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Autore: Josie5    04/08/2013    70 recensioni
Una punizione divina. Per Evelyne Gray, la ragazza del giornalino scolastico o la presidentessa, come ci tiene a dire lei, Max Parker è una punizione divina.
Evelyne è infatti convinta che il karma o Dio, o qualunque cosa sia, stia cercando di punirla con lui.
Punirla perché, a causa di problemi economici, comincia a sfruttare il fatto di essere così ben voluta dai professori per passare le soluzioni dei test ad alcuni suoi compagni di scuola; il tutto in cambio di soldi.
Evelyne non è orgogliosa di se stessa, ma per quasi due anni continua a tradire la fiducia che le è stata concessa.
Quando decide di smettere non tiene conto del fatto che Clark, il suo ultimo "cliente", sia uno dei migliori amici di Parker; non tiene conto del fatto che Parker stia preparando la sua vendetta fredda.
Max ed Evelyne non si sono mai parlati, ma si conoscono molto bene per via del giornalino di lei e di un certo articolo. E Max Parker, il capitano della squadra di basket della scuola, bello e popolare, non può di certo essere umiliato senza conseguenze. Non dopo quello che ha fatto Evelyne.
(Revisione in corso: 3/31)
Genere: Commedia, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Non è lungo, di più . PREPARATEVI. Ahahah

 


28. Io

 

 

Pur non nutrendo un gran affetto per i miei capelli, avevo sempre pensato che pettinarsi fosse una delle attività quotidiane più rilassanti al mondo.

Fin da piccola, quando zia Lizzy mi lasciava da sola in bagno, ancora ricoperta di schiuma, perché lei doveva correre a rispondere al telefono di casa, a una delle solite chiamate di lavoro, e allora toccava a me cominciare a sistemarsi.

Afferravo il pettine, mi davo una vaga occhiata ai capelli, agli occhi, al naso, alla bocca, e mi pettinavo.

Avevo sempre avuto i capelli lunghi forse anche per quello: per metterci più tempo.

Districavo i nodi come forse volevo fare con la mia vita.

Ogni nodo era un problema, un pensiero, una preoccupazione.

Col pettine era facile risolvere tutto, perché non potevo fare altrettanto io?

Anche in quel momento, appena uscita dalla doccia, mi stavo pettinando.

Ma con fin troppa fretta. Non riuscendo bene a sciogliere i nodi tra i capelli ancora fradici.

E non riuscendo a togliermi di testa il grigio.

Ero arrivata di corsa a casa, subito dopo il sì a Max.

Di corsa anche per evitare Elizabeth che sembrava essersi appostata in cucina, con l'apposito obiettivo di placcarmi appena avessi messo piede in casa. Non sapevo ancora come fossi riuscita a salvarmi.

Sapevo solo di trovarmi in bagno: porta chiusa a chiave, zia Lizzy che si aggirava di sicuro nel corridoio, osservando minacciosamente la porta – mi sembrava di sentire il suo sguardo attraverso il legno e ne avevo i brividi, - e Maxyne tra i piedi che si irritava se le arrivava qualche goccia, ma senza allontanarsi.

Mi diedi una seconda pettinata, il più veloce possibile, spostandomi tutti i capelli indietro, scoprendo il viso come facevo poche volte, mentre sbloccavo il cellulare, per vedere l'ora.

Mezz'ora.

Mancava mezz'ora.

Mi ritrovai a cercare i miei occhi nel riflesso: trovai puro terrore.

Non avevo ancora ben realizzato cosa sarebbe successo da lì a poco. Ero solo convinta che Max mi avesse dato così poco tempo, da quando me l'aveva chiesto fino all'evento effettivo, per non farmi rimuginare troppo in me stessa.

In quel momento infatti, nonostante tutto, sapevo solo di dover pensare ad asciugarmi, a vestirmi – e con che cosa?! - e ... Cos'altro si faceva prima di un appuntamento?

Mi bloccai, l'asciugacapelli in mano; cos'avevo appena pensato?

Scossi la testa abbastanza violentemente, riuscendo quasi a schiaffeggiarmi coi miei stessi capelli bagnati.

Non era un appuntamento, figuriamoci!

Uscita.

Un'uscita.

Sospirai, lasciandomi perdere e cercando seriamente di sistemarmi i capelli nel miglior modo possibile.

Max l'aveva definitivamente fatto apposta a darmi così poco tempo. Con un giorno d'anticipo, sapendolo, non avrei fatto altro che pensare al perché, al significato e al grigio.

Il grigio, che avevo visto nel suo viso non molti minuti prima, non era stato ancora chiarito e non lo sarebbe stato probabilmente mai, come fin troppe cose che riguardavano quel ragazzo.

Il colore lo vedevo guardandomi intorno, lavandomi i denti, cercando il deodorante, ma non riuscivo a focalizzarmici. E non ci sarei definitivamente riuscita, non prima di ritrovarmi di nuovo Parker davanti.

Con i capelli ancora umidi e di un'indefinita forma – lasciai solo che un ciuffo cadesse strategicamente, in modo da coprirmi quel maledetto succhiotto, - uscii di corsa, rischiando di uccidere la micia, pestandola.

Evitai ancora Elizabeth, per grazia divina, e, tra miagolii che sembravano davvero irritati, mi chiusi anche in camera, sempre a chiave.

Probabilmente per mia zia, che poteva non avermi visto ma di sicuro sentito, cominciavo a sembrare pazza.

Sospirai, aprendo violentemente l'armadio e cominciando a spostare lo sguardo su ogni capo.

Come delle piccole finestrelle iniziarono ad apparirmi davanti agli occhi i ricordi di film e telefilm, su cosa la gente normalmente si sarebbe messa ad un appuntam ...

Mi interruppi bruscamente, di nuovo.

Ma a cosa stavo pensando?!

Era un'uscita; ed era Parker; ed ero soprattutto io.

Dandomi una piccola sberla in fronte, afferrai semplicemente un paio di jeans e una maglietta, di quelle più decenti. E così era anche tanto.

Mi vestii di fretta, buttando l'occhio sull'orologio appeso e vedendo come mancasse ormai pochissimo.

Mi misi alla ricerca delle scarpe, le solite, ma imbattendomi nelle ballerine, esitai.

Indecisa, mi mordicchiai le labbra per qualche secondo, per poi infilarmele senza pensarci oltre.

Ero pronta?

Diedi un'occhiata alla mia immagine riflessa, vedendomi non poi tanto diversa al solito, tranne per le ballerine che in quel momento sembravano risaltare con fare colpevole.

E così andava benissimo: sarebbe stato stupido fare molto di più solo per un'uscita, - uscita, mi ripetei ancora mentalmente, - con un ragazzo che dopo tutto mi vedeva di continuo e sapeva com'ero.

O almeno era quello di cui mi stavo convincendo.

Un'uscita. Semplice uscita.

Guardai ancora l'orologio e meno di una decina di minuti mi distanziavano dall'evento x.

Girai la chiave nella serratura e aprii la porta, con un piccolo sospiro.

E quasi urlai, vedendo il viso di zia Lizzy a pochi centimetri da me, appena fuori dalla camera, dal piccolo spiraglio che si era aperto.

- Cosa stavi facendo?! - Chiesi, quasi urlando e portandomi una mano al cuore e superandola. Pregai che non vedesse le scarpe, se non l'avesse fatto forse ero salva.

- Io?! Cosa stai facendo tu! E ... - Si avvicinò, arpionandomi e annusandomi. - Ti sei messa del profumo?! Sospetto!

Mi dimenai per farmi mollare, perdendo probabilmente tutto il contegno possibile. - E' bagnoschiuma e basta, quello che usi anche tu!

- Sì, certo, certo. - Assecondò. - Non evitare la domanda come fai con Cecilia! Cosa stai combinando, Eve? Dove stai andando, Eve? Con chi, eh, Eve? - Cominciò a domandare, seguendomi mentre scendevo le scale, quasi pesandomi sul collo.

- Esco. - Provai a limitarmi a quello, infilandomi in cucina, aprendo il frigo e prendendo una bottiglia

- Dove e chi? Sono una giornalista, le so bene le Ws questions*, te ne sto risparmiando anche alcune, limitati almeno a queste! - Cantilenò.

Cercai il più possibile di ignorarla, bevendo un lungo sorso d'acqua.

- Eve! - Mi richiamò, mettendo su il broncio e appoggiandosi al ripiano della cucina con fare disperato. - Parla con la tua mammina! - Supplicò, con tono abbastanza patetico.

Misi giù la bottiglia, dopo averla quasi svuotata per metà. - Ti ho detto che esco!

- Non ti faccio uscire se non mi dici con chi vai! E tanto so chi è! Ammettilo!

- Sono maggiorenne! Esco se voglio! - Mi uscì.

Sgranò gli occhi di colpo, facendomi quasi sobbalzare dallo spavento.

- Cosa?!

- Queste frasi da crisi adolescenziale?! Ommiodio, sei in piena fase di ribellione! Ho un libro su quell'argomento, ma ... Dai, Eve, mi hai risparmiato di leggerlo per così tanti anni, adesso non mi va d ...

- Qualcuno ti obbliga?! E non sono in nessuna crisi adolescenziale e ...

A salvare entrambe, da una probabile crisi isterica, arrivarono dei colpi alla porta.

Ci bloccammo.

Tirai fuori il cellulare di scatto e non vidi né chiamate né SMS: non poteva essere Max ...

Prima che potessi aprir bocca, mia zia si era già precipitata ad aprire.

- Zia! - La chiamai, inseguendola e arrivando alle sue spalle proprio mentre la porta si apriva.

E ai nostri occhi si presentò, come non mi sarei mai aspettata, proprio Parker.

Capelli spettinati, forse più del solito, maglietta scura, un paio di jeans che usava spesso e Iphone in mano che era impegnato a guardare.

- Andiamo? - Chiese, ancora prima di alzare lo sguardo e, quando lo fece, gli occhi verdi sgranarono.

Mi sembrò di morire.

- Buonasera, Max! - Salutò, più allegra che mai, Elizabeth, appoggiandosi allo stipite e passando con gli occhi da me a lui.

- Sera. - Rispose lui, dopo un attimo d'esitazione, e, forse per la prima o seconda volta, da quando lo conoscevo, lo vidi seriamente in difficoltà. I suoi occhi trovarono i miei e probabilmente lessero la parola "idiota", solo per lui.

- Come mai qua? - Rincarò la dose mia zia, che sapeva benissimo cosa stava succedendo, ma faceva la finta tonta solo per torturarmi.

- E ... - Parker esitò e mi chiesi davvero perché fosse venuto a suonare a quella maledetta porta, invece di mandarmi un semplice messaggio!

- Uscite? - Insistette Elizabeth.

- Andiamo insieme a Francy ed Emily e ad altri amici di Max a vedere un film! - Inventai, sorpassando la mia malefica parente che se la rideva più che mai.

- Oh, un film ... Ai miei tempi si preferiva dire “andiamo a guardare le stelle”; al giorno d'oggi si dice così, invece? - Chiese, quasi seriamente interessata.

Volli far finta di non aver capito.

- Non torno tardi, a dopo, ciao! - Provai a farla smettere, raggiungendo Parker.

- Divertitevi! - Augurò Lizzy, sventolando la mano, e quella piccola parola mi suonò familiare; Max accennò un saluto, provando a tornare ai suoi sorrisi abbaglia-idioti, ma con scarsi risultati.

La porta si chiuse, ma tanto sapevo che le finestrine della cucina sarebbero state perfette, per lei. Si stava lentamente trasformando in una specie di copia della madre di Francy. Forse più inquietante.

Arrivammo alla macchina di Parker in silenzio: io terrorizzata di sentirmi gli occhi di mia zia addosso; lui forse pensando alla cazzata che aveva appena compiuto.

- Perché, Parker? - Chiesi, a bassa voce, raggiungendo la portiera ed aprendola. - Perché?! Saremo entrambi tormentati fino alla morte, da mia zia, ora è sicuro!

Sospirò, facendo come me ed entrando nell'abitacolo. - Eravamo condannati a quella fine da stamattina ... - Mi fece notare, guardandomi. - No, comunque, tua zia non è mai in casa ed ero distratto. Sono andato alla porta senza nemmeno pensarci … - Si giustificò, con una smorfia, infilando le chiavi nel cruscotto.

