Casomai qualche malintenzionato si fosse introdotto nella tua dimora.”  
“Sì, per cucinarci la colazione.” Ironizzò sedendosi; gli sgabelli erano più scomodi del solito. Del resto, una notte di sesso folle rendeva qualsiasi superficie diversa da un divano sfondato … fastidiosa. “Che ci fai qui?”
“Ci vivo?”
Emil, che sorvegliava la cottura di qualcosa, si voltò di tre quarti. “Penso che intenda in mia compagnia, Loki.”
“Oh.” L’amico ebbe anche la faccia tosta di sembrare confuso. “Intrattengo gli ospiti, naturalmente. Non avrei dovuto?”

“ … Non ho detto questo.”
Complimenti, Mike. Un asso nei rapporti interpersonali con gli estranei e quando c’è Nott e un ragazzo che ti piace allo stesso tavolo diventi un imbecille.
… Beh, è la prima volta che accade. E Albus non è mai contato.
“Mangi qualcosa maghetto?” La voce di Emil lo riscosse dal perfetto bozzolo in cui aveva cercato di rinchiudersi mentre metteva sul ripiano di marmo che fungeva da tavolo una serie di piatti ricolmi di cibo. “Oppure hai bisogno che ti imbocchi?”
“Quello non succede da quando aveva sei anni.” Gli fece eco Nott.  
Stronzo.
Ed era già la seconda scurrilità che pensava quella mattina. Promise mentalmente una morte atroce e dolorosa al coinquilino prima di voltarsi verso il tedesco. “Prendo solo the e del pane tostato, grazie.”
Non fu la risposta giusta da come gli venne riempito il piatto fino all’orlo. Contò le immancabili salsicce e uova, ma anche della verdura saltata e qualcosa che aveva l’aria di essere  una quiche di spinaci.

“Avevo detto…” Tentò ma si mangiò la lingua quando vide che lo sguardo Emil.
Ha detto a me che ho un carattere orribile, ma anche lui non scherza.
“Mi sa che ti sei sbagliato, non hai ordinato niente. Non sono il tuo cameriere.”
Un silenzio orribile invase la stanza. “Non ho detto…” Ricominciò sentendo che doveva comunque mantenere il punto, perché non gli aveva certo chiesto di cucinare tutta quella roba e…

“Devi perdonare il mio povero amico. È un idiota che non sa dire grazie.” Lo interruppe Loki con brio inappropriato data l’atmosfera tesa. Non gli diede il tempo di ribattere o difendersi che aggiunse. “E poi, quando è in imbarazzo e posso assicurarti che adesso lo è perché sa di essersi comportato da cafone, tende a diventare antipatico.”
Michel non riuscì a trovare motivo di dissentire, anche se l’impulso di lanciare una fattura Mollelingua alla massa di ricci ghignante che gli stava di fronte fu forte.

Anche se ti ha appena salvato da una ben misera figura.
Emil sembrò accettare la diversione, perché scrollò le spalle e ghignò. “Averlo trai piedi dev’essere una bella rottura di palle.”
“Non sai quanto.”

“Prego?”
“Vedi? Come ti dicevo … del tutto sgradevole!” Loki sospirò teatrale, inforchettando una salsiccia e divorandola con gusto. “È anche un po’ fuori assetto perché è la prima volta che mi presenta qualcuno. Ma come ti ho detto, mi ha tanto parlato di te.” Fece una pausa, in cui si godette il suo imbarazzo. “È tutto squisito, Emil.”
Questo è incubo.

E come tale, sperava di svegliarsi al più presto. Ma dato che non si era ancora presentata quell’eventualità, non gli restava che dare tutte le sue attenzioni al piatto davanti a sé.
… è delizioso.
Era evidente che trai meriti dell’ex violinista prodigio c’era anche saper cucinare. “È vero … è molto buono.” Offrì mentre l’altro si accomodava accanto a lui e prendeva a divorare la sua parte.
Per alimentare un fisico del genere di certo non è un tipo da dieta.
Emil alzò le spalle con noncuranza, ma Michel registrò comunque una certa sorpresa compiaciuta nella sua espressione. Era sensibile ai complimenti. “Cucino per un rompipalle di prima categoria.” Spiegò loro. “Se non è roba da cinque bacchette sarebbe capace di morirmi di fame per dispetto.”
Parla di Prince.

Quel rapporto non l’aveva ancora inquadrato ma al momento non era importante: era necessario invece controllare le esternazioni di Nott, che li stava studiando dall’altra parte del ripiano come un gatto avrebbe fatto con un gomitolo.
“Vi lascio alla vostra colazione, dato che anch’io ho ospiti.” Flautò di colpo, alzandosi in piedi con un secondo piatto ricolmo. “Milo, grazie mille per la colazione e per l’interessante chiacchierata.”
Interessante chiacchierata?

La sua espressione doveva parlare da sola perché l’amico sembrava ad un passo dal mettersi a ridere. Lo stronzo. “È stato un piacere.” Aggiunse porgendo la mano all’altro.
“Lo stesso per me bello.” Fu la replica con tanto di stretta e sorriso sincero. “Ci si vede in giro.”
Ci si vede in giro?
“Dovevo lasciarvi soli?” Chiese quando se ne fu andato.
Complimenti vivissimi, Zabini. Ora sembri pure geloso.
 
Come volevasi dimostrare, il maghetto voleva essere sempre al centro dell’attenzione.
Viziatello …
Avendo a che fare su base quotidiana con il principe dei viziati, era preparato a tenergli testa. “Non mi sarebbe spiaciuto, è un bel tipo.”
“È etero.”

“E quindi?”
Venne ricompensato da una smorfia. “Mi spiace deluderti, ma Loki è un incorruttibile.”
“Se lo dici tu…”
Era sorpreso: si sarebbe aspettato di vedere panico, diversioni, tentativi di nasconderlo sotto il tappeto invece … niente, a parte comportarsi da spina nel culo.
Pur vero che il riccetto mi aveva già visto al Black Goose è negare l’evidenza sarebbe stato inutile.
Bevendo un sorso di caffè gli venne spontaneo mettere le carte sul tavolo. Non era mai stato tipo da sotterfugi o parole non dette. “Pensavo avresti panicato a vedermi chiacchierare con il tuo amichetto.”
Michel non negò di averci pensato e questo gli piacque. La falsa apertura mentale era una delle cose che più gli dava ai nervi. “Loki ti ha già visto al Black Goose.” Esordì prevedibile. “Inoltre gli avevo già detto chi sei. Non è stupido, non avrebbe avuto senso negare.”
“Niente panico quindi?”

L’altro fece un mezzo sorriso, sorseggiando il the come l’inglese che era. “Forse, un po’.” Ammise quieto. “Ma Loki non ha quel genere di pregiudizi. Non tutti i Purosangue europei sono come li ricordi tu.”
“A parte te?” Se ne pentì quasi subito dalla smorfia sul viso dell’inglese. Non era divertente fare lo stronzo se non c’era una reazione adeguata. Alzò le mani in segno di resa. “Okay, questa potevo risparmiarmela.”
Le scuse vennero accettate da come l’altro rilassò le spalle. “Non è facile.” Replicò stupendolo di nuovo. Era tutta una sorpresa quella mattina. “Conosci i criteri con cui sono stato educato. È difficile lasciarseli alle spalle.”

Sembrava che stavolta le premesse fossero diverse . Come reagire? Non sapeva come Michel si sarebbe mosso. Lo stava prendendo in contropiede perché aveva sempre pensato di conoscere quella tipologia di maghi.
Mi sbagliavo?
“E perché vorresti farlo con me?” Non era un fan delle chiacchierate a cuore aperto ma doveva capire che diavolo lui e Maghetto Stronzo stavano facendo. Se non definire tutto, almeno l’ossatura generale.
Scopiamo alla grande assieme, ma se fosse solo questo cercherei qualcuno che scopa ancora meglio.
Michel esitò, poi scosse la testa. “Perché mi interessi. È la risposta più onesta che al momento posso darti.”
Milo annuì. Non amava le chiacchierate a cuore aperto, ma non sembrava essere il solo. Afferrò la base dello sgabello dell’altro e se lo avvicinò senza troppe cerimonie. “Mi basta.” Lo fermò prima che potesse protestare di avergli rigato il pavimento di marmo o stronzate del genere. “E mangia le verdure che hai nel piatto, ragazzino viziato.”
Non si stupì quando realizzò che la risata divertita di Michel era molto più naturale che le sue moine snob.

