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Autore: Alyss Liebert    06/08/2013    4 recensioni
Un bambino allegro, pieno di sogni e speranze è stato vittima delle discriminazioni contro la sua gente. Riconosceva di essere diverso dagli altri, voleva esplorare il mondo che lo circondava per imparare a rispettare le persone ed essere accettato.
Il suo clan venne sterminato pochi anni dopo per avidità e disprezzo. Ricordava i corpi senza vita dei suoi familiari, bruciati ed ammassati a terra come degli appestati, e i loro visi senza bulbi oculari...
"Quegli occhi scarlatti valgono una fortuna".
"Appartenevano ai figli del diavolo!".
Giurò vendetta a costo della vita, diventando un Blacklist Hunter per recuperare gli occhi dei suoi compagni e dare la caccia alla Brigata.
Il Kuruta si era incatenato nella parte più squallida della società, dove gli omicidi erano all'ordine del giorno e dove i frustrati diventavano peccatori.
Stavolta i problemi sorgeranno nella Mafia. In questa guerra Kurapika si renderà conto delle sue scelte sbagliate, dell'odio che lo ha accecato, di essere diventato un criminale.
Si risveglierà la sua parte malvagia e svanirà il suo buon senso. Non potrà contare sull'aiuto dei suoi amici e capirà di aver gettato la sua anima e giovinezza in un baratro dove non sarebbe più arrivata la salvezza.
Genere: Azione, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kurapika, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta, Spoiler!, Tematiche delicate
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L’udienza.
Capitolo 3: “Dubbi x Malvagità x Intrusione”.
 
 
 
 
Le prime luci dell’alba cominciarono a diffondersi in tutta la città. Il forte acquazzone della sera passata aveva lasciato inaspettatamente poche tracce come delle semplici pozzanghere e nessun allagamento.
Era lunedì e i ragazzi si stavano avviando come degli zombie verso le loro scuole con i propri zaini pesanti.
 
 
Basho era sveglio già da un paio d’ore e, mentre era impegnato a consumare la sua terza sigaretta, ammirava il paesaggio fuori dalla finestra della sua camera. Osservava con disprezzo i volti annoiati e stanchi degli studenti; avrebbe pagato oro per essere al loro posto e questi ultimi, i quali non sapevano cosa significasse lavorare e sudare, se ne sarebbero amaramente pentiti.
 
Il moro era di cattivo umore. Non aveva dormito tutta la notte perché la sua unica ossessione era la discussione che lui, Kurapika e Light avevano avuto con quello strano capo Mafia.
Si sentiva un idiota per non aver difeso a sufficienza il suo capo. Aveva lasciato che il suo amico parlasse per tutti e la sola cosa che aveva potuto fare era agitarsi e ribollire dentro per come quell’uomo li stuzzicava, per come li prendeva in giro.
Nakamura era una persona molto furba e attenta, non c’erano dubbi. Stava per far perdere la capacità di ragionare al biondo ed era una cosa parecchio rara.
Ce l’aveva con lui, lui e nient’altro che lui; lo offendeva, lo trattava quasi come se fosse un bambino. Non riusciva a capire perché gli interessasse sapere la sua provenienza, il motivo per cui aveva scelto quel lavoro…
“Bastardo impiccione!”, pensò aggrottando la fronte.
Light era riuscito a difendere le sue guardie per poco tempo, poi le domande dell’altro boss lo avevano completamente catturato.
Lo stava trascinando a raccontare tutte le faccende del Kuruta, spingendolo sempre di più a provare curiosità per i suoi segreti.
Aveva parlato di Neon, accennando all’importanza della ragazza per i suoi guadagni.
L’ultima pugnalata la ebbero quando Nakamura aveva chiesto loro di fare un’alleanza. Sembrava davvero che li stesse credendo degli incapaci, ma Basho era comunque preoccupato per il fatto che avessero rifiutato la proposta.
 
Se fosse una sorta di ultimatum? O forse lui si stava facendo troppi problemi?
 
Non sapeva niente del suo capo, il quale era ancora chiuso nel suo ufficio.
Qualsiasi cosa stesse facendo, il moro sperava che si sarebbe fatto vivo il più tardi possibile; affrontare una discussione, senza avere per giunta nulla con cui difendersi, non era la cosa migliore.
 
 
 
 
All’improvviso qualcuno bussò alla sua porta. Basho non aveva nessuna voglia di parlare con qualcuno, ma per educazione disse a quella persona di entrare.
 
«Permesso?», chiese una voce femminile.
Il moro si allarmò: era Senritsu. Che cosa voleva?
No, non voleva discutere in quel momento con lei. Non era sufficientemente calmo per spiegarle la situazione ed era comunque proibito pronunciare parola sull’accaduto.
 
«… Ciao, Sen», la salutò.
«Disturbo?», domandò accennando un sorriso.
«No, no…».
Appena lei si sedette sul letto del ragazzo, un terribile odore di fumo l’avvolse.
«Santo cielo… non si può stare qui dentro…», ammise fra i colpi di tosse.
«E allora vattene», fu la secca risposta di Basho. Subito dopo si accorse di quant’era stato sgarbato e strinse i denti.
Avendo visto il viso offeso della ragazza, lui spense la sigaretta dicendo: «Sto scherzando. Mi fa piacere la tua compagnia».
 
 
Non riusciva a sostenere il suo sguardo. Sapeva che la giovane teneva molto a Kurapika e non ce l’avrebbe fatta a dirle che forse il biondo era quello più in pericolo.
 
 
«Come mai questa visita?», le chiese stranito.
«Mi sentivo sola; gli altri stanno ancora dormendo», rispose con la massima sincerità.
«Ascolta, sai per caso qualcosa riguardo al capo?», si interessò l’amico.
«No, è sempre chiuso nella sua stanza e non so neanche il perché…».
«Sarà stanco, non preoccuparti».
 
I due rimasero per un po’ in silenzio, poi Senritsu disse: «Non pensavo che le trattative di ieri sera fossero state così stancanti».
Basho spalancò gli occhi.
«Vorrei vedere te se tornassi a mezzanotte dopo aver discusso per ore con un fuso di cervello!».
«Non ti sto dando del debole… e non parlare male delle persone assenti!», lo rimproverò.
«Scusami… però avere a che fare con quel tipo mi fa poco piacere».
«… Basho, cos’è successo?».
 
Il ragazzo cominciò a raccontare cose futili sul carattere dell’uomo.
«Hai presente quando, invece di dire cose serie, una persona si limita ad osannare la sua erudizione e le sue ricchezze? E’ una cosa brutta essere giudicato da uno che forse ha studiato meno di te, giusto? Ecco, è successo esattamente questo».
«E allora?», sbottò la giovane, «Credevo che vi avesse fatto cose peggiori! Non dategli ascolto, vuole intimorirvi. Sai che la prima regola è: chi fa da sé, fa per tre. Ce l’ha insegnata il nostro capo!», spiegò cercando di tranquillizzarlo.
«E’ proprio questo che mi fa paura…», mormorò Basho.
 
