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Autore: Dira_    01/07/2013    11 recensioni
Sono trascorsi cinque anni da quando Al, Tom e Lily hanno messo fine alla vicenda terribile che ha segnato la loro adolescenza. Grazie al mondo fuori da Hogwarts sembrano essersi lasciato tutto alle spalle. Chi è un promettente tirocinante, chi si è dedicato alla ricerca e chi, incredibilmente, studia.
Un'indagine trans-continentale, il ritorno di un vecchio, complicato amico e una nuova minaccia per il Mondo Magico li porteranno ad affrontare questioni irrisolte.
"Perchè quando succede qualcosa ci siete sempre di mezzo voi tre?"
Crescere, per un Potter-Weasley, vuol dire anche questo.
[Seguito di Ab Umbra Lumen]
Genere: Azione, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Albus Severus Potter, James Sirius Potter, Lily Luna Potter, Nuovo personaggio, Scorpius Malfoy
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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- Questa storia fa parte della serie 'Doppelgaenger's Saga'
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You said the past won't rest until we jump the fence
And leave it all behind
(Suburban War, Arcade Fire)

9 Luglio 2028

Inghilterra. Mattina.
 
Philippa Davos doveva fuggire.
Il fatto che la sua vita fosse precipitata da finalmente degna di esser vissuta ad un incubo era qualcosa che avrebbe dovuto aspettarsi. Del resto non era nata sotto una buona stella, e non aveva mai preso una decisione giusta che fosse una da quando aveva lasciato Hogwarts.

Forse era stato il mai risolto desiderio di farla, quella scelta giusta, che l’aveva spinta a rispondere all’annuncio sul Profeta, a recarsi in un posto dove non c’era un solo mago inglese e farsi iniettare una schifezza sotto pelle come una Babbana qualsiasi.
Philippa Davos aveva paura.
Mentre fino a una settimana prima aveva ringraziato con tutte le sue forze il progetto Demiurgo, e i maghi e le streghe che le avevano permesso di prendere in mano la sua vita, la sua bacchetta, senza avere il timore di combinare un disastro, adesso si trovava nella posizione di dover rispondere a dei messaggi che le arrivavano tramite un congegno Babbano chiamato cellulare.
L’ultimo era quello che le stava facendo fare le valige adesso.
Quando aveva letto sul Profeta di cosa era accaduto al San Mungo – ad un auror! – e poi cosa aveva fatto quel ragazzo all’Accademia di Duello – ricordava di averlo incrociato per i corridoi, un tipo così energico! – il primo istinto era stato quello di recarsi al Ministero, il Ministero che aiutava, accoglieva e proteggeva, ma mentre stava per infilarsi nella cabina che ce l’avrebbe portata, un mago che non conosceva l’aveva presa sottobraccio. Un uomo alto, biondo e piuttosto piacente.
Le aveva detto di chiamarsi Johan.
 
“Buongiorno Philippa.”
“Lei … lei chi…”
“Calmati. Sono un amico. Non ci siamo conosciuti, credo, né incrociati. Progetto Demiurgo?”

“Oh … lei…”
“Dammi pure del tu.” Un flash di sorriso bianco e Philippa si era sentita scioccamente arrossire. L’accento esotico dell’uomo era piacevole, quasi una carezza. “È perché sono un amico che ti dico che stai commettendo un errore.”
“Le persone si sono … le persone si sono ammalate. Quelle che come me…”
“Philippa, hai paura?”

“Co … come?”
“Hai paura.” Un attestazione. La presa sul suo braccio era gentile e da lontano sembravano proprio una di quelle coppie da fotografia. “Ma il Ministero ne ha più di te. Quello che è successo al San Mungo … uno spiacevole errore non ricollegabile al nostro progetto.”
“Ma quell’Henry Price … mi ricordo di lui! L’ho…”
“Vi stanno cercando Philippa.” L’uomo si era scostato per accendersi una sigaretta, facendole un cenno di scuse quando aveva mandato un po’ di fumo nella sua direzione. “Il Ministero inglese … beh, in realtà qualunque Ministero, non è d’accordo con quello che abbiamo fatto. Il progresso ha sempre un prezzo.”

“E il prezzo sarei io?!”
L’uomo aveva sorriso. “No.” Aveva risposto gentile. “Non lo sarai se ti fiderai di me. Non vi abbiamo dato la cura per poi disinteressarci di voi.” Aveva battuto le nocche contro la cabina telefonica del Ministero. “Se scenderai là sotto non saremo più in grado di proteggerti, lo capisci?”
“Proteggermi … da cosa?”
“Dalla paura.” Si strinse nelle spalle. “Philippa, voi siete il principio di una scoperta sensazionale. Voi siete rinati, letteralmente.” Ricordava quella retorica, era quella che aveva ascoltato quando aveva preso la decisione di prendere in mano la sua vita. “Le novità non sono mai viste come opportunità dal potere, ma come minacce.” Il tono si era fatto serio. “Ti rinchiuderanno, ti renderanno una cavia. Tutto quello che vedrai sarà il sotterraneo del Ministero. Posso assicurarti che chi non ci ha dato retta adesso è lì.”
“ … allora cosa … Che faccio?”

L’uomo chiamato Johan le aveva sorriso di nuovo, chinandosi per farle scivolare qualcosa tra le mani. Era piccolo, rettangolare e molto lucido. “Sai come si usa un cellulare, Philippa?”
 
Philippa Davos sentì suonare il campanello tre volte. Era quello il segnale convenuto. Prese la valigia facendola levitare e riducendosela per ficcarla in borsetta: questo il progetto Demiurgo era stato in grado di fare, e quindi perché non fidarsi di Johan? L’alternativa sarebbe stata finire nelle braccia di un Ministero che l’aveva sempre relegata ad una vita da invalida.
Non sono una Maganò. Io ho la magia.
Aprì la porta e il sorriso di Johan fu la prima cosa che vide. “Buongiorno Philippa.” La salutò. “Pronta ad andare?”
 
****
 
Londra, Ministero della Magia.
Ufficio Auror, Mattina.
 
Harry si rese conto di non essere il primo a varcare le porte dell’ufficio quella mattina quando notò qualcuno nel cubicolo di James e Scorpius. Con il Profeta sottobraccio – che non aveva ancora avuto il coraggio di aprire, nonostante avesse fatto atto di masochismo nel non lasciarlo a Ginny – si apprestò ad andare a salutare uno dei due, ma si trovò invece di fronte Prince con il viso seppellito in una cartellina piena di cifre e numeri.
Perché dovrei stupirmi, poi. Sembra il genere di persona che non dorme fino al suono della sveglia.
Il ragazzo si accorse di lui, perché si alzò in piedi. “Buongiorno Signore.” Salutò deferente.
“A te.” Sorrise con le sue migliori intenzioni dato che l’altro pareva un fascio di nervi; per quanto avesse cercato di dimostrargli benevolenza, Sören non era ancora a suo agio in sua presenza. “Mattiniero oggi?” Tentò, ricordando con un certo imbarazzo come quel genere di chiacchiere vuote non fosse il suo forte.

“Sissignore.” Fu la risposta rigida e calò subito il silenzio.
Ecco, appunto.
“Sto …” Esordì Sören dando cenno agli incartamenti. “… sto visionando i movimenti bancari degli pseudonimi di Johannes.”
“John Doe.” Annuì. “Qualche risultato?”

“Alcuni.” Ammise e non doveva essere la prima mattina che si faceva aprire l’ufficio dagli addetti delle pulizie. Aveva l’aria stanca, e la tazza di caffè scuro posata sulla scrivania era un’ulteriore conferma.
“Fammi vedere.”  
Sören fece un cenno rapido della testa, mostrandogli il taccuino su cui stava prendendo appunti. “Ho fatto controlli incrociati negli ultimi cinque anni di movimenti bancari.”
Harry sgranò gli occhi alla cifra. “Sono più di cinquanta conti!”
Sören gli restituì un sorrisetto amaro. “E ce ne sono alcuni che sono certo ci siano sfuggiti.”
“Johannes è il suo vero nome, almeno?” Sbuffò scorrendo le annotazioni senza riuscire a capirci nulla. Con un certo grado di sorpresa – e nostalgia – notò come la grafia del ragazzo gli ricordasse quella di Piton. I due cugini non si erano mai conosciuti, ma di certo avevano la stessa propensione a scrivere in maniera illeggibile.

Sören ha una grafia un po’ più curata, ma credo gli sia stata insegnata …
“Io l’ho conosciuto con quel nome. Difficile stabilire se sia quello con cui è nato.” Rispose il ragazzo, poi vedendo la sua confusione si avvicinò e cerchiò con le dita passaggi che per lui erano solo affastellarsi di cifre e numeri. “Ha usato undici conti legati a diversi alias in questi cinque anni. Movimenti minimi … ha prelevato piccole somme di denaro. Sempre sotto la soglia dei mille Galeoni annui.”
“Piccole somme o meno, questo dimostra che è ancora vivo.” Sospirò. “Si sa anche per cosa li ha spesi?”

Sören scosse la testa. “Diversamente dal mondo Babbano non c’è la possibilità di sapere per cosa il denaro magico venga usato. Certo, per i grossi prelievi bisogna fornire una causale alla maggior parte delle banche magiche ma … con prelievi così bassi…”
“Capisco.” John Doe era un avversario furbo. Lo era sempre stato, e lo dimostrava il fatto che non fossero mai riusciti a catturarlo.

Né ad eliminarlo. È sembrato morto per ben due volte. Nove vite, come i gatti.
“L’ultima banca in cui è stato?” Chiese invece. “Lasciami indovinare, qui in Inghilterra?”
“Quella d’Irlanda in realtà. Pensavo di proporre alla squadra di farvi visita … Il prelievo è stato recente, forse qualcuno dei Folletti ricorda di averlo visto.”
“Sì, buona idea.” Concordò e poi notando come l’ufficio cominciasse a popolarsi delle prime facce insonnolite decise che era il momento di tornare alle sue scartoffie. “Ottimo lavoro, agente Prince.” Si sentì in dovere di dirgli e fu piacevolmente colpito quando il ragazzo gli sorrise di rimando.
Ha ragione Lily … Non è una persona naturalmente austera.
Non somigliava poi così tanto a Piton, in fondo.
“Ho saputo che darai lezioni di Duello a mia figlia.”
Sua figlia di certo non aveva reso la notizia segreta. L’aveva detto a chiunque avesse orecchie per ascoltare.
 
“Duello…? E perché?”
Lily l’aveva guardato da sopra la sua cena, con un’espressione altrettanto perplessa. “Beh, perché con tutto quel che sta succedendo … con gli attacchi al San Mungo e all’Accademia di Duello ho pensato fosse una buona idea.” Non aveva dato il tempo né a lui né a Ginny di ribattere, che aveva continuato. “Non so neanche lanciare uno Schiantesimo decente. Non ho mai imparato … cioè, a scuola con Teddy abbiamo studiato i movimenti della bacchetta, ma …” Aveva fatto una smorfia, e Ginny aveva sbuffato di rimando.

“Sì, il Duello vero è tutt’altra cosa. Non li lasciano neanche fare pratica, Harry, ti ricordi? Teddy non fa che dirci quanto sia ridicolo.”
“Mi ricordo, è stata una risoluzione del consiglio scolastico, no?”
Sua moglie si era battuta per ribaltare quella decisione assieme ad altri genitori, salvo per poi lasciar perdere quando la maggioranza era rimasta arroccata nelle proprie posizioni.
Non si può neanche non capirli … Abbiamo tutti vissuto la guerra, e sappiamo cosa uno Schiantesimo può fare, se le cose vanno storte.
Comunque l’idea che la sua bambina fosse in grado di badare a se stessa non gli dispiaceva. Non aveva mai spinto nessuno dei suoi ragazzi ad imparare incantesimi offensivi…
… ma lungi da me ostacolarli.
“Sì, è una buona idea. Sono sicuro che Dionis non avrà problemi a prenderti in una delle sue classi.”
“Veramente l’ho chiesto a Sören.”
C’era stato un momento di silenzio sgomento. “Perché?” Gli era uscito di getto.
Lily si era stretta le spalle, ma Harry aveva registrato comunque una certe rigidità. “Perché è un Duellante esperto. Non è un insegnante, okay … ma mi potrebbe seguire molto più di Dion. Adesso i corsi stanno finendo, non ha senso che mi iscriva all’Accademia.”
“Puoi comunque chiedere a Dionis, non penso rifiuterebbe di farti lezioni private.”
“Ha una bambina adesso … Ha la testa e il tempo libero da tutt’altra parte.”

Harry si era trovato nella scomoda posizione di non essere per niente d’accordo, ma di non riuscire a trovare una motivazione valida né tantomeno logica. Si era scambiato un’occhiata con la moglie, chiedendo aiuto e appoggio.
“Sei sicura tesoro?” Aveva chiesto Ginny con tono tranquillo, quasi non stessero parlando di affidare la loro unica, preziosa figlia ad un ragazzo che aveva usato la bacchetta per uccidere. “Le cose tra di voi…” Aveva fatto una pausa. “Le cose tra di voi sono sufficientemente tranquille in questo senso?”
Lily aveva fatto per rispondere di getto, ma poi si era morsa la lingua, riflettendoci. Stava crescendo, aveva pensato Harry con un pizzico di orgoglio. Un tempo avrebbe gridato le sue ragioni pretendendo di esser capita.“Sì, sono sicura.” Aveva detto. “Mi fido di lui.”
 
Ritornando al presente, Sören lo stava guardando come se lo avesse appena accusato di un efferato delitto.
“Io…” Era addirittura impallidito. “… me l’ha chiesto e non ho pensato di rifiutare.”
Data la reazione, Harry realizzò di aver usato il tono da Capo Auror.

O da padre.
“Non ho detto che non sono d’accordo.” 
Quanto male l’ho guardato?
Sospirò. “Sören … mia figlia ti ha dato fiducia per ben due volte.” Gli mise una mano sulla spalla. “Questa volta la differenza è che te la meriti.” Fece una pausa. “Prenditi cura di lei.”
Il ragazzo inspirò appena e ad Harry sembrò quasi che si mettesse sull’attenti. Era davvero un soldato nell’anima, Lily aveva ragione a piene mani. “Sissignore.” Mormorò. “Lo farò. Grazie.”
“A te.” Replicò un po’ impacciato, facendo un passo indietro. “E mi raccomando, vacci piano con lei o…”
“Non le darei mai motivo di preoccuparsi di questo, Signore.” Lo fermò indignato. “Userò ogni riguardo.”
“Ne sono sicuro.” Fece un sorrisetto divertito. “Ma non mi preoccupo per Lily.” Prima di andarsene non poteva non prendersi una piccola soddisfazione. “È figlia di sua madre. Io mi preoccupo per te.”

Dai una bacchetta ad una Weasley e insegnale le basi. Sbatterà il tuo sedere a terra prima che tu possa capire come.
 
****
 
Da qualche parte a Londra…
 
Svegliarsi con il fastidioso trillo di qualcosa che ti vibrava a due centimetri dalla guancia era forse peggio che svegliarsi con la voce fastidiosa del principino che chiedeva cibo e attenzioni come un dannato pulcino avrebbe fatto con la propria chioccia.
Milo emise un grugnito e rotolò sul fianco, schiacciando qualcosa o qualcuno accanto a sé. Attorno a lui sentiva odore di sigarette spente, alcool e succhi gastrici.
Ugh. Una festa, okay.
Alzandosi a sedere in un letto a due piazze non suo, in compagnia di un paio di teste arruffate – e ovviamente non sue – accettò la chiamata.
“Milo.”
E buongiorno anche a te, principino.

“No, ha sbagliato numero.” Biascicò passandosi una mano trai capelli e togliendone una molletta a forma di farfalla. “Sta parlando con l’anticamera dell’inferno.”
Il silenzio perplesso che sentì dall’altro capo del filo gli fece capire che l’altro non aveva capito la battuta.
“Mi scusi.” Iniziò pieno di riguardo. “Avrei bisogno di parlare…”
“Maddai, sono io. Ti stavo prendendo in giro!” Lo fermò trattenendo una risata, che aveva paura che il cervello finisse per esplodergli. “Non potevi mandarmi un messaggio?”

“L’ho fatto.” Fu la risposta seccata. Sören detestava quando qualcuno gli faceva notare la sua mancanza di prontezza di spirito. “Non hai risposto.”
Milo lanciò un’occhiata al display dolorosamente brillante e colorato su cui campeggiavano una serie di avvisi. “Ah, ma guarda, è vero.” Sospirò. “Di cosa hai bisogno?”

“Devi recapitare dei documenti qui al Ministero al posto mio.”
“Se è qui al Ministero, perché non ci vai tu?” Si guardò attorno cercando di capire dove si trovasse. La stanza era una camera da letto, ma il fatto che ci fosse gente stesa ovunque e una gigantesca papera gonfiabile gialla che lo guardava non gli dava alcun indizio risolutore.

Forse una residenza universitaria? Diamine, ho un black-out.
E a giudicare dal dolore al culo, non di quelli piacevoli.
“Sono lontano dal centro…” Buttò fuori un po’ a caso.
“Ed io non ho tempo. Oltretutto devo andare a prenotare la sala da duello per venerdì.”
“Ah, giusto.” Non potè fare a meno di fare un po’ lo stronzo, perché quando veniva svegliato in maniera così crudele, ne sentiva il bisogno fisico. “Certo che il tuo piano di prendere le distanze da Zenzero sta proprio funzionando alla grande.”
“Me l’ha chiesto.” Quando utilizzava il tono raggelante da Von Hohenheim era il caso di mollare il colpo. “Okay, ci vado.” Sbuffò alzandosi in piedi e chiudendo gli occhi quando sentì la stanza girare come una trottola. Stabilizzatosi si dedicò alla ricerca dei propri vestiti incastrando il cellulare tra spalla e orecchio, unico movimento sicuro che avesse al momento.
Lo faccio tutti i giorni con il violino. Sono il re dell’incastro.
E a quanto pare era ancora robustamente sbronzo.
Colazione robustamente britannica per me.
“Dove devo andare?” Chiese indossando i jeans e controllando che non avessero macchie disgustose o sospette; se doveva andare nel cuore magico di Londra non poteva esser fuori posto.
“All’ufficio Cooperazione Magica Internazionale. Devo consegnare il rapporto settimanale al mio agente di riferimento.”
“Non puoi spedirglielo via Gufo?”

“È una questione di protocollo. Deve essere consegnato a mano, e se data da terzi c’è bisogno di  una mia delega, che ti ho spedito un’ora fa. L’hai ricevuta?”
Milo si infilò la maglietta e trattenne un gemito quando vide che era strappata sulla spalla.

Era la mia preferita! Calvin Klein, non scontata! E mi fasciava le spalle da paura!
Non aveva idea di come fosse successo, ma il proprietario di quel posto – chiunque fosse – l’avrebbe pagata. Si fece quindi scivolare al polso un orologio dall’aria costosa che vide sul comò.
“Certo che sei proprio un genio.” Sbuffò. “Come fa un gufo a trovarmi se non ho una bacchetta che emette magia? È così che rintracciano voi maghi.” Sospirò esasperato. “Noi Magonò dobbiamo avere un indirizzo fisico e soprattutto, fisso.”
“ … Ah.” Il tono mortificato dell’altro riuscì quasi a spegnere l’irritazione continua che si sentiva bollire sottopelle.
Non è colpa sua se è un disadattato.
Ammirò il gingillo nuovo che gli scintillava al polso si sentì un po’ più a posto con il mondo. “Non preoccuparti, il gufo andrà al Paiolo Magico. Passo di là prima di andare al Ministero.” Così avrebbe potuto farsi una doccia e prendere un cambio di vestiti. “A chi devo consegnare questa roba?”
“Michel Zabini.”
Milo quasi scivolò su una pozza di liquido non ben identificato di fronte all’ingresso e dovette aggrapparsi allo stipite della porta per non battere una solenne craniata. L’imprecazione che ne conseguì fu dunque del tutto giustificata.

“ … che cazzo hai detto?”
La vocetta soffocata da idiota invece no.
“Michel Zabini.” Ripeté con precisione crudele Sören. “Vuoi che te lo descriva?”
No, grazie. Conosco di lui più di quanto ne sappia tu. O sua madre.
Si schiarì la voce. “Non … non serve, basta il nome.”  
Certo che però il caso è davvero una puttana.
L’idea di rivedere l’unico mago su suolo inglese che conosceva la sua identità – e quel che era peggio, ne era incuriosito – gli faceva venir voglia di prendere il primo treno diretto verso il nulla e sparire all’orizzonte.  Peccato non potesse.
Scapperei, sì. E per andare dove?
“Ti aspetto per pranzo?” Chiese per darsi un contegno. “Te lo faccio preparare?”
“No, sarò fuori città.” Ci fu una pausa. “Milo, per te è un problema?”
“Cosa, che pranzi fuori? Sì, principino, mi struggerò nell’attesa come una sposina trepidante.”
“Parlavo della commissione.” Lo fulminò. “È un problema?”

Per Faust, se n’è accorto. E se se ne accorge lui…
Era imbarazzante. Molto. “Sono reduce da una serata che a quanto pare ha coinvolto una papera gonfiabile, tre manichini e fiumi di vodka … sempre che il saporaccio che ho in bocca non mi inganni. Al momento è un problema anche allacciarmi le scarpe.” Contemplò lo stabile di mattoni a tre piani da cui era uscito. “Aspetta che chiedo dove sono.”
Quando chiese al primo passante disponibile indicazioni e gli venne risposto un enigmatico Battersea gli venne da ridere. “Okay, è ufficiale, non so come arrivare a Diagon Alley.”
“Milo…”
“Ehi, ehi. Mi arrangerò.”

Il sospiro che sentì all’altro capo del filo era piuttosto inopportuno, considerando che stava parlando con una persona che non aveva ancora preso la famigerata tube perché credeva che sprofondasse nelle viscere della terra. “Recapita quei documenti prima di pranzo, se ci riesci.”
Chiuse la chiamata e si stiracchiò. Nell’operazione, mostrare un dito al cielo – al Destino, o a un dio minore o chi per lui – fu doveroso.

 
****
 
Irlanda, Dublino.
Quartiere Magico.
 
“Tutto a posto?”
Scorpius lo chiese a Prince, che sembrava doversi ancora riprendere dalla Passaporta per arrivare in Irlanda. Più precisamente a Dublino, dato il proliferare di verde nel quartiere magico dove erano appena atterrati. Era sul serio tutto verde: dalle insegne dei negozi alle decorazioni nelle vetrine. Persino sui muri crescevano grappoli di trifogli rigogliosi e, manco a dirlo, molto verdi.
“Non hai aperto bocca da quando siamo usciti dal Ministero.” Aggiunse.

“È tutto a posto.” Gli mentì con disinvoltura.
Si strinse nelle spalle. “Senti, lo so che non siamo amiconi o altro … ma sei uno della squadra, e se c’è qualche problema … So che ti sembro un’idiota, ma…”
Sören lo guardò serio. “Non penso tu sia un idiota. Tutt’altro.”  

Wow, è vero quello che dice la piccola Potter … Quando parla intende al cento per cento ciò che dice.
“Sei stata l’unica persona, assieme a Lilian, che mi abbia sempre trattato con rispetto.” Continuò. “Te ne sono molto grato.”
“Per così poco!”
“Non è poco. Non per me.” Esitò. “È che … non sono molto bravo ad aprirmi.”

Sì, per eufemizzare.
Scorpius però non insistette, preferendo un’altra strategia. Si era fatto le ossa, con amici riluttanti a confessare i propri crucci. “Sappi che sei hai bisogno però sto qua, okay? Figurativamente parlando.”
Sören gli sorrise. “Avevo capito.” Fece un’espressione che sembrava nascondere un mal di pancia e poi gli allungò un’esitante pacca sulla spalla. “Grazie.”
Mi ha toccato! Spontaneamente! Sono tutto emozionato! Quanto lo saprà Rosie!  
Non disse nulla però, limitandosi ad un gran sorriso ed ad entrare nell’edificio che ospitava la banca centrale irlandese. Notò subito il Folletto giusto. “Quello lì. Ci guarda malissimo, è perfetto.”  

Quando arrivarono al banco la creatura li squadrò come se fossero cacca di Doxy. “I Signori desiderano?”
Scorpius, che c’era abituato date le visite alla camera di famiglia annuali, prese la bolla di indagine assieme al proprio distintivo e glieli mise sotto il naso adunco senza troppe cerimonie. “Auror Malfoy e Agente Prince. Veniamo dal Ministero inglese. Questa bolla ci garantisce l’accesso alla camera blindata di Ryan Connor. Abbiamo bisogno di vederla e di parlare con il Folletto assegnato.”
Il Folletto passò quello che sembrò un secolo ad esaminare i documenti e i loro distintivi. Scorpius sentì infatti Sören muoversi innervosito al suo fianco. Il modo di fare sospettoso del banchiere non doveva metterlo a suo agio. “Torno subito.” Proclamò prima di chiudere con un gesto secco la grata che li separava dal bancone.
“Qual è il problema?” Sbottò quando la creaturina se ne fu andata.
“Nessuno.” Lo tranquillizzò. “I Folletti, da che mondo e mondo, son tutti fatti così. C’è un motivo per cui non hanno negozi ma possono fare solo i banchieri. Non sanno proprio cosa sia il rapporto con i clienti.”
“Quindi?”
“Aspettiamo che quella bolla passi di mano in mano … o per farla semplice, che si stufino di averci trai piedi.” Si appoggiò al bancone, scrocchiandosi il collo e sbadigliando. Quando aveva deciso di fare domanda per l’Accademia si era immaginato che fare l’auror sarebbe stato un lavoraccio, ma non fino a quel punto. Ogni sera crollava sul letto con la testa leggera, e neppure quando il letto era della sua fidanzata trovava la forza di far cose più creative di una robusta dormita.
Quella mattina ad esempio si era svegliato solo perché Rose, nella fretta di prepararsi per uscire, gli aveva rovesciato addosso la pila di libri che teneva sul comodino.
 
“Merlino, scusa!”
“… tanto non avrei avuto reazioni neanche se mi avessi tirato addosso uno scaffale.” Aveva bofonchiato con la bocca seppellita nel cuscino. Aveva aperto un occhio e aveva avuto una visione della ragazza che saltellava su una gamba sola tentando di infilarsi una scarpa. L’aveva trovata bellissima.

“Sei bella anche se hai le calze rotte.” L’aveva informata. “Ti amo molto.”
“Porca Morgana!” Era stata la soave risposta mentre si era precipitata a frugare nel cassetto della biancheria per trovarne un paio nuove. “Ma tu non sei in ritardo?” L’aveva apostrofato con vaga accusa.

“Non stamattina. La Passaporta che devo prendere con Sören parte alle dieci.” Aveva sbadigliato, e rotolando su un fianco aveva ficcato la testa sotto il letto, per estrarre un paio di calze che le aveva poi porto. “Metti queste.”
Rose gli aveva sorriso sollevata, chinandosi per baciarlo a lungo. “Sei meglio di un segugio.”
“Se ti piacciono i segugi, Donnola sarebbe un perfetto animaletto per la nostra nuova casa.”

Rose aveva alzato gli occhi al cielo, finendo di indossare le calze e scacciando con una manata leggera il suo tentativo di cingerle la vita e riportarla a letto. “Quindi oggi fai coppia con Prince?” Non aveva aspettato la sua risposta alzandosi in piedi e Appellando la borsa. “Ricordati di chiedergli se pensa di rimanere in Inghilterra fino ad Agosto.”
“Perché?”

L’aveva guardato come se fosse tonto. “Perché devo sapere se verrà al matrimonio.”
Eh?
“Lo vuoi al nostro matrimonio?”
“Ieri stavo scrivendo gli inviti con Lily e Violet e quando non l’ha visto sulla lista ha chiesto spiegazioni.” Aveva fatto una smorfia. “In fondo ha ragione, è un tuo collega. È dalla nostra parte adesso.”
Scorpius aveva sorriso, sporgendosi per tirarla a sé. “La mia brava ragazza…” Le aveva baciato il punto più profumato del collo, dove metteva sempre due gocce di profumo. “Prince è un tipo fortunato ad avere un’amica come quella rossa.” Le aveva appoggiato il mento sulla spalla e aveva contemplato l’espressione incerta sul viso. “Cosa, Rosellina?”

L’altra aveva scosso la testa, baciandolo leggera prima di alzarsi. “Chiediglielo, okay?”
 
“… quindi ci saresti per il mio matrimonio?”
“Se le indagini continuano di questo passo non credo tornerò a Boston in tempi brevi…”  
“Ottimo! Cioè, non delle indagini.” Si corresse. “La parte divertente sarà l’addio al celibato, vedrai. Sarà bello avere qualcun’altro che apprezza le grazie femminili. Perché le apprezzi, mi ricordo bene?”
Sören sorrise divertito. “Non è un po’ il punto della festa?”
“Sì, ma il problema è che nella nostra generazione c’è stata una specie di epidemia gay … o forse sono io che faccio amicizia solo con gente che potrebbe potenzialmente concupirmi. Chissà. Dici che mi rende un narcisista?”
L’altro sembrava ad un passo dal mettersi a ridere, ma tra il luogo e il fatto che erano in servizio dovette sembrargli doveroso controllarsi. “Sei assurdo.” Disse comunque. “Tu e Milo andreste d’accordo.”
“Fammi indovinare, è gay.” Ad un cenno affermativo spalancò le braccia. “Vedi?”
Sören strozzò una risata quando la grata si alzò e il Folletto li avvertì che potevano seguirlo; a quanto sembrava era proprio lui ad occuparsi della camera blindata di John Doe.
Il viaggio verso la suddetta fu breve e non dissimile da quello che Scorpius doveva sorbirsi ogni qual volta accompagnava i genitori alle camere delle rispettive famiglie. Quando il Folletto di nome Onci aprì la gigantesca porta circolare, si trovarono di fronte al … niente.

“È stata ripulita.” Sentenziò Sören mettendovi piede. “Come il laboratorio.” Aggiunse con una nota cupa nella voce. “Johannes sta eliminando ogni sua traccia.”
“Comprensibile se i suoi datori di lavoro stanno rischiando di scatenare un’epidemia in Inghilterra … Come hai detto tu, sa che noi sappiamo che è coinvolto. Vorrà farsi terra bruciata attorno.” Commentò di rimando, passandosi le mani trai capelli in piena frustrazione. Si voltò verso il Folletto. “Cosa c’era dentro prima che venisse svuotata?”
“Varie cose.” Fu la risposta lapidaria e Scorpius si morse la guancia per non rispondergli a tono.
Non fare il Potty della situazione.
“Potrebbe essere più specifico?”
“Monete, artefatti magici … non arte dei Folletti.” Ci tenne a precisare. “Le solite cose che sono in tutte le nostre camere.” Gli rivolse un sorrisetto sgradevole. “Ma forse i Signori vogliono vedere l’inventario.”
E perché diavolo non ce l’hai mostrato subito?

“Sì, grazie.” Rispose a denti stretti.
Odio i Folletti.
Scorrendo il documento con lo sguardo mentre Sören gli si affiancava per imitarlo, fischiò. “Era piena. Von Hohenheim lo pagava bene … e anche questo nuovo lavoro sembra fruttargli un bel po’.”
Troppo bene.” Osservò confuso il collega. “Vi sono registrati anche manufatti di valore. Che io sappia non ne ha mai posseduti, ha sempre preferito denaro contante e dubito che venga attualmente pagato con quelli.”
“È possibile che li abbia rubati?”

“A mio zio? Forse.” Convenne. “Non sarebbe da escludere che in qualche modo abbia avuto accesso alle fortune della famiglia e se ne sia appropriato… Non credo che il Ministero tedesco sia riuscito a recuperarle tutte. Però non avrebbe tenuto niente, li avrebbe venduti. Non è mai stato un collezionista.” Gli occhi si fermarono su una foto che documentava una serie di gioielli in particolare e Scorpius lo sentì trattenere il respiro. “Questi gioielli … me li ricordo.” Passò le dita sul riquadro lucido della foto in bianco e nero. Scorpius vi diede un’occhiata: si trattava di due braccialetti di pietre dure e una collana di perle. Monili da donna. “Li ho già visti.”
“Dove?”
Sören distolse lo sguardo e lo posò su un punto fisso di fronte a sé.
“Addosso a mia madre.”
Ah…

Certo, non era una cosa carina da scoprire.
“Beh, allora li ha rubati.”
“Non è possibile.” Scosse la testa e se la confusione aveva un volto, era quello di Sören Prince. “Mio zio li fece seppellire con lei.”

 
****
 
Ministero della Magia. Dipartimento Applicazione Legge sulla Magia.
Ufficio Cooperazione Magica Internazionale. Ora di pranzo.

 
Michel firmò con un movimento preciso e ormai automatico l’ennesima fila di fogli tutti uguali, facendoli levitare nell’apposita cartellina che timbrò poi con un sapiente colpo di polso.
Un timbra carte. Loki non ha tutti i torti a chiamarmi così.
A malapena sentì bussare alla porta, e fu la sua collega di stanza che dovette andare ad aprire, non prima di avergli lanciato un’occhiata oltraggiata.
No, me ne frego dell’anzianità.
Appena la megera se ne fosse andata in pausa pranzo ne avrebbe approfittato per chiamare Ethan Scott e ragguagliarlo su Prince; non aveva molto da dirgli, ma gli aveva promesso una chiacchierata informale di tanto in tanto.
E comunque voglio lavorarmelo. Non ho la minima intenzione di passare i miei giorni qua dentro.
“Michel, è per te.” Lo riscosse la collega.
Giusto. È il giorno di report dell’agente Pri…
Il pensiero rimase bloccato a mezz’aria quando si accorse che il mago che aveva di fronte non era quello che si aspettava.
Non è un mago.
Emil Von Houten era a due passi dalla sua scrivania, con le braccia incrociate e un broncio da bambino davanti ad un Decotto Tiramisù. Paragone migliore non poteva trovarlo. Rimasero a fissarsi prima che il tedesco si schiarisse la voce e gli porgesse una cartellina. “Per te. Da Prince.”
“… Come?” Era certo di sembrare un ritardato, ma non riusciva a riprendersi dalla sorpresa.

Pensavo non l’avrei più rivisto…
Non che fosse contento di averlo lì, affatto: l’umiliazione era stata troppo cocente, persino per poter essere dimenticata con un whiskey incendiario, per quanto insolitamente offerto da Loki.
Von Houten si era preso gioco del suo tentativo di stabilire un contatto che sì, era stato forse patetico, ma certo non aveva meritato tanta acrimonia.
Era furioso, ovviamente.
“Per te. Da Sören Prince.” Ripeté con tono annoiato, porgendogli la cartellina.  
Ma va’ al diavolo.
Consapevole della collega a pochi passi di distanza che li stava occhieggiando fingendo di lavorare alla scrivania, si riscosse e approntò la sua migliore smorfia professionale. Albus diceva che lo faceva sempre sembrare snob. Al momento era la sua unica difesa. “Avrebbe dovuto venire di persona…”
E tu come lo conosci? Va bene, sono entrambi tedeschi, ma…

“Per questo ho una delega. Apri la cartellina, è il primo foglio.” Si strinse nelle spalle. “Ho bisogno che tu mi lasci una ricevuta.” Aggiunse.
“Ovviamente.” Fece il giro della scrivania, cercando di racimolare idee e contegno. “Prendo il modulo. Si accomodi.”
Un lampo divertito passò negli occhi dell’altro. “Addirittura del lei…” Mormorò, abbastanza basso da poter essere udito solo da lui. Michel si rifiutò di sentire un nodo allo stomaco e la pelle d’oca.

Inutile che fingi. Sei attratto. È l’unica cosa di cui sei sicuro, no?
Compilò il modulo seguendo i dati contenuti nella delega.
“Milo Meinster.” Lesse lanciandogli un’occhiata. “Meinster era parte del tuo cognome…” Non poté fare a meno di osservare.  
“Meinster è comunissimo da dove vengo. È il vostro Johnson.”
“Continui a negare l’evidenza?” Frecciò e fu soddisfatto nel vedere come l’altro serrò la mascella. “Mi sembra di averti già detto che non sono un giornalista a caccia di scoop.”
“Questo lo vedo.” Si guardò attorno. “Sei un topo da Ministero.”