- Ma l'hai vista oggi! - Obiettai, incredula.

- Avevo altro a cui pensare, in quel momento. - Continuò, concentrato sulla macchina. - Ho agito per abitudine e basta. - E sembrò voler tagliare corto lì.

Aprii subito la bocca per ribattere, ma l'immagine di Max col cellulare in mano, davanti alla mia porta, mi tornò in mente.

Era stato impegnato a pensare a qualche messaggio appena arrivato?

Di seguito mi si parò davanti agli occhi il ricordo di lui e Clark che parlavano, nella classe.

Chiusi la bocca, sentendomi la gola secca ed osservando Parker.

Sembrava normale, così normale mentre accendeva il motore e la radio; così normale in confronto a com'era stato a scuola. Ma nel tono qualcosa sembrava aver stonato.

Come un'ora scarsa prima, mi chiesi se il grigio ci fosse mai stato – se continuasse ad esserci, - o se la mia fantasia si fosse limitata a viaggiare troppo.

Sospirai, sapendo che le domande non avevano risposta.

- E' già tanto, allora, che tu non abbia provato a cercare le chiavi di scorta. Sarebbe stato troppo per Lizzy vederti piombare in casa, senza bussare né niente. - Commentai, piattamente, provando a dare alla conversazione una normale sfumatura ironica, sia per compensare quei secondi di silenzio sia per testare il terreno e i miei sospetti su Max; mi allacciai la cintura di sicurezza solo in quel momento, nonostante la macchina fosse ormai partita da un po'.

Sorrise. - Mi avrebbe cacciato, dici?

Scossi la testa, provando a incrociare il suo sguardo e capire qualcosa con quelli. - Nah, lo sai benissimo. Sarebbe stato troppo per il suo cuoricino: morta dall'esagerato entusiasmo.

Rise e finalmente trovai i suoi occhi.

Erano davvero normali come sembravano?

- Visto? Dovresti comportarti come lei, ogni volta che mi vedi!

Scossi la testa, sbuffando. - Mai! - E un po' suonò a bugia.

Tornò alla strada, con un mezzo sorriso pennellato sulle labbra. - Immaginavo.

Seguì silenzio, ancora, riempito solo dal rumore della macchina e musica alla radio.

Lui guidava, battendo le dita sul volante; io lo guardavo di sfuggita, alla luce del tramonto che dava sfumature rossicce ai suoi capelli e gli faceva socchiudere gli occhi. In quel gesto mi sembrò di rivederlo, in qualche modo, nella notte del suo compleanno e rischiai di arrossire.

- Perché questa cosa? - Chiesi alla fine, non riuscendo a trattenermi e capendo di non voler nemmeno provarci a farlo.

- Cosa? - Finse di non capire, guardando la strada con attenzione.

- Questa … Uscita. - Continuai, insistendo su quella definizione, come avevo fatto a casa.

Fece vagamente spallucce, girando a un incrocio. - Mi andava. A te no? Eppure hai detto di sì! - E mi lanciò un sorriso voltandosi appena e spostando come sempre l'attenzione da lui a me. - Anche con un interessante entusiasmo.

Ignorai la provocazione. - Non me l'hai mai chiesto in tutti questi mesi, quindi scusa se lo trovo un evento eccezionale!

- Mi ripeterò: pensi troppo. - E rise.

Esitai un attimo, mordicchiandomi le labbra mentre la risata si spegneva.

La sensazione avuta a scuola potevo davvero essermela immaginata?

E se stava fingendo, cosa stava nascondendo?

Mi tornò di nuovo in mente Clark. E parlai: - Non ha a che fare con quello che tu e Clark vi siete detti, vero?

La domanda non sembrò nemmeno metterlo a disagio: parcheggiò tranquillamente e, appena finì, mi guardò, un po' perplesso. - Perché dovrebbe? Non sai nemmeno cosa ci siamo detti. - E sbuffò, quasi divertito dal fatto che avessi potuto anche solo pensarci.

Aprii la bocca per ribattere e lui spalancò la portiera, uscendo.

Lo imitai di fretta, ma non bastò a interromperlo: - Che dici, è presto per mangiare? - Chiese, chiudendo a chiave e non guardandomi.

Esitai, solo non sapendo se tornare sull'argomento o lasciar perdere, di nuovo. Alzò lo guardo e i suoi occhi trovarono i miei.

- Forse un po'. - Mi arresi, dopo quella ricerca inconcludente nel verde.

Mugugnò, come d'accordo, affiancandomi e rimanendo a una distanza neutra: né troppo vicino né troppo lontano. - Allora, sai, potremmo davvero fare quello che hai detto a tua zia. - Propose, con un mezzo sorriso divertito.

- Film? - Suonai ironica.

- Perché questo tono? - Si lamentò, divertito. - Li guardo anch'io i film!

Sbuffai, cominciando a camminare verso il cinema più vicino, a un solo isolato da quel parcheggio. - L'ultima volta che abbiamo provato a guardarne uno, non hai fatto altro che criticare la trama e l'amore e … - Tentennai, un po' per aver pronunciato quella parola, un po' per quel che seguiva.

Non sembrò farci caso, per mia fortuna. - Sì, e ho provato a fare qualcosa di più divertente su quel divano, ricordo. - Finì lui, bello come il sole e facendo spallucce.

- Per poi essere rifiutato. - Sottolineai. Rifiutato come non era di certo stato il giorno prima.

Mi rivolse una smorfia. - Solo per orgoglio. - Ed era vero.

- Sempre meglio che provarci per puro capriccio. - Mi impuntai, pensando a quello che mi aveva detto il giorno dopo: che aveva semplicemente avuto voglia di una ragazza e c'ero stata io.

In risposta mi arrivò del silenzio e mi girai a guardarlo. Lo trovai all'improvviso di nuovo strano e gli occhi verdi mi squadrarono un attimo. Mi sentii tirare un ciuffo e notai quanto si fosse avvicinato, camminandomi a fianco.

- Non hai ancora capito quand'è che mento e quand'è che dico la verità? - Domandò e forse fu lo sguardo strano a far sembrare la domanda più seria di quel che in realtà fosse.

- Purtroppo no. - Confessai.

Se avessi sempre scorto la verità e la menzogna nelle sue parole, con certezza, sarebbe forse cambiato tutto? Saremmo stati sempre lì, bloccati? Oppure definiti, in una qualche categoria che non riuscivo nemmeno a immaginare?

- Non so nemmeno se ci hai provato, a capirlo … - Disse e abbozzò un sorriso. - Forse hai sempre e solo dato per scontato che le cose brutte fossero la verità. - E gli occhi continuavano a guardarmi con fin troppa insistenza.

- Si dice tanto delle donne, ma sei tu troppo complicato. Non ti sarebbe bastato non dirmi semplicemente bugie? E' molto più semplice che aspettare che io estrapoli la verità.

Fece una specie di sospiro e la sua mano salì veloce fino alla mia nuca, sfiorandomi ancora i capelli e facendomi sobbalzare.

- Ma te li sei asciugati? - Chiese scettico, cambiando completamente discorso.

Lo guardai un attimo disorientata, poi corrucciandomi. - Dammi tempo, la prossima volta! - Mi lamentai, voltandomi verso la strada e cercando di non pensare a quello che c'eravamo appena detti. O forse avrei dovuto farlo?

- La prossima volta? - Mi canzonò e si era avvicinato perché la voce mi arrivò da davvero molto vicino.

Mi girai di scatto, trovandolo a pochi centimetri e mi sentii subito tendere. - E' da non credere come me la stai rivoltando contro, quando mi hai chiesto tu, oggi, di uscire!

- Sei tu però che hai espresso il chiaro e intenso desiderio di ripetere questa emozionante esperienza!

- Ma muori!

- Non lo vorresti. - Continuò a stuzzicarmi, col sorriso da schiaffi davvero a pochi centimetri.

Aprii la bocca per ribattere, ma ad impedirlo fu lo scontro ravvicinato con un distributore di giornali. Per poco non volai dall'altra parte.

Parker scoppiò a ridere, allontanandosi, e io finalmente mi guardai attorno: eravamo davanti al cinema e avevo camminato per tutto quel tratto senza guardar davanti nemmeno una volta. Era già tanto che non avessi beccato un palo.

Mi scostai dal distributore, fingendo bellamente che non fosse successo niente, e, superando lo sfigato, che continuava a ridersela, quasi deliziato, entrai dentro al multisala.

- Evy! - Mi chiamò, correndomi dietro poco dopo e cercando di smetterla con le risate.

Lo fulminai, in fila alla cassa. - Che film guardiamo? - Chiesi seccamente.

Lui sorrise ancora, cercando subito i miei occhi e dandomi una specie di buffetto in fronte.

- Non so … - Si guardò intorno, alla ricerca delle locandine. - Uhm, Oblivion? - Propose.

Cercai il poster appeso lì vicino. - E di cosa parlerebbe?

Fece spallucce. - E' un film, andrà bene.

Lo guardai scettica, avanzando nella coda. - Dai, se dobbiamo sprecare soldi che sia almeno decente …

Rise. - Avara come sempre, eh?

- Io non ho …

Mi interruppe di nuovo. - Te lo pago io il biglietto, tranquilla.

Mi bloccai un attimo: Max aveva sempre pagato tutto ogni volta che avevo avuto a che fare coi soldi, nei suoi stupidi incarichi, ma quello era diverso. E dopo tutto era solo un'uscita.

- Non voglio approfittarmene. - Ribattei.

Alzò gli occhi al cielo. - Se paghi i popcorn sei contenta?

- Mi stai dando il contentino? - Chiesi, accigliandomi.

Si avvicinò, afferrandomi per una guancia. - Ma sai che non ti va mai bene niente?

- Mnon è mvero! - Mugugnai, provando a liberarmi.

Una coppietta dietro di noi ridacchiò guardandoci e in effetti lo spettacolo doveva sembrare strano, così come noi.

- Invece sì! - Ribatté e sorrise, guardando da vicino quella smorfia ridicola che dovevo avere. - Prendi i popcorn, dai, e io pago questo. - E mi lasciò andare.

Sbuffai a suo indirizzo e in cambiò ricevetti una smorfia scettica.

Arrivai all'altra fila, continuando quello scambio di occhiatacce con Max, da una parte all'altra della grande stanza che conteneva tutto in quel cinema, tranne le sale di proiezione, e mi misi dietro a due ragazze, senza quasi accorgermi di loro. Solo quando si girarono, probabilmente, colsi i loro sguardi e alzai il mio.

Trovai due paia di occhi leggermente sorpresi e io impallidii di riflesso.

Entrambe erano mie compagne di scuola, del mio stesso anno; avevo ore in comune sia con l'una che con l'altra; e ovviamente mi conoscevano.

Si girarono di scatto, quasi fingendo di non avermi notata e volli assecondare il loro gioco.

La fila avanzò e toccò a loro ordinare da mangiare. Mi chiesi, aspettando, a cosa fosse dovuta quella leggera ansia che mi era presa, riconoscendole: avevo paura davvero che mi vedessero con Max? Di quello che avrebbero pensato? O forse a preoccuparmi era di più la reazione di Parker che, quando nelle vicinanze c'era qualcuno conosceva, passava sempre dagli “Evy” ai “Gray”?

- Ehy, ma ti sei messa le ballerine!

Sobbalzai, presa alla sprovvista, sentendo la voce di Max proprio alle mie spalle, e mi girai di scatto, come le ragazze davanti a me.

- E allora? - Chiesi, sulla difensiva, mentre lui mi affiancava col suo sorriso ironico.

- Allora fai tanto la sostenuta, ma ti sei davvero emozionata per questa serata, da metterti in tiro. - Continuò a prendermi in giro e non avendo evidentemente ancora notato le nostre compagne di classe.

- Non mi sono emozionata un bel niente! E questo non è mettersi in tiro! - Obiettai, lanciando un'occhiata veloce alle ragazze che non rispondevano più al cassiere.

- Beh per te, più o meno … - Insistette, solo per farmi arrabbiare di più.

- Semplicemente non trovavo più le all star e …

- Bug … Giarda … - Commentò, soffocando la parola tra finti colpi di tosse.

- E' vero! Poi sono comode!

- Se lo sapesse il Dittatore, cosa fa la sua cocca mentre lei non c'è ... - Continuò, fingendosi esasperato e scuotendo la testa.

Gli diedi un colpo sul petto, ma non mi suonò più a rimprovero, com'era sempre stato, il gesto, e probabilmente con la mano esitai una decina di secondi di troppo sulla sua maglietta. - Ci mancherebbe che mi mettessi nei guai ancora, con la preside!

Sorrise, pronto a ribattere, ma all'improvviso una strana smorfia gli si dipinse in volto. Lo guardai perplessa, non capendo. Deviò lo sguardo da me e trovò così, in quel momento, le nostre coetanee.

- Lilly! - Salutò una delle due, tornando di nuovo a un mezzo sorriso. - Non ti avevo vista! Potevi dirmi qualcosa! - La accusò e io non potevo fare a meno di guardarlo. Era appena successo qualcosa o me l'ero immaginata io?

- Non volevo disturbare! - Si giustificò una delle due, non seppi quale visto che non mi voltai nemmeno.

- Ma no, figurati. Film anche voi?

- Sì! - Confermò quella che, essendomi finalmente girata, riconobbi come Lilly; non fece notare a Parker quanto la domanda fosse stata idiota. - Voi due, invece ... - E ci squadrò, soffermandosi un po' di più su di me. - State uscendo insieme?

L'amica di Lilly la guardò con una finta occhiata di rimprovero, sgranando gli occhi e nascondendo un sorriso: in realtà entusiasta dell'intraprendenza dell'altra.

Io mi bloccai e sperai di non essere arrossita.

- Siamo venuti per un film. - Spiegò Max, senza esitare e senza spiegare in realtà un bel niente. E sorrise. - Ci vediamo dopo, dai: siamo arrivati tardi e ormai il nostro inizia. Salutami Scott! - Disse, per poi sorpassarle e prendere il loro posto alla cassa, congedandole velocemente così come le aveva interpellate.

Lilly e l'amica si allontanarono lentamente, girandosi a guardare Parker con una specie di broncio.

Io respirai, cercando di far finta di niente e sistemandomi al fianco di Max, con i gomiti sul bancone.

- Se dovevi smollarla con così tanta fretta, potevi anche evitare di dirle qualcosa ... - Gli feci notare vagamente, più per dire qualcosa che per altro, mentre il commesso ci riempiva la scatola più grande di popcorn.

Fece spallucce, ignorandomi e passandosi la mano tra i capelli.

- E ehy! Che roba enorme hai chiesto?! Mi mandi in rovina!

Sorrise leggero, ma continuando a non guardare niente di preciso, come pensando ad altro. - Taccagna. Devo offrirti anche questo?

- Mai.

- Prevedibile.

Poco dopo camminavamo fianco a fianco, come prima, verso la sala che ci spettava. Eravamo un po' in ritardo e, dietro la tenda scura, ci accolse il buio.

Demmo i biglietti al ragazzo all'entrata, che ci accompagnò, facendo luce con la piccola torcia, verso gli ultimi posti in sala.

Max ed io ci accomodammo nella fila vuota, pressoché in silenzio.

Mi sedetti, imitata da Parker, e mi tolsi la giacca leggera, lentamente, senza guardarlo e piegandola me la sistemai per bene dietro la schiena: per usarla come cuscino, ma stropicciandola il meno possibile.

Percepii prima l'odore più forte e il calore vicino alla guancia, che il suo tocco ai miei capelli, per scostarli, e la sua voce. Mantenni lo sguardo dritto verso lo schermo, cercando di non sciogliermi per il suo essersi avvicinato così all'improvviso e il suo sussurro contro l'orecchio: - In realtà volevo vedere questo film perché ho complessi d'inferiorità nei confronti di Tom Cruise: mia madre era innamorata di lui, quand'ero piccolo, e avevo seriamente paura che mi vendesse in cambio di un appuntamento con lui, in qualche modo. - Le parole, una pura idiozia, stonarono completamente con i brividi che mi avevano causato.

Risi, forse un po' troppo istericamente. - Quindi vuoi rivivere il tuo complesso? E sai, non pensavo che potessi seriamente temere qualcuno, dall'alto della tua vanità ...

Mi sentii pizzicare un fianco, da sotto il braccio e mi voltai a guardarlo, lentamente, cercando di accigliarmi, ma trovandolo troppo vicino per farlo davvero.

- Non è vanità, è realismo! E voglio farmi passare il trauma, comunque: basterà che tu dica che sono molto più bello di quel vecchiaccio e di sicuro mi sentirò meglio!

Scossi la testa, provando a non pensare alla vicinanza fisica, ma a quanto fosse stupido, e sorrisi. - Non te lo dirò mai, egocentrico.

- Scommettiamo? - Mi sfidò, con il solito sorriso da schiaffi e il suo viso mi sembrò più vicino.

Mi allontanai leggermente, per la mia sanità mentale. - Ah, visto? Non hai complessi d'inferiorità, sei solo un maniaco con cattivi propositi. - Lo accusai, di getto.

Soffocò uno sbuffò divertito. - E questo l'hai dedotto da uno “scommettiamo”?

- Le tue scommesse hanno sempre scopi malvagi! - Gli feci notare.

Il sorriso gli si cancellò all'improvviso e smise per un attimo di guardarmi, ma prima ancora che riuscissi a reagire a quella strana reazione, stava già sbuffando, facendo spallucce. - A volte, non sempre. Adesso volevo scommettere solo perché so che l'ammetterai anche tu, la mia netta superiorità.

- Stai male! - E risi, facendo finta che quello strano attimo non ci fosse appena stato.

Un signore davanti a noi, moro, con un paio di baffi altrettanto scuri, si voltò, zittendoci con un'occhiataccia cupa, nascosta e resa più scura da sopracciglia folte.

Max finse uno sguardo colpevole e sistemò la scatola di popcorn tra le sue gambe, cominciando a mangiare, mentre il film iniziava.

E così gli diedi un'occhiatina, sempre di nascosto, come avevo fatto in macchina, dissimulando un sorriso. Ed era ingiusto come anche la luce dello schermo gli donasse, a lui e ai suoi occhi.

Dopo un bel po' di secondi, arricciò le labbra, trattenendo una risata, e si volse, anche lui, avendo colto il mio sguardo. - Sì?

Riuscii a non arrossire e, mantenendo contegno, allungai solo una mano per raggiungere il cibo. - Niente. - Risposi. - Popcorn.

- Ah, pensavo fosse uno sguardo da chi spera in “scopi malvagi”, come hai detto prima. - Mi prese in giro, stravaccandosi un po' di più sulla poltroncina.

- Non sono come te. - Mi difesi, sbuffando e afferrando altri popcorn.

Lo vidi, anche nel buio, alzare le sopracciglia, . - Sempre ad accusare me? Tu hai proposto di andare al cinema!

Scossi la testa, ma sorridendo. - Ehy, io dicevo a mia zia, tu hai ritirato fuori il posto!

- Ma solo perché sapevo che volevi un luogo buio.

- Pieno di telecamere, certo … - Finsi di dargli corda, scetticamente, ma sentendomi quasi più elettrica alle insinuazioni.

- Sei anche esibizionista, Gray? Questa non la sapevo!

- Ma taci! - Lo sgridai, provando di nuovo a dargli un piccolo colpo dei soliti.

- Ho vinto. - Decretò, afferrando due popcorn e non avendo minimamente sentito il mio schiaffo sul braccio.

Un colpo di tosse del signore davanti suonò ad evidente lamentela.

Ci zittimmo per pochi secondi, continuando a guardarci. Lui mentre mangiava, con un leggero sorrisetto; io con la bocca socchiusa, pronta a ribattere e, alla fine, dopo aver controllato il tizio davanti, lo feci.

- No, vinco io. Sei tu il malintenzionato qui: hai scelto i posti nell'ultima fila, completamente vuota. - Lo accusai, sussurrando e continuando quella specie di giochetto.

Rise ancora, a bassa voce anche lui per non far voltare di nuovo il signore, e mi sentii sfiorare la mano. Percepii il sale dei popcorn, ma non mi diede fastidio, o forse, semplicemente, in ogni caso non mi sarei mai voluta staccare dal tocco.

- So di deluderti, ma sinceramente non ho cattive intenzioni … - Mi informò, piano, avvicinandosi per farsi sentire meglio, con la voce roca che caratterizzava i suoi sussurri.

Non ascoltai più le chiacchiere in sale, o la musica del film che iniziava; mi concentrai sulle sue dita che toccavano le mie, delicatamente, su ogni centimetro di pelle. Sentivo anche in quel momento la stessa sensazione allo stomaco che provavo sempre quando Max mi toccava. Passò l'indice sulle nocche, poi lentamente fino all'estremità del dito, delicato, così tanto da solleticarmi la pelle. Ma come sempre l'ultima cosa che mi faceva provare era il solletico.

- E che intenzioni hai? - Chiesi, riferendomi a quell'uscita, ma la domanda suonò più generale.

Esitò, come faceva ogni volta, quando era indeciso se dire la verità o mentire. Trattenni il respiro, sperando che scegliesse la prima cosa.

- Volevo stare con te. - Ammise, ma continuai a non respirare. - Stasera, finché posso.

Mi inumidii le labbra e sperai di non essere arrossita. - Finché puoi? Suona molto drammatico. - La buttai sul ridere.

Mi sembrò di vederlo leggermente sorridere, nella penombra. - Sei tu la drammatica: è semplicemente un “finché non torni a casa”.

- Lo so. - Abbassai gli occhi sulle nostre mani che si sfioravano, poi tornai al suo sguardo, fisso su di me, così vicino.

Ci osservammo, in silenzio; il film era iniziato da un po', ma ero convinta che, uscita da lì, non avrei saputo dire a nessuno di cosa parlasse, solo per essere stata seduta di fianco a Max, incapace di non concentrarmi su di lui.

I suoi occhi avevano la capacità di distrarmi, da tutto, così come i suoi lineamenti, le sue labbra, il neo, le sue dita sempre così calde che continuavano a giocare con le mie, nel solito modo incurante.

Il verde mi allontanò così tanto dal resto, che quasi non mi resi conto di parlare, mentre il suo pollice mi disegnava piccoli cerchi, leggeri, contro il palmo: - Non avevi detto che non tenevi per mano nessuna, Max?

Si bloccò: le sue dita si fermarono, ma non le ritirò, e gli occhi sfuggirono un attimo ai miei, per poi tornarci.

- Oggi hai intenzione di rinfacciarmi tutte le mie frasi? - Chiese, con una specie di mezza risata.

Mi ritrovai ad essere più entusiasta di quanto fosse lecito: per tutto quel disagio che sprizzava evidentemente da ogni poro e che non fece altro che rendermi più sicura. E più assettata di quelle frasi a metà che volevo così tanto sentire.

Mi avvicinai al bracciolo e quindi più a lui, arrivando a pochi soffi dal suo viso senza quasi rendermene conto. - Non si risponde a una domanda con un'altra domanda! - Lo sgridai, ironica.

In risposta arrivò un'occhiata torva, mal camuffata. - Sì, l'ho detto. Ma anche adesso non ti sto tenendo per mano, infatti.

La risposta mi fece arretrare di qualche millimetro, quasi delusa. Calai lo sguardo sempre sulle nostre dita, a cui sarebbe bastato così poco, come quella volta in fiera, per incrociarsi.

Così poco.

- Non posso tenere davvero qualcuna per mano … - Aggiunse, piano, riattirando la mia attenzione sul suo viso, dopo quei secondi di silenzio. Mi sembrò di vederlo di nuovo strano.

- Non puoi o non vuoi? - Chiesi e una specie di sorriso tirato mi fece distendere le labbra.

- Non ho mai voluto. - Spiegò, continuando ad avere gli occhi incatenati ai miei.

Sfuggii però, abbassando lo sguardo. - Lo so.

- Ma ora non posso, Evy … - Disse, ancora più a bassa voce, tanto che mi sembrò quasi di essermelo immaginato.

Di nuovo, con quel fare altalenante che stavo avendo, mi ritrovai a guardare il suo viso.

- E perché non potresti? - Domandai, e mi sentii il cuore in gola e probabilmente era lì davvero, pronto ad uscire e scappare a una risposta troppo chiara, che non andasse bene con quello che speravo, illudendomi come una bambina.

Esitò; la sua mano mi strinse le nocche, facendomi piegare le dita e sentire così piccola.

- Si pensa che stringere la mano a qualcuno sia rassicurante, che dia una sensazione di protezione, sollievo, che serva ad evitare del dolore, a tenere qualcuno vicino. - Cominciò e il battito lo sentivo fin nelle tempie. - Ma non è così. - Spiegò, gli occhi fissi nei miei, così tanto che sarei dovuta essere in grado di capirli, ma qualcosa continuava a sfuggirmi. - E' cominciando a stringere una mano, che si inizia a perdere qualcosa. E ci sono cose che non vorrei perdere. Non adesso.

- Shhh! - L'ennesimo ammonimento minaccioso, del signore davanti a noi, non poté essere più indesiderato e improvviso di così. - Se dovete parlare, uscite! - Ci sgridò, esplicitamente.

Max lo guardò, altrettanto esplicitamente infastidito. - Noi non urliamo, almeno!

E la sua mano scivolò dalla mia, mentre si rimetteva composto.

Io intanto non respiravo.

 

 

Da quando avevo a che fare con Max Parker, soffrivo decisamente di difficoltà respiratorie. E cardiache, ma su quelle avrei voluto evitare di approfondire.

Per il resto della durata del film – così come tante volte in quei mesi, - mi era infatti sembrato di non aver ispirato ed espirato nemmeno una volta, che nemmeno un soffio d'aria fosse circolato nei miei polmoni.

Entrambi eravamo rimasti fermi ai nostri posti, guardando il film, rivolgendoci solo qualche breve frase.

O almeno Max aveva guardato il film, fulminando l'uomo davanti a noi, ogni volta che si girava, sentendo un bisbiglio; io non ero riuscita a fare caso ad altro che che non fosse il frastuono nella mia testa, ma provavo a comportarmi più normalmente possibile. Probabilmente con scarsi risultati.

Un fischio acuto infatti mi risuonava da dentro, contro le orecchie, e chiedeva, a gran voce: le hai davvero capito, le parole di Max?

Il caos interiore cercava di rispondere di “sì”, ma l'aria assente nei polmoni, che non mi permetteva di pronunciare quel monosillabo nemmeno a bassa voce, non sembrava esserne convinta.

E tutta quell'agitazione era solo esagerata, in realtà: perché anche se Max avesse sul serio voluto dire che non poteva tenermi per mano, solo per paura di perdermi … Io cosa ne guadagnavo?

Niente. Un bel niente.

Il “game over” era davanti ai miei occhi, in quel caso.

- Ceniamo? - Mi chiese, interrompendo il silenzio che durava ormai da un po', mentre scendevamo le scalinate davanti al cinema.

Annuii, abbozzando un sorriso in sua direzione.

All'improvviso quello che rischiava di essere strano non era più lui, ma io.

Ma era inutile.

Avevo deciso di non sapere, di continuare con quelle mezze frasi, di godermi quel che c'era, finché non sarebbe arrivata l'inevitabile fine. Perché dovevo deprimermi per aver solo scorto il “game over”?

Bastava solo ignorarmi: smetterla di pensare di voler tornare sull'argomento e approfondirlo. Fermarmi prima che fosse tardi.

Il mio sorriso si sforzò di diventare più sincero. - Dove?

Sembrò notare il mio cambiamento e il suo braccio, camminando, sfiorò casualmente la mia spalla.

- Andiamo a prenderla d'asporto, la cena, mangiamo, poi dopo vediamo che fare. - Spiegò, evidentemente divertito e intenzionato a non spiegare altro.

- Posso almeno sapere in cosa consiste la cena? - Tentai.

- Posso darti indizi. - Continuò a giocare.

Alzai le sopracciglia, scettica, e alternando le occhiate dai suoi occhi al marciapiede, per non ripetere l'episodio di prima. - Vai.

- Non c'è purè.

Scoppiai a ridere, naturalmente, senza bisogno di sforzi e sapevo già di non star più pensando alle cose di prima; gli diedi un colpo sul braccio, fintamente infastidita. - Non avrei mai dovuto dirtelo, stronzo! Da quando sai che è il mio piatto preferito, devi sempre nominarlo, eh!

- Sennò che divertimento ci sarebbe ad avere quella roba come cibo preferito?! - Mi chiese, con una smorfia.

- Parla quello che adora il pollo alle mandorle! - Ribattei, incrociando le braccia e facendo la sostenuta.

- E' meglio del purè, Evy, sei tu l'anormale … - Mi offese, tranquillamente, e prima che dalla mia smorfia si potesse passare agli insulti, continuò: - Comunque, un po' hai indovinato!

- Ma non ho … Ah ... - Mi bloccai, scettica. - Cinese?

In cambio mi arrivò un sorriso soddisfatto. - Sei felice?!

- Di sicuro meno di te. - Gli feci notare, scuotendo la testa e continuando a seguirlo, camminando verso il suo ristorante.

- Non fare la modesta e non trattenere la gioia.

Lo ignorai. - Comunque hai parlato di un dopo, alla fine della cena, ma ti rendi conto che ieri non abbiamo dormito e … - Mi bloccai, parlando, per aver nominato, con così tanta naturalezza, quello che era successo la notte scorsa, a casa mia.

Incrociai i suoi occhi e il verde mi guardò in maniera diversa. - E? - Incitò e mi sembrò davvero strano che non fosse passato alle sue battute ironiche, per provare a imbarazzarmi, tenendomi su quei ricordi.

Provai a riprendermi, inumidendomi le labbra. - E sono già le 9, non so se faremo in tempo a fare molto altro. - Spiegai, incespicando da sola sul “molto altro”, che sembrava alludere a chissà cosa. Mostravo ormai chiari segni di pazzia.

- Invece ce ne sarà. - Iniziò a spiegare, smettendo di guardarmi e tenendo quello sguardo strano davanti a sé. - Non voglio tornare a casa, ti rapirò per un bel po'. - Finì, ma la voce suonò strana.

In qualche modo mi sembrò preoccupato e lo guardai, non capendo. - Per tua madre? - Chiesi.

Si voltò verso di me, perplesso. - Mia madre?

- E' a casa ed è arrabbiata con te per la storia della preside? - Tentai. - Hai detto di non volerci tornare ...

Esitò, con la bocca socchiusa, poi si morse le labbra. - No, per essere arrabbiata non lo è. Non particolarmente, almeno ...

- Tuo padre? - Insistetti, un po' più piano.

Sogghignò amaro. - Sono riuscito a convincere Claire a non dirgli niente. La tregua la vuole anche lei e le sta bene. Soprattutto ultimamente, dato che ce n'è una spontanea da quella partita di basket.

Capii senza bisogno di spiegazioni, di quale stesse parlando. Anche dal suo sorriso, più sincero.

- Allora mi strappi dal sonno per quali motivi? - Domandai, cercando di dissimulare il fatto che, nonostante le mie occhiaie sarebbero aumentate, quel rapimento non potesse rendermi triste.

- Ti dispiace? - Fece, divertito, e come sempre a dissimulare ero una frana.

Misi su una smorfia. - Oggi hai la mania di fare domande in risposta?

Rise, piano. - Quando uno non vuole rispondere, deve fare così. - Disse e con un sorriso che potevo voler dire tutto, fece i pochi passi che lo separavano dal ristorante, aprendo la porta.

Lo guardai circospetta, mentre ironicamente mi faceva il gesto cavalleresco di passare per prima.

- Perché mai non vorresti dirmelo? - Continuai, entrando e guardandolo con insistenza.

- Ti stressi troppo, Gray, ti verrà l'ulcera. - Mi ammonì, superandomi e andando verso il bancone. - Cosa vuoi da mangiare? - Chiese, in fretta, e, anche se l'occhiata sembrava tranquilla, probabilmente voleva allontanarsi dal discorso.

Mi arresi, perché in effetti un qualcosa mi sarebbe potuto venire davvero, continuando a quel modo. - Mi fido del tuo gusto. Non farmene pentire.

Rispose con un sorriso, mettendosi poi a parlare con una donna asiatica dalla dubbia età.

Una ventina di minuti dopo stavamo uscendo, col caldo e l'odore di fritto addosso, e l'aria di poco più fresca, nel buio della notte, fu un leggero sollievo.

- Fa caldino per essere aprile. - Commentai, tentata di togliermi la giacchetta a vento.

- Questa frase è stata molto inglese*, Evy. - Notò, ridendo e prendendomi di mano la busta con la cena.

Gli rivolsi una smorfia, ma durò poco. - Ti devo pagare la metà. - Feci presente; alla cassa aveva aperto velocemente il portafogli, sbrigando il conto da solo.

- Hai sempre preteso che pagassi tutto io e stasera cambi idea? - Chiese scettico.

- Era diverso. - Spiegai, corrucciandomi. - Quanto ti devo? - Ripetei, parecchio decisa.

Mugugnò, fingendo di assecondarmi e non rispondendo alla domanda. Poi gli occhi tornarono ai miei e sorrise, fin troppo divertito per essere rassicurante. - Propongo una cosa.

- Dico già di no.

- Come preferisci. - Fece spallucce. - Ma non ti dico quanto ti toccherebbe pagare a meno che tu non vinca una piccola gara.

Aprii la bocca, accigliata. - Che gara?!

- Sai il gazebo del parco? - Chiese, il sorriso sempre più ampio.

Feci mente locale della sottospecie di parchetto, vicino al centro, la cui unica attrazione, tralasciando alcuni giochi per bambini, era appunto un gazebo bianco e bello, seppur datato.

- Sì. - Annuii, circospetta.

- Se ci arrivi prima tu, paghi la tua parte; se arrivo prima io, allora rimane com'è adesso. - Propose quella semplice scommessa, sempre più ironico: era ovvio chi avrebbe vinto.

- Non è leale! Io sono negata a correre, mentre tu giochi a basket! - Mi infiammai.

Tirò fuori il cellulare dalla tasca, per la prima volta da quando me l'ero trovato davanti alla porta di casa. - Correndo ci vorranno cinque minuti di corsa, io te ne due e mezzo di vantaggio. - Propose. - Hai anche possibilità di vincere, se lo sfrutti bene. - Fece notare, continuando col suo sorriso.

Scossi la testa, fermandomi sul posto. - O fai una sfida equa o non ci sto!

- Così tanta paura di perdere? - Mi provocò, col sorriso da schiaffi. - Per una cosetta del genere, non hai nemmeno intenzione di provarci? Che codarda, nonostante tu non perda niente! Non me lo sarei mai aspettato da Evelyne Gray e …

E ci cascai in pieno, o forse volli cascarci eccitata dal suo sguardo: scattai subito, di corsa, sperando anche di guadagnarmi dei secondi, in direzione del parco. Alle mie spalle sentii la risata di Parker e, più che di presa in giro, suonava a semplice divertimento, sincero.

Mi mossi subito più in fretta di quanto sapevo avrei retto, in quei cinque minuti, sentendomi una bambina per aver ceduto a una provocazione così infantile e per star correndo, come non facevo seriamente, con quell'entusiasmo, da anni. Sorridendo, sentendo sempre di più il fiatone e lanciando occhiate all'indietro, sperai che i primi due minuti non passassero.

Contro quasi ogni mia aspettativa riuscii a non fermarmi nemmeno una volta, pur non provando nemmeno più a respirare correttamente per il naso e limitandomi a boccate d'aria, e arrivai in piazza, riuscendo a vedere da lontano il gazebo bianco.

Mi sfuggì un colpo di tosse e rallentai un attimo, guardandomi alle spalle.

Proprio mentre elaboravo il pensiero euforico di poter vincere, non vedendo ancora Parker alle mie spalle, lui svoltò l'angolo.

Sgranai gli occhi, seriamente nel panico per quel giochetto e ripresi a correre, più di prima, rischiando di inciampare ed uccidermi.

Sentii ancora la sua risata, da dietro, che si avvicinava sempre di più, e, senza rendermene conto, a quella si unì la mia.

Com'era ovvio che fosse, quand'ormai i nostri piedi toccavano l'erba e i metri dal gazebo erano pochi, lo vidi raggiungere il mio fianco e superarmi, per poi arrivare primo.

Nonostante la sconfitta, frenai la corsa solo poco prima delle scalette bianche di legno e cercai di riprendere fiato.

Alzai lo sguardo, trovandolo già in cima, con gli occhi verdi, di un colore più intenso e vivo del solito. Mi sorrideva, con la busta di plastica saldamente tra le braccia, e lo immaginai, in un attimo, mentre correva, cercando di non far cadere niente, né tanto meno di distruggerci la cena.

Aveva spudoratamente vinto.

Feci i pochi scalini che ci separavano, senza nemmeno un po' di frustrazione, solo esausta. - Basta! - Ansimai, lasciandomi cadere sulla panchina dentro il gazebo. - Io con te … Mai più!

Rise, ma col fiato corto anche lui: probabilmente per raggiungermi di fatica ne aveva fatta. - Ammettilo di esserti divertita!

Lasciai cadere la testa all'indietro, respirando profondamente e lasciandomi sfuggire un sorriso. - No.

Lo sentii sedersi di fianco a me, mentre realizzavo, per un non trascurabile male ai piedi, di aver sul serio corso con le ballerine. A quel pensiero mi resi conto che la vittoria me la sarei potuta benissimo meritare anch'io.

- Mi muori? - Chiese, e mi spostò un ciuffo di capelli, dalla faccia, indietro. E pur così stanca, il suo tocco lo notai tanto, rilassandomi di riflesso.

Chiusi gli occhi e abbozzai un qualche tipo di espressione – di sicuro simile a una smorfia, - e finii di stabilizzare il respiro.

- Non mi piace l'attività fisica. - Mi lamentai. Ma mi ero divertita: con l'idea di lui che probabilmente mi era alle calcagna, pensando alla gara, all'idea di vincere o di vederlo raggiungermi. - Ma ci ha visti qualcuno? - Chiesi, ridendo e sollevando finalmente il viso, per guardarlo.

- Di sicuro, ma ero più impegnato a cercare di raggiungerti per farci davvero caso. - Disse, sorridendomi.

Era vicino, tanto, e con il respiro ancora vivo, un colorito leggermente più acceso sulle guance, gli occhi così verdi, lì, mi venne voglia di avvicinarmi e baciarlo.

Mi morsi le labbra, trattenendomi con fin troppa fatica. E mi trattenni senza saperne davvero il motivo: forse per non interrompere quel momento in cui riuscivamo entrambi a sorridere così facilmente; per non appesantire il tutto con altri baci che avrebbero portato solo a conseguenze più grandi.

- Mangiamo? - Proposi velocemente, sentendomi in difficoltà e accaldata.

Lui forse lo notò, ma fece finta di niente e sistemò la busta, che aveva salvato, tra di noi. - Comunque ti farò cambiare idea sull'odio per l'attività fisica. - Mi avvertì, sorridendo.

La lattina, che avevo velocemente pescato tra tutto, quasi mi scivolò per terra a quella frase. - Eh?! - Chiesi, guardandolo di scatto e sentendo davvero il bisogno di bere.

Ricambiò lo sguardo, un attimo perplesso, poi scoppiò a ridere. - Evy, cos'hai capito?

Avvampai, provando ad aprire la lattina. - Non avevo s … - La linguetta di alluminio svolse la sua funzione, aprendo la bibita, ma quella, per tutto il movimento subito durante il trasporto, esplose e, dall'apertura, cominciò a scendere una cascata di coca cola e bollicine.

Spostai il braccio in tempo, prima di sporcarmi i vestiti, emettendo un semplice verso di fastidio. Max rise ancora di più.

- Sei agitata, Evy, o cosa? - Insistette, prendendomi chiaramente in giro.

Lo mandai a cagare con la mano asciutta, mentre con l'altra appoggiavo la lattina fradicia sul pavimento del gazebo.

Max mi passò dei fazzoletti, continuando a ridacchiarsela tra sé e sé e, appena finii di asciugarmi le mani il più possibile, tornai finalmente a guardarlo.

- No. - Risposi alla domanda di prima.

Annuì fingendo di assecondarmi. - Comunque, intendevo che ti avrei fatto amare l'attività fisica perché adesso, cenando, avresti notato che dopo dello sport il cibo è più buono. - Spiegò, innocentemente, continuando a sorridermi ironico.

- Infatti era esattamente quello che avevo inteso. - Concordai, tossicchiando e aprendo la busta di plastica, per smetterla di guardarlo.

Non rispose, lasciandosi solo sfuggire uno sbuffo divertito.

E c'era evidentemente qualcosa che non andava in me, da quando avevo a che fare con Max Parker.

Cominciammo a dividerci il cibo e dopo quello i fazzoletti, scambiandoci qualche breve frase.

Solo tirando fuori il pollo alle mandorle – mi sembrò quasi di veder Max illuminarsi, - notai le bacchette, in fondo, che entrambi avevamo ignorato.

Ne presi un paio, staccandole; con quel gesto mi tornò in mente la serata chiusi nella palestra, a mangiare cinese sui gradoni.

Provai a tirare goffamente su qualche pezzo di pollo, pensando al modo idiota in cui Max quella volta aveva provato a mangiare gli involtini, e mi sfuggì un sorriso.

Quella sera mi ero divertita, in qualche modo, pur odiando Parker; mi ero divertita e avevo provato quasi una strana simpatia nei suoi confronti. Almeno finché Clark non mi aveva spiegato la scommessa tra loro due: la ragione per cui ero stata chiamata a restare a cena in palestra, e trattata in quel modo quasi carino, era stata infatti un bacio.
Alzai gli occhi su Max, che tentava di valutare se aprire o no la sua lattina.
L'aveva già detto anche lui che ero sembrata intenzionata a rinfacciargli ogni sua frase, quella sera; quindi, ormai, tanto valeva fare lo stesso anche con le sue azioni, no?
- La scommessa tra te e Clark … - Iniziai.
A Parker però scivolò di colpo la lattina di mano, che cadde per terra, rimbalzando, e finì accanto alla mia; mi bloccai.
Mi guardò e non riuscii a capire la sua espressione. - Eh?

Lo osservai, perplessa, per qualche secondo, poi lui si chinò semplicemente a raccogliere la bibita e mi rivolse un mezzo sorriso. - Cosa c'è?

Di nuovo mi sembrò di essermi immaginata tutto.

- Niente, volevo solo dire che tutto questo mi sta ricordando la sera in palestra, a mangiare cinese … - Borbottai.

- Ah ... - Sorrise, come al solito tendente all'ironico. - Eri stata quasi carina e simpatica, sai?

- Tu quasi decente, ma poi si è scoperto che c'era di mezzo una scommessa. - Gli ricordai.

Rise, guardandomi divertito. - Hai tirato fuori l'argomento solo per potermi offendere un po'?

Feci spallucce, come valutando l'idea, mentre lui iniziava il pollo. - Non sarebbe male, in effetti.

Mugugnò, come se se lo fosse aspettato, ma ormai concentrato sul cibo, così provai di nuovo ad usare le mie bacchette.

- Sai. - Iniziò, dopo un breve silenzio, appena finì di mangiare, come al solito a una velocità esagerata. - Di simile a quella sera c'è anche il fatto che, tra una balla e l'altra, non siamo mai riusciti a berci una coca cola intera a testa. - Mi fece notare, ridacchiando e guardando la mia lattina svuotata quasi del tutto e la sua che, potenzialmente, avrebbe, con molte probabilità, fatto la stessa fine.

- Pensavo volessi evitare quell'argomento per non essere offeso. - Scherzai, mandando giù gli ultimi bocconi.

- Se non mi attacchi, senza motivo, a me va bene parlare di tutto. - Spiegò, con finta aria innocente, chinandosi ad afferrare la coca cola e dandole colpetti con l'indice.

Mi accigliai. - Quello non è senza motivo, te ne saresti merit …

- Manca il bidello Joe, però! - Esclamò, all'improvviso, di sicuro per salvarsi dalla mia ramanzina. Con una scatto aprì la lattina e niente esplose. Odiai il karma che come sempre lo favoriva.

Alzai gli occhi al cielo, lasciando perdere e lui in risposta rise; mi sentii i suoi occhi addosso.

- Però c'è un'altra cosa uguale a quella sera ... - Aggiunse, appena finii, e, tornando al suo viso, illuminato solo da due lampioni a qualche metro di distanza, lo trovai a sorridere, in un bel modo. E anche quello sapeva di già visto. - Solo che tu non la puoi vedere ...

Socchiusi la bocca, non sapendo che dire.

I suoi occhi calarono sulle mie labbra e a quel gesto ebbi di nuovo un déjà vu.

- Cosa? - Chiesi, a bassa voce, ma avendo già capito.

- Sei sporca, sopra le labbra, qui, di salsa. - E si indicò il punto, continuando con la stessa espressione, ma alternando lo sguardo da me alle mie labbra.

Battei in ritirata, con gli occhi, come quella sera in palestra, e allungai una mano per cercare un fazzoletto, ma la sua mano mi sfiorò il polso, bloccandomi.

Lo guardai di colpo, elettrica per il tocco.

Fu un battito perso ritrovarmelo così vicino; la sua mano mi attiro a lui o, forse, fui semplicemente io a muovermi, scontrandomi con le buste di plastica tra noi, facendole scricchiolare.

Era a pochi centimetri quando parlò, ancora: - E c'è un'altra cosa uguale a quella sera … - Continuò e non riuscivo a non fissare il verde, illuminato com'era dalla luce del lampione.

- Quale? - Chiesi e fu meno di un sussurro.

- Quello che avrei voluto fare, per aiutarti ... - Spiegò, pronunciando ironicamente l'ultima parola, con un sorriso, e si avvicinò, ancora, arrivando a millimetri dalla mia bocca e dai miei occhi; sfiorandomi il naso; sentii l'odore familiare del suo shampoo e la sua mano che arrivò ad accarezzarmi la spalla, spostarmi i capelli all'indietro, liberandomi il collo.

- Anche quella sera? Ma era per la scommessa … - Dissi, avendo capito, ma cercando di mantenere il controllo; capii di non esserne in grado appena mi sentii parlare e vidi la mia stessa mano ancorata alla sua maglietta.

Sbuffò e il respirò mi solleticò la pelle. - Ho detto “avrei voluto”, non “avrei dovuto”.

- Scusa se non ho badato al verbo, ma conoscendo quello che di solito dici e poi intendi, non c'è da farci molto caso, alle tue parole … - Provai a lamentarmi, ma la voce era troppo bassa.

Sorrise, dando anche un'altra occhiata alle mie labbra, e vedere Max così da vicino, in quel modo, avrebbe potuto uccidere quasi chiunque. E me?

- Cioè?

Probabilmente avrebbe posto fine anche alla mia, di vita, ma riuscii a parlare: - Sempre a darmi della brutta, ma già in quella palestra volevi baciarmi? Se è vero, non c'è molto da fidarsi di quello che dici.

Gli sfuggì l'ennesima risata e pensai quasi che lo facesse apposta, per farmi impazzire a sentirlo anche in quel modo così vicino.

- E' sempre la storia che non hai ancora capito quando mento e quando no ...

- Illuminami tu, allora. - Lo pregai, tentando di fare l'ironica, ma suonò quasi serio.

- Troppo facile così. - Si oppose. Ed era ridicolo come riuscissimo a continuare a parlare, stando vicini, sfiorandoci, sentendo il suo tocco sul collo, occhi l'uno nell'altro. - Potrei però aiutarti ad imparare, con le cose basilari ...

- Quanta bontà! - E il tono scettico, che avrei dovuto assumere, suonò come un singulto: il viso di Max infatti si spostò, accarezzandomi la guancia con le labbra e arrivando, alla fine, contro il mio orecchio.

Aprii la bocca, senza dire subito niente; alla fine si decise e pronunciò la prima parola così vicino da farmi fremere. - Odio i tuoi capelli, sai? Non vorrei mai, nemmeno una volta, passarci una mano in mezzo, sfiorarti la nuca ed avvicinarti. - Fece, toccandomeli e tirandomeli leggermente, delicato come sempre. - Li detesto, soprattutto sciolti … - Sentii una leggera e morbida pressione poco più sopra, sulla cute: seppi senza pensarci che era stato un bacio.

Le parole e le sue labbra che avevo appena percepito mi scombussolarono più di quanto fosse normale e tardai quasi una vita per rispondere. - Sarebbe una dimostrazione di bugia? - Chiesi, con la gola secca.

Lo sentii sorridere, contro la mia guancia, e la sua bocca scivolò giù, sfiorandomi il mento, raggiungendo il collo; sobbalzai sentendolo sfiorarmi la pelle sensibile dal succhiotto; la sua mano raggiunse il mio polso e per fortuna la giacca mi copriva le braccia, nascondendogli la pelle d'oca.

- Vorrei poterti toccare di nuovo, come ieri, su ogni centimetro; lentamente, con tutta la notte davanti, di nuovo, per sfiorarti ed accarezzarti ancora ed ancora, fino a domani. Vorrei che tutti questi vestiti sparissero, in un attimo, per sentire pelle contro pelle. - Sussurrò e se prima avevo avuto i brividi, al secondo bacio, contro il collo, mi sentii morire.

Deglutii, chiudendo gli occhi. - Verità …? - E più che a domanda, suonò a speranza.

Era così vicino che lo sentii ancora sorridermi, pur non vedendo niente tranne le luci sfocate dietro le mie palpebre.

La busta di plastica scricchiolò e, sentendo il suo respiro, capii di avercelo di nuovo di fronte.

Tenni gli occhi chiusi, per cercare – invano, - di salvarmi almeno un po'; mi morsi le labbra e le sue mi sfiorarono il mento.

- La tua bocca non mi tenta minimamente e non vorrei, ogni volta che la vedo, baciarti, senza aspettare altro. - Aprii gli occhi trovando i suoi socchiusi, vicinissimi, e smettendo di respirare. - Non sei bella, pur sforzandoti così tanto di esserlo; non penso decisamente fin troppo spesso a te, fino a livelli normali. Non mi piaci, per niente, e vorrei che questa notte finisse il prima possibile, perché non vedo l'ora di staccarmi da te e che arrivi domani. - Finì, più piano delle altre due volte ed era possibile che non mi avesse mai guardata così?

- Bugia? - Chiesi e in quella domanda si trovava il mio cuore.

Lo sentii di nuovo sorridere, senza vederlo, fin troppo vicino per riuscirci e con i miei occhi che non sembravano intenzionati a starsene aperti.

- Tre su tre ... - Mi fece notare e le sue labbra sfiorarono le mie.

- Non sei così intenzionato a farti capire, di solito … - Dissi e lasciai che le palpebre si chiudessero, mentre la mia mano saliva, fino al suo collo, toccandogli la pelle; la busta di plastica si schiacciava di più.

- Lo sono quasi sempre; e come l'hai capito adesso, potresti capirlo la prossima volta …

Mugugnai, in cerca di spiegazioni, ma incapace di parlare; la sua mano mi circondò il fianco per avvicinarmi e il buco d'aspettativa nello stomaco si spalancò.

Agognai, con tutta me stessa, il bacio che ...

- Papà! Quei due si baciano!

Entrambi sobbalzammo, più dalla sorpresa che per la frase, e le nostre prese si sciolsero, velocemente quanto lentamente si erano create.

Lontana da Max mi ritrovai accaldata e spaesata; cercai con gli occhi da ogni parte chi avesse parlato e alla fine trovai, poco più in là, sul gioco da bambini più vicino, un marmocchio, seduto su un cavallino che si muoveva avanti e indietro

- Sì, ho visto, ma tu gioca. - Rispose il padre, cercando di far voltare il bambino che ci osservava fin troppo curioso. Guardai incredula il signore, riconoscendolo in quello coi baffi che aveva continuato a lanciarci occhiatacce durante il film, così come in quel momento.

- Non so se dovremmo iniziare a preoccuparci di essere pedinati … Chi è che porta i figli al parco a quest'ora?! - Chiese Parker. La voce era normale ma lo sguardo, troppo intenso, tradiva quello che era stato sul punto di succedere; e c'era sconcerto e irritazione, nel complesso, ma quello non c'entrava con me.

- Ah non lo so ... - Commentai e la voce mi uscì così strana che dovetti recuperarla con un colpo di tosse. - Io smetto di guardarlo, intanto: mi inquieta. - Provai a sistemarmi sul posto, afferrando un fazzoletto per pulirmi, e scoprii di essermi irrigidita, rivolta per troppo tempo verso Max. Sentii poi ancora terribilmente caldo e feci scendere velocemente la zip della giacca: tentai di dare la colpa all'aria primaverile, ma sapevo benissimo di starmi mentendo.

- Andiamo, dai, sento i suoi occhi addosso in ogni modo; ho i brividi. - Si lamentò, piattamente, e cominciò a raccogliere le nostre cose da terra e dalla panchina – notai, in quel momento, di aver quasi del tutto schiacciato la busta, avendo tentato di avvicinarmi a Max il più possibile.

Annuii, d'accordo, alzandomi di colpo per aiutarlo e per dissimulare il disagio.

Poco dopo stavamo scendendo le scalette del gazebo, avviandoci a casaccio dalla parte opposta al baffuto.

Max lasciò cadere la busta nel primo cestino dell'immondizia che trovammo, poi mi guardò. - Che si fa? - Chiese, sorridendo divertito. - Se fosse estate proporrei di andare a fare il bagno di nascosto, nella casa con piscina di un'amica di mia madre; vive qua vicino!

Lo guardai male. - E' proprietà privata anche d'estate e non si può. - Gli feci presente. Pensai alla faccia che avrebbe fatto mia zia, venendomi a prendere in cella, per violazione di proprietà privata: forse, sapendo con chi ero stata, avrebbe anche riso.

- Non hanno mai beccato me e Billy! - Mi rivelò, convinto quindi che non ci fosse niente di grave.

- Cosa ci andate a fare tu e lui, da soli, in una piscina, di notte? - Chiesi, scettica, guardandolo.

Si accigliò. - Cosa stai insinuando?

- Niente! - Scherzai, un po' divertita, mentre passavamo nella parte più simile a un parco di quelle chiazze d'erba. - Comunque direi di cominciare ad andare verso casa … - Proposi, tornando a guardarlo.

Prima ancora che riuscissi a visualizzare per bene i suoi occhi, mi aveva afferrata per i fianchi, bloccandomi.

Sobbalzai, scottata dal tocco, e provai a lamentarmi, sentendomi trascinare contro l'albero più vicino.

- Cosa c'è? - Chiesi, a disagio e col respiro accelerato, guardandolo dal basso, mentre mi si parava davanti, continuando a tenermi stretta.

- No che non andiamo a casa. - Si oppose, con uno strano broncio.

Respirai più normalmente, anche se le sue mani erano ancora sui miei fianchi. - Con quella faccia sembri un bimbo viziato! - Lo offesi, cercando di rilassarmi in quel modo.

- Come vuoi, ma è presto e quindi non te ne vai. - Sembrò minacciarmi, avvicinandosi ancora di più e facendo scontrare le gambe con le mie.

Lanciai un'occhiata verso il gazebo e il signore di prima: il bianco risaltava nel buio – ancora più intenso in quel lato, - ma l'uomo non si vedeva e probabilmente nemmeno lui vedeva noi.

Tornai a Max. - Mi stai rapendo o cosa? - Gli sussurrai, piano per qualche strano motivo che nemmeno sapevo.

- Esatto. - Rispose, e non vidi la sua faccia: mi strinse infatti ancora di più, all'improvviso, appoggiandosi col viso ai miei capelli, facendomi finire contro il suo petto, sentendo le sue mani dietro la schiena e su un fianco. Non era un abbraccio, anche se da fuori poteva sembrarlo: gli abbracci erano dolci e calmanti; quello con cui Max mi stava stringendo era qualcosa di più forte, agitato, e esattamente agitazione era quella che mi stava trasmettendo.

Mi aggrappai alla sua maglietta, per quanto il poco spazio che mi stava lasciando lo permettesse e non aprii bocca.

Per l'ennesima volta mi sembrò che ci fosse qualcosa che non andava, e probabilmente era così sul serio: quando mai Parker mi aveva afferrata in quel modo? Tenuta stretta così?

Provai ad ignorare quella sensazione d'angoscia alla pancia, concentrandomi sul rumore delle poche macchine in strada, sul suo respiro, sui battiti del suo cuore che percepivo perfettamente. Era tutto un assordante battito, tra il suo e il mio: così disarmonici da completarsi, riempiendo le pause dell'uno e dell'altro. Sentivo un cuore ovunque. Sentivo me e Max ovunque. E sentivo entrambi così tanto, che mi sembrava impossibile non riuscire a pensare a quella sensazione, che avevo avuto anche a scuola: perché c'era quel retrogusto amaro, in quasi tutto?

- Max … - Provai a chiamare, dopo minuti di silenzio.

- Uh? - Borbottò, pianissimo.

Avevo così tanto la sensazione che l'avrei perso presto e che lui stesso lo sapesse, ma nonostante tutto non riuscivo ad aprire bocca per dirgli quelle due semplici parole. Le uniche necessarie. Non sarebbe dovuto essere facile, in quel momento? Sospettando di perderlo?

- Quando … - Iniziai, non sapendo nemmeno che specie di discorso stessi per fare. - Quando ad ottobre sei spuntato, in quel parcheggio, insieme alla foto, avrei voluto ucciderti e ti detestavo davvero tanto. - Feci e lui rimase in silenzio, aspettando che continuassi quella conversazione alla cieca con lui: senza vedere gli occhi l'uno dell'altra. - Sai, tra me e me ti definivo la mia personale punizione divina: scesa dal Cielo per tormentarmi e rovinarmi la vita. - Gli spiegai, senza sapere perché.

Sentii un abbozzo a risata. - Addirittura?

- La trovavo anche gentile come definizione, in realtà, sai? C'era quel “divina” che sembrava alludere a qualche tua strana caratteristica. - Continuai, e le mie mani scivolarono in una posizione più comoda, sulla sua schiena. - Ma poi pian piano ho cambiato idea … - Confessai.

Ci mise un attimo a rispondere: - Non pensi più che sia qui per rovinarti, in un modo o nell'altro? - Chiese e il tono suonò quasi spento, ancora strano.

- No, perché alla fine non l'hai mai davvero fatto, pur avendone avuto la possibilità. - Sussurrai. - E anzi, mi sono ritrovata a ringraziarti, io; ad avere bisogno, in un qualche modo, di te. - Aggiunsi, con un piccolo sorriso, contro il suo petto.

Mi strinse ancora più forte e trattenni il respiro, mentre le sue labbra si appoggiavano sui miei capelli.

Restammo in attesa, di chissà cosa, poi lui tornò a parlare: - Se non posso rapirti, conosci almeno un qualche modo per governare il tempo? - Mi domandò.

Corrucciai la fronte, perplessa e disorientata dal suo calore e da tutto quello che avevo appena detto. - Ti servirebbe?

- Non sai quanto ...

E ci zittimmo, in muto accordo, continuando a stare lì, contro quell'albero, nella notte; in quel silenzio che non era in realtà un silenzio.

 

 

- Grazie. - Borbottai, abbozzando un sorriso, appena arrivammo davanti a casa mia.

In qualche modo si era fatto tardi, fin troppo tardi - guardai di nuovo l'orologio in macchina che segnava l'una - e non sapevo come, dato che c'eravamo limitati a stringerci e a sussurrare solo qualche frase, per interrompere, a volte, il silenzio, quando diventava troppo.

- Niente. - Mi guardò provando a farlo come al solito, ma risultando strano, come dopo tutto ero io; e forse sarebbe stato impossibile essere diversi, dopo quelle ore.

Aprii la portiera, lentamente, facendo entrare nell'abitacolo l'aria ormai fredda. Prima nemmeno l'avevo notata.

Esitai, girandomi. - Mi …

- Accompagni? - Completò lui, ridendo e togliendo la chiave dal cruscotto. - Va bene. - Assecondò e nell'ennesima occhiata che ci scambiammo, scendendo, capii quanto ormai entrambi avessimo paura di allontanarci; ma io i miei motivi li conoscevo, quali erano i suoi?

- Siamo stati bravi, comunque. - Notai, camminando sul mio corto vialetto, per arrivare alla porta, con Max a fianco. - Abbastanza pacifici per sopravvivere a un'intera serata!