 
Non doveva dirlo, ma allo stesso tempo non gli faceva piacere che la sua amica abbassasse troppo la guardia.
«Quel tipo ne sa una più del diavolo…», continuò a dire.
 
Senritsu cominciò ad allarmarsi.
«E’ forse successo qualcos’altro?», chiese con timore.
Lo sguardo della ragazza non era più tranquillo. Il moro maledisse sé stesso per aver osservato quel viso tanto tormentato.
Riconosceva di essere un disastro con lei.
Le parole di Light riecheggiavano nella sua testa. Il capo era stato abbastanza chiaro: la situazione doveva essere compresa a fondo solo da chi aveva vissuto l’esperienza in prima persona.
 
«Evita di badare alle mie parole, Sen…», cominciò a dire.
«Non ti sentiresti così giù di corda se fosse accaduto solo questo. Ti conosco», ribatté.
«Sciocchezze…».
«Ti ha ferito per qualche altro motivo?».
«Non è accaduto niente!».
«Ma siete tutti così strani… E Kurapika? Come sta?».
«Come tutti i giorni, diamine!».
 
Stavano per litigare, lo sentivano. Più Basho nascondeva le cose, più Senritsu si insospettiva.
 
«Senti, anch’io faccio parte della famiglia. Ho il diritto di essere informata sui problemi e tu non mi stai dicendo tutto… Lo capisco dal tuo battito», rivelò la mora, «Non serve a niente mentire se sai che qualcuno ti può aiutare!».
 
 
In quel momento Basho non ci vide più dalla rabbia. Volendosi sfogare, rovesciò a terra con rabbia i libri che teneva sul comodino insieme ad un bicchiere d’acqua.
Il rumore che causò fece spaventare la ragazza.
 
«SMETTILA CON QUESTE DOMANDE!», urlò il giovane, «Sei sempre la solita! Mi fai imbestialire per colpa della tua curiosità!».
Senritsu non trovò neanche il coraggio di ribattere da quant’era allibita.
«Ti sembra poco?!», continuò l’altro, «Non ti basta capire che abbiamo avuto a che fare con figlio di puttana che ci ha spogliati della nostra dignità, che ci ha rinfacciato di fare poche cose quando gli unici suoi lavori sono lucidare le sue scarpe e fare lavori di bocca ai suoi leccapiedi? Vuoi sapere se anche Kurapika è su tutte le furie? Sì, tantissimo… e ha tutte le ragioni del mondo!».
Dopo aver preso di nuovo fiato, concluse dicendo: «C’è da rodersi solo per questo, te l’assicuro!».
 
 
 
 
Nella stanza regnò il silenzio.
Basho si accese con nervosismo un’altra sigaretta. Sapeva di averla combinata grossa, ma almeno la ragazza si sarebbe rifiutata di fare ancora domande.
Purtroppo sentiva di averla offesa ed incuriosita sempre di più, però non si poteva tornare indietro.
 
«Scusa, dimentica tutto…», fu l’unica cosa che riuscì a dire.
La risposta fredda di Senritsu gli arrivò subito dopo.
«E’ meglio che vada. Vedo che hai bisogno di rilassarti».
Detto ciò, uscì dalla stanza senza aspettare una risposta di Basho.
 
Quest’ultimo stava morendo dalla rabbia verso sé stesso. Non era riuscito a domare i suoi impulsi e aveva finito per far spaventare la sua amica.
Se lei avesse parlato con Kurapika, lui sarebbe stato più bravo a celare la paura.
Era colpa sua se lei era rimasta turbata. Magari quell’uomo sarebbe poi scomparso senza problemi, quindi era come se l’avesse fatta stare male inutilmente.
“Mi faccio schifo da solo. Non so neanche mantenere un segreto…”, pensò dando un pugno sul muro con forza.
 
 
 
 
 
Mentre stava camminando lentamente nel corridoio, la ragazza continuava a riflettere sul carattere lunatico a dir poco terrificante del moro.
Cosa mai poteva essere successo? E perché nessuno voleva spiegarle niente? Erano un gruppo e, come le avevano insegnato Leorio e gli altri, le questioni si sarebbero dovute discutere insieme.
Le venne per un attimo l’idea di chiamare gli amici di Kurapika, ma poi la scartò. Quelli erano affari della Mafia ed informare delle persone estranee ad essa non era conveniente, pur sapendo che non avrebbero riferito niente alla polizia.
Tutto partiva da una questione di principio: voleva loro un mondo di bene, ma discutere segretamente di questi fatti significava tradire la sua famiglia e mettere tutti in pericolo.
 
 
Senza neanche accorgersene, era giunta di fronte alla porta della camera del Kuruta.
Il pensiero che anche lui avesse lo stesso comportamento di Basho la allarmava più di ogni altra cosa.
Decise di parlargli per sapere come stava. Bussò più volte, ma non udì nessuna voce dall’interno.
“Non si è ancora svegliato?”, pensò incuriosita.
«Kurapika, ci sei?», provò poi a chiedere.
La mora mise piede dentro la stanza. Con suo stupore vide che essa era completamente illuminata, messa in ordine e il letto era già stato rifatto; pareva che il giovane si fosse svegliato anche prima di lei.
Dove mai poteva essere? Di sicuro non era nella villa, altrimenti l’avrebbe visto.
 
Appena osservò il comodino messo affianco al letto del ragazzo, vide un biglietto sopra di esso.
Lo prese e lesse:
-Sono uscito. Tornerò fra qualche ora-.
Senritsu si immaginò cosa stava facendo: mentre Basho era impegnato a finire entro quella giornata l’intero pacchetto di sigarette, Kurapika era andato a sfogare il suo malessere in qualche bevanda. Ne fu ancora più certa quando notò che aveva lasciato lì il suo cellulare e si era portato il portafoglio.
Aveva furbescamente approfittato della situazione per evadere dall’abitazione e la ragazza non osava neanche pensare a quanto fosse probabilmente ubriaco in quel momento.
Di sicuro quello era un modo più garbato per evitare di pensare ai problemi, anziché avere delle totali crisi d’ira come era successo a Basho. Sperava però che non sarebbe dovuta arrivare a soccorrere di nuovo il biondo con l’amico.
Se il capo avesse scoperto che tutti i membri della famiglia stavano facendo quel che volevano, sarebbero peggiorate le cose.
 
 
Leorio era impegnato a visitare come al solito tanti bambini malati di febbre, tosse e mal di gola; erano disturbi tipici del periodo. Lui e il pediatra che aiutava li tranquillizzavano e magari li facevano divertire nel caso avessero paura del camice bianco.
Gon e Killua stavano ascoltando una normale e noiosa lezione di storia nella loro classe.
Tutti avevano però dei pensieri nella loro testa che andavano contro ciò di cui si stavano occupando.
Nessuno stava bene; non sapevano fino a quando avrebbero continuato a sopportare i loro problemi e quell’attesa stava diventando a dir poco straziante.
Presto le cose sarebbero cambiate, diventando probabilmente peggiori.
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
Verso mezzogiorno dall’ufficio di Light uscì una guardia del corpo che si diresse verso la camera di Basho, il quale aveva deciso di riposarsi dopo quella sfuriata.
L’uomo si chiamava Shiro e aveva quarant’anni.
Quando la famiglia era a York Shin, la Brigata dell’Illusione aveva massacrato molti dei suoi membri ed ucciso molte guardie del corpo amici di Kurapika, Basho e Senritsu. Light aveva reclutato dei nuovi uomini per sostituire quelli morti in battaglia.
Quelle persone, però, non erano sufficientemente calorose e socievoli; i tre si sentivano quindi poco considerati da quelle specie di robot.
 
 
Shiro entrò senza bussare nella camera di Basho, svegliandolo di colpo.
«C-Capo?», domandò spaventato.
Vedendo poi chi era, sul suo volto si dipinse un’espressione annoiata.
«Che vuoi, Shiro?».
L’altro annunciò distaccatamente: «Il capo ti desidera in ufficio assieme al ragazzo biondo di nome Kurapika: vi vuole fare urgentemente un discorso. Dovete presentarvi solo voi due».
Il moro si allarmò. Ciò voleva dire che Light era sveglio e stava bene, ma cosa avrebbe fatto loro sapere?
 
La faccenda era così grave? E inoltre… dove diamine era Kurapika?
Senritsu era ripassata da lui dopo aver trovato il suo biglietto; il cellulare, però, era stato lasciato nella sua stanza ed ora non sapeva come contattarlo.
 
 
«Senti, vuole vederci proprio adesso?», chiese sperando di poter ottenere del tempo per riflettere.
«Se proprio non ci riuscite entro due minuti, non importa. Sappi però che il limite massimo di tempo per andare è mezz’ora o quarantacinque minuti e ventisei secondi. Comunque è meglio che giungiate lì entro un quarto d’ora e dieci secondi», fu la sua complicata spiegazione.
Basho rimase imbambolato e con la bocca aperta, mentre faceva i calcoli mentalmente.
«… Mi hai preso per Pitagora?! Sintetizza quello che hai detto!», ordinò arrabbiato.
«Come vuoi. Il succo del discorso è il seguente: raggiungerlo il più presto possibile».
Detto questo, lasciò la camera.
 
 
Basho stava per essere sopraffatto dalla disperazione, ma sentì all’improvviso la porta d’ingresso chiudersi.
Il moro si precipitò giù per le scale. Se fosse entrato il suo amico, tutto si sarebbe risolto.
 
Quando volse lo sguardo verso la stanza che precedeva il salone, vide la figura del biondo che lo stava raggiungendo lentamente.
Basho lo osservò stupito. Il ragazzo si reggeva a malapena in piedi; era vestito con un paio di jeans e una leggerissima maglietta blu. Non riusciva a vedere la sua faccia perché aveva i capelli spettinati che gli coprivano gli occhi.
Era uno straccio.
 
L’amico gli corse incontro e mise le mani sulle sue spalle per evitare che barcollasse o cadesse.
«Ehi, Kurapika…», lo chiamò spaventato.
Quando il Kuruta alzò il viso, l’altro vide che aveva le guance completamente rosse e due spaventose occhiaie solcavano il contorno dei suoi occhi, i quali non lasciavano trasparire un barlume di lucidità.
Era stata davvero una fortuna se era riuscito a tornare a casa da solo, dato che stava osservando il moro come se non l’avesse mai conosciuto.
«… Cavoli, collega, stavolta ci sei andato pesante! Ti sono bastati davvero i soldi?», osservò l’amico, cercando di essere ironico.
Kurapika riconobbe la sua voce e si staccò subito dalla presa, pur facendo fatica a stare in piedi.
«Inizi già a rompere…?», chiese quasi mormorando.
«Quando bevi, diventi sopportabile quanto un’ulcera!», esclamò quindi l’altro sbuffando.
«Parla per te. Puzzi di fumo peggio di uno spazzacamino», fu la replica.
Allora l’amico fece una risata quasi liberatoria e disse: «Santo cielo, siamo messi proprio bene! Potremmo fare i comici!».
Era evidente che anche Basho stava soffrendo, ma non voleva farsi vedere come un debole.
 
Dopo aver ripreso fiato, quest’ultimo rivelò al biondo: «Sei irriconoscibile! Guarda che le ragazze ti staranno alla larga, eh?».
«Sai quanto me ne importa…».
Detto questo, perse di nuovo l’equilibrio e il moro dovette continuare a sostenerlo.
«Kurapika!».
«Basho… sto male…».
«Ti gira la testa?».
«Ho nausea…», rivelò con un filo di voce e socchiudendo gli occhi.
L’amico si allarmò. Per quanto avesse voluto stare tranquillamente vicino al suo compagno, non era proprio il momento per rilassarsi.
Lui fece sedere comunque il giovane su una sedia.
«Siamo nei guai. Come possiamo presentarci dal capo se tu sei in queste condizioni?», domandò.
Kurapika riaprì completamente gli occhi appena sentì la frase.
«Che c’entra il nostro capo?».
«Ci vuole vedere e parlare forse riguardo alla faccenda di Nakamura. Ecco perché sono sceso da te», spiegò.
«Perfetto…», rispose il Kuruta irritato. Non bastava sentirsi uno schifo; per completare quella serie di sventure, c’era anche un capo frustrato.
 
«Vuoi che ti prepari qualcosa di caldo?», chiese il moro.
«No, per carità…».
«Vuoi qualche farmaco?».
«No».
«Allora apro le finestre, così entra un po’ d’aria!».
«Nemmeno».
 
A quel punto il biondo si alzò faticosamente dalla sedia e si diresse verso le scale.
«E’ meglio che vada a sciacquarmi il viso e a sistemarmi un po’. Vedrò di fare in fretta».
«Fai attenzione! Oppure… posso aiutarti!», propose Basho.
«Mi hai preso per un deficiente? Sono lucido, so camminare e so lavarmi. Posso farcela!», esclamò seccato.
«Ho capito. Se hai voglia di vomitare, fallo adesso! Non farti vedere da nessuno!», gli raccomandò il moro.
 
Quando il ragazzo sparì al piano superiore, l’altro non poté fare a meno di riflettere.
“Dopotutto ci è andata bene. Di solito Kurapika perde il lume della ragione e si mette a dire cose assurde!”, pensò mentre stava versando dell’acqua in un bicchiere.
 
 
 
 
*****
  
 
 
 
Dopo circa un quarto d’ora i due erano pronti. Il Kuruta si era sistemato i capelli e si era cambiato la maglietta. Cercava di mantenere lo sguardo vispo.
«Coraggio, andiamo», disse poi.
 
 
Arrivati di fronte alla porta dell’ufficio di Light, Basho bussò tre volte.
«Avanti».
 
I tre furono dentro la stanza a videro finalmente il loro capo. Non stava così male come credevano, ma aveva uno sguardo così serio e pensieroso da far immaginare ai due che avesse riflettuto per tutto quel tempo.
Aveva comunque un’espressione molto abbattuta; pareva che non avesse chiuso occhio per tutta la notte.
Era normale che si sentisse anche in colpa; dopo ciò che aveva rivelato l’altra sera, doveva certamente sentire la responsabilità sulle sue spalle.
 
«Salve, capo», dissero in coro.
«Salve, ragazzi…», rispose.
Fece loro cenno di sedersi con la mano, poi chiese: «Come state?».
«Stiamo bene, grazie», lo tranquillizzò il Kuruta.
«Lucidi come sempre!», esclamò il moro, il quale venne fulminato dallo sguardo del biondo. Poi continuò dicendo: «Ci siamo insospettiti molto! Perché ci ha chiamati? E’ successo qualcosa di grave?».
«No. Se vi state riferendo a ieri, sappiate che non ho ricevuto nuove informazioni».
Sentito ciò, i due si rasserenarono. Per fortuna quello strano boss non aveva riprovato a farsi sentire.
«Allora come mai la presenza di altre guardie del corpo non sarebbe stata accettata?», chiese Kurapika.
 
Dopo averci ancora riflettuto, Light parlò.
«Sarò breve con il mio discorso e voglio che cerchiate di mettervi nei miei panni».
«Sì, capo».
«… In realtà sono molto preoccupato per voi. Ho paura che siate ancora troppo deboli», ammise.
Lo stupore si dipinse sui loro volti. Chi avrebbe mai detto che il signor Nostrade si fosse interessato così tanto ai suoi subordinati?
«Mi riferisco anche a Senritsu», continuò l’uomo, «Non l’ho chiamata perché non sa niente di ciò che è successo con Nakamura. Spero che abbiate mantenuto la bocca chiusa!».
«Stia tranquillo», rispose il biondo. Basho preferì non dire che aveva comunque destato sospetti nella mente della ragazza; il capo l’avrebbe sicuramente ripreso.
 
Light continuò.
«Voglio mettervi al corrente del fatto che la persona con cui abbiamo a che fare è un tipo molto furbo. Finora non ve ne ho mai parlato, ma ho avuto varie volte l’occasione di incontrarlo mentre stava discutendo riguardo a certi affari. Lui è uno che sa giocare con le parole per portare gli altri alla rovina e può arrivare a ricorrere a metodi meno pacifici per ottenere ciò che vuole».
«Ce n’eravamo accorti. Quelle domande erano assai sospette», giudicò Basho.
«Adesso mi rivolgerò ad ognuno di voi per sistemare alcune cose e gradirei che non mi interrompeste», li avvertì poi.
 
Il capo aveva detto così tante cose in poco tempo, quasi come se non avesse visto l’ora di togliersele dalla testa. Non aveva riferito loro nient’altro riguardo a Nakamura, ma credevano che lui stesse nascondendo qualcosa che magari comprendeva delle faccende troppo interne alla Mafia, troppo pericolose per essere rivelate.
 
«Basho…», fu il primo nome che pronunciò.
«Dica».
«Ho sempre pensato che tu sia un ragazzo in gamba, coraggioso e che sa mettersi in competizione. A volte ti distrai, ma non posso lamentarmi di niente».
Il moro sentì una certa felicità per essere considerato in quel modo.
«Però non abbassare la guardia. Anche se quel boss non ti ha rivolto particolarmente la parola, può avere in serbo per te delle brutte sorprese. Quello che ti chiedo riguarda il fatto di continuare a lottare senza timore».
«… Lo prometto. Conti su di me», concluse fieramente.
 
«Ora rientri tu, Kurapika…», disse poi spostando lo sguardo verso di lui.
Il biondo si irrigidì all’improvviso: aveva paura di ciò che poteva chiedergli dopo le scoperte che aveva fatto Nakamura.
«Rispondi a questa domanda: sei disposto… ad offrirmi il tuo aiuto più di prima?», gli domandò stranamente.
«… Se servirà per il futuro benessere della famiglia, ne sarei onorato», rispose cercando di mostrarsi convinto della sua scelta.
Non riusciva a far rilassare i suoi muscoli contratti e a volte si dimenticava di sbattere le palpebre degli occhi.
Light assunse un’espressione concentrata, come se volesse fare ordine nella sua testa.
«Ho da darti dei consigli», cominciò a dire, «A Nakamura piace mettere in soggezione le persone. La prossima volta evita di scaldarti ed ignoralo», fu la sua prima frase.
Light doveva essersi accorto dell’irritazione del ragazzo contro quell’uomo.
«In secondo luogo lui può stuzzicarti quanto gli pare riguardo alla tua famiglia, alla tua posizione, al tuo livello; meno ribatterai, più si stancherà di offenderti. Quando ti chiede qualcosa, rispondigli con gentilezza; meno rimorsi abbiamo, più affari riusciamo a trattare», concluse poi.
«Sì, capo», rispose il giovane con il morale ormai a terra.
Per fortuna quella sera si era trattenuto dal dire delle parole poco consone, altrimenti si sarebbe preso un buon numero di punizioni. Non era facile, però, fare finta di nulla: quando una persona ha il talento di seminare discordia, non c’è cosa più difficile da raggiungere della tolleranza.
 
Vedendo il viso del Kuruta dispiaciuto, il capo riprese a parlare.
«Anch’io devo scusarmi. Non sono stato capace di dare il buon esempio; ho perso la pazienza, ho messo in difficoltà voi, mia figlia…».
«Abbiamo sbagliato tutti. Siamo pari, no?», osservò Basho.
Fu allora che il signor Nostrade puntò gli occhi sulle due guardie ed esclamò: «Se pensate che sia tutto finito, vi sbagliate di grosso. Quel tipo si rifarà vivo; ne sono sicuro al 90%».
Si alzò in piedi e annunciò: «Non mi farò sottomettere dalle parole di quello stronzo. Voi mi siete stati sempre fedeli e questo può bastare. Mai come ora mi sono sentito più bisognoso di preservare mia figlia dai pericoli; proteggetela e tenetela d’occhio ancora di più».
 
Kurapika si sentiva a dir poco atterrito per la troppa speranza che stava riponendo su di lui.
 
«Basho, da oggi in poi voglio che ti impegni di più a sistemare i soldi, gli oggetti delle aste e con la tua forza hai il permesso di eliminare fisicamente i nostri nemici».
«… Ho capito», concluse sbigottito.
 
«Kurapika, tu dovrai essere quasi sempre al fianco mio e di mia figlia».
«Cosa significa?», domandò incredulo.
«A parte il lavoro di spionaggio notturno, vorrei metterti alla prova per diventare il mio secondo cervello. Ti lascerò formulare idee e tattiche per la buona riuscita delle missioni; terrai dei discorsi e ti manderò a fare dei colloqui per recuperare quello che desidero. Con la tua intelligenza potrai essermi utile e con la tua fermezza potresti diventare un ottimo educatore per mia figlia. Ucciderai chiunque oserà intralciare i nostri piani. Ti ordino di non avere pietà!».
 
 
 
 
Nella testa del Kuruta era presente un castello immaginario, il quale conservava in ogni piano tutti i desideri che il ragazzo aveva fin da quand’era piccolo.
A lui piaceva sognare; sarebbe voluto diventare un Hunter di grande prestigio sempre al servizio della gente. Non passava un giorno senza fantasticare sul suo futuro.
 
Voleva più libertà, ma quel piano era destinato a cedere; voleva continuare a sorridere con i suoi amici, voleva non fare la vittima, voleva non far soffrire le persone per causa sua ma…
 
Ogni singolo piano si stava frantumando. Ormai era diventato un robot senza speranze, il quale si infiltrava in ambienti criminali e doveva badare a persone capricciose.
 
Kurapika era un ragazzo ancora giovane, ma vissuto. Non gli sorprendeva più niente.
Gli era stato privato tutto dalla tenera età; viveva per vendetta e per subire le maledizioni di quei capi Mafia che desideravano la sua morte.
Sentiva che stava diventando una persona sempre più cattiva ed influenzabile. Si era ormai affezionato al suo capo, ma si vide ufficialmente costretto ad abbandonare i suoi buoni propositi per seguire la via del male che l’avrebbe fatto diventare un ricercato.
 
 
Qualcosa nella sua mente si fermò: era il suo buon senso.
Ora basta, aveva fatto anche troppo. Avrebbe lasciato che la malattia della depressione sarebbe avanzata fino ad inglobarlo completamente e a renderlo cieco.
Riusciva a vedere i suoi amici ormai lontani; erano destinati a dirsi addio, lo sentiva.
 
 
«Ehi, Kurapika?», lo chiamò Basho.
Il giovane tornò fra loro senza fare a meno di scrutarli con astio.
«… Farò come dice lei, capo», si rassegnò.
«Combatterai per la vittoria dei Nostrade?», gli chiese Light.
«Fino alla morte», concluse facendosi prendere dall’apatia nei confronti della realtà.
“Perché devo continuare a proteggere me stesso?... Se questa è la vita… allora avrei preferito morire cinque anni fa”, rifletté con amarezza.
 
Aveva fatto il Blacklist Hunter per vendetta, ma in quel momento la Brigata era in un altro luogo a seminare il panico e lui stesso si era incatenato in quella famiglia. Non poteva spostarsi senza il loro consenso e si rese conto di quant’era stato sciocco.
 
Intanto Light cercava di non pentirsi di quella scelta. Kurapika era essenziale come aiutante.
Gli dispiaceva allontanarlo sempre di più dai suoi amici, ma avvicinare le sue guardie a lui era l’unico modo per scampare dai pericoli.
 
«Un’ultima cosa…», ricominciò a dire, «Non parlate di questo con Senritsu e le altre guardie. Sarò io ad informarli nel giusto momento».
«Ricevuto», risposero in coro.
«Poi vi dirò cosa dovrete fare questo pomeriggio».
 
Detto questo, lasciò uscire i ragazzi dall’ufficio. Non osarono proferire parola e si diressero verso le loro camere senza nemmeno essersi prima salutati.
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
Alla villa di Nakamura stava avvenendo una sorta di festeggiamento.
Tutti i suoi colleghi erano con lui nel grande salone e reggevano dei bicchieri pieni di spumante fra le mani.
«Brindiamo per la nostra alleanza!», annunciò Nakamura prima che tutti i suoi ospiti potessero bere.
«Non ti sembra di correre un po’ troppo?», domandò Shijo.
«E piantala di preoccuparti! I Nostrade sono già fuori dalla scena!», lo rimproverò Satoshi.
«Fidatevi, ho interrogato a sufficienza Light e mi ha offerto delle informazioni su un piatto d’argento. Voglio scoprire tutti i loro punti deboli per colpirli con sicurezza di successo».
«Non è conveniente fare tutto in una volta», lo avvertì Kagamine.
«Per questo mi serve il vostro aiuto. E’ così bello collaborare!».
«Ti consiglio di scegliere un bersaglio per volta», propose Shijo.
«Già. Chi è il primo che dobbiamo fare a pezzi?», chiese Satoshi.
«Non si tratta di ammazzarli, ma di intimorirli… almeno per ora. Quello che voglio smascherare è il biondino e i motivi sono vari; so che nasconde molte cose…».
Scrutò i colleghi in faccia e disse: «Ma adesso non è questo il problema. La cosa indispensabile da fare è metterli all’erta, nel panico. Devono sapere che sono perseguitati da qualcuno».
«Loro non conoscono me, Satoshi e Shijo. Se gli farai qualche torto, penseranno subito che c’è il tuo zampino», commentò Kagamine.
«Non accadrà se fingo che mi siano capitate le stesse sventure. Voi sarete i miei testimoni», spiegò.
«Ma se vogliamo renderci anonimi, come potremmo chiamarci?».
Il boss prese un’agenda dal secondo cassetto di un comodino, scrisse qualcosa sulla prima pagina e mostrò il contenuto agli altri.
Dei sorrisi compiaciuti si dipinsero sui volti di ognuno.
«Niente male. Sei proprio una fabbrica di idee!», esclamò Satoshi divertito.
«Diciamo che questo tende a sottolineare la nostra collaborazione», osservò Kagamine.
«Un momento…», interruppe il discorso Shijo, «Hai detto di aver bisogno del nostro aiuto, no? Vorresti fare anche la vittima e noi dovremmo assecondarti?».
«E allora? Pensa alla ricompensa che avremo in seguito!», fece notare Satoshi.
«Non sto parlando di questo, idiota! Quando i Nostrade verranno a conoscenza che i danni saranno causati da più persone, chi ci dà la sicurezza che non sospetteranno della presenza di alcuni aiutanti di Nakamura?».
«E’ qui che ti sbagli!», rispose l’interessato, «Ho parecchie alleanze, ma loro sanno anche che mi piace approfittare della gente. Se sapessero che il responsabile fosse solo un individuo, i sospetti su di me finirebbero per ingigantirsi».
«Rimane comunque una cosa rischiosa…».
«Non potremmo allontanarli se non mettessimo in atto questo piano», ribatté Kagamine.
«Ma adesso… qual è il primo passo da fare?», chiese spazientito Satoshi.
 
Dopo una breve pausa di silenzio, Nakamura parlò.
«Non è una cosa così atroce. Nessuno ci rimetterà la pelle perché ciò che ci interessa ora è spaventarli. L’unica pecca è che mi ho bisogno di un diversivo».
«Beh, siamo qui per questo!», affermò Satoshi.
«No, non sarà il vostro compito. Voi dovrete fare il lavoro sporco ed io penserò prima di tutto a ricattare l’imbecille di turno», spiegò lanciando occhiate d’intesa.
«Aspetta… vorresti dire che questo diversivo…», provò a dire Kagamine.
«Esatto. Lui sarà… la vittima sacrificale», concluse cercando di trattenere l’adrenalina, «Venite più vicini: vi illustrerò tutto ciò che ho in mente».
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
Erano le due e un quarto del pomeriggio. Il silenzio e la quiete della città vennero improvvisamente interrotti dalle urla di due ragazzini che stavano correndo sul marciapiede di una via secondaria.
Erano sudati ed affannati anche per via del caldo insopportabile che era solito incombere verso l’ora di pranzo.
Uno di loro osservava spesso il suo orologio.
«Killua, muoviti! Sei più lento di un bradipo!».
«Stai zitto, Gon! Per colpa tua arriveremo in ritardo!».
«Adesso la signora Yamada ci ammazza!».
«Quella grassona non tollera i ritardi!».
«Killua, non si parla così!».
«E’ la verità! Apre bocca solo per rompere le scatole! I suoi figli sono tali e quali a lei!».
«Non parlare! Sprechi fiato!».
«E TU COSA STAI FACENDO, STUPIDO?».
«SCEMO!».
«RITARDATARIO!».
«MAI QUANTO TE!».
 
 
I due giunsero di fronte al portone di un edificio formato da sette piani. Killua suonò uno dei campanelli e dopo qualche secondo una voce disse loro di entrare.
Arrivati al terzo piano, una signora venne ad accoglierli nel suo appartamento.
Aveva i capelli rossi e raccolti in una crocchia. Il suo viso parecchio in carne era cosparso di cipria. Indossava una grossa e pesante collana di ametista e il suo ingombrante vestito aveva addirittura lo strascico; lei stessa rischiava di inciamparci.
Appena videro in che condizioni era la donna, trattennero una sonora risata.
«Buon pomeriggio, piccini!», li salutò gioiosamente.
«Salve, signora Yamada!», risposero in coro.
«Siete in ritardo, pasticcini!».
«Ci dispiace. La prossima volta non sarà così», promise Gon.
«Ma non ce l’ho con voi, zuccherini! Nessuno è perfetto!», affermò accarezzando le loro teste.
I due provarono un senso di disgusto; non erano ancora riusciti ad abituarsi alle sue dimostrazioni eccessive di affetto.
«Io e mio marito siamo ancora in tempo per lo spettacolo teatrale e i nostri pargoletti sono più vispi del solito!».
«Evviva…», mormorò Killua seccato.
«Dovrete stare tre ore a badare ai miei figlioli. Quando tornerò, vi darò i soldi come sempre», spiegò continuando a spettinarli a furia di passare le mani fra i loro capelli.
 
D’un tratto arrivò anche il signor Yamada con un’espressione stravolta.
«Cara, potresti spiegare tu a Jiro che non è sicuro giocare con l’aspirapolvere?».
Gon e Killua sbiancarono. Quel pestifero aveva già iniziato a combinare guai.
«Tranquillo, caro. Ci penseranno i nostri due bocciolini a farlo ragionare!», lo rassicurò.
 
 
Un grido terribile invase la casa.
«Ehi!», esclamò una voce femminile a Jiro.
«Ho aspirato le tue mutandine con i conigli, babbea!».
«Fuori dalla mia camera, stronzo!».
 
Dei brividi terribili percorsero i corpi dei poveri Gon e Killua. Si era appena arrabbiata una delle gemelle.
«Ci vediamo, cucciolotti!», li salutò la donna prima di scappare con suo marito verso il teatro. Non vedevano l’ora di andarsene e lasciare in balìa della loro tutela quei pestiferi figli.
 
«E’ arrivata l’ora di tirare fuori gli artigli!», cominciò a dire Killua schioccando le ossa delle mani.
«Non perdere subito la pazienza. Sono solo un po’ viziati…», tentò di calmarlo il moro.
«Hai dimenticato che Masami ha spezzato la tua canna da pesca per fare degli stuzzicadenti con le schegge di legno?».
«Suvvia, ne ho molte altre…».
 
Dopo il loro breve dialogo, Killua tossì per schiarire la voce.
«Ichiro, Jiro, Masami, Masumi e Goro, muovetevi e venite qui!», urlò.
 
Passati diversi minuti, apparvero dal corridoio quattro bambini in pigiama che osservavano i due con delle espressioni seccate.
«Non siamo sordi, cretino…», mormorò Jiro.
«Mi dispiace averti interrotto mentre facevi le pulizie», rispose lo Zaoldyeck ironicamente.
«Siete venuti ancora? Cosa hanno visto di speciale i nostri genitori in due nanetti che non sono tanto più grandi di noi?», li stuzzicò Masumi.
«Chi si rivede: “porcospino” e “faccia di mozzarella”!», esclamò Masami.
«Mozzarella…», ripeté Goro sorridendo.
A Killua stavano per scoppiare i nervi dalla rabbia, così Gon cambiò argomento.
«Dov’è Ichiro?», chiese.
«Secondo te? Si sta facendo le solite seghe mentali!», rispose Masami.
«Ci sarà di mezzo qualche Yuri o Hentai…», immaginò ridacchiando.
«Me l’aspettavo», concluse Killua.
Superò i quattro fino a raggiungere la camera del fratello maggiore, la quale era completamente al buio. L’unica fonte di illuminazione era il computer acceso che rendeva nitida la sagoma della testa di Ichiro. Indossava delle enormi cuffie, ma non stava ascoltando delle canzoni.
 
Killua accese di colpo la luce della stanza e questo disturbò il ragazzo.
«Dai, cavolo…», si lamentò.
«Come mai non hai seguito i tuoi fratelli quando ti ho chiamato?».
«Non sento bene», rispose in modo antipatico.
Appena il bianco notò cosa stava guardando, fece un ghigno.
«Conosco questo Yuri».
«Ah, sì?», sbottò Ichiro.
«Tanto Midori muore», gli rivelò.
«… Brutto bastardo! Crepa!», si arrabbiò l’altro sbattendo le mani contro la tastiera.
«Visto che ora hai perso l’interesse, potresti seguirmi in sala?».
«Non prendo ordini da uno stupido della mia età! Seguirò un altro anime per tutto il pomeriggio e tu non puoi farmi proprio niente!», gli rinfacciò mostrandogli il dito medio.
«Allora resta qui dentro, non disturbare e annega nelle tue perversioni», concluse Killua abbandonando irritato la camera.
 
 
Intanto Gon stava facendo un discorso ai quattro.
«Cercate di non combinare guai e fate bene i vostri doveri!».
«Senti, fai qualcosa di utile e portaci in un negozio: ci mancano delle magliette», lo avvertì una delle gemelle.
«Mi pare che possiate riuscire a sopravvivere un giorno», ribatté il moro.
«Il fatto è che vogliono comprarsi i vestiti firmati dei loro cantanti preferiti. Mi fate pena!», rivelò Jiro.
«Non capisci niente, deficiente!».
«Basta, smettetela! Voi resterete a casa ed io baderò a Goro. Vi prego, siate buoni!», li supplicò.
«Altrimenti vi farò vedere quanto sono abili le mie unghie a graffiare la carne», aggiunse Killua, spuntando all’improvviso.
«Che schifo…», commentò Jiro.
 
 
 
 
Quella era la famiglia che aveva assunto i due ragazzi per lavorare quando i padroni di casa avevano degli impegni.
Siccome erano benestanti, tutti e cinque i loro figli non si lasciavano sfuggire nessuna concessione; erano abituati a ricevere tutto e l’idea di imparare ad essere servizievoli non era nei loro pensieri.
Il più grande si chiamava Ichiro e aveva la stessa età di Gon e Killua. Era un tipo molto solitario e dipendente da qualsiasi forma di tecnologia.
Amava sentirsi superiore agli altri e non voleva che gli venissero toccate le cose come un classico fratello maggiore.
Il secondo era Jiro, il quale aveva appena compiuto dieci anni.
Aveva sempre avuto dei complessi di inferiorità, specialmente perché sapeva che non avrebbe potuto ricevere tutte le attenzioni desiderate; infatti non perdeva mai l’occasione di fare dei dispetti abbastanza pesanti ai suoi fratelli per via della sua gelosia.
Non amava stare fermo ed era il più disobbediente.
Le due gemelle Masami e Masumi avevano otto anni; sembravano molto più furbe e spigliate rispetto alla loro età.
Volevano essere sempre alla moda e adoravano spendere soldi per i capi d’abbigliamento più costosi che c’erano in circolazione.
Non conoscevano la definizione di rispetto e si prendevano gioco di chi non seguiva le loro passioni.
Il più piccolo e forse il meno problematico era Goro. Non aveva ancora iniziato la scuola elementare e non sapeva elaborare una frase di senso compiuto.
Gon e Killua speravano che non avrebbe mai preso le cattive abitudini dei fratelli ma, dato che gli piaceva lanciare le posate alle gemelle come Jiro, dovevano abbandonare le loro aspettative.
 
 
Mentre i due stavano tentando di preparare uno spuntino abbastanza nutriente per loro, Masumi urlò da una stanza: «Ehi, porcospino? Ichiro sta mostrando a Goro delle foto piccanti!».
«Che cosa?!», sbottò Killua, «Vado io. Quel depravato mi sentirà!».
 
Gon non poté fare altro che ascoltare gli insulti e gli schiamazzi del suo amico e di quei maleducati, i quali lo stavano contemporaneamente prendendo in giro con battute poco simpatiche sul rapporto che aveva con i pesci che pescava.
«Che fatica…», disse sospirando, «Chissà come se la stanno cavando gli altri…».
 
 
 
 
*****
  
 
 
 
«Kurapika?...... Ehi, Kurapika? Sei pronto?...... KURAPIKA! ESIGO UNA TUA RISPOSTA!...... SEI SORDO?!».
 
La calma alla villa dei Nostrade venne interrotta da Neon, la quale stava bussando violentemente e con impazienza alla porta della camera del Kuruta.
Non smetteva di urlare e piagnucolare. I pugni che dava erano sempre più forti.
 
«Degnami di una risposta, almeno!».
 
Light le aveva concesso di passare un intero pomeriggio al centro commerciale per fare in modo che si divertisse. Purtroppo aveva chiesto a Kurapika di accompagnarla e lei non vedeva l’ora di trascorrere quelle ore con il ragazzo che le interessava.
 
Il biondo si era chiuso a chiave dentro la sua camera e stava impiegando tutto il suo autocontrollo per non impazzire di fronte ai lamenti della ragazza.
L’idea di uscire con lei non lo attirava per niente. Voleva solo riposarsi prima di iniziare il suo lavoro notturno, ma pareva che la giornata fosse destinata ad andare peggio di quanto si era aspettato.
 
«Se non mi dici qualcosa, butto giù la porta a calci!», lo minacciò ancora.
 
Kurapika stava facendo il più in fretta possibile per infilarsi i pantaloni e la camicia. Non aveva paura di lei, però temeva che il suo capo lo potesse riprendere per il suo ritardo.
 
«Mi sono stufata! Vado a dire a mio padre che non vuoi accompagnarmi!».
 
Il giovane scoppiò.
«DAMMI SOLO CINQUE MINUTI, DANNAZIONE!».
Non riusciva a contare il numero di schiaffi che avrebbe voluto darle se fosse stato suo padre.
 
«Se passerà più tempo, verrò a prenderti con la forza anche se sarai nudo!», concluse prima di abbandonare adirata il pianerottolo.
 
Quegli avvisi non lo intimorivano; preferiva un’avversaria come lei piuttosto che altri capi Mafia.
 
 
 
 
 
Quando uscì dalla sua stanza, incontrò Basho nel corridoio.
«Cos’era tutto quel baccano?», gli domandò dopo aver sbadigliato.
«Neon…», fu l’unica parola che l’altro pronunciò.
«Dovete già uscire?».
«A quanto pare…».
«Dille che vuoi prima farti una dormita! Sei pallidissimo!», gli fece notare.
«Lascia perdere».
 
Stavano per salutarsi, ma ad un tratto squillò il cellulare del Kuruta.
«Chi ti cerca?», chiese l’amico.
Appena Kurapika osservò il numero della persona, strinse i pugni arrabbiato e mise giù la telefonata. Subito dopo cominciò ad incamminarsi verso le scale.
 
Basho non comprese quella reazione.
«Beh, chi era?».
«Uno che non ha niente di meglio da fare».
«E sarebbe?».
 
 
«… Leorio», riuscì a dire dopo qualche secondo.
«Come mai non hai risposto?».
«Sono impegnato».
«E perché ce l’hai con lui?», continuò a domandare sempre più confuso.
«Perché esiste».
«… Scusa, ma non ti capisco», si rassegnò il moro.
«Ci vediamo stasera, Basho».
 
 
Mentre stava scendendo le scale, la mente di Kurapika fu attraversata da tanti pensieri.
In effetti non c’era una valida ragione per la quale lui fosse arrabbiato con Leorio. Ciò che aveva detto era la verità: non tollerava la sua esistenza.
Era a causa dei suoi amici se non aveva ancora imparato ad essere spietato contro i nemici. Provare affetto era un veleno per una persona dal carattere fragile come lui.
Sarebbe potuto diventare un criminale che uccideva tutti i suoi avversari senza impedimenti; non avere qualcuno da proteggere forse lo aiutava. Invece tutto era cambiato quando aveva conosciuto i tre. Era rimasto affascinato di fronte alla loro unione, simpatia, allegria; si era inevitabilmente affezionato a quegli sconosciuti.
A York Shin aveva avuto l’occasione di sconfiggere l’uccisore dei suoi familiari; avrebbe potuto farlo a pezzi, distruggerlo… ma quel maledetto sentimento di pietà si era impadronito del suo cuore.
Aveva preferito salvare due vite, piuttosto che fare giustizia per un’intera tribù.
Che atto vergognoso. La debolezza era sempre stata parte della sua indole.
Il suo capo non voleva che lui si mettesse troppo in contatto con loro e forse era stata la scelta più saggia. Siccome aveva dentro di sé una parte malvagia, sperava di riuscire a sprigionarla fino in fondo per evitare di soffrire ulteriormente.
 
 
“Ti prego, Leorio. Lasciami annegare nel mio peccato”, pensò sentendo di nuovo il suo cellulare squillare.
 
Si fermò un attimo per guardare il telefono. Quando qualcuno lo chiamava, il biondo poteva anche vedere l’immagine della persona interessata.
Osservò il viso sorridente di Leorio e fu come se si fosse svegliato da un’ipnosi.
Ricordò il giorno in cui gli aveva scattato quella foto. Era scoppiato dalle risate per il fatto che il moro fosse poco fotogenico e quest’ultimo si era messo ad insultarlo a sua volta per come si vestiva. Litigavano davvero per stupidaggini.
Pochi giorni fa il Kuruta aveva detto di essere niente senza i suoi amici; era tutto il contrario di ciò che aveva appena pensato.
 
No… quello era solo il suo lato bisognoso di affetto che doveva essere cancellato.
Leorio e gli altri dovevano cominciare a dimenticarsi del ragazzo. I loro mondi erano troppo diversi.
 
 
 
 
Appena giunse al piano terra, Neon si fiondò vicino a lui.
«Sei pronto?», gli chiese allegramente.
«… Sì».
 
Kurapika si accorse che c’era anche Senritsu nel salone. Si salutarono senza poi dirsi niente; era il momento peggiore per affrontare una seria discussione.
La mora sembrava parecchio turbata.
 
«Che aspetti? Andiamo!», sbottò la figlia del capo avvinghiandosi al suo braccio.
La sola cosa che spinse il giovane a non liberarsi dalla presa fu la paura di risultare troppo antipatico. Tutto ciò che Neon vedeva, doveva essere al corrente del signor Nostrade.
 
 
 
«Lascialo», ordinò improvvisamente Senritsu. Sentito ciò, Kurapika non poté fare a meno di osservarla stupito.
La giovane non si era potuta trattenere. Un enorme sentimento di gelosia l’aveva colta nell’attimo in cui Neon aveva toccato così il Kuruta.
Non riusciva a sopportare che uscissero insieme. Il biondo la doveva seguire per ordine del capo, ma lei non poteva restare indifferente di fronte al terribile disagio che stava provando.
 
«Scusa, perché mai?», chiese Neon con fare superiore.
La mora stessa si sorprese di fronte a ciò che era uscito dalla sua bocca.
«… In questo modo non accelerate il passo», si inventò facendo un lieve sorriso.
«Mi sa che hai ragione…», concluse lasciando la presa.
Tutt’ad un tratto sbiancò.
«Ho dimenticato di mettermi la matita per la fretta! Kurapika, aspettami fuori!», disse prima di correre verso la sua camera.
 
Lui e Senritsu rimasero da soli.
«Beh, allora… a stasera e divertiti», disse la giovane per sviare l’argomento.
«Perché sei così?», gli chiese il Kuruta senza guardarla.
«… Così come?».
«Non lo so nemmeno io. Spiegamelo tu!», esclamò cominciando ad adirarsi.
«Ma… si vedeva che eri seccato per come ti stava tenendo! Dovresti ringraziarmi!», ribatté la ragazza.
«Vuoi capire… che molto probabilmente andrà a riferire al capo del tuo ordine?», spiegò.
«Non penso possa arrivare a tanto. E poi… doveva scegliere proprio te per farle compagnia?».
«Cosa c’è? Ti dà fastidio?», chiese con tono arrogante.
«… Come sei esagerato! Mi sa che stai pensando troppo; cerca di calmarti», rispose arrabbiata.
 
Detestava così tanto il fatto che l’avesse aiutato?
Forse era stata un po’ egoista con loro, ma lui non era al suo agio.
Non amava Neon; voleva esserne sicura…
 
«Forse hai ragione», disse il biondo, «Devo smetterla di pensare».
Girò la testa verso la ragazza e le rinfacciò: «Invece a me pare che tu non rifletta molto prima di parlare».
 
Di fronte alla costernazione di Senritsu, Kurapika abbandonò la sala senza scusarsi.
Era finito il tempo della commiserazione. Non si sarebbe più confrontato con i deboli.
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
Vennero le cinque del pomeriggio. Il cielo si era fatto cupo e sembrava volesse piovere da un momento all’altro.
Un’atmosfera molto triste albergava fra la folla di persone che occupava la piazza. Ognuno pensava ai suoi problemi e a volte si riuscivano a sentire le urla di due ragazzi che stavano litigando per questioni di amore o di lavoro.
 
Un signore con un cappotto grigio si stava incamminando verso un vecchio edificio situato nella traversa di una via.
Si guardava sempre intorno per controllare se qualcuno lo stesse seguendo.
 
Arrivato di fronte ad una porta, bussò un paio di volte.
Una persona parecchio alta lo accolse dicendogli: «Buon pomeriggio. Potrei avere la password?».
«Agz1792».
«Può passare», concluse indicandogli la strada.
L’uomo percorse uno stretto e buio corridoio fino a mettere piede in un locale di aspetto per niente accogliente. Era mal strutturato, pieno di crepe, muffa e ruggine sulle piastrelle delle pareti.
C’erano solo persone ubriache ed impegnate a giocare d’azzardo o a dare fastidio ai nuovi arrivati.
Il suo sguardo si posò su un gruppo di ragazzi che stavano maltrattando un uomo di colore, il quale non cercava di difendersi con la speranza che si sarebbero stufati presto di lui.
 
Nessuno li metteva a tacere; quelle cose erano normali in quel luogo.
 
«Com’è? Vuoi degnarci di uno sguardo, sporco nero di merda?».
 
Un calcio in bocca.
 
«Capisci che non sei accettato qