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Autore: Hellen96    17/07/2013    2 recensioni
Il mondo non è più come una volta, la distruzione e la morte ha preso il posto della prosperità e della gioia. Nel regno di Leira la vita non è più degna di essere vissuta. Le persone percorrono le strade con le teste basse e con occhi vacui, ma non tutti hanno perso la speranza. Una ragazza e il suo dono, porteranno un cambiamento e la vita riacquisterà un senso...
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1

 
Una distesa d’erba immensa di un colore verde puro, come se purificata dallo sguardo di un angelo. Il suono del vento che sembra rincuorare il mio cuore che palpita incessantemente.
Ed ecco quei puntini viola che cercano di uscire allo scoperto, quei bellissimi fiori primaverili che ci ricordano che la vita continua il suo corso.
Le spalle di mio padre su cui sono adagiata, sono forti e robuste, abituate a portare carichi cento volte superiori al mio esile corpo.
Il lento procedere dei suoi passi è come una ninna nanna silenziosa che mi culla dolcemente.
- Vedi Violet? Te lo avevo detto che erano sbocciate – il sorriso che gli spunta agli angoli della bocca, sembra irradiare di luce tutto ciò che ci circonda. Darei qualsiasi cosa per assomigliare a lui.
Vorrei essere coraggiosa, intraprendente e sempre disponibile per tendere una mano al prossimo.
Ma come tutte le bambine di dieci anni, posso solo restare a guardare mentre i grandi lavorano.
- Papà ti prego raccontami di nuovo la storia della mia nascita – lo pregai.
- Ancora?! Oh e va bene – sorrise scuotendo la testa divertito – Io e tua madre desideravamo tanto una piccola e bella bambina. Fortunatamente qualcuno ascoltò le nostre preghiere e ci donò  te, il mio piccolo angioletto – disse allungando un braccio sopra la testa per sfiorarmi il nasino.
- Nascenti proprio in primavera, quando le viole spuntarono nei prati intorno al villaggio. Pareva quasi che la natura ci avesse consigliato il nome da darti. Inoltre, quando ti presi per la prima volta in braccio, notai una piccola voglia a forma di fiore sul tuo fragile collo. - sospirò, come perduto in teneri ricordi.
- Crescesti a vista d’occhio, tanto che tua madre un giorno scherzando mi disse: “Le dai per caso da mangiare di nascosto?!”. Erano tempi felici e spensierati, molto diversi da quelli in cui viviamo oggi. – concluse.
Una nuvola grigia coprì il sole mattutino, creando un’aria gelida e sconfortante.
Rimanemmo non so per quanto tempo ad osservare il prato ricoperto di viole poi, senza dire niente, mio padre si voltò e tornammo a casa con la consapevolezza che ad attenderci non ci sarebbe stata mia madre con una bella torta fumante e un sorriso angelico sul volto bensì, la consueta desolazione e dolore. 
 
 
 
 
 
Mi svegliai a causa di un fascio di luce che cadeva proprio sui miei occhi. Inizialmente non capii nulla su dove mi trovavo o chi ero poi, il ricordo del sogno appena fatto, mi riportò bruscamente alla realtà.
Un senso di malinconia e profonda solitudine mi strinse il cuore consumato dal troppo dolore.
Erano trascorsi ben sette anni e tutto era cambiato. La vita aveva scavato talmente profondamente nel mio animo, che non riuscivo più a risalire dal baratro in cui ero piombata.
Uscire persino dal letto era diventato difficile, costringendomi ad uno sforzo sovrumano.
Osservai, per qualche minuto, il soffitto cadente della mia camera. La mia mente era svuotata.
Dalla morte di mio padre, avevo giurato a me stessa che niente e nessuno mi avrebbe più ferita. Da quel momento, diventai una maschera di indifferenza.
Le mie giornate si svolgevano meccanicamente: mi alzavo, andavo al campus per dare una mano, tornavo a casa la sera tardi, mangiavo e ricadevo sul letto.
Sprazzi di scene passate mi sorvolarono la mente: “Qualcuno che bussa alla porta. Mia madre che apre ritrovandosi di fronte un collega di mio padre. Mia madre in lacrime e l’uomo che la sorregge. Oscurità.”
Mi rigirai nel letto a pancia in giù, abbracciando il cuscino. Sentivo le lacrime premere agli angoli degli occhi, ma non versai neanche una lacrima.
Dopo il funerale di mio padre, avevo giurato a me stessa che non avrei più pianto. Sarei stata forte, per mia madre.
Il ricordo della cassa nera che conteneva il corpo inerte dell’uomo che rappresentata tutto il mio mondo, mi si parò davanti impedendomi la vista della luce.
Basta adesso! Alzati” pensai.
Con un po’ di fatica riuscii a mettere i piedi nudi sul freddo pavimento. Anche se eravamo in piena estate, l’aria rimaneva piuttosto fresca.
Da tempo, nel mio villaggio, non si poteva più scorgere il sole.
Da quando Travian il tiranno aveva preso possesso di tutto il regno di Leira, il sole si era celato alla mia vista.
I grossi e alti macchinari che il re utilizzava per riprodurre armi da fuoco e oggetti a me sconosciuti, impregnando l’aria di fumo denso e grigio, impedendo alla luce di filtrare.
Travian. Solo il nome fa rabbrividire il mio corpo.
 
“ Urla di donne e bambini. Uomini che corrono a destra e a sinistra alla ricerca di un arma per proteggere le loro famiglie. Fuoco e fumo ovunque. Uomini a cavallo con vestiti neri e maschere, impediscono la fuga agli abitanti. E’ il caos.
Una bambina dai lunghi capelli castani e occhi color nocciola chiaro, sembra completamente estranea a ciò che le accade intorno. E’ al centro dello scontro.
Poi una donna la afferra e la strattona verso un posto sicuro, al riparo dagli spari.
La bambina osserva la madre che l’ha portata in salvo, senza però riconoscerne i tratti.
Solo una domanda le circola nella mente: “Dove sei papà? Ho paura. Ho paura.”
La donna comincia a parlare, ma è come se la bambina non l’ascoltasse. Porta una manina sul collo, proprio dove c’è quella buffa chiazza a forma di fiore.
Un urlo di terrore e disperazione, la riportano alla realtà. “
 
Scossi la testa scacciando il ricordo. “Devo smetterla di pensare sempre alle stesse cose. Su, è ora di andare” pensai stiracchiandomi.
Mi diressi verso la finestra, aprendo le tende color verde pallido. Doveva esser più o meno l’alba, ma non c’era differenza tra mattina e sera. Guardai per un paio di minuti il cielo ricoperto da nubi. Potrà sembrare strano, ma quel gesto che ripetevo ogni mattina, mi trasmetteva tranquillità. Era come se salutassi mio padre.
Il mio sguardo poi, si posò sul quello che rimaneva del villaggio. Si potevano distinguere solo poche abitazioni, ed erano tutte in delle condizioni disastrose. I muri ormai erano caduti a pezzi, le finestre rotte lasciavano entrare l’aria gelida della notte, le porte erano inclinate a causa della ruggine dei chiavistelli che con il tempo avevano ceduto e i tetti presentavano decine di spiragli che facevano entrare la pioggia nel periodo invernale.
Gli abitanti erano ancora più miserabili delle loro case. I bambini non giocavano davanti casa, ma stavano seduti sul ciglio della strada a prestare servizi ai passanti: chi lucidava scarpe, chi lavava gli indumenti, chi invitava il viaggiatore ad essere ospitato nella locanda del padrone e chi si era abbandonato al procedere degli eventi, abbandonando se stesso e i sui cari.
Più osservavo e più la rabbia cresceva. Non volevo rimanere a guardare mentre il mio popolo moriva. Maledivo mentalmente Travian ogni ora del giorno e mi ripromettevo di fare qualcosa, qualsiasi cosa che avrebbe potuto far rovesciare la medaglia. Ma come ogni volta, rimanevo in silenzio, tornando a casa a testa china.
Il riflesso della mia immagine sul vetro, mi riscosse dai pensieri.
Il mio volto non era cambiato molto, ero sempre la ragazzina che mia madre aveva strappato alla guerra.
Gli occhi e i capelli di color marrone avevano assunto una tonalità più scura rispetto a quando ero piccola, non essendo più esposti al sole.
Dopo aver infilato un paio di pantaloni anonimi, una maglietta a manica corta bianca e un paio di scarpe in tessuto, mi diressi verso la cucina che si trovava al piano di sotto. La mia casa non era in condizioni molto differenti da quelle degli altri abitanti, ma si manteneva in buono stato.
La mobilia era povera perché avevamo venduto il più possibile per racimolare qualche soldo, ma non era servito a molto.
Afferrai una mela riposta in un recipiente sopra al tavolo e con passo svelto mi diressi alla porta.
Quando l’aprii, fui investita da un vento fresco che sembrò rinvigorirmi.
Il sentiero che percorsi fu uguale a quello di tutti i giorni: attraversavo il cuore del villaggio, caratterizzato da una grande fontana in pietra (unico approvvigionamento d’acqua degli abitanti), poi mi dirigevo verso l’estremo nord del villaggio, al limite con la foresta oscura.
Lì, proprio al confine, si trovava il campus. Era l’unico luogo in cui uomini, donne e bambini, potevano essere curati e accuditi.
La guerra non danneggia le persone più agiate, ma coloro che hanno più bisogno. “Tuttavia Travian dimentica una cosa importante: le persone bisognose, sono quelle più attaccate alla vita e non sarà facile strappargliela” pensavo ogni qual volta che mi trovavo di fronte ad un uomo del campus.
Uscita dal villaggio, mi incantai nel mirare il paesaggio. Tutto era mutato da quando ero piccola: l’erba non era più verde e rigogliosa, i tronchi degli alberi erano spaccati in più punti, le foglie erano perennemente secche a causa della mancanza di luce e gli uccelli non cantavano più, nascosti nel loro mutismo come se volessero farci una ripicca per avergli rovinato la dimora.
Mi persi a pensare a mia madre che si trovava a lavorare nei campi del sovrano. Chiunque fosse abbastanza in forze era obbligato a prestare servizio.
Io, fortunatamente, ero riuscita a nascondermi quando i soldati vennero a registrare gli abitati idonei. Mia madre Elisabeth tuttavia, era ancora abbastanza giovane a quel tempo e fu subito registrata. Da allora, si spacca la schiena per dare da mangiare a quello sporco traditore.
La rabbia prese il sopravvento. “Maledizione!”  con tutto quel rancore che covavo dentro di me, potevo appiccare un incendio senza alcun problema.
Ero quasi arrivata, le familiari recinzioni in metallo sembravano beffeggiarmi da lontano. Le condizioni in cui i feriti si trovavano, erano molto più che critiche. Quasi tutti quelli che vi si stabilivano, non uscivano vivi.
La maggior parte erano soldati anch’essi arruolati per l’esercito di Travian, ma c’erano anche donne, bambini e anziani, vittime degli scontri tra i più sperduti villaggi distrutti dal fuoco.
Il familiare odore di putrefazione e macerie, mi diede il benvenuto.
“ Adesso, datti da fare. Rimuovi tutto e cerca di essere utile a qualcuno" pensai mentre osservavo con aria crucciata l’entrata del campus.
Non potevo fare nulla per modificare quello che era successo in passato, ma potevo alleviare un po’ il dolore e curare le ferite, anche se quelle non sempre sono visibili.
 
 

***ANGOLO AUTRICE***
Sono riuscita a publicare il primo capitolo subito dopo il prologo, spero vi piaccia! Come sempre vi chiedo di lasciarmi recenzioni per sapere se sto lavorando bene su questa storia o meno :)
Cercherò di pubblicare al più presto il capitolo seguente. Grazie in anticipo a quelli che recensiranno :))
H.

  
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