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Autore: DeaPotteriana    28/07/2013    2 recensioni
Questa fanfiction era già stata postata, ma ho deciso di riscriverla completamente, in quanto non mi sembrava...mia. Quindi questa è la Re-edizione de "L'Ultima Black".
E se Sirius Black avesse avuto una figlia?
Questa è una raccolta di avvenimenti della vita di Helena Kaitlyn Black, una vita difficile, passata nella rabbia, nel dolore e nella solitudine. Una vita passata senza genitori, con una famiglia dura e razzista e un padrino troppo buono per riuscire a gestire la figlioccia.
Questa storia narra di questo e di molto altro. Narra di un'amicizia eterna, una scuola che fa da casa e una Casa che non sembra adatta a Kait; parla di una guerra in arrivo, di lacrime trattenute a stento e di lutti strazianti. È solo una fanfiction, ma immaginate come sarebbe stata la vita della figlia di Sirius Black, se solo fosse esistita.
Non siete curiosi?
Vorrei dimostrare, in questa storia, che a volte il dolore toglie il fiato, che l'amore spesso non basta e che essere un eroe ha sempre il suo prezzo. Spero di riuscirci.
EDIT: STORIA INCOMPIUTA, NEGLI ULTIMI 2 CAPITOLI SPIEGO COME FINISCE.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Famiglia Black, I fondatori, Il trio protagonista | Coppie: Ron/Hermione
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Isn't that what a great story does? Makes you feel?'
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Qualcosa

 

“E quindi, versando quest’ultimo ingrediente e mescolando in senso antiorario per tre volte, la pozione sarà pronta per essere utilizzata.”
Kait sbadigliò, appoggiandosi meglio al banco. “Black, la mia lezione la annoia tanto?” domandò acidamente il professor Piton, comparendo alle spalle dell’alunna, che di scatto tornò composta, con la schiena appoggiata alla sedia e l’espressione attenta. “Assolutamente no, signore,” rispose. L’uomo le lanciò un’occhiataccia, poi le diede le spalle e si avviò verso la cattedra. Sbadigliando nuovamente, Kaitlyn si voltò verso Harry, che sembrava perso nei suoi pensieri. “Psss!” lo chiamò. Improvvisamente sveglio, il Grifondoro guardò l’amica, inarcando un sopracciglio. “Che ti prende?” chiese. “Cosa prende a te, piuttosto! A che pensi?”
Potter sospirò gravemente.
“L’ora è terminata. Muovetevi a prendere le vostre cose, devo accompagnarvi alla prossima lezione,” esclamò, non senza un’occhiata raggelante verso di loro, il professor Piton. In fretta si sistemarono tutti in fila. 
“Dobbiamo fare una visita a Hagrid,” disse Harry una volta che Ron li ebbe raggiunti. “Tanto,” continuò con tono desolato, “il Quidditch è stato annullato.”



“Mai più, mai più!” strillò Kaitlyn tastandosi velocemente l’intero corpo per accertarsi che nessun ragno le si fosse appoggiato addosso. Ron, tremendamente pallido, sembrava sul punto di svenire. “Kait, non mi avevi detto che hai paura dei ragni,” esclamò Harry, interessato. La ragazzina lo fulminò con lo sguardo. “Io non ne ho paura,” lo corresse, “a me fanno solo schifo.”
Il Grifondoro voltò la testa, così che l’amica non lo vedesse sorridere. Uno scappellotto, però, gli arrivò comunque.
“Paura,” sussurrò indignata la purosangue. “Paura! Io!”+
Harry decise saggiamente di tacere.
“Ora vai ad allenarti?” domandò Ron mentre insieme, strisciando i piedi per terra dalla stanchezza, si dirigevano verso il castello. La Black annuì, pensierosa. “Cosa accadrà, adesso?” chiese mordendosi un labbro. “Insomma, con l’allontanamento di Silente e tutto il resto...”
I due ragazzi sospirarono, mentre il rosso inveiva con forza contro quel viscido di un Malfoy che, a detta del rosso, quella sera aveva dimostrato tutta la sua cattiveria. “Tale padre, tale figlio,” grugnì infine. Kait, ormai abituata a sentir offendere Draco, non aprì bocca, anche perché era segretamente convinta che Lucius lo avrebbe presto trasformato in una copia più giovane di se stesso, se lei o Narcissa non si fossero opposte. Non che Cissy avesse intenzione di intervenire, o che lei, ragionò, da piccola Grifondoro qual era, avrebbe potuto fare qualcosa, sia chiaro. 
Stava ancora pensando al futuro di Draco, quando arrivò in palestra. “Sei in ritardo,” la riprese Malocchio scrutandola con l’occhio magico, mentre quello sano osservava delle carte dall’aria importante. Kait biascicò una scusa, correndo a cambiarsi nello spogliatoio vuoto. E il borsone di Jackson dov’era finito? Con un’alzata di spalle, la ragazzina decise di rimandare la questione a dopo; si spogliò in fretta, afferrando il nuovo completo per allenarsi e indossandolo. Aveva dovuto comprare vestiti nuovi a causa del suo corpo, che ormai non poteva più cambiare. Mentre prima le bastava assottigliare i fianchi o diminuire la circonferenza del petto, ora doveva acquistare completi nuovi ogni volta che cresceva di qualche centimetro, o metteva su qualche chilo. 
Stava per uscire dallo spogliatoio, quando colse la sua immagine nel grande specchio vicino al bagno. Era cambiata, dal giorno in cui aveva restituito i doni dei Fondatori. I capelli, che prima colorava a piacimento, erano neri come la pece - come la maggior parte dei Black, d’altronde. Era curioso, però, che sua sorella avesse avuto i capelli biondi per tutta la breve durata della sua vita.
Una fitta al petto la costrinse a smettere di pensare ad Hannah.
Tornò dunque ad osservarsi, notando che i fianchi erano leggermente più larghi e che il seno stava cominciando a crescere, diversamente da quando cercava di essere più piatta possibile per esercitarsi più facilmente. Non che l’aspettasse un futuro da quarta o quinta di reggiseno, eh! Con le spalle che aveva! Kait, infatti, aveva notato che i muscoli si erano fatti più evidenti, non essendo più possibile nasconderli con la Metaphormagia. La pancia aveva un accenno di tartaruga e le gambe erano forte e toniche.
Tra gli Auror, il fisico di Kait sarebbe parso superbo; tra i ragazzi ad Hogwarts, però, le cose sarebbero state diverse. O almeno, questo era quello che pensava. Non le interessava molto cosa avrebbero pensato i suoi compagni, ma c’era una parte di lei, - quella vanitosa - che non approvava tutti quei muscoli e che li avrebbe scambiati volentieri per un corpo con le curve. Kaitlyn scosse la testa, osservandosi un’ultima volta e legando i capelli in una coda alta - il giorno in cui aveva restituito i Doni portava i capelli lunghi fino al bacino e, chissà perché, la lunghezza si era mantenuta. Guardò il volto privo di imperfezioni che lo specchio rifletteva e prestò particolare attenzione agli occhi color ghiaccio dei Black. 
Nonostante gli allenamenti, nonostante la Casa a cui apparteneva, era sempre più simile alla sua famiglia.