 
****
 
Londra, San Mungo.
Mattina.
 
Lily chiuse furiosa il proprio cellulare, il metodo migliore per scaricare la frustrazione dopo aver parlato per mezz’ora al telefono ed aver ricevuto solo brutte notizie.
Chiamare la Patil in merito a Ben era stato doveroso, ma la risposta era stata peggiore di quanto si sarebbe aspettata. La Psicomaga non sarebbe tornata prima di due settimane avendo una serie di conferenze serrate per tutta l’Europa e per quanto si fosse dimostrata dispiaciuta, era stata irremovibile circa la possibilità di tornare.
Impegni accademici, per qualcuno sono peggio di Incanti Fidelio.
 
“Non sono l’unica a cui puoi chiedere. Ci sono altri due Psicomaghi di ruolo oltre a me.”
Lily aveva cercato di trattenere l’irritazione alle menzione delle due streghe: naturalmente aveva chiesto loro aiuto quando aveva capito che la Patil non sarebbe tornata nel giro di una manciata di giorni.

Il punto non era quello.
“Ho già chiesto, ma si sono rifiutate.” Prima che la donna potesse chiedergli perché, aveva aggiunto asciutta. “Ben è affetta da Licantropia, e non se la sentono di …” Non era riuscita a finire, mentre un fiotto di rabbia le aveva chiuso la gola.
“Capisco.” Era stata grata alla donna per non aver commentato. “Mi dispiace ma non posso esserti d’aiuto, non dall’oggi al domani.” Aveva fatto una pausa e perché la conosceva aveva aggiunto in tono serio. “Non prendere iniziative. Sei solo una studentessa, e non c’è nessuno che possa prendersi la responsabilità di tuoi eventuali errori di diagnosi o di applicazione di una terapia.”
“Perché dovrei sbagliare?” Le era venuto spontaneo e anche al di là della Manica aveva
percepito il suo mentore alzare gli occhi al cielo.
“Non sto scherzando. Saresti da sola dato che non c’è un responsabile a seguirti. Nessuna iniziativa. Sono stata chiara?”

 
Mi sa che non le darò retta.  
Perché, e lo pensò mentre scendeva per incontrare Ted, non poteva dire all’amico qualcosa come ‘arrangiati e aspetta due settimane’.
Quella bambina non può aspettare due settimane per far sentire la sua voce.
I servizi sociali magici sarebbero arrivati lunedì, e se Ben non fosse stata in grado di comunicare il suo disagio sarebbe stata portata in una ‘struttura idonea’ in attesa che fosse dichiarata ‘non pericolosa per la comunità’ data ‘la sua natura’.
Virgolette del cazzo.
… e quando ci vuole, ci vuole.
Teddy era sull’orlo di una crisi di nervi e secondo Jamie alternava stadi di rabbia verso il mondo intero con momenti di cupa auto-commiserazione.
L’idea di aver proposto e guidato la ricerca che ha portato alla morte del padre, nonché suo fratellastro, deve mangiarlo vivo. 
Quando le porte dell’ascensore si aprirono con un cigolio legnoso, Lily impostò l’aria più professionale che aveva – sul serio! – dirigendosi verso la stanza assegnata a Ben. Come si aspettava trovò Ted appoggiato al muro di fronte, con i capelli color fango di palude e la barba di due giorni.
Qualcuno qui non riesce a farsela sparire...
“Ehi, bellissimo.” Fu soddisfatta quando lo sentì rilassarsi appena nella sua morsa stritolante. Gli abbracci – era provato scientificamente! – facevano sempre un gran bene. “Hai un aspetto terribile. Devo chiamare i rinforzi e farti ingozzare da nonna Molly?”
Cerchiamo di rimandare le brutte notizie il più possibile…
“Ci sono novità?”
… come non detto.
Lily si morse un labbro ma vedendo l’urgenza, la speranza e l’ansia trapelare dallo sguardo dell’altro come un fiume in piena non riuscì proprio a dar retta ai saggi consigli della Patil.
“Me ne occuperò io.” Disse impostando il piglio più deciso che gli riuscì.
“Non la Psicomaga Patil?”
Era ovvio che non la considerasse materiale a cui consegnare Ben; del resto era stato spettatore in prima linea quando cinque anni prima si era comportata come una cretina senza un grammo di cervello.
Non penso che se dovesse usare una parola per descrivermi userebbe affidabilità…
“Non riesce a tornare prima di due settimane. Ma ehi…” Soggiunse quando lo vide passarsi una mano trai capelli in un gesto che puzzava disperazione lontano due miglia. “… ho un’idea!”
“Lily, non fraintendermi, non penso che tu non sia brava in quello che fai … ma sei una studentessa.” E per un professore nell’anima come Teddy, era chiaro che quello fosse il segnale di non serietà per eccellenza.

“Sì, ma Ben non è un caso complicato, non è come Frank e Alice.” Ribatté. “Si tratta, in parole povere, di farla mangiare e farla smettere di urlare quando qualcuno tenta di toccarla, giusto?”
“Lily…”
“Teddy, dobbiamo comunicare con lei.”

“È quello che sto cercando di fare!” Doveva davvero essere allo stremo se diventava sgarbato.
“Non sto dicendo il contrario.” Obbiettò tranquilla. “È questo il problema, forse … Ci stai provando troppo. Ti ci stai consumando! Da quanto non ti fa una dormita come si deve?”
“Non ha importanza.” Si morse le labbra. “La prossima settimana potrebbero…”
Potrebbero portartela via, lo so.
“Non pensarci.” Gli intimò pur sapendo che non sarebbe stata ascoltata. “Dobbiamo parlarle e lei ci deve rispondere, giusto?” Lanciò un’occhiata alla porta chiusa alle loro spalle: non avrebbe lasciato che una bambina continuasse ad aver paura di chi entrava da una porta.
Altrimenti tutto quello che ho passato non avrebbe senso. Le cose brutte servono ad insegnarti qualcosa.
Questo è il mio qualcosa.
Sören non era l’unico che trovava nell’aiutare gli altri il suo scopo primario. Decise allora di mettere tutte le carte in tavola. “Non c’è nessuno nel mio reparto che vuole lavorare con lei. Credimi, ho chiesto a tutti gli Psicomaghi di ruolo.”
La mascella di Ted si serrò in una linea tesa e preoccupante. “Immagino il perché.”
Okay, spaventoso. Teddy sa essere spaventoso. Wow.  
“Io però voglio provarci.” Ripeté testarda. “Lasciamelo fare.”
L’altro le lanciò un’occhiata che non esprimeva certo convinzione, ma capitolò. “Va bene… del resto non credo che la situazione possa peggiorare più di così.” Scosse la testa. “Cosa ti serve?”
“Un giocattolo.”
Lo doveva ammettere, la faccia stralunata dell’amico valeva da sola l’intera idea. “Non credo basti questo per…”
“Lo so.” Lo interruppe,  mettendosi le mani nelle tasche del camice e facendosi forza di quell’uniforme, come ogni volta che qualcuno pensava di metterla in discussione solo perché non aveva raggiunto un età in cui i suoi pareri potevano essere considerati rispettabili.