- Siamo sopravvissuti per mesi, in realtà; meriteremmo un premio. - Ribatté e con quelle due frasi eravamo già arrivati.

- Ma di solito come minimo litighiamo. - Mi fermai, voltandomi a guardarlo e Max mi sembrò più bello di quanto fosse mai stato prima di quel silenzio e quelle occhiate mancate, al parco.

I nostri occhi si incrociarono. - Se ti mancano così tanto possiamo sempre recuperarne una: sei facile da provocare. - Mi prese in giro, sorridendo.

- No, per una sera provo a riposarmi mentalmente! - Dichiarai, continuando ad esitare con le chiavi in mano.

Si guardò alle spalle, verso la macchina, durante il breve silenzio che seguì. - Vado, dai ... - Disse impassibile.

- Okay. - Risposi, cercando di far finta di niente.

- A domani. - E abbozzò un sorriso; si girò lentamente, dandomi le spalle.

In quel momento ripensai all'intera serata: al cinema, alla cena, al parco, all'abbraccio.

Mentre camminava, allontanandosi, con le mani in tasca, pensai a come mi fossi ostinata a definire quella sera un'“uscita”.

Ma non era un'uscita.

E nemmeno un appuntamento, come avrebbe detto zia Lizzy o Francy.

Era un addio.

Ne fui convinta, in quel momento.

Un addio.

Scattai, con lo stesso impeto avuto per raggiungere il gazebo, e in un attimo ero aggrappata alla giacca di Max.

Si girò, sorpreso, e ripensai alla sera a casa sua, quando, compiendo lo stesso gesto, l'avevo fermato, prima che uscisse da camera e casa sua: avevo pensato, come in quell'esatto momento, che se se ne fosse andato l'avrei perso, definitivamente. Stavo per perderlo?

Prima che potesse dire qualcosa, o anche solo aprir bocca, mi ero gettata sulle sue labbra, baciandolo, ancorandomi ai suoi vestiti, alzandomi in punta di piedi.

Esitò, ma fu un attimo, poi il braccio mi circondò i fianchi e mi avvicinò di più, in un modo simile a quello avuto nel parco.

Arretrai, sospinta dal suo viso, nella foga del bacio, rischiando di inciampare sui miei piedi, con la testa che girava e il cuore che batteva all'impazzata.

Schiusi la bocca, cercando di più e mi chiesi come avessi fatto ad aspettare tutto quel tempo: a stargli vicina e riuscire a non arrivare a quel punto.

- Era la buonanotte? - Chiese, staccandosi un secondo, quasi ironico ma con gli occhi troppo accesi per esserlo davvero; non gli risposi nemmeno e lo recuperai subito, tirandogli i capelli, con foga, quasi come rimprovero.

Lo sentii sorridere contro le labbra, prima di approfondire di nuovo, con più necessità di prima.

Ci ritrovammo a scontrarci contro la porta di casa mia senza quasi averci fatto caso; o almeno io non ci avevo fatto caso, troppo concentrata su Max, sulle sue labbra, sui brividi.

Mi staccai un secondo, a malincuore, all'ennesimo colpo contro la maniglia di casa; trovai i suoi occhi intensi e vicini. Ci guardammo.

- Entro a salutare Maxyne? - Chiese, troppo velocemente per essere normale.

Annuii, lasciandomi sfuggire, nonostante tutto, una risata e mi prese le chiavi di mano, quasi scottandomi con le dita. Tornò a baciarmi, ma sul collo, sfiorandomi la scapola, e la risata fu sostituita da un sospiro strozzato.

Solo quando la porta cedette, alle mie spalle, mi ricordai del mazzo che mi aveva appena rubato.

Incespicammo nell'atrio buio, e le chiavi, ributtate al loro posto da me, fecero fin troppo rumore.

Provai a staccarmi, in un attimo di lucidità, per controllare se mia zia fosse davvero su in camera a dormire, ma Max non mi lasciava più, non allontanando un attimo le labbra dalle mie, le braccia dalla mia schiena, e mandai tutto a cagare, arrendendomi e spostandomi, camminando a fatica, a destra e a sinistra, verso la sala.

Non accendemmo nemmeno una luce, muovendoci al buio, guidati solo dalla memoria e dai respiri secchi.

Andai a sbattere contro il divano e, aggrappandomi a Max, mi ci lasciai cadere: lui si sbilanciò solo un po', tenendomi per un fianco, ma alla fine mi seguii volontariamente, e sentii la pressione sui cuscini quando il suo ginocchio si sistemò di fianco alle mie gambe, per non pesarmi addosso.

Continuammo a baciarci e io ero sempre più inebriata dalla situazione, da lui, dal suo odore, dal suo tocco sul fianco, quando le dita si infilavano sotto la giacca e la maglietta sfiorandomi la pelle del ventre.

Ci fermammo dopo minuti, a riprendere fiato, e mentre la testa mi girava e sentivo prossima la morte, lui continuava a lasciarmi baci leggeri sul mento, sullo zigomo, sull'orecchio …

In quel momento, sospirando, tenendo gli occhi chiusi, incapace di fare altro, mi tornarono in mente gli attimi prima di fermarlo e baciarlo: mossa dalla quasi convinzione che quella notte fosse un addio. Ma era giusto trovarsi su quel divano, baciarsi, accarezzarsi, se quella era l'ultima sera?

Mi strinsi alle sue spalle, a quel pensiero, spingendolo all'indietro. Si bloccò disorientato.

- Siediti. - Gli sussurrai, con una strana ansia addosso.

Non era giusto tutto quello, non se quella notte era sul serio l'ultima, per qualsiasi motivo potesse essere così.

Non era giusto, non era la cosa che Evelyne Gray avrebbe normalmente fatto.

Ma se era l'ultima notte, volevo godermela, Evy voleva godersela: tenermi stretto Max, finché potevo; baciarlo se ci riuscivo ancora, assaggiandolo; sentirmi toccare e respirare ancora il suo odore; sentirlo tutto; sentirlo mio. E, mentre lui si tirava all'indietro, appoggiandosi con le ginocchia e io mi aggrappavo a lui, a cavalcioni, infilando le dita tra i suoi capelli, capii forse perché non avesse voluto così tanto che quella notte finisse. Non lo volevo nemmeno io.

Era davvero l'ultima? Avrei voluto chiederglielo, mentre gli lasciavo baci sul collo risalendo lentamente; e le mani mi tremavano.

Era davvero l'ultima?

Mi sentii sfilare la giacca, a fatica, troppo di fretta, mentre lui sospirava un po' più forte appena raggiunsi l'incavo del mento.

Era davvero l'ultima?

Ed era crudele pensare a come il tempo passasse, in ogni caso, durante quei baci, mentre sfioravo per sbaglio una sua mano, sentendolo addosso, così vicino.

Potevo bloccare il tempo e rimanere così, per sempre?

Raggiunsi con i baci finalmente il bordo della sua bocca e, prima che potessi finire il percorso a cui avevo pensato, con lentezza, godendomi la sua pelle il più possibile, lui me lo impedì, finendo il gioco e chiedendomi subito di approfondire il bacio, con urgenza ed eccitazione.

Probabilmente la era sul serio, l'ultima notte.

Portai le mani verso i bordi della sua maglietta, per sollevargliela e cercare la pelle nuda, ma mi incastrai con le sue braccia, intente a fare lo stesso con me. Entrambi ce la facemmo e ci sfuggì una risata, staccandoci di pochi millimetri, per permettere ai vestiti di essere sfilati; ci ritrovammo subito, sfiorandoci coi nasi e la sua mano mi accarezzò i fianchi, facendomi tremare.

- Evy … - Mi chiamò, con la voce bassa, roca, facendo scorrere le labbra sul mio viso, sul collo, scendendo e spingendomi di nuovo indietro, sdraiata.

Mugugnai, ricadendo di schiena sul divano.

- Non dirmi che l'unico interruttore è quello vicino alla porta … - Mi pregò, sussurrando, e la sua mano salì lungo la schiena, arrivando ai gancetti del reggiseno.

- Non te lo dir … - Iniziai, ma interrompendomi a causa della mia voce. - Direi, ma è così …

Sbuffò, soffiandomi quasi sul seno, e risi. - Non credo di avere la forza di allontanarmi così tanto, quindi … - Suonò rassegnato e mi fece ancora ridere.

Ridevo anche se era l'ultima volta.

- Max … - Lo chiamai, mentre cominciava a lasciarmi baci sulla pelle accaldata, scostando il reggiseno. - Max … - Ripetei e sembrò una cantilena.

- Sì? - Chiese e cominciò una tortura più lenta, sul mio seno.

- Max … - Feci dopo pochi secondi, e un gemito strozzato si unì al suo nome.

- Dimmi … - Sussurrò, continuando a lasciarmi baci umidi e a farmi fremere.

L'ultima volta.

Ed era sbagliato, ma il mio cuore voleva quello: l'ultima volta, ma anche la prima.

- Fai l'amore con me?

 

 

 

Ero appena arrivata a scuola.

Come ogni mattina, l'afflusso in entrata era lento, scocciato e sparpagliato, tra quello ero compresa anch'io.

- Davvero ve ne siete stati così tanto al parco? - Chiese Francy, a cui avevo cominciato a fare, al bar, un breve riassunto della serata; aveva parlato con uno strano tono, tra il sorpreso e intenerito.

Annuii, inumidendomi le labbra, assonnata, e cominciando a camminare verso gli armadietti. - Il tempo è volato, in un qualche modo che non saprei ben spiegare … - Borbottai.

- L'amore! - Sospirò lei, dandomi di gomito.

Abbozzai una specie di sorriso, evitando di spiegarle come in realtà quegli abbracci fossero stati strani.

- Comunque, dopo siete andati a casa? - Si informò, saltellandomi a fianco, di evidente buonumore.

Annuii, guardando fisso davanti a me.

- E …? - Indagò ancora, sperando di cogliere qualche dettaglio “piccante”, come avrebbe detto normalmente.

Aprii la bocca per rispondere, ma una voce, alle nostre spalle, ci interruppe: - Francy! - Kutcher arrivò quasi di corsa, per poi rallentare in vicinanza della sua morettina; le appoggiò una mano sotto il mento, sollevandoglielo e le lasciò un bacio a fior di labbra. - Buongiorno! - Esclamò, e mi sembrava di vederlo emanare fiori o qualche altro simbolo spastico di felicità. Oltre a zucchero.

Francy arrossì, allontanandosi un attimo, a disagio, e lanciandomi un'occhiata, quasi avessi potuto disapprovare e guardarla con disprezzo.

Risi, invece, del suo sguardo e mimai il gesto di coprirmi gli occhi e le orecchie, per dirle di non badare a me.

Lei sorrise e tornò a guardare Alex. - 'Giorno! Oggi usciamo? - Gli chiese e anche lei mi sembrò emanare zucchero. Una darkettara così non si era mai vista.

Lui annuì, entusiasta. - Dove vuoi andare?!

Provai a nascondere una smorfia, mentre tentavo di far finta di non ascoltare la loro conversazione: quello era il passo successivo, il “poi escono”, nelle sue caratteristiche basiche e necessarie: entusiasmo, niente ansia, felicità. Pensai a me e a Max, che di certo non gettavamo amore da ogni parte, e non rispondevamo ai requisiti. Ma avrei dovuto già saperlo.

Mi morsi le labbra, ritrovandomi, in quel breve spazio di tempo, da sola coi miei pensieri.

Se la sera prima era stata l'ultima, come avevo così tanto creduto, cosa sarebbe successo tra Max e me, quel giorno?

Ma anche se non fosse stato così, cosa sarebbe successo, in generale?

Mi passai una mano tra i capelli, chiudendo gli occhi, e ricordai i dettagli di ciò che era successo a casa mia: le labbra e le mani di Max, i respiri, il divano fin troppo piccolo per entrambi, il mio reggiseno slacciato; la mia domanda.

Aprii gli occhi, mordendomi le labbra.

Avevo voluto sbagliare, dandogli tutta me stessa, per poterlo sentire mio, in quella che ormai avevo percepito come l'ultima notte.

Ma … Ma Max aveva detto di no, una seconda volta.