“Un diplomatico.” Lo corresse cercando di tenere il tono basso. L’ultima cosa che voleva era che la megera in ascolto lo usasse come argomento per spettegolare in mensa. “Perché sei qui?”
“Un favore ad un amico.” Non si sbilanciò. Si ficcò le mani in tasca e fece un passo in direzione della scrivania. Da quella posizione torreggiava sopra di lui, e l’impressione era bizzarra. Lo metteva a disagio quanto lo intrigava.

Nessun Magonò ha tanto carisma.
“Prince è tuo amico?”
Emil non rispose, passando invece un dito lungo la sua targa. “Sei un ficcanaso di natura o il privilegio è tutto mio?” Chiese e Michel dovette inghiottire un grumo di saliva mentre vergava la propria firma sul documento. La memoria giocava brutti scherzi quando gli segnalava a chiare lettere cosa quell’indice aveva percorso per tutta la sua lunghezza.
Dannazione.
Tuttavia non era un verginello eccitabile e poteva mantenere il controllo, almeno in superficie. “Mi scuserai se sono curioso…” Esordì colando la ceralacca sulla pergamena e premendo il sigillo del Ministero sulla bolla calda. “ … ma vorrei sapere come una persona del tuo talento sia finita a fare da assistente personale ad un ex carcerato.”
Non sei l’unico ad avere delle carte nel proprio mazzo.

Il tedesco per tutta risposta si sporse sulla scrivania e Michel sentì distintamente quella stramaledetta cretina della sua collega trattenere il respiro. Non poteva biasimarla dato che lo stava trattenendo anche lui.
Dicevi del timido verginello?
“Una buona paga.” Gli sorrise pigramente. “E comunque ci sono lavori peggiori.” Soggiunse. “Tipo il tuo.”
Non ebbe il tempo di indignarsi che Emil si tirò su di scatto, sfilandogli la cartellina da sotto mano. “Bene, se è tutto le auguro giornata Signor Zabini. Signora.” Salutò con un cenno deferente della testa la sua collega e poi si incamminò fuori.
Michel si morse le labbra, sentendosi patetico. Perché era patetico.
Dannazione.
Non gli avrebbe lasciato quella chiusura, non gli avrebbe permesso di avere l’ultima parola. Oltre l’orgoglio c’era l’irrefrenabile desiderio di rivalsa.
O di essere notato?
Si alzò e gli andò dietro, premurandosi comunque di mantenere un’andatura naturale, anche se spedita.
Non gli sto correndo dietro. Affatto.
“Emil.” Lo chiamò quando lo raggiunse abbastanza da ricordare che spalle notevole avesse. “Aspetta.”

Il maghetto stronzo l’aveva seguito. Inseguito a dirla tutta ed era un fatto talmente sorprendete che Milo dimenticò la prudenza e si voltò.

Era dannatamente Purosangue, con quel suo completo inamidato e le movenze da casta privilegiata. Eppure negli occhi da orientale vi leggeva qualcos’altro, qualcosa che non sapeva di ricordi amari e vedute ristrette, ma di…
Sì, vabbeh. È stata una grandiosa scopata. Non fartici castelli in aria, sì?
“Cosa maghetto?” Allargò le braccia. “Dimenticato qualcosa?”
L’altro esitò ed era così evidente che non sapesse cosa dirgli, ora che era riuscito ad attirare la sua attenzione, che gli fece quasi tenerezza. “Io…” Lo guardò stizzito, come se la momentanea afasia fosse colpa sua. “A dire la verità, sì.” Prese una decisione da come fece un mezzo sorriso. “Ti intendi di strumenti antichi?”
… Eh?
Qualsiasi cosa avesse in mente, valeva la pena indagare. “È così che di solito rimorchi? Perché chapeau per l’originalità…”
Il sorriso dell’altro sfumò in un ghignetto divertito. “Non mi serve trovare argomenti di conversazione, di solito …  sono gli altri che lo fanno per me. O mi sbaglio?”
Touché.

Bisognava dunque dimostrargli che sapeva perdere con classe. “Dipende da che strumento intendi.”
“Diversi in realtà.” Si strinse nelle spalle. “Mia nonna, Amara Zabini … è sempre stata appassionata di musica. Una passione che gli ha trasmesso il suo quinto marito che, alla sua morte, le ha lasciato una collezione di strumenti antichi. Era un italiano. Camillo Guallazzi, forse ne hai sentito parlare.”
Milo inarcò le sopracciglia, ripescando quel nome tra le  sue memorie infantili. “Guallazzi il collezionista di…” Tacque, ammutolito, realizzando la portata dell’informazione che l’altro gli aveva così graziosamente scaricato.

“Per il mio dodicesimo compleanno me l’ha regalata.”
“La collezione Guallazzi.” Deglutì cercando di azzerare la salivazione per non sbavare come un molosso. “Non l’ho vista a casa tua.” Ritorse.

Michel si strinse nelle spalle. “Questo perché non sei andato oltre la mia camera da letto.”
Ma vaffanculo.

C’era una parte di lui che però plaudiva al modo in cui gli aveva servito quella trappola, corredandola tra l’altro di frecciatine intelligenti e non volgari.
Andiamo, apprezzi lo stile, ammettilo.
“Quindi?” Tagliò corto, che non aveva intenzione di restare un’eternità in quel corridoio bianco come un incubo, seppellito metri e metri sotto terra.
“Posso mostrartela.” E dietro l’aria condiscendente da grazioso sovrano, Milo lesse aspettativa, e una buona dose di speranza.
Guarda tu … era davvero mio fan allora.
Non sapeva se esserne inquietato o lusingato. Per buona misura decise di essere comunque prudente: era la prudenza che l’aveva fatto rimanere fuori dal radar per tutti quegli anni e non aveva la minima intenzione di cambiare le cose, neppure per un bel faccino o una collezione di strumenti antichi.
“E se non me ne fregasse niente?”
“Ho un Guarnieri¹ del Gesù del 1719.” Incrociò le braccia al petto e dovette gustarsi ogni parola che pronunciò. “Condizioni perfette. Posso fartelo suonare, se vuoi.”
Milo percepì il suono della sua disfatta; prevedibilmente, era la voce di un violino.

 
****
 
Diagon Alley, Archivio Ministeriale.
Caffetteria. Ora di pranzo.
 
Scott Ross si riteneva un bravo ragazzo.
E non se ne vergognava mentre sorseggiava the freddo aspettando che arrivasse la sua dolce metà per pranzare.
C’era questa sotto-cultura secondo cui le donne desideravano il tipo tormentato, quello che faceva loro piangere fiumi di lacrime di fronte ad un chilo di gelato… ma aveva sempre pensato fosse una cavolata; una donna sognava l’amore appassionato ed epico, certo. Quello che molti non capivano – e modestamente, lui sì – e che non era disposta a tenerselo nel lungo periodo.
Lo insegnavano i libri: i grandi amori romantici, la totale mancanza di freno e le passioni travolgenti si evolvevano, di solito, in finali tragici e morti premature.
E nessuno vuole morire per amore. Non davvero. 
Per questo motivo aveva sempre rivendicato il suo essere un tipo coi piedi per terra: le ragazze normali sognavano il bello e impossibile, ma poi sposavano quello capace di dar loro una casa e dei figli.
Questa sua teoria non aveva fatto altro che consolidarsi negli anni, tra amori importanti e storielle passeggere e poi, nell’inverno dei suoi ventisei anni, era arrivata Lily Luna.
Lily, minuta, dai capelli color delle fiamme, il sorriso contagioso e l’intelligenza vivace. Lily Luna, consapevole del suo effetto sugli uomini e che gridava guai lontano un miglio. Lily Luna, la sua ragazza ideale. L’aveva capito nel momento stesso in cui sua zia Minnie gliel’aveva presentata.
 
“Arrivi giusto in tempo per il the, Scott.”
Far visita a zia Minnie era un po’ la corvee doverosa di ogni nipote McGrannit-Ross, ma Scott non l’aveva mai vista come un’imposizione. Per questo, di contraccambio, si era meritato la palma di nipote preferito.

“ … ti presento Lily.” E quando la ragazza si era alzata, sorridendogli, Scott si era trovato automaticamente a stendere la mano.
“Piacere, ma tu sei…”  
“Lily Luna Potter.” Aveva terminato per lui, stringendogli la mano con la forza che si addiceva alla figlia del Salvatore. Le dita morbide gli avevano accarezzato il palmo quando l’aveva sciolta. Aveva dovuto ricordarsi di lasciarla andare. “Tu sei il ragazzo d’oro di Minerva, invece. Mi ha parlato di te.”
“Beh, allora siamo pari.”
“Come se già ci conoscessimo.” Gli aveva sorriso suggestiva: era ufficiale, non se l’era immaginata la stretta, Lily stava flirtando con lui. Non ne era infastidito – sarebbe stato un’idiota, dato che la ragazza era attraente: era solo un po’ perplesso dal contesto.  

Tra gatti e tartan…
“Spero ti piaccia la Dundee Cake.” Si era trovato a dire impacciato.
Lily non era parsa infastidita dalla sua uscita imbranata, non da come gli aveva sorriso gentile. “È la mia preferita. Vado a tagliarla, Minerva?”
“No, ci penso io. Voi ragazzi siete ospiti … sedetevi e versate il the.”