Succederà mai?
Teddy però non era chiunque, ma uno dei suoi più cari amici di infanzia. Era anche un insegnante e sapeva che le idee migliori potevano arrivare da suggerimenti improbabili. “Hai un piano?” Chiese infatti.
“Certo che ho un piano. Ce l’ho sempre.”  
L’altro non commentò. “All’ultimo piano ne vendono?” Chiese soltanto.
Gli sorrise. “Prendine uno carino. È una bambina, niente bacchette esplosive o scope giocattolo.”
Teddy annuì, riprendendo un po’ colore – letteralmente dato che i capelli presero una sfumatura un po’ più vitale – per poi allontanarsi deciso.
Date ad un uomo una missione ed ecco che ritroverà le forze.
Lily aspettò che girasse l’angolo, poi trasfigurò la sua uniforme da Medimago in una maglietta e un paio di pantaloni di cotone a tinta unita – cose facilmente ri-trasfigurabili in caso di necessità – e si accostò alla porta della stanza, stando ben attenta che nessuno fosse di passaggio.
Se devo disobbedire, non posso farlo come Psicomaga. Oltre al fatto che quella povera bambina ha visto fin troppe uniformi…
Aveva una mezz’oretta di pura indecisione Lupin per operare la sua magia.
Entrando notò subito come il letto fosse vuoto: Ben doveva essere di nuovo sotto il letto.
“Oh, una stanza vuota.” Esordì tranquilla guardandosi attorno come se cercasse di capire se lo era sul serio. “Ottimo! Finalmente da sola!” Si sedette a terra, perché se Ben era raggomitolata ad altezza pavimento torreggiarle sopra non era una buona idea.
E fin qui … Semplice buonsenso.
Il respiro della bambina era accelerato e Lily si sentì stringere il cuore: per quanto Ted e James avessero provato, per Ben quello continuava a rimanere un ambiente ostile, dove chiunque poteva essere un potenziale nemico venuto a farle del male.
È piccola, non ha i suoi genitori e l’ultima cosa che ricorda è che suo padre l’ha lasciata per non tornare.
Cavolo.
Non era più così sicura di poter avere la meglio su una situazione tanto complicata; tuttavia doveva provare. Per Ben e per Teddy.
Si appoggiò quindi con la schiena al piccolo comodino accanto a letto, senza far nulla, dandole il tempo di abituarsi al suo odore; se era un licantropo ed era nascosta doveva filtrare il mondo attorno a sé con l’olfatto. Dopo qualche attimo pescò dalle tasche dei pantaloni un Zuccotto.
E ringraziamo la mia brutta abitudine di fare uno spuntino a metà mattinata.
Quando l’odore mantenuto fragrante dalla magia si diffuse per la stanza, Ben annusò.  
Ai dolci di Mielandia non si resiste.
Lily ne diede un piccolo morso, facendo ben attenzione a goderselo rumorosamente.
Devo farla avvicinare. Se non la tocco, non funziono.
La Legimanzia Naturale funzionava in due modi: il primo, era ciò che avrebbe fatto un Legimante normale con la propria bacchetta. L’altro era convogliare i propri pensieri nella mente di qualcun’altro.
Cioè quello che serve a me adesso. Devo farla calmare.
… più semplice a dirsi, che a farsi.
Era molto più difficile far entrare un’idea, che farla uscire: ogni mese la Patil la faceva venire a casa sua per esercitarsi proprio su quella tecnica, ma era ben lontana dal padroneggiarla …
… ma un tentativo. Solo uno.
Presa da quei pensieri quasi mancò di vedere quando la bambina fece capolino da sotto il letto.  
Oh, eccola qui.
Era davvero piccola, magrolina come gliel’avevano descritta. Dietro una frangia di capelli che non vedevano un paio di forbici da tempo c’erano gli occhioni più grandi e spaventati che avesse mai visto.
Come si fa a non volerla aiutare? Teste di cazzo.
Lily lasciò cadere un pezzo di Zuccotto, fingendo poi di non notare quando la bambina lo afferrò per tornare gattoni al suo rifugio sicuro. Fece cadere così il secondo pezzo vicino a lei e via di seguito fino a che Ben uscì fuori senza prestarle attenzione.
“Ah, ecco chi rubava tutte le mie briciole. Pensavo ci fosse un topolino!”
La bambina sussultò, pronta a rintanarsi, ma l’apparizione di un secondo dolcetto, ancora incartato, la fece fermare. “Facciamo a metà?” Propose. Venne fissata in piena confusione.
… ma non capisce quel che dico? Jamie aveva ragione?
Le sembrava assurdo.
Spezzò il dolcetto in due metà e mentre ne metteva in bocca una porse l’altra alla bambina. Non guardò nella sua direzione e si concentrò piuttosto su un brutto vaso a fiori vicino all’ingresso.
Cercò di non sospirare di sollievo quando sentì le dita di Ben chiudersi attorno all’involucro della merendina.
Eccoci qua.
Per un bambino schermarsi era impossibile e così Lily si concentrò. Una serie di immagini – immagini che la Patil le aveva fatto imparare a memoria e che parlavano di posti meravigliosi, abitazioni confortevoli, affetto, amicizia e in generale di cose belle – scivolarono via dai suoi pensieri come acqua di fiume, per confluire nella testolina arruffata accanto a lei.
Forse è più semplice perché è una bambina. Non ha ancora muri attorno a sé.
Lei.
Nel frattempo, perché la Legimanzia Naturale funzionava per azione-reazione, e non era possibile mandare pensieri senza riceverne in cambio, vide Ben.
 
Colline verdi, una casa in mezzo ai cipressi, piccola ma confortevole, mamma e papà, una ninna-nanna cantata ogni notte, coperte rimboccate, e poi …
Tristezza. La mamma è morta e papà non può più restare.
Un treno, in mezzo a ceste e bagagli perché papà ha detto che non devono scoprirci, un posto strano, persone che parlano ma che emettono suoni incomprensibili, visi cattivi, è meglio la foresta Benedetta, meglio la foresta, e poi …
Freddo. Non ci sono città, né dolcetti, né il letto e i pupazzi. Solo boschi.
Papà che ha detto di aspettare, di non muoversi, che tornerà subito, papà che però non torna.
Non torna, e poi delle braccia che sollevano e portano via.
 
Lily ruppe il contatto con un lamento, mentre una fitta di dolore alla nuca le fece vedere tutto nero.
Ahia.
Ogni magia aveva un prezzo, e il suo era il rischio di un collasso se non si fosse data una calmata.
Accanto a lei, Ben, che non si era accorta di nulla, era alle prese con la carte del dolcetto. Per quanto fosse stato fisicamente logorante, aveva funzionato; nella sua testolina adesso non c’era che un vago segnale di allarme da come riprese ad occuparsi dello zuccotto, ficcandoselo tutto in bocca con soddisfazione.
C’era altro di cui occuparsi adesso. “Tu non mi capisci, vero?” Mormorò. “Accidenti… siamo stati degli idioti.”


“Perché degli idioti?”
 
Ted ci aveva messo meno del previsto, e da come la stava guardando non sembrava contento di vederla lì. Poi registrò la presenza della bambina e il cipiglio si sciolse in un’espressione sbalordita. “Ben…”
Lily occhieggiò il pupazzo a forma d’orso – un classico sempreverde – e si sentì un po’ in colpa. “Ben ed io abbiamo fatto una chiacchierata tra ragazze.” Spiegò mentre la bambina occhieggiava insistente le tasche dei suoi pantaloni, ancora troppo guardinga per verificare di persona non ci fossero dolcetti.
Ma ci sta pensando.
“Stai bene?” Nonostante fosse incavolato per la sua iniziativa a base di inganno, Teddy non riusciva a venir meno alla sua indole di bravo ragazzo.
“Certo, perché… Oh.” Si accorse solo in quel momento di avere le guance bagnate. “No, tranquillo. Non sono mie.” Spiegò tirando su con il naso ed asciugandosele. “Sono…”
“Ha parlato?” La interruppe. “Ha…” Guardò verso la bambina con l’aria di qualcuno che sperava in un miracolo.

Non era male dare buone notizie. “No, ma ora so perché non lo fa. Non risponde perché non capisce una parola. Non è cresciuta qui.” Fece un mezzo sorrisetto, cercando lo sguardo della bambina. “Vero Benedetta?”
La bambina spalancò la bocca e la guardò come se il mondo avesse ripreso ad avere senso.
Eureka!
E grazie Rodolfo e alla tua villa in Costa Smeralda. Le vacanze post diploma più pazze di sempre.
Si voltò verso Ted, e fece un mezzo sorriso.
“Ehi, come te la cavi con l’italiano?”
                                                                                                 
 
****
 
Diagon Alley, appartamento di Albus e Thomas.
Mattina.
 
 
Albus fu svegliato da una chiamata e dato che la suoneria assegnata a Tom era piuttosto rumorosa –gliela cambiava ogni mese per far sì che non si abituasse – saltò sul letto, inciampò tra le lenzuola e crollò rovinosamente a terra.
 
I'm your lover, I'm your zero
I'm the face in your dreams of glass!

 
Ma che roba è?!  
“Perché ci hai messo tanto a rispondere?” Fu la domanda che gli venne rivolta quando strisciò fino al cellulare per rispondere.
“Va’ all’inferno.” Ed era stato educato. “Non potevi chiamarmi con lo Specchio comunicante?!”
Tom non parve turbato da quel buongiorno. “Non ti saresti svegliato.” Il che, in effetti, era vero dato che l’unico segnale di quest’ultimo era diventare caldo, del tutto inutile se non lo avevi addosso. “Riesci ad essere al San Mungo nei prossimi venti minuti?”
Albus si tirò a sedere sul duro pavimento della camera. Da qualche parte sentiva l’eco di una risata, sintomo del fatto che Meike doveva averlo sentito cadere. “Perché dovrei venire in ospedale? Sei lì?” L’ipotesi che vi fosse come paziente era da scartare dato il tono vitale e il fatto che l’avesse chiamato: se mai si fosse fatto male avrebbe preferito staccarsi un braccio piuttosto che notificargli la cosa. “Che ci fai nel mio ospedale?”
“Possessivo senza ragioni, vedo.” Anche senza vederlo poteva immaginarlo ghignante, seduto su una sedia mentre sorseggiava del the e si beava di avergli fatto prendere un infarto con la sua chiamata.  
Perché mi circondo di gente deprecabile?
Io ci lavoro e tu no.” Sospirò alzandosi in piedi e andando allo specchio per notare lo stato dei suoi capelli. Vi passò una mano in mezzo e mascherò un lamento quando vi rimase incastrata. “Non dovresti essere dai tuoi oggi?”
“Mi sono svegliato presto.”
“Dì piuttosto che non hai dormito affatto.”
“Dormire è sopravvalutato.”
“Sì, come nutrirsi. Un giorno avrai un collasso ed io riderò.”
“No, morirai di preoccupazione.”
“Ti odio.”
Quel breve scambio di battute riuscì comunque a fargli ritrovare il buonumore e dopo aver lasciato lo specchio e il suo riflesso umiliante si diresse in cucina, dove trovò Meike che apparentemente faceva i compiti.
La quindicenne lo accolse con un’immensa faccia da schiaffi. “Tom?” Indovinò, poi cominciò a canticchiare. “Ti odio, ti odio così tanto che credo sia vero amore…” Avendo però pietà della sua faccia fece levitare la caraffa di succo d’arancia, mandando in orbita al contempo una serie di biscotti dal profumo paradisiaco. “Posso corromperti?”  
Al cercò di non ridere mentre si versava un bicchiere di spremuta incastrandosi il ricevitore tra orecchio e spalla. “Ripetimelo, Tom, perché dovrei essere al San Mungo quando ho venduto l’anima per incastrare i turni in modo da avere il giovedì libero?”

“Non te l’ho ancora detto.” Puntualizzò. “Comunque è perché ho scoperto qualcosa.” Fece una pausa per dare la giusta enfasi alla frase successiva. Era una regina del maledetto dramma quando ci si metteva. “Ho delle novità riguardo al virus. Ora so perché Sören non si è ammalato.”
Ho già detto che lo odio?
La curiosità lo investì come un Centauro incazzato e dovette posare il bicchiere per non rovesciarselo addosso: Meike non aspettava altro da come lo fissava piena di aspettativa. “Dammi un’ora.”
“Mezz’ora.” E Tom chiuse la comunicazione. Al sospirò per l’ennesima volta – a volte gli sembrava di essere uno sfiatatoio – e afferrò un biscotto che gli ballava sinuosamente vicino al naso: doveva processare un po’ di zuccheri se doveva passare una mattinata a spremersi le meningi.

“Roba da cervelloni?” Indovinò Meike masticandone pensosa uno con più gocce di cioccolato che farina. “Sul serio … a voi Luglio non fa pensare alle vacanze?”
Albus guardò fuori dalla finestra, notò che era spuntato il sole e cancellò l’eventualità di andare a rilassarsi a Hyde Park come aveva pianificato la sera prima.
“No, Mei. A quanto pare no.”
 
Il laboratorio di pozioni del San Mungo, chiamato anche semplicemente ‘Il Laboratorio’, era cinque volte più grande quello di Hogwarts ed in Inghilterra era considerato il luogo per eccellenza dove esercitare la complessa arte delle Pozioni.  
La prima volta che Albus vi era entrato aveva quasi baciato il pavimento; attrezzato con i calderoni più resistenti, provette infinite, una dispensa di ingredienti che veniva rifornita quotidianamente da tutti gli angoli della Gran Bretagna con materie sempre fresche e di primissima qualità … Praticamente era il suo sogno erotico.
Entrando salutò con un cenno della testa i pozionisti, una dozzina compatta come una setta, che conosceva per nome e aveva imparato a rispettare come a temere, per via di una certa propensione agli scherzi macabri.
Fortuna vuole che sono tutti ex-Serpeverde.
“Ehi, Albus.” Lo apostrofò Bole, il Capo Pozionista, uomo che aveva sempre trovato affascinante rientrando a pieno nella tipologia alti, scuri e con la tendenza al sarcasmo mordace. “Il tuo ragazzo è nel tavolo in fondo.” Inarcò le sopracciglia. “È uno stronzetto odioso … Deve ringraziare di esser un ex Serpeverde, o l’avrei sbattuto fuori a calci.”
“Lo so, fa quest’effetto a tutti.” Sorrise con un cenno di scuse.  

Raggiunse Tom all’ultimo tavolo, imbronciato e con l’attenzione ostinatamente rivolta al microscopio magico sotto di lui. “Buongiorno.” Lo salutò sapendo che fingeva di non aver origliato la conversazione appena svolta. “I ragazzi sono stati antipatici?”
Il ragazzetto di Albus.” Sillabò guardandolo male. “Ti sei dimenticato di dir loro come mi chiamo?”
“Oh no, l’ho fatto.” Scrollò le spalle. “È solo che sei un esterno. Non hai diritto ad un nome.”
“Mentre tu sì.”
Beh. Questo è il mio regno.

Non lo disse però, limitandosi a prendere uno sgabello e portarlo accanto a quello dell’altro. “Come sei entrato?”
“Mi ha fatto entrare uno degli apprendisti.” Mostrò l’anello con il simbolo di Serpeverde che avevano dato loro al diploma. “Pare che qui sia visto come lasciapassare.”
Si sorrisero, concordato una tregua silenziosa. Al poi gli si sedette accanto e inspirò. Era il momento di parlare del motivo per cui era stato tirato giù dal letto. “Allora, cos’hai scoperto?”
Tom non ci girò intorno, battendo un dito su una pila di cartelle di fianco a sé. “Queste sono arrivate dall’America … riguardano il bracciale magico di Prince. Ci sono anche gli esami medici che gli sono stati fatti prima che glielo facessero indossare per calibrare il dosaggio magico dell’apparecchio.”
Al lo aprì e saltò la parte che non gli competeva – che riguardava calibrature dei nuclei magici, per lui valori illeggibili – per andare alla parte medica. Non diceva nulla di nuovo: i valori magici di Sören erano gli stessi rilevati dai loro laboratori. “Cosa dovrei notare?” Chiese.
“Nulla, perché sei un Guaritore.” Gli rispose con un sorrisetto urtante. Era chiaramente una ritorsione per essere stato apostrofato come ragazzo-giocattolo dai suoi colleghi. “Le analisi sul nucleo di bacchetta di Prince invece mi hanno fatto capire una cosa…”
Al si frenò dall’alzare gli occhi al cielo. Troppa era la curiosità. “E cosa?”

“Non è il nucleo di bacchetta che aumenta la sua capacità magica come suppongono gli americani.”
“Come supponiamo tutti.” Gli fece eco aggrottando le sopracciglia. “Allora cos’è?”

Tom scosse la testa. “È lui. Il nucleo non potenzia nulla … è fatto di corda di cuore di drago, niente che non si possa trovare in commercio. Stevens ne ha in bottega almeno una mezza dozzina.” Fece una pausa e poi aggiunse. “Ed è d’accordo con me.” 
Al incrociò le braccia al petto, perplesso: aveva sempre pensato che l’unicità di Sören fosse dovuta a cosa conteneva il suo braccio; credeva però a Tom.

Se c’è qualcuno che può dire se una bacchetta è speciale o no, sono proprio lui e Stevens.
“E che mi dici del braccialetto di controllo?”
“È stato costruito per controllare la magia in uscita, non in entrata. Non avrebbe potuto bloccare nulla di esterno. Non è come funziona.”
“Quindi se non è stato il nucleo ad evitare il contagio, né il bracciale …”
“È stato il suo sangue.” Concluse per lui.

“Ma questo è…” Si alzò dallo sgabello, pronto ad un largo sorriso entusiasta, ma l’espressione di Tom non si era fatta trionfante, come avrebbe dovuto essere nel caso avesse scoperto la cura. Tutt’altro: guardava il microscopio con la mascella tesa in una linea dura. “ … non è una buona notizia?” Chiese. “Mi hai praticamente detto che è immune! Potremo ricavare una cura dal suo sangue!”
“Non ne sarei così sicuro.” Replicò con un sorrisetto amaro quanto sibillino. Ma non era per posa stavolta, Al poteva leggere insicurezza nella postura dell’altro: di certo doveva aver passato l’intera notte tra fascicoli e suoi vecchi tomi di Medimagia senza arrivare ad una conclusione.
Beh, almeno so perché da un po’ mi sembra che sparissero fagocitati dalla casa … Me li ha fregati.
“Non sono un Guaritore, Al … Ho delle teorie, ma devi essere tu a confermarmele.”
“Per questo sei venuto qui in laboratorio?” Indovinò, ignorando il piccolo trionfo: era raro – quasi un evento – che l’altro ammettesse di essere secondo in qualcosa, specie con lui.
Concentrati su cose serie e non sul tuo ego.
“Perché non possiamo usare il sangue di Sören?”
Tom si scostò, lasciandogli il posto libero al microscopio magico, che non di distingueva da quello Babbano se non per il fatto che analizzava ciò che gli veniva sottoposto secondo criteri … magici. “Ho richiesto un campione.” Iniziò misterioso.
Al si avvicinò, inarcando suo malgrado le sopracciglia. “E te lo hanno dato?”

“L’apprendista di prima. Era due anni dietro di noi.” Scrollò le spalle. “La sicurezza in questo posto fa schifo.”
“Dice quello che l’ha violata.”

“Ho solo manipolato una mente debole.”
Al si premurò di rifilargli una gomitata punitiva prima di chinarsi per guardare attraverso le lenti. “Cosa dovrei vedere?”

Tom sfilò la bacchetta dal fodero legato alla gamba; era l’unico articolo magico che indossava, e lo faceva solo perché gridava al mondo quanto fosse Fabbricante. Evitò di farglielo notare per l’ennesima volta, perché era più concentrato a vedere dove la punta della suddetta stesse mirando. “Non vorrai colpire il vetrino?!” Sussurrò terrificato. “Aggiungi danneggiamento di materiale medico al banco d’accusa?”
“Falla finita.” Si abbassò alla sua altezza e fece un sorriso complice. “Non dirmi che non vuoi vedere cos’ho in mente di fare.”
Dannazione.

Al guardò oltre la sua spalla, controllando che nessuno stesse badando a loro. “Fa’ in fretta e ti prego, cerca di non far esplodere il microscopio.”
“Non mi chiamo James Potter.” Sbuffò prima di toccare il campione, da cui sprizzò una serie di scintille verdi. “Adesso guarda e dimmi cosa vedi.”
Al obbedì e quello che vide lo fece rinculare con il rischio che si rovesciasse lo sgabello, tanta fu la sorpresa. Tom afferrò la base del suddetto al volo, stabilizzandolo.

“Allora?” Chiese con aria impaziente.
“… Il sangue…” Deglutì. “Ha la stessa distribuzione magico - enzimatica di quello di un infetto! Ha lo stesso aspetto adesso.”
Tom annuì, e l’espressione di compiaciuto trionfo che aveva poco prima scivolò via in favore di autentica preoccupazione. “Ho guardato nei tuoi libri di testo per vedere che aspetto avesse il sangue di un mago … sano, e poi ho guardato nella cartelle di Flannery e del duellante.”
“Quando gli abbiamo fatto il prelievo però non … non era così. Era sano.” Si voltò verso di lui. “Perché hai pensato di colpirlo con un incantesimo?”

Tom scosse la testa. “Non ho lanciato un incantesimo. Il sangue ha reagito alla mia bacchetta. Ho pensato al nucleo nel suo braccio e mi sono accorto che il quadro non era completo. Mancava quello.”
“Certo.” Non avevano considerato la peculiarità di Sören, trattandolo come un mago qualunque ed era stato questo l’errore suo e degli altri Guaritori. “Quindi è questo il vero aspetto del sangue di Sören…”
Non ci capiva più niente. Si passò un’altra volta la mano trai capelli, ma neppure stavolta ne trasse beneficio. Chiuse gli occhi, radunando le idee. “Questo spiegherebbe la sua immunità. Non si può contrarre un virus se si ha già la malattia.”

Tom incrociò le braccia al petto. “Allora perché non ha mostrato nessuno dei sintomi?”
Ci rifletté. “Un sintomo in realtà c’è … Solo non lo avevamo considerato tale. La sua capacità magica. Ha valori molto alti.” Sfogliò le cartelle sparse sul tavolo e tornò a leggere i valori. “Il punto è che sono stabili, quelli di Flannery e di Henry Price hanno dei picchi, sono incontrollabili.” Chiuse la cartellina e la buttò nel mucchio. “Abbiamo pensato che fosse come Jamie.”
“L’insegna a neon magica.”
“Già.” Sorrise appena. “Ma forse Sören non ci è nato così.” Si morse l’interno della guancia, colpito da un pensiero. “La malattia è il risultato di un tentativo di creare un siero di incremento magico. E se ci avessero già provato? Dico, a creare il siero con lui.”

“Quando?”
L’implicazione di quella domanda li investì come una Bolide.

“Quando era piccolo.” Mormorò Al. “Questo spiegherebbe perché con lui la malattia si è comportata in modo diverso. Il corpo di un bambino ha una fisiologia diversa da quella di un adulto…” 
Non c’era bisogno che Tom dicesse niente, da come lo guardava: sapevano entrambi chi aveva usato Sören come parco esperimenti. “Von Hohenheim è morto!” Saltò su, abbassando la voce subito dopo quando notò come più di un pozionista si fosse voltato nella loro direzione.
E Merlino se sono pettegoli!
Tom aspettò che fosse di nuovo seduto accanto a lui prima di parlare. “Mio padre non era solo, ce n’erano altri, gente che non è mai stata identificata.” Replicò. “Non sarebbe un’idea assurda pensare che abbiano continuato a lavorare, magari sotto altro nome. La Thule non era soltanto lui.”
Al fu sollevato dal sentirglielo constatare: lo spettro di quell’uomo infernale non li avrebbe mai abbandonati completamente. “Pensi che gli Auror sappiano che c’entri la Thule?”  
Tom fece una smorfia ironica. “Se lo sanno, pensi andrebbero a dirlo a me?” Fissò un punto del tavolo da lavoro come se volesse fargli prendere fuoco: era la sua faccia da decisione rapida. “Devo parlargli.” Decise, alzandosi in piedi e afferrando la tracolla ai suoi piedi per passarsela su una spalla: Al era certo che contenesse almeno una trentina di cose che non sarebbero mai dovute uscire di lì, ma decise di glissare.
“Con Sören?” Chiese invece.
L’altro annuì. “Non era quello che volevi? Adesso abbiamo perfino un argomento con cui rompere il ghiaccio.” Gli fece cenno. “Devo andare.”
“Tom…” All’altro, per quanto empatico come un fondo di calderone, bastò guardarlo in faccia per piegarsi sul tavolo e baciarlo.

Ho bisogno di essere rassicurato quando mi vengono date notizie emotivamente destabilizzanti, okay?
Okay.
Al lo trattenne qualche secondo di più, perché al di là dei mezzi agghiaccianti che usava, la sua capacità di pensare fuori dagli schemi si era riconfermata preziosa.
Il problema è che va a braccetto con un ego ipertrofico. Meglio non farglielo notare.
Tom gli servì infatti un ghigno compiaciuto che gli sarebbe valso un pugno in faccia.  
“Non provocarmi.” Lo avvertì, approfittando della vicinanza per tirargli uno schiaffo sulla spalla. “E mi raccomando non accennargli a niente, non ancora.” Aggiunse. “Voglio avere la certezza che non stiamo facendo il passo più lungo della gamba, che quello che abbiamo scoperto sia vero.”
Tom fece una smorfia. “Ti piace quando hai il comando, Signor Guaritore.”
Sì, ci sono abituato. La vera finezza è non fartelo notare.
Gli sorrise. “Già.” Lo fermò prendendo per un braccio. “Dico sul serio … Se vuoi fargli domande sulla Thule va bene, ma rimani sul generico. Digli soltanto che abbiamo motivo di pensare che sia stato qualcosa che gli hanno fatto da bambino che l’ha salvato dal contagio.”
“So come ottenere informazioni senza rilasciarne.” Fu la replica indignata: l’importante era che lo ascoltasse, ed era certo che il messaggio era permeato, da quanto sembrava poco contento. “Pensa piuttosto ad avere delle conferme. Perché ho ragione.”

 
 
****
 
Londra, Diagon Alley.
Pomeriggio.

 
Sören tornando dalla sua corsa serale era stato sorpreso da una chiamata di Lily. Non era mai stato così grato a Milo e alla sua fissazione di fargli portar dietro il cellulare.
“… sai che non posso dirti che hai fatto bene.”
“Sì, ma ha parlato! Ed erano giorni che provavano a cavarle fuori una parola di bocca!”
Sören, continuando a regolarizzare il respiro dopo la corsa di quasi un’ora dentro lo smog londinese alzò gli occhi al cielo, felice che l’amica non fosse lì per notarlo. “Avevi degli ordini.”
“Lo so, soldatino, ma gli ordini a volte vanno … interpretati.”
“Interpretati.” Cercò di non scuotere la testa. Non era sicuro, dopotutto, che Lily non potesse trovare il modo di vederlo. La tecnologia Babbana aveva funzioni di cui era per la maggior parte ignaro. “Davvero, mi stai dicendo che bisogna essere creativi?”

“Sì! Che ne sai che la Patil non voleva spronarmi? Non fa che dirmi che non mi esercito abbastanza e non ci metto impegno!”
“Non è che ti stai arrampicando sugli specchi?”
“Oh, dai, Ren!” Una pausa. “Cavolo. Si nota tanto?”  
Sören sorrise: Lilian l’aveva chiamato per chiedergli un parere, dietro l’apparente richiesta di conoscere gli orari per la loro prima lezione di autodifesa. E non era la prima volta; capitava parlassero spesso, senza contare i messaggi o le improvvisate.
Un mese fa non avrei mai immaginato potesse accadere.
“Stai sorridendo adesso, vero?” Sören si guardò alle spalle e la sentì ridere. “Tonto, ti conosco, non ti sto spiando.” La voce era allegra, e ne era felice: per quanto Lily si fosse probabilmente messa nei guai fino al collo con la sua referente – non sarebbe stata Lily altrimenti – aveva comunque ottenuto un risultato, e questo la faceva stare bene.
Conosco la sensazione.
“Sono contento che tu sia riuscito a capire il problema di quella bambina.” Replicò mentre entrava nel vicolo che ospitava l’entrata per Diagon Alley. “Forse adesso Potter si rilasserà.”
“Non contarci. Mio fratello ha il ciclo come una donna. Solo, perenne.” Ridacchiarono entrambi poi la voce dell’amica sfumò in un tono più serio. “Senti … a parte gli scherzi, pensi che abbia sbagliato?”

Capiva che la domanda non conteneva più le tracce dell’ironia giocosa di prima. Glielo stava chiedendo sul serio adesso. “Penso che tu abbia preso una decisione.” Esordì dopo averci riflettuto. “Volevi aiutare Ted e la bambina. Il punto non è che tu abbia sbagliato o meno, ma prendersi la responsabilità di quello che hai fatto ed essere disposta a sopportare le conseguenze… oppure no.”
“Non è che possa evitare che la Patil venga a saperlo. Ha occhi e orecchie ovunque, quella Corvonero.”

“E ne valeva la pena?”
“Sì.” Nessuna incertezza; era questo che amava di Lily. La sicurezza con cui seguiva il suo cuore, indipendentemente da quello che dicevano o facevano gli altri per dissuaderla. Se da un certo punto di vista poteva essere considerato un difetto – e lo era se l’aveva portata a Nurmengard cinque anni prima – dall’altra era il suo maggiore punto di forza.
Non sarà mai piegata dalla volontà o dall’influenza altrui. Farà sempre la cosa che riterrà giusta.
Dal suo punto di vista era una qualità. “Allora hai la tua risposta.” Concluse passando la mano sul mattone che attivava l’incantesimo di Rivelamento di Diagon Alley. La magia si piegò docilmente e fece un passo indietro quando il muro si aprì per lasciare intravedere la porta del Paiolo Magico. “Non ti servono scuse e giustificazioni se pensavi di agire nel giusto.” Soggiunse.
“Per alcuni sì.”
“Non per me.”

Ci fu una lieve esitazione al di là dell’apparecchio e Sören trattenne il respiro: si era spinto troppo in là?
“Grazie Ren.” Il tono era caldo e sincero e Sören dovette ricordarsi per l’ennesima volta che quel fine settimana Lily sarebbe andata in Scozia con Scott, il suo ragazzo.
Ma io l’avrò venerdì.
… no, tu non avrai proprio niente.
Si schiarì la voce e varcò l’ingresso della locanda, lasciando che gli occhi si abituassero alla penombra del locale. “Ci vediamo domani.”
“Alle sei e mezzo in punto all’Accademia di Duello!” Convenne l’altra. “Non tardare!”
“Io?”
La risata di Lily chiuse la comunicazione e Sören si impose di togliersi il sorrisetto da idiota che gli era spuntato in faccia. Non dovette faticare molto: gli bastò vedere chi era seduto ad uno dei tavoli in fondo alla locanda.
Thomas.
Suo cugino era lì, e stava leggendo un libro con accanto una tazza di the e un piatto di biscotti intonso.  A giudicare dall’ordinazione singola doveva essere solo.
Che ci fa qui?
Era ovvio, stava aspettando lui; del resto per quale motivo avrebbe dovuto star lì quando aveva una casa a neppure una strada di distanza?
Si sentì a disagio con la sua tenuta da corsa, il sudore che gli si stava raffreddando addosso e il viso congestionato dal caldo. Suo cugino in confronto sembrava l’epitome dell’eleganza; un po’ erano i vestiti scuri, ma il resto era dovuto al fascino carismatico della loro famiglia.
Che non è passato a me.
Tom alzò lo sguardo come se l’avesse sentito arrivare da un bel pezzo e stesse solo aspettando il momento giusto per farglielo notare. “Sören.” Lo salutò chiudendo il libro con uno scatto secco.
Sören non riuscì a trattenere i muscoli dal farlo sobbalzare come un idiota; suo cugino non aveva che l’aspetto fisico di Von Hohenheim, ma…
“Buonasera Thomas.” Si sforzò, perché a giudicare dall’espressione sconcertata dell’altro il suo malessere doveva essere palese.
“Un brutto momento?” Gli chiese infatti.
“No.” Si affrettò a rispondere. “Sono andato a correre.”
“Lo vedo.”

Non aveva mai parlato con suo cugino cinque anni prima, se non si contava le volte in cui aveva cercato di fargli saltare la copertura.
Non credo valgano.
Da allora non avevano avuto rapporti, anche se tramite Lily aveva saputo del suo brillante diploma, del lavoro come apprendista di bacchette e del fatto che vivesse con Albus. Non erano cose che aveva mai chiesto, ma non gli era dispiaciuto venirne a conoscenza.
Pare che non sia riuscito a rovinargli la vita, dopotutto.
“Hai bisogno di qualcosa?” Ruppe il ghiaccio, perché fissarsi senza spiccicare una parola oltre a dargli angoscia era anche stupido, immaginava: quasi gli sembrava di sentire la risata di Lily seguita da un ‘oh Merlino, come diavolo fate ad essere così imbranati?’
L’altro dopo una lunga occhiata inquietante – altro non poteva esser definita – annuì. “Devo parlarti. Hai un momento?”
Non aveva alcun motivo per rifiutare, se non il proprio disagio. Supponeva non fosse abbastanza. “Certo. Vado a farmi una doccia e rendermi presentabile.”
“Fa’ pure con comodo, ti aspetto qui.” Non gli diede il tempo di aggiungere altro che riaprì la copertina del suo libro in un gesto di indiscutibile commiato.

… scortese.
Lily lo aveva avvertito che era quella l’impressione che chiunque aveva al suo primo incontro con Tom. Sospirò e salì le scale: non sarebbe stata una conversazione semplice.
 
Tom era nervoso e questo non era accettabile.
Lui non perdeva la calma di fronte a nessuno; non era come era fatto, non era come voleva essere fatto.
Tuttavia con Sören il discorso era diverso; il cugino era un memento in carne ed ossa di quello che era accaduto durante la sua adolescenza, un segnale luminoso sugli incubi che ogni tanto si affacciavano tra sogno e veglia.
Non che fosse colpa sua; a differenza di James e il lato ottuso della sua famiglia, si rendeva conto che non poteva serbargli rancore solo perché era stato il braccio armato di uno squilibrato.
Non avercela con lui non significava però che volesse stringerci una salda e affettuosa amicizia come sperava Albus; avrebbe preferito continuare ad ignorarlo come aveva sempre fatto, e come continuava a fare riguardo a tante cose.
Per vivere tranquillo.
Ma non poteva; con le scoperte che lui e Al avevano appena fatto non poteva continuare a tenere dentro l’armadio suo cugino e sperare che non gli venisse voglia di uscire.
Devo tirarlo fuori io.
“Tom.” Sören lo raggiunse, fresco di doccia e cambiato. Era bizzarro constatare che a differenza di molti maghi Purosangue era in grado di vestirsi alla Babbana senza sembrare un idiota o affetto da daltonismo. Poi rifletté sul fatto che quei vestiti doveva prepararglieli il Magonò, che sembrava un tipo modaiolo.  Accantonò il pensiero frivolo e gli fece cenno di sedersi, chiudendo il libro. “Posso offrirti qualcosa?”
“No, grazie.” L’altro aveva l’espressività di un manichino; si stava Occludendo e non doveva neppure accorgersene. “Di cosa avevi bisogno di parlarmi? Sembrava importante.”
“Lo è.” Convenne; era lì per avere delle informazioni, oltre che a darne. Le avrebbe ottenute barriere occlumantiche o meno.

Bene.
Doveva solo capire come.
Il silenzio che si era stabilito tra di loro non gli dava buoni spunti, e fu infine Sören a prendere la parola. “Se è importante…” Iniziò perplesso.
Qualcuno qui ha problemi ad ottenere informazioni?
La voce di Al, se non era seguita dalla sua persona, era la cosa più fastidiosa al mondo.
“Sto collaborando con il San Mungo per sviluppare una cura per il morbo.” Esordì. “Non per quanto riguarda il lato medico, non sono un Guaritore. L’Arte delle Bacchette studia anche l’incremento della magia e…”
“Sei stato tu a studiare il campione del nucleo della mia bacchetta, quindi.”  

“Sì.” Convenne. “Io e il mio mentore, Rupert Stevens. È una collaborazione esterna.”
“Non mi sono ammalato, e sono stato l’unico … Pensare che sia stata la mia bacchetta è sensato.” Soggiunse Sören. “È così? O è stato il bracciale di controllo?”

Tom scosse la testa. “Nessuno dei due. Né il bracciale né il nucleo hanno niente a che vedere con la tua immunità al contagio. Funzionano sulla tua magia, non su quella degli altri. E come sai, il contagio avviene attraverso gli scambi di flussi magici.”
Sören annuì. “Quindi avete scoperto la causa?”
Tom fece per aprire bocca, quando si rese conto che non era tenuto a farlo; il motivo della sua venuta era fare domande, capire se la Thule fosse coinvolta e quanto suo cugino sapesse della sua particolarità.

Sta succedendo il contrario. È lui che sta interrogando me.
Sören aveva rigirato la frittata, avrebbe detto sua madre Robin; non solo non aveva scucito una sola informazione, ma era riuscito ad ottenerne alcune senza che lui se ne accorgesse.
Ti sei dimenticato che è un investigatore?
“Non sono qui per essere interrogato.” Disse brusco, incrociando le braccia al petto e avendo la sensazione di comportarsi come un bambino.
Specialmente perché Sören sorrise ed era un sorriso condiscendente.
“Allora perché sei qui?” Gli chiese perfettamente in controllo e, dannazione, in vantaggio. Non era una vera domanda, perché continuò. “Spesso mi si accusa di esser troppo diretto. Mi scuserai, quindi, se non ci giro attorno e ti chiedo perché sei qui quando fin’ora non hai mai espresso il desiderio di avere a che fare con me.”
Tom sentì una fitta di colpa colpirlo al fianco. Era come sentire un pugno di Al sul costato, stessa impressione. “Mi pare che il desiderio fosse reciproco.” Ritorse.

Sören gli lanciò un’occhiata confusa. “Non ti sto accusando, era una semplice constatazione.”
“Suonava come un’accusa.”
“Non lo era.”  

Rimasero di nuovo in silenzio; Tom avrebbe voluto avere qualcosa di sagace da dire, ma si trovò a corto di parole. Sören non era ostile, ma non era semplice da sondare: come cinque anni prima, era un libro scritto in caratteri incomprensibili. “Stai usando l’Occlumanzia.” Non trovò di meglio da dire. “Non è cortese quando parli con qualcuno.”
 
Non si era accorto di usare l’Occlumanzia.
Il nervosismo a volte faceva scattare in lui dei meccanismi di difesa che andavano oltre la coscienza, e pescavano diretti nei mille muri che aveva eretto durante la sua dipendenza da Von Hohenheim.
“Non lo faccio coscientemente.” Confessò. “Mi viene naturale quando sono nervoso.”
Aveva avuto abbastanza confronti con i suoi colleghi, con il Capitano e con la sua terapeuta per sapere che se una conversazione era difficile, era perché c’era un muro.
E da qualche parte qualcuno deve cominciare ad abbatterlo.
Aveva sempre pensato che suo cugino fosse un tipo difficile – o così gli avevano detto – ma constatarlo di persona era stato meno … traumatico del previsto.
Perché Thomas non era Alberich; poteva averne i suoi occhi, la voce e certe espressioni, ma era un ragazzo. Un ragazzo con un brutto carattere e privo di tatto …
Ma è tutto qui.
Non poteva neppure quantificare il sollievo che provava in quel momento.
L’altro sembrò sorpreso dalla sua inattesa confessione. “Sei nervoso. Perché?” Attestò più che chiedere.
Lily mi aveva detto che si comporta come un piccolo dittatore. Adesso capisco che intende.
“Non lo immagini?” Rispose con una domanda, sapendo che era irritante. Aveva visto Rico far crollare i sospetti in quel modo. Funzionava.
Tom infatti lo guardò male, ma decise di lasciar perdere. “Se sono qui è perché ho pensato che volessi essere informato sui progressi medici, visto che ti riguardano. Purtroppo il fatto che tu sia immune non significa che siamo più vicini a trovare una cura.”
Sören intuì il sottotesto. “Significa che il motivo per cui non mi sono ammalato non può essere usato per aiutare nessuno. È così?”
Tom sfuggì il suo sguardo e, come aveva imparato nelle centinaia di interrogatori che aveva fatto o a cui aveva assistito, quello era un segnale di tensione peggiore dell’Occlumanzia conclamata. “Per adesso abbiamo soltanto delle teorie. Non fatti.” Si risolse a dire, scegliendo con cura le parole. Era un tratto da apprezzare, in un mondo in cui le persone erano rubinetti rotti. “Abbiamo ipotizzato che gli esperimenti che ti abbiano fatto da bambino possano essere una delle cause. La magia presente nel tuo sangue non reagisce come quella del mago della strada. In sostanza, è per questo che non ti sei ammalato.”
Ah.

Sören sentì di colpo la bocca asciutta come il deserto e si pentì di non aver accettato l’offerta di prendere qualcosa da bere. Avrebbe davvero voluto qualcosa di forte in quel momento. “Capisco.”
Capisco fin troppo bene.
Significava che il progetto Demiurgo lo coinvolgeva più di quanto avesse pensato, e non solo perché Johannes ne faceva parte.
“Ne siete sicuri?”
Thomas scosse la testa “Come ho detto, per ora sono solo speculazioni.” Non si sarebbe lasciato andare ad altre confessioni, era evidente. “Se te ne ho messo a parte è solo perché speravo tu potessi…”
“ … dirvi quale momento della mia vita da cavia mi ha reso immune? Spiacente, ero un bambino, non avevo coscienza di ciò che mi facevano .” Ritorse con rabbia, senza riuscire a frenarla. Si sentiva sudare i palmi della mani e non avrebbe voluto perdere il controllo, non di fronte a suo cugino.

Eppure.
Non era ancora pronto a parlare di quel periodo buio e dubitava lo sarebbe stato mai.
Tom alzò lo sguardo, e per un momento non disse nulla. Poi lo stupì. “Scusami.” E sembrava sincero. “Ho esagerato.”
Già.
“Immagino che nei prossimi giorni mi aspettino domande di questo genere … solo meno informali.”
Tom ebbe il buon gusto di non mentire. “Finché non avremo delle certezze, no. Poi ti verranno chieste delle spiegazioni.” Fece una pausa. Sembrava improvvisamente molto meno disposto all’inquisizione. “Non vi saranno accuse.”
Fece un sorrisetto amaro: Thomas aveva sempre militato dalla parte dei giusti, non poteva sapere come funzionava nel mondo dove il bianco e il nero diventavano grigio. “Per quelli come me ci sono sempre accuse.” Aveva una domanda però. “Perché sei venuto ad avvertirmi? Non credo fosse tuo compito farlo.”

 
Non era solo per sapere se la Thule fosse coinvolta o meno.
Tom lo realizzò con un certo grado di sgomento; non era solo per avere delle risposte che aveva detto quelle cose a Sören.
Gliele hai dette perché doveva saperle. Perché era suo diritto. Perché altri hanno nascosto cose a te … e perché sai cosa si prova. Conosci quella rabbia.
Al aveva detto che lui e Prince si somigliavano, ma non aveva colto il perché. Quello profondo, almeno: si somigliavano perché entrambi era nati con lo scopo di servire una scacchiera, un gioco giocato da altri. Si somigliavano perché entrambi si erano ribellati e ne portavano le cicatrici.
Scoprirlo era irritante quanto rivelatore: alla fine lui e il cugino non erano estranei come aveva sempre pensato. “Perché volevo delle risposte.” Ammise. “E perché avresti avuto delle domande.”
Sören non disse nulla, ma doveva aver capito da come fece un cenno di assenso impercettibile. “Cosa avevi bisogno di sapere?”
Avrebbe potuto chiederglielo a quel punto. Aveva abbassato le difese, forse per stanchezza o forse perché gli aveva chiesto scusa attirando così le sue simpatie: sarebbe stato da idioti non approfittarne.
Era un idiota.
“Non ha importanza.” Scosse la testa, prendendo il libro e infilandoselo in borsa. Da che era lì non aveva letto una pagina. “È meglio che vada.”
Fu quando gli diede le spalle che lo sentì parlare di nuovo. “Tom.” Lo richiamò. “Grazie.”
Non ringraziarmi. Dieci a uno non me lo merito.
“Di cosa?” Mormorò a mezza bocca, e non fu certo che l’altro l’avesse sentito finché non sentì la risposta.
“Per non essere come tuo padre.”
Tom non rispose, anche perché non ce n’era bisogno. Fece solo un cenno d’assenso e un saluto.
Approfittarsi magari era stato da idioti. Ma a sentire Al lui era un idiota: per fortuna.
 
 
Tornato a casa a turno concluso, Albus trovò Tom a guardare fuori dalla finestra di camera loro, con l’immancabile tazza di the scuro come inchiostro che faceva da base alla sua dieta e lo sguardo perso nel vuoto siderale.
“Ehi.” Lo salutò, sfilandosi lo zaino con cui aveva cominciato ad andare al San Mungo.
Con tutti i referti e i fascicoli che fanno avanti e indietro da casa, meglio evitare che mi sloghi una spalla.
“Com’è andata con Sören?”
Perché no, non sto affatto morendo dalla curiosità. Per niente!
Non avendo risposta gli si avvicinò, occhieggiando la via gremita sotto di loro. “Beh?” Lo incalzò. “È andata così male?”
Non si saranno lanciati addosso incantesimi, spero!
“Alla fine non gli ho chiesto ciò che volevo sapere.” Fu tutto quello che disse, dando un sorso alla tazza. Non si era neanche tolto le scarpe. Di certo era entrato in casa, si era preparato il the e si era rifugiato nel suo angolo preferito dell’appartamento, ovvero il bovindo che fungeva da finestra – e da pensatoio – in camera loro.
“In che senso?”
“Volevo sapere se la Thule era coinvolta.” Gli passò la tazza ormai fredda, e si diresse verso il guardaroba cominciando a spogliarsi. “Ma non gliel’ho chiesto.” Ripeté.
Al mollò la tazza sul comodino, ignorando l’occhiata seccata dell’altro. “E perché?”

Bizzarro. Pensavo che avrebbe finito per beccarsi uno Stupeficium per aver esagerato con le domande.
Tom era chino sui lacci delle proprie scarpe e ci mise più di qualche attimo a rispondere: era ufficiale, era nel pieno di un rimuginamento mentale. “Non mi è sembrato il caso.”
Eh?

“In che senso?”
Tom sbuffò irritato; quanto e come odiava che qualcuno interrompesse il suo lugubre elucubrare!
“Se non mi rispondi, vado in cucina, prendo un paio di coperchi e te li suono nelle orecchie inseguendoti per tutta casa.” Gli propose. “Dico sul serio.”
Tom aprì la bocca per protestare, ma poi la richiuse, con aria offesa. “Non mi sembra che ci sia molto da capire … Non voglio essere io a dargli brutte notizie.”
“Brutte notizie?”
“In che altro modo chiameresti quello che abbiamo scoperto, se lo guardi dal suo punto di vista?”

Beh. In effetti.
Ormai comunicativo, l’altro si passò una mano trai capelli. “Non ho voluto.” Ripeté, e aveva il suono di una rivelazione. “Lo scoprirà comunque, se le nostre ipotesi sono corrette … e per quanto riguarda le mie domande, avrò comunque le mie risposte. Solo, non da lui.”
“L’hai lasciato in pace…” Realizzò, perché quello era il succo del discorso ingarbugliato dell’altro. Sorrise, gattonando sul letto fino a raggiungerlo ed abbracciargli la schiena. “Hai capito le sue difficoltà.”
“Piantala.” Fu il borbottio cupo. “Non mi piace dare brutte notizie, tutto qui.”
“Hai empatizzato.”
“Non l’ho fatto!”

Al ridacchiò, strofinando la guancia contro la stoffa sottile della camicia dell’altro: si era messo in tiro per incontrare il cugino, da bravo snob qual’era.
“Sono fiero di te.” Gli mormorò all’orecchio. “Sei stato bravo.”
Sentirlo sciogliersi, anche se di poco, era sempre una bella soddisfazione. “Non ho bisogno che tu mi rabbuffi come un ragazzino…”
“Certo che no.” Lo stritolò in un abbraccio perché era vero, era fiero di lui: e si sentiva anche un po’ in colpa ad aver pensato il peggio. Tom poteva avere mille difetti, ma quello che aveva passato l’aveva reso una persona migliore. Non la migliore, ma una persona capace di capire il dolore altrui e rispettarlo.

Quindi, vergogna per esserti stupito.
Tom gli lanciò un’occhiata da sopra alla spalla. “Non pensavi mi sarei comportato decentemente.” Attestò con un sorrisetto.
“Beh, lo … speravo?”
“Dannato Potter. Sconterai la tua malafede.” Soffiò prima di ribaltarlo sul letto e schiacciarlo sotto di sé.
Al accettò il suo destino con doverosa abnegazione.
 
****
 
 
Note:

Qui la canzone del capitolo. La canzone della sveglia è questa perchè Tom è una carogna.
Per quanto riguarda il prossimo capitolo, dubito di riuscire a postarlo prima di partire per la Croazia (VACANZE). Nel caso, le notizie arrivano fresche su effebì! :D
  
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