Ricordai con particolare chiarezza il suo bloccarsi, stringendomi un attimo di più e poi lo scuotere la testa, il “Non posso” e i pochi baci successivi, amari, per poi andarsene.

C'era qualcosa che non andava, in me? Evidentemente sì, visto che non trovavo altre spiegazioni.

- Evelyne? - Mi chiamò Francy e dal tono doveva essere almeno la seconda volta che lo faceva.

- Uh? - Chiesi, riscuotendomi.

- Hai detenzione, oggi?

Feci una smorfia, ricordandomene. - Sì, purtroppo.

Kutcher rise, guardandomi. - Ieri ho chiesto a Max perché doveva restare a scuola e mi ha guardato malissimo, dicendo che la preside era un'esagerata e che voi due non stavate facendo niente; è vero?

Provai a sembrare il più innocente possibile. - Certo che lo è.

Alex diventò scettico, e intanto la prima campanella suonò.

- Ah, devo andare! - Si lamentò, chinandosi ancora verso Francy e lasciandole un altro bacio. - A dopo! - E, facendo un cenno anche a me, si allontanò.

- Non avevi detto che non vi eravate messi insieme? - Chiesi, guardandola ironica.

Sbuffò, dissimulando con un gesto. - Ma non è semplicemente ufficiale …

Risi, scuotendo la testa e cominciando a prendere i libri dal mio armadietto.

- Comunque, te e Parker? - Tornò all'argomento di prima.

Esitai un mezzo secondo. - Ci siamo dati un bacio e poi separati. - Risposi, di getto, sentendomi di seguito in colpa più che mai.

Annuì, guardandomi contenta e cercando di spingermi ad esserlo di più. - Dai, allora è andata anche abbastanza bene!

Feci cenno di sì.

 

A parte l'aver incrociato Clark, alla prima ora di Storia, che mi rivolse uno strano sguardo non ben decifrabile, arrivai alla terza ora tranquillamente, come ogni mattina.

Apparentemente tranquilla, chiacchierando ogni tanto a mezza voce con Emily, in realtà fremendo dalla voglia della pausa pranzo, per incrociare finalmente Parker e capire se mi fossi immaginata tutto o se avrei trovato le conseguenze della mia domanda.

- In detenzione, quindi? - Ripeté Emily, guardandomi dispiaciuta: a lei non avevo ben spiegato il perché della punizione, ma sapevo che se la immaginava.

- E' un po' traumatico perché è la prima volta, ma due settimane passano in fretta … - Borbottai, dando intanto occhiate alla professoressa che spiegava.

All'ennesima volta che mi ritrovai a guardare verso la cattedra, qualcuno bussò alla porta.

La classe si accese, come ogni volta che qualcuno veniva ad interrompere; io feci una smorfia, ricordandomi di quando la preside aveva aperto, per chiedere di me e farmi sapere dell'incidente di zia Elizabeth.

Dopo l'“avanti” della professoressa, la porta si aprì, mostrando il solito Joe, imbronciato e scocciato più che mai: forse era la vecchiaia a peggiorarlo.

- Desidera? - Chiese la signorina Granger, l'unica professoressa, forse per la giovane età, a mostrare un qualche tipo di cortesia nei confronti del bidello.

Joe squadrò la classe, senza degnare di molta attenzione la donna.

Quando vide me, si fermò, il mio sguardo annoiato mutò.

- C'è bisogno di Evelyne Gray, in presidenza.

Mi alzai di scatto, mentre la signorina Granger annuiva, e il primo pensiero corse a mia zia e mi trovai ad impallidire, uscendo di classe.

Joe, come ogni volta che chiamava qualcuno, si limitò a borbottare di andare dritta filato, e mi lasciò sola, a percorrere i corridoi.

Cercai di darmi una calmata, pensando che Elizabeth era lì in città e che le fosse successo qualcosa era molto improbabile.

Che fosse dunque per la faccenda Sgabuzzino del giorno prima? O c'entrava Yale?

Arrivai, ignara di tutto, nel corridoio della presidenza.

Feci gli ultimi passi e, arrivata alla porta, bussai.

La voce del Dittatore, ferma e fredda come sempre, mi annunciò di poter entrare. Eseguii, abbozzando un sorriso di circostanza e avviandomi verso le sedie di fronte alla sua cattedra.

Provai a guardare l'espressione della preside, per capire, ma lei si mostrava impassibile come sempre.

- Gray. - Mi salutò e io annuii.

- Di cos'ha bisogno?

Rimase subito in silenzio, poi estrasse semplicemente un foglio, da sopra una pila e me lo porse davanti agli occhi.

Guardai prima perplessa la donna, poi la fotocopia di quella che sembrava essere una pagina del computer. Un'email, di preciso.

Dopo la breve occhiata, guardai il mittente, uno strano indirizzo fatto di numeri, e il titolo mi saltò all'occhio: si chiamava “Evelyne Gray”.

Sgranai un attimo gli occhi, per poi correre al breve testo sotto:

Sono in possesso di foto che provano un piccolo scandalo nella vostra scuola.

La vostra miglior studentessa, Evelyne Gray, ha passato, per mesi e mesi, sotto ai vostri occhi, e con la vostra apparente approvazione (dato che si approfittava della vostra fiducia), le soluzioni dei test agli studenti, in cambio di soldi.

Non ci credete? Ne ho le prove.

Ma tanto per cominciare chiedetelo a lei.”

La prima reazione fu terrore; cercai di mantenere lo sguardo fisso sul foglio e di non mostrare niente, né un minimo movimento di sopracciglia, né un piccolo sgranamento degli occhi. Quando credetti di avere il più possibile controllo della mia espressione e del mio corpo, alzai il viso, trovando subito gli occhi freddi della preside.

Provai a non pensare ad altro che alle bugie che stavano per aggiungersi all'elenco.

- Cosa sarebbe questo? - Chiesi, scegliendo l'offesa, come sentimento.

- E' quello che volevo chiederti anch'io, Gray. Hai qualche idea di che cosa significhi?

- Che sono tutte frottole, quello di sicuro. - Ribattei, decisa. - Mi conoscete e … - Iniziai, sentendomi male per puntare come arma vincente sulla Fiducia, la Fiducia che non mi meritavo.

- Sì, ti conosco, Evelyne. Ma conoscevo la Gray che non si sarebbe mai trovata in uno sgabuzzino, chiusa con Max Parker. - Rispose, fredda più del ghiaccio, ma me lo meritavo. - Questa email, in questo momento, non era la cosa migliore: non so, davvero, se fidarmi.

Il mio sguardo cedette e sperai non mi tradisse. - E' solo un email, anonima e …

- Infatti non ti ho ancora accusata di niente e spero di non doverlo fare mai. Se non hai fatto niente e non hai nulla da temere, le cosiddette prove in possesso dell'anonimo non dovrebbero preoccuparti; in caso contrario, ci rivedremo, in questo ufficio, per parlare.

La campanella di iniziò pranzo suonò e sembrò il martelletto di un giudice, che rinviava la corte fino al prossimo giudizio.

- Esatto. - Risposi, sorridendo.

Il Dittatore mi osservò un attimo, per poi congedarmi, con un cenno di mano.

Uscii dall'ufficio e solo dopo aver chiuso la porta mi appoggiai al muro con una mano, gli occhi sgranati.

Un solo nome mi rimbalzava davanti agli occhi: Seth Clark.

Era stato lui, spudoratamente lui!

Mi ritrovai ad odiarlo come non credevo fosse possibile odiare qualcuno.

La colpa era mia, mia per aver fatto tutte quelle cose sbagliate, ma perché dovevano ritornarmi indietro? Perché aveva deciso di rovinarmi in quel modo?

Marciai, a passo svelto, sentendomi andare a fuoco per il sangue in testa.

Volevo solo vedere quel ragazzo, tutto il resto era in secondo piano; scesi le scale, bruciante di rabbia.

- Eve!

Fui quasi tentata di non girarmi, ma mi bloccai, voltandomi verso Francy. Fremetti sul posto, troppo vicina alla mensa e probabilmente a lui.

Sgranò gli occhi, avvicinandosi. - Cos'è quella faccia? Emily mi ha detto che ti hanno chiamata in pr …

- Clark ha mandato un'email alla preside dove dice di avere le prove che passavo i compiti agli alunni! - Le spiegai, di getto, provando però a non alzare la voce per non far degenerare ulteriormente la situazione.

Francy impallidì. - Eh?!

- Hai capito bene! - Mi tirai i capelli all'indietro, provando a respirare profondamente.

- Ma non ce le doveva avere solo Max quelle foto?! E ha intenzione di inviargliele?!

- Non ne ho idea! - E quella volta quasi cacciai un urlo, incapace di contenermi.

Francy boccheggiò, a disagio.

- Scusa … - Sussurrai, chiudendo gli occhi con forza e cercando di non pensare a tutto quello che c'era il rischio si sgretolasse, irrimediabilmente.

Il mio futuro. La posta in gioco era tutta la mia vita.

- Se non gliele ha inviate subito vuol dire che vuole parlarne con te, Eve, ne sono sicura! Nessuno sarebbe così cattivo da ...

- Non lo so … Non lo so davvero … Non so niente … - Continuai, così piano e con un groppo in gola che di sicuro mi rendeva incapibile.

Molti studenti passavano, guardandomi perplessa.

- Vado a parlargli e ad ucciderlo. - Decretai, probabilmente seria, dando le spalle a Francy e tornando a marciare verso la mensa.

- Eve! Non esagerare che qua ti vedono tutti!

Ma nemmeno l'ascoltai, troppo in preda a un giramento di testa che mi impediva di ragionare.

Entrai di getto nella mensa e, come a volte succede, i miei occhi mirarono immediatamente su quello che volevo: Clark, in fondo alla sala, vicino alla porta che portava al giardino dei fumatori, appoggiato al muro, tranquillo come mai, intento a parlare con un amico.

Mi diressi verso di lui, come una furia, non pensando, come aveva detto Francy, a chi potesse vedermi o sentirmi.

- Clark! - Urlai e probabilmente tutta la scuola si girò in mia direzione: compresi gli occhi blu e quelli sembrarono quasi sorpresi; ci avrei forse creduto se la verità non fosse stata così schifosamente evidente. - Sei uno stronzo! Tu …

Delle braccia mi afferrarono per i fianchi, bloccando la mia corsa quasi alla fine, a pochi metri dalla fonte del mio odio; quelle mi sollevarono, girandomi dall'altra parte, impedendomi di vedere Clark. Era Max.

Le immagini della sera prima mi tornarono tutte davanti agli occhi, così diverse da come appariva lui in quel momento; le sue mani sul mio corpo, totalmente estranee a quelle del ragazzo della notte prima.

Mi disorientò, ma non abbastanza per impedirmi di ribellarmi alla presa.- Lasciami, Parker! Non è il momento di …

- Stai zitta. - Mi riprese, gelido.

Mi bloccai, riuscendo a vedere Clark che ci guardava scettico e gli occhi verdi di Max, fissi nei miei.

- Zitta?! Non hai idea di cosa …

- E invece ce l'ho. - Ripeté.

Lo mandai a cagare con un gesto, troppo arrabbiata. - Clark … - Tentai di nuovo di urlare, ma la mano di Max fu con forza sulla mia bocca, lo sguardo a pochi centimetri, serissimo. - Ti ho detto di ...

Mi dimenai di nuovo, riuscendoci di quel poco per parlare. - Smettila, Parker! Non starò zitta! Non sai cos'ha appena fatto! Ha mandato le …

Mi interruppe ancora, ma questa volta solo parlando:

- Lo so benissimo, ho detto! Perché non è stato Clark: sono stato io.

 


*Angolo autrice:

E' STATO UN PARTO

E tra 30 minuti esatto parto per la Spagna, fanciulle . (un mese, dai nonni, come sempre …) quindi non riesco a commentare ... Se avete dubbi scrivetemelo!

Attente ai particolari, a tutto.

Alla prossima, avrò internet là e aggiornerò <3 (in Spagna sono sempre molto ispirata, la storia l'ho iniziata lì, infatti! Ahahah)

*Cosa, chi, quando, dove, perchè, come?

*Gli inglesi hanno la fama di parlare sempre del clima, per occupare i momenti di silenzio.

   
 
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