E di colpo Scott si era reso conto di essere stato più o meno incastrato in un appuntamento al buio.
Quando si erano seduti, lui e Lily si erano scambiati un’occhiata consapevole per poi scoppiare a ridere. “Giuro, neanche in mille anni avrei pensato che mia zia … beh, si impicciasse della mia vita sentimentale!”    
“Mi sento lusingata di esser ritenuta degna del famoso e perfetto Scotty allora.” Aveva replicato l’altra versandogli il the. “Devo proprio essere un’eccezione.”

Si era stretto le spalle, capendo che aveva davanti la tipologia di strega fin troppo sicura di sé e che la doveva tenere sul pezzo per non farsi sopraffare. “Ex studentessa?”
“Prevedibile, vero? Ero terribile con tua zia, penso di averla fatta impazzire. E l’ho avuta solo per un anno.” Si era riempita la tazza e poi l’aveva presa tra le mani, senza bere. Per un attimo era tornata seria contemplandola. “Mi ha aiutato un sacco, in realtà. Lo sta ancora facendo.”
“È sempre stata una buona ascoltatrice.” Non si era sbilanciato, ma zia Minnie sarebbe tornata in pochi attimi, e doveva calare le sue carte in fretta. Non aveva intenzione di fare la figura del tipo bisognoso di aiuto esterno per combinare con una ragazza. “Se te lo chiedi, lo sono anche io.”

Lily gli aveva lanciato un’occhiata complessiva e doveva esserle piaciuto quel che vedeva perché aveva sorriso di nuovo. “È una buona qualità.”
“E si esprime al suo meglio davanti ad un caffè. E di pomeriggio.”

“Qua non c’è caffè però.”
“Beh, allora dovremo rimediare.”

 
Lily non si era fidata subito. L’aveva capito da come, nonostante gli appuntamenti si fossero susseguiti e che la camera da letto fosse stata quasi subito un’opzione, la sua interiorità fosse rimasta ben protetta. C’era una bella differenza tra il togliersi i vestiti e scherzare su un film e sapere di essere importanti l’uno per l’altro.
All’inizio aveva supposto che il problema fosse come la gente di solito reagisse al fatto che era la figlia di Harry Potter. Non aveva sbagliato del tutto: quel problema però era stato affrontato e risolto dopo il primo mese, quando le aveva fatto capire che non era interessato a lei e non a suo padre.
Era stato venire a conoscenza dell’anno buio il vero giro di boa. L’anno in cui la sua ragazza aveva perso fiducia nel genere umano.
Non che gliel’avesse mai messa in quei termini, ma aveva fatto due più due dopo un paio di allusioni da parte di amici e fratelli, atteggiamenti sfuggenti e il fatto che fosse una paziente di una Psicomaga.
Lily era stata ferita a fondo, ed era una sfida continua convincerla che non sarebbe capitato con lui.
Ma la sto vincendo. O meglio, la stavo vincendo finché
Finché Sören Prince non aveva fatto la sua comparsa.
Scoprire chi era il tedesco, cosa aveva fatto e cosa aveva intenzione di fare non gli era piaciuto: sembrava un tipo a posto – passato inquietante a parte – ma non era quello il punto.

Il punto è che si è messo in mezzo.
Da quando era tornato in Inghilterra Lily aveva perso la bussola: aveva fatto un sforzo eroico nel non farglielo notare e le credeva quando diceva che non c’erano motivi di esser geloso, tuttavia il legame trai due era innegabile. Lily non l’aveva mai visto – checché ne dicesse lei – come uno dei colpevoli. Ma una vittima, come lei.
E non c’è modo di fargliela pensare diversamente.
Per questo doveva pensare ad una strategia per non esser tagliato fuori da quella nuova svolta di trama.
Perché amava Lily, anche con le sue paure e la sua ossessione per un ragazzo sbagliato.  
“Ehi, ragazzone.” Sentì un bacio sulla nuca e si trovò di fronte il sorriso luminoso della sua ragazza. “Pensi a me?”
“No, ad un’altra rossa con gli occhi chiari e l’abitudine di sorprendermi alle spalle.” Scherzò tirandosela contro per un bacio. “Sei in ritardo.”
Lily gli passò un dito sulla guancia. “Elegante ritardo, prego. Wilkins …”
“Un paziente.” Convenne. “Va bene, perdonata. Il lavoro è la scusa valida universale.” Mentre gli si sedeva di fronte spinse il the ghiacciato nella sua direzione. “Anche perché hai corso per venir qui.”
“E una Materializzazione.” Convenne sfilandosi gli occhiali da sole e bevendo un sorso grato con un sorrisetto di scuse. “Me lo offri comunque il pranzo?”

“Sei più ricca di me, un povero e spiantato archivista. Parità dei ruoli?” Propose facendola ridere perché sapevano entrambi che avrebbero finito per pagare a metà. Passarono qualche minuto a chiacchierare del più e del meno e confrontare le rispettive giornate lavorative, poi Scott decise che era ora di mettere in atto il suo piano.
“Questo Weekend, Glasgow, che ne dici? Patrick e Rita ci potrebbero ospitare.”
L’esitazione di Lily fu praticamente una risposta.

“Questo venerdì dovrei iniziare quella cosa del duello con Ren…”
“Ah.” Era importante, e lungi da lui l’idea di togliere a Lily la possibilità di sentirsi più sicura; si era accorto di quanto la faccenda al San Mungo l’avesse spaventata e non la facesse dormir bene, per quanto  avesse tentato di tenerglielo nascosto.
Non sei sottile come pensi di essere, piccola…
Sarebbe stato il primo a supportarla se l’intera faccenda non fosse ruotata, prevedibilmente, attorno al dannatissimo Sören. “Beh, dai, non fa niente.” Disse con il suo miglior tono ferito, convincente perché sincero.
Farla sentire in colpa non sarà tanto giusto … ma qui bisogna combattere con quel che si ha.
Lily infatti gli prese subito la mano, stringendola. “Senti…” Iniziò. “Se partiamo sabato potremo restare fino a lunedì mattina. Posso prendermi una mezza giornata visto che sto facendo ore extra.”
“Sicura?”
Lily si sporse per baciarlo. “Sicura.” Mormorò. “Fare una pausa da Londra mi farà bene.”
“Sono d’accordo … Hai bisogno di staccare un po’, piccola. Questa città riesce a divorarti il buon’umore.” L’avrebbe portata anche all’altro capo del mondo se fosse stato necessario a farle ritrovare la tranquillità. Per il momento, Glasgow era un buon compromesso.
Lily gli sorrise. “Allora è deciso!”
“Non ci portiamo dietro Ren?” Non poté fare a meno della frecciatina, comunque attento a mantenersi su un tono scanzonato. Si rimediò uno schiaffo sulla spalla ed un’occhiataccia.
Ops, LeNa.
“Non fare lo scemo.” Borbottò. “Posso avere degli amici maschi, sai?”
“Sarò sempre geloso di un ragazzo che passa del tempo con la mia ragazza.” Ammise con franchezza intrecciando la mano alla sua. “Spiacente, è nei miei geni.”   

“Nel tuo testosterone vorrai dire.” Sbuffò, ma non era arrabbiata da come ricambiò la stretta.
Era questo essere un bravo ragazzo, per Scott: supportare, comprendere … e giocare d’astuzia.
Senza offesa, Ren. Ma no, a Glasgow non vieni. Il posto è già occupato.
 
 
****
 
Piccadilly Circus, Pomeriggio.
 
Non avrebbe dovuto accettare l’offerta del maghetto stronzo di rivedersi appena avesse staccato dal lavoro.
Milo ne era consapevole ma un Guarnieri del Gesù era un’offerta troppo ghiotta.  
Stai facendo una stronzata. Vattene.
Emil Von Houten risultava morto per il Mondo Magico, e l’idea di riesumarlo a beneficio della curiosità di un inglesino era una pessima, pessima idea.
Guardò le lancette del suo nuovo orologio e buttò la sigaretta.
Vattene adesso.
Lo stava per fare quando sentì dei passi avvicinarsi.
Troppo tardi.
Voltandosi se lo trovò di fronte, in un trench scuro che doveva servire a nascondere gli abiti magici e da solo doveva valere due mesi del suo stipendio. Fece per formulare una battuta salace al riguardo, quando il ragazzo gli sorrise apertamente. C’era sorpresa e sollievo nella sua espressione e non doveva mostrarli troppo spesso da come si spense subito, imbarazzato.
Oh, la vecchia e sana educazione Purosangue … Sii un costipato bastardo.
“Sei in ritardo, me ne stavo andando.” Disse invece.
Il mago inarcò le sopracciglia. “Non sono in ritardo.” Da lontano, quasi a conferma, suonarono le campane di qualche chiesa segnalando le sei in punto. “Dì piuttosto che volevi trovare una scusa per dartela a gambe.”
“Se stai cercando di renderti simpatico ti avverto che stai facendo un lavoro di merda.”
Zabini – meglio chiamarlo per cognome – gli rivolse un sorrisetto urtante. “Non sei la prima persona che me lo dice.” Ammise tranquillo e prima che potesse ribattere gli fece cenno con la testa. “Troviamo un posto riparato.”
“Guarda, sarò sincero, sono in post sbronza … non ce la faccio proprio ad offrirti una sveltina.” Motteggiò rimediandosi un’occhiataccia.

“Per Smaterializzarmi.”
“Non credo proprio.” Replicò. “Io quella roba non la faccio. Casa tua, se non ricordo male, non è molto distante da qua.”

“È ad un’ora a piedi!” Ribatté sconcertato.
“Beh, possiamo sempre prendere la vostra tube.”
L’occhiata che gli venne rivolta sarebbe stata adeguata ad una minaccia di morte. “Io non uso mezzi di trasporto Babbani.” Gli venne sibilato.

“Che peccato. A me comunque non dispiace camminare.” E prima di dargli tempo di rispondere attraversò le strisce. Dopo una sentita imprecazione l’altro lo seguì scuro in volto.
Vuoi conoscermi? Mai detto che ti avrei reso le cose semplici.
Dopo un paio di minuti di marcia ostile, Milo realizzò che il maghetto non era abituato al traffico del centro di Londra, per quanto vi vivesse a lato; alla seconda volta che quasi rischiò di essere falciato da una selva di macchine impazzite, ebbe pietà di lui e lo afferrò per la cintura del trench.
“Vuoi che ti tenga la mano?” Lo prese in giro. “Andiamo, vivi in un quartiere Babbano … non dirmi che non ti sei mai fatto un giretto a piedi.”
“Non di un’ora a mezzo e non nell’ora di punta.” Soffiò come un gatto a cui era stata pestata la coda.  Che caratterino.

Prevedibilmente, come tutti i ragazzini ricchi e viziati detestava essere contraddetto e le novità fin nelle profonde fibre del suo essere.
Una volta anch’io ero così.  
Fu per quella sorta di malmessa empatia che decise di allentare un po’ la corda. “Dai, stammi a fianco invece di camminare tre passi davanti a me. La strada la conosco.”
“Ti ricordi dove abito?”
Ti prego, non dirgli che ci sei rimasto tanto scottato da esserti mappato quel fottuto quartiere per evitare di incrociarlo per sbaglio.

“Ho una buona memoria.” Tagliò corto afferrandolo per l’incavo del gomito quando tentò per l’ennesima volta di suicidarsi ad un attraversamento pedonale. Si maledì quando lo vide sorridere tra sé e sé.
Beh, non è un cretino e la tua diversione faceva pena.
“Come hai conosciuto Prince?” Gli venne chiesto all’altezza del Tamigi, quando il traffico si era un po’ diradato tra viali alberati e palazzi vittoriani.
“L’ho rimorchiato in un bar.”
Scusa principino.

“Fammi il favore.” Sbuffò l’altro roteando gli occhi al cielo. “È tragicamente etero.”
Sì, in effetti non c’è neanche una goccia di sangue arcobaleno in quel povero ragazzo. Quei capelli … e quei vestiti. Soprattutto i capelli.
“Sei il suo agente di controllo, sai la sua storia, no? Gli serviva una balia che lo aiutasse a non inciampare nei suoi stessi piedi quand’è uscito, ed io ero disponibile. Non c’è molto da dire.”
“No, immagino di no.” Acconsentì tranquillo, dato che era evidente avesse tirato fuori l’argomento solo per non rimanere in silenzio. In quel momento il cielo, già di un grigio plumbeo inquietante, decise di graziarli di uno scroscio d’acqua gelato.
“Voi inglesi avete fatto incazzare madre natura o cosa?” Sbottò stringendosi le braccia al petto e maledicendo il suo post-sbronza che gli aveva fatto dimenticare l’ombrello alla locanda.

Michel gli rivolse un’occhiata divertita, prima di far Apparire un ombrello che aprì sopra le loro teste. “Sei stato tu a voler camminare.”
Gli avrebbe tirato un pugno. Il mago, forse intuendo i suoi pensieri, alzò gli occhi al cielo. “Di solito sei così charmant o è un privilegio che riservi solo al sottoscritto?”
“Non sei così speciale, maghetto, tranquillo.”
Si chiusero entrambi in un silenzio maldisposto, e Milo si chiese se i postumi della sera prima non gli avessero fatto davvero andare il cervello in pappa.

Che cazzo, è ufficiale, fuori da un letto non ci sopportiamo. Chi te l’ha fatto fare?
Va bene il Guarnieri, ma…
Quando entrarono nell’appartamento Zabini sembrò voler dire qualcosa, ma ci rinunciò preferendo fargli cenno di seguirlo. “Di qua.”
Si fermarono di fronte ad una libreria in acciaio, con dentro abbastanza volumi da non sembrare di facciata, ma non tanti da far disordine.
Mi ci scommetto le palle … Non sono mai stati sfogliati.
L’altro estrasse la bacchetta e dopo un complicato movimento gli scaffali si dissolsero per lasciar spazio ad una porta. “Tengo la collezione qui.” Gli spiegò. “Ragioni di sicurezza.”
Questa casa ha visto un bel po’ di ospiti di cui il padrone non conosceva neanche il nome, ricevuto.
Milo si preparò ad un ambiente impostato e senz’anima come quello che aveva appena passato; rimase invece di stucco quando entrò in una stanza in cui il legno scuro faceva da padrone, così come tappeti morbidi e mobili d’antiquariato, restaurati a tal punto che sembravano usciti dalle mani di un artigiano solo pochi giorni prima. Dietro due poltrone Chesterfield di cuoio rubino, l’intera scena era dominata da un pianoforte a coda e un’elegante giradischi con la classica tromba d’ottone. Non sembrava esser stato messo lì come mero pezzo d’arredamento a giudicare dai casellari ricolmi di dischi che vedeva dietro di esso.
Okay. È un appassionato.
“Adesso capisco perché la nascondi.” Formulò riprendendosi dalla sorpresa. “Fa a pugni con il resto.”
Il mago sorrise, togliendosi l’impermeabile e gettandolo su una delle poltrone. “È la vecchia sala da musica di mia nonna … Oltre alla collezione mi ha regalato tutta la stanza.”

“Generosa.”
Un lampo di dolore passò nelle iridi scure dell’inglese e Milo per evitare l’imbarazzo di doversi scusare si guardò attorno; da piccoli oggetti personali, come una tazza di the ancora mezza piena, un libro aperto di faccia sul tavolino accanto alle poltrone e un disco ancora sul piatto era chiaro che quello non fosse solo un museo di strumenti grandiosi …

Qui ci passa del tempo.
Si schiarì la voce, sentendosi osservato. “Beh, questo Guarnieri?”
L’altro annuì e si avvicinò ad una delle vetrinette smerigliate. Con un colpo di bacchetta la aprì e a Milo si sentì azzerare la saliva. Accuratamente posati su supporti in legno stavano un set parziale di archi.
E se non sono tutti Guarnieri …
Quella è una viola d’amore?
Michel gli lanciò un’occhiata sopra alla spalla e doveva avere una faccia spettacolare se abbozzò una risatina. “Stai sbavando.” Gli fece notare.
“Non dovrei?” Borbottò. Erano anni che non vedeva strumenti di quel livello e gli prudevano le mani dalla voglia di metterci le mani sopra. Michel parve intuire, perché prese uno dei violini e glielo porse.
“Il Guarnieri.”  
Uno strumento non era mai solo uno strumento; quando toccavi un violino di quel pregio era come respirare la stessa aria degli esecutori che per generazioni l’avevano preso in mano e vi avevano tratto note. Era come tornare indietro nel tempo.
E diavolo, era la sensazione più simile ad un orgasmo che ci fosse.
“Ottima conservazione.” Mugugnò tanto per dire qualcosa, che lo stava guardando come se si stesse godendo un film avvincente.
Vuoi dei popcorn?
“È stato messo sotto incantesimo.” Rispose. “Molto meglio che conservarlo in una teca climatizzata. È come il giorno che è uscito dalla bottega …”
“È sempre stato in mano ai maghi quindi.” Il che, al di là delle sue idiosincrasie personali, era il destino migliore che potesse capitare ad uno strumento del genere.

Niente da fare, i Babbani non sanno gestire l’usura del tempo.
“Che io sappia sì.” Michel lo guardò di sottecchi. “È accordato.”
“Questo lo vedo.” Alzò gli occhi al cielo, capendo dove voleva andare a parare. “Vuoi che lo provi?”

“Perché, ti basta tenerlo in mano? Non vuoi giocarci?” Milo, che aveva la testa da tutt’altra parte, non registrò subito il doppio senso, arrivandoci confuso come un verginello alle prime armi.  
… oh. Ah!
Sbuffò. “Hai anche un archetto o ti aspetti che lo suoni coi denti?”
“Non ti azzardare.” Motteggiò. L’atmosfera si era distesa e mentre Michel – non Zabini – si chinava per cercarglielo, Milo si trovò nella scomoda posizione di non guardargli solo il sedere, ma di sentirlo affine.
Ama la musica come te, bello mio. Quanto te.
E questo poteva essere un problema.
 
Per quanto fosse un arrogante pieno di sé, Emil Von Houten era un professionista o almeno, una parte di lui lo era ancora.
Perché quando prese l’archetto e appoggiò il violino sulla spalla, chiedendogli un fazzoletto per non rovinarlo, trasfigurò nel ragazzino che ricordava. “Cosa vuoi che suoni?” Gli chiese, ma doveva essere un riflesso più che una vera domanda.
Suonava nelle taverne per guadagnarsi da vivere.
Ma lui non era un avventore da taverna. “Quello che vuoi tu.” Replicò registrando soddisfatto la conseguente occhiata sorpresa. “Mi piacciono molto i tedeschi, ma non ho particolari preferenze.”
“Farsi piacere i compositori tedeschi è avere una preferenza.” Gli fece notare e Michel registrò come non avesse colto l’allusione servitagli su un piatto d’argento.

Quindi l’aria da idiota strafottente è una maschera.
“Tu quali preferisci?”
“Gli italiani. Sono più divertenti da suonare.”
“Potresti suonare Vivaldi…”
“Prevedibile.” Sogghignò. “Le quattro stagioni, ci scommetto.”
“Non vedo perché dovrei vergognarmi di amare musica prevedibilmente stupenda.”

Per Michel era una sensazione inebriante poter chiacchierare di qualcosa che di solito, tra amici troppo contemporanei e salotti Purosangue, doveva tenere chiuso dietro una porta Disillusa.
E lo stai facendo con Emil Von Houten.
“Vero.” Ammise quest’ultimo con un mezzo sorriso. Poi attaccò quello che riconobbe come il primo movimento dell’Inverno di Vivaldi: un’esecuzione energica, perfetta sin dalle prime note nonostante non si fosse scaldato con degli esercizi preparatori.
I giornali non sbagliavano, né mi ricordavo male io … Era ed è ancora quel prodigio.
Lo lasciò fare, sedendosi ed accendendosi una sigaretta. Non contò i minuti che passò ad ascoltarlo, ma di certo furono molti perché quando Emil staccò l’archetto dalle corde fuori era buio.
Non dovette essere il solo ad accorgersene, perché il tedesco sembrò a disagio. “Bello strumento.” Lo posò sul tavolino accanto a lui con premura. “Un Guarnieri, nessun dubbio.” Fece una pausa. “Dovrei andare…”
Gi stava di nuovo sfuggendo dalle mani: e dopo quello che aveva sentito, dopo il talento di cui era stato omaggiato, non poteva accadere. “Puoi tornare a suonarlo quando vuoi.”  

Emil gli lanciò un’occhiata diffidente, ma non era rivolta a lui, quanto a ciò che rappresentava: Purosangue, mago e pieno di pregiudizi. “Che ci guadagni?” Buttò fuori ficcandosi quelle mani straordinarie in tasca, a fondo, quasi a volerle proteggere.
Decise di giocare a carte scoperte. “L’ascoltarti. E prima che tu dica che non sei una scimmietta ammaestrata…” Aveva indovinato a giudicare dall’espressione oltraggiata che gli venne restituita. “Non organizzerò eventi né informerò i giornali. Sei la prima persona che porto in questa stanza e rimarrai l’unica, hai la mia parola.”
Non ci siamo scoperti un po’ troppo?
Il tedesco per tutta risposta si chinò sulla sedia, mettendo le mani a lato di ciascun bracciolo e finendo così per intrappolarlo. “La tua parola?”
Non distolse lo sguardo anche se la posizione lo metteva a disagio. “Dal tuo punto di vista l’offerta mi sembra vantaggiosa.”

Non c’erano dubbi che il tedesco sottintendesse anche altro da gli stava divorando le labbra con gli occhi. “Dì un po’, maghetto … Sei proprio sicuro di quel che stai facendo?” Mormorò.
Michel aveva passato troppo tempo a farsi domande del genere ed era stufo di cercarne le risposte. Lo afferrò quindi per la maglietta e se lo spinse contro, facendo collidere quella boccaccia irritante con la sua. Come risposta doveva bastargli.
Bastò.
 
****
 
Il giardino sembrava essere stato preso d’assalto dalla natura, in maniera violenta e trionfante; i sentieri di ciottoli erano stati inglobati dalla flora tipica della brughiera, gli alberi si attorcigliavano carichi di foglie, intrecciandosi a siepi lasciate incolte da decenni.
Johannes immaginava che quel genere di paesaggio contorto fosse perfetto per essere ammirato dagli occhi della sua regina. La vide infatti passeggiarvi in mezzo, incurante della lieve pioggia che graziava quotidiana quelle lande aspre.
Si affrettò a raggiungerla Materializzando un ombrello. “Il mio Giullare.” Lo salutò porgendogli la mano guantata per un baciamano. “Un ombrello, davvero?”
Johannes, che rispondeva a molti nomi e che non si era mai preoccupato di vedersene aggiungere un altro, scrollò le spalle. “Pensavo vi steste bagnando, mia signora.”
“Un pensiero premuroso.” Gli sorrise passandogli un braccio attorno al suo. Gli occhi chiari vagarono per l’immensa proprietà senza soffermarsi. “L’Inghilterra è una terra selvaggia … È buffo come la sua gente si affanni tanto a dimostrare il contrario. Questo paesaggio, ad esempio.” Considerò. “Non ha visto mano umana per quanto, decenni? Ed ecco che torna alla sua bellezza originaria. Gli inglesi mancano di romanticismo.”
“Sì mia signora.” Convenne senza trovare particolari meriti a quel che vedeva, né particolari difetti. Per chi aveva viaggiato come lui a cavallo di due mondi per tanto tempo i paesaggi finivano per somigliarsi tutti.

La strega gli lanciò un’occhiata valutativa, prima di sorridergli di nuovo. “Sediamoci. Sono stanca.”
Johannes pulì per lei una vecchia panchina infestata di erbacce e rimase in piedi ad osservarla; non vi era dubbio che avesse preso la bellezza della sua casata, occhi chiari e incarnato pallido, movenze aggraziate ed un’androgina grazia.

Chiunque avesse conosciuto Sofia Von Hohenheim avrebbe convenuto con lui che superava in bellezza persino una Veela.
“Ragguagliami.” Chiese tornando pratica, ed era quella la parte che preferiva; non riusciva mai a comprendere del tutto i voli pindarici che la mente della sua padrona faceva.
“Sto prendendomi cura dei nostri ex-ospiti.” Spiegò. “Li sto portando qui … La buona notizia è che sono venuto quasi tutti di loro spontanea volontà. Succede, quando l’opinione pubblica li chiama infetti.
“Molto bene.” Colse un mazzo di giunchiglie selvatiche che si intrecciava al metallo della panchina e lo mondò dalle foglie in eccesso. “Il nostro committente non deve sapere che ci sono stati degli errori. Soprattutto, non deve collegare a noi quello che è successo a Londra.” Fece un sospiro. “Se Elias fosse stato ancora vivo non avremo dovuto andare a tentativi.”  

Johannes strinse la mascella, ma come sempre, rispose con un sorriso. La sua regina non amava persone rancorose accanto a sé. Forse era per questo che non aveva mai amato il fratello.
O il marito.
“Non avverrà. Abbiamo le attrezzature e le persone necessarie. Con le cavie qui, studiando le loro reazioni, sarà più semplice trovare un modo per stabilizzare il siero. Capendo gli errori, potremo lavorare alla soluzione.”
“Lo spero.” Gli tese la mano per alzarsi e inarcò appena le sopracciglia divertita, forse intuendo il suo stato d’animo. “Oh, Johan …” Rise chiamandolo con il suo nome attuale. “Siamo gelosi di un morto?”

“Ne avrei motivo?”
“Elias era un mago eccellente.” Lo stuzzicò. “Peccato quella sua scomoda propensione a fare la cosa giusta.”
“Come Sören. Il sangue non è acqua.” Frecciò di rimando e sentì le unghie della sua donna premere con forza contro la pelle del braccio. Si godette il dolore assieme alla soddisfazione.

“Sei davvero un uomo terribile.” Non c’era nulla di più bello che un ghigno su quel volto di porcellana, Johannes lo pensò prendendole il mento tra le dita per baciarla.  
“Faccio del mio peggio, mia regina.”  
 
****
 
 
Note:

Prima che qualcuno se lo possa chiedere … no, Ren non è figlio di Johannes. Ugh. Ha già abbastanza sfighe, povero amore.
Qui la canzone del capitolo.

Stavolta mi sono limitata ad una, se non si conta il primo movimento dell’Inverno delle Quattro Stagioni di Vivaldi. ;) Ovviamente si parla sempre di David Garrett, ma a chi piace, consiglio anche la versione di Perlman.  
Infine, ma stra-importante, la piccola meraviglia che mi ha regalato la favolosa Gaea. Non è la sola a volere questa scena, prima o poi. (Sempre che non la consideriate riferita al primo, disastroso, bacio al ballo del Ceppo.)
 
1. Guarnieri Del Gesù: chiamato anche solo Guarnieri, prende il nome dal liutaio che lo ha creato, detto Del Gesù perché aveva l’abitudine di scrivere all’interno della cassa armonica la sigla IHS. Assieme allo Stradivari è uno dei violini più conosciuti – e costosi - al mondo. A differenza di quest’ultimo ha un timbro più scuro e potente e non a caso è stato chiamato Cannone da Paganini che lo usò quale strumento personale. Per maggiori infoqui.
  
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