Kait sospirò, allontanandosi definitivamente dallo specchio e correndo in palestra. Moody la stava aspettando con una smorfia impaziente. “Oggi ti farò cavalcare,” le disse. “Cavalli? Bello!” rispose la giovane, ricordando alcune lezioni di Narcissa sull’argomento. “Un purosangue deve saper cavalcare con eleganza,” le aveva detto una volta, prima di farla montare su un bellissimo esemplare completamente bianco. “Non proprio,” rispose Malocchio con un sorriso cinico. Si diressero a passo svelto fuori dalla palestra, attraverso gli stretti corridoi del Ministero.
“Dov’è Jackson?” domandò a quel punto Kaitlyn, insospettita dall’assenza dell’amico. “Non lo sai?”
“Ovvio che sì, lui mi dice sempre tutto,” esclamò la Black, prima di rendersi conto che, però, quella volta non era stata messa al corrente di un bel niente. “No, aspetta. Cosa dovrei sapere, di preciso?” chiese quindi.
Malocchio si arrestò in mezzo al corridoio, osservando attentamente la sua allieva e il suo sguardo preoccupato.
“Ora, Black, voglio che tu mi stia a sentire senza dare di matto. Poi potrai andare da lui, rimandiamo la lezione,” disse l’uomo. Le afferrò una spalla e cercò invano di fare un sorriso rassicurante.
Un minuto dopo, con il volto che bruciava dalla rabbia, Kait si ritrovò a correre per il Ministero, incurante delle occhiate curiose che suscitava il suo passaggio. Si infilò in un camino, afferrando con foga un pugno di Polvere Volante; pronunciò l’indirizzo di casa Everdeen e, in un lampo di luce verde, la Black sparì.
Solo una volta arrivata a destinazione si rese conto dell’impulsività del suo gesto.
Uscì dal camino, trovandosi in un luminoso salotto dall’aspetto vissuto. Di fronte al camino c’era un divano color crema; alla sua destra era posizionata una chaise-longue rossa  rovinata dal tempo, appoggiata ad una grande vetrata, che dava su un giardino ben tenuto, con un ciliegio e un’altalena a completare il quadro. 
Kait azzardò qualche passo fuori dal salotto, lungo un corridoio breve e molto largo, pieno zeppo di fotografie di Jackson, una donna e Moody - a quanto ne sapeva lei, Malocchio era il padrino del giovane Everdeen. Non prestò molta attenzione alle cornici, troppo impegnata a cercare di fare meno rumore possibile. Il corridoio terminò con una porta socchiusa, da cui proveniva della luce e una melodia. Una donna - la stessa delle fotografie, solo più vecchia - era alle prese con una grossa pentola e stava canticchiando un orecchiabile motivetto, senza sapere di avere in casa un’intrusa spiona.
“Hai bisogno di qualcosa, piccola?” domandò a quel punto la signora. Presa alla sprovvista, Kait trasalì e scivolò in avanti, sbattendo contro la porta ed aprendola con uno scatto. “I-io... M-m-mi dispiace, io...” cercò di dire, in preda al panico, osservando il volto della padrona di casa, che scoppiò a ridere. Agitando un mestolo, la invitò ad avvicinarsi. “Non ti preoccupare, piccola!”
Kaitlyn avanzò di qualche passo, dandosi mentalmente dell’idiota per essersi presentata lì in tenuta d’allenamento, - ovvero vestiti molto corti - senza aver avvisato o detto niente. “Io stavo cercando Jackson...” sussurrò, il volto in fiamme. “Ma certo! È in camera sua,” le rispose la donna, quasi come se Kait fosse una di casa, abituata ad entrare e ad uscire quando voleva. “Grazie,” mormorò indietreggiando verso l’unica altra porta presente nella cucina. Si trovò in un corridoio, da cui si poteva entrare in tre stanze, al momento chiuse. La prima si rivelò essere un piccolo bagno color acquamarina. La seconda era una camera da letto semplice, con pochi arredi e molte fotografie. 
La porta della terza stanza era socchiusa. Sbirciando, Kait vide un ragazzo darle le spalle, alle prese con decine di magliette e pantaloni militari. Sul letto, una valigia.
“Quindi è vero: te ne vai!” esclamò entrando nella camera e rivelando la propria presenza. “Non si vede?” rispose acidamente Jackson, mentre in velocità faceva sparire lo stupore sul suo volto.
“Ma che... Che significa?”
“Scusa, sono stato un po’ brusco. È che pensavo... speravo che avrebbe potuto spiegartelo Malocchio dopo la mia partenza,” disse il giovane, continuando a sistemare completi nella valigia blu, che internamente era molto più spaziosa di quanto lo sembrasse da fuori.
“Jackson...”
“Mi dispiace, Kay.”
“Perché?”
Fu questa l’unica domanda che Kaitlyn riuscì a porre al suo migliore amico. Gli afferrò un braccio, costringendolo a fermarsi. “Perché... perché mi dispiace?” le domandò Jackson, guardandola intensamente negli occhi, quasi cercasse di farle capire qualcosa.
“Perché te ne vai, intendo.”
“È un’ottima occasione, se ci pensi. Un anno intero per allenarmi con i migliori Auror d’America. Sono grato a Malocchio per quest’opportunità,” spiegò con un’alzata di spalle che voleva mostrarlo indifferente, ma che sembrò malamente studiata. Per qualche secondo Kaitlyn non reagì, incredula, boccheggiando e sgranando gli occhi in modo poco signorile. 
“Mi lasci qui,” sussurrò infine.
“Non sarai sola, Kay. Non mi allontanerei mai, se tu non avessi nessuno. Ma la verità è che hai degli amici pronti a sostenerti in ogni situazione. Io non ti servo.”
Le parole di Jackson la colpirono come una pugnalata al cuore. Come poteva dire una cosa del genere? E perché la stava abbandonando? 
“Servirmi? Chi ha parlato di servire?!” esclamò ritrovando un po’ del carattere Grifondoro che tanto vantava di fronte alla famiglia Malfoy. Jackson la stava lasciando sola, partendo per l’America, - l’America! Dall’altra parte del mondo, quindi! - ma nelle sue parole non era riuscita a cogliere altro che una sottile accusa.
“Kay...”
“Jackson, ti prego.”
Non era da lei implorare in quel modo, però lui era il suo migliore amico e la stava abbandonando, quindi sentì di avere diritto persino di piangere. Per il momento, comunque, trattenne le lacrime. Si rese conto di stargli ancora tenendo il braccio, così lasciò la presa. Kait osservò Jackson per qualche secondo, mentre lui ricambiava senza mai distogliere lo sguardo. Si ritrovarono abbracciati prima di potersene rendere conto, dondolando leggermente avanti e indietro e respirando i reciproci profumi.
Abbracciarlo le era sempre piaciuto, la faceva sentire al sicuro; era come se niente di brutto le potesse accadere, quando lui la stringeva. Quella sicurezza, però, svanì presto.
“Mi dispiace, Kay.”
Lei chiuse gli occhi per un secondo, riaprendoli subito dopo nella speranza che quello fosse solo un brutto sogno da cui si sarebbe presto svegliata.
“Mi dispiace,” ripeté il ragazzo, prendendole i polsi con delicatezza e allontanandola con un gesto. Indietreggiò di qualche passo, cercando di aumentare la distanza tra loro. “Mi dispiace, Kaitlyn.”
Mentre il suo cuore si spezzava, tutto ciò che Kait riuscì a pensare fu che non era abituata ad udire il suo nome provenire per intero da quelle labbra.
Jackson si allontanò ancora, sussurrando un “Arrivederci,” e uscendo fuori dalla stanza. La Black si trovò seduta sul letto, a fissarsi le mani tremanti. Il suo cuore stava piangendo mentre, ne era sicura, il volto rimaneva asciutto. Afferrò delicatamente una maglietta dell’amico e se la portò al viso, inspirando l’odore di sapone. Non essendo stata indossata di recente, non possedeva il profumo che Kait stava cercando.
Sistemò con cura la t-shirt nella valigia, poi si allontanò dal letto e fece per uscire dalla stanza. Jackson scelse proprio quel momento per rientrare.
“Non per essere scortese, ma questa è casa mia,” disse, imbarazzato.
Kaitlyn non reagì come avrebbe fatto in altre circostanze; semplicemente si diresse a passo lento verso la porta, a testa bassa. Il ragazzo si voltò verso la valigia, cercando di ignorare la presenza dell’amica, che gli straziava il cuore ogni secondo di più. 
Stava cercando di allontanarsi da lei.
Lo stage in America era un’opportunità incredibile per migliorare come aspirante Auror ma, soprattutto, per mettere un po’ di distanza tra lui e Kait, infatuata di un altro.
È meglio così, si disse mentre una lacrima si faceva strada lungo la guancia sinistra.
Era convinto che la Black fosse già uscita, perciò sobbalzò vistosamente quando lei parlò. Nessuno dei due notò le lacrime dell’altro, e forse fu meglio così.
“Ti ricordi cosa ti avevo detto?” domandò Kaitlyn con voce bassa e spenta. “Mi sbagliavo,” continuò.
Jackson corrugò le sopracciglia, confuso e emotivamente distrutto.
“Credevo che tu saresti stata l’unica persona che non mi avrebbe mai fatto del male,” mormorò lei a voce tanto bassa che credette di essersela immaginata. Le ultime parole arrivarono al suo orecchio come un eco lontano, dimenticato.
“Mi sbagliavo.”
E mentre Kait si voltava e usciva dalla stanza, Jackson scivolò a terra e si prese la testa tra le mani, mormorando più volte la parola “Perdonami,” senza essere udito.

 

Kaitlyn corse in cucina, dove si sforzò di sorridere alla signora Everdeen. La donna la abbracciò, invogliandola a piangere sulla sua spalla, ma la Black si allontanò come se avesse preso la scossa.
“Non ho bisogno di lei,” sibilò indietreggiando.
“Piccola, lo so che...”
“No, lei non sa un bel niente,” ringhiò Kait. “Non ho bisogno di lei,” continuò. “Non ne ho bisogno.”
E per entrambe fu chiaro come la signora Everdeen non fosse più il soggetto della frase.
Kait raggiunse velocemente il camino, da cui lasciò la casa del suo ex migliore amico. 



Quando Remus Lupin alzò lo sguardo sul camino, pochi secondi dopo, e vide la figlioccia piena di fuliggine, con diverse lacrime a bagnarle il volto, scattò in piedi e corse ad abbracciarla, lasciando perdere la ricerca di un nuovo lavoro.
“Kait, cos’è successo?” domandò stringendola più forte. Lei scosse la testa, decisa a non parlare.
Qualcosa, però, disse comunque. Magari non a parole, magari non in un modo che a Remus fosse comprensibile, però qualcosa disse, soffrendo silenziosamente e sentendo il suo cuore sprofondare in un baratro di oscurità. 
Era un qualcosa che Jackson aveva provato a farle capire e che ora stava scoprendo.
Era un qualcosa che forse avrebbe affrontato meglio tempo dopo e a cui, per il momento, non voleva nemmeno dare un nome.
Anche se un nome, in realtà, ce l’aveva già.







Noteeee :)

Ehi, ehm... questo capitolo è stato un po' un parto. Non ne voleva sapere, non voleva farsi scrivere! 

Non mi volete uccidere, vero? Lo so che le fan di Jackson mi odieranno, ma... ehm... niente, non ho scuse :P
Coooomunque volevo spiegarvi una cosuccia sul capitolo: quel "qualcosa" non è amore, non ancora. Lei è piccola, gente. Ha tredici anni, non ha idea di cosa significhi la parola "amore", non l'ha mai vissuta davvero, non ha mai detto "Ti amo" e di certo le ci vorrà un po' per dirlo -  che poi devo prima decidere a chi farglielo dire xD
Scheeeerzoooo

- circa

:P

Comunque si è resa conto che Jackson le mancherà tremendamente e non capisce perché le faccia così male l'idea della sua partenza. Comincia a capire che non è solo amicizia, ciò che la lega a Jackson, ma non sa ancora definire quel "qualcosa".
E intanto l'anno è agli sgoccioli... :P
Ad ogni modo, fan di Jackson non mi uccidete, mi farò perdonare al suo ritorno, credetemi.
Il quarto anno sarà... interessante, per lui ;)

Un bacio, abbraccio e stretta di mano a tutte le persone che seguono questa storia :) Siete i migliori!



 

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(Chiunque voglia aderire al messaggio, può copia-incollarlo dove meglio crede)



P. S. Scusate la lunghezza del capitolo, ma volevo farmi perdonare per l'attesa :)
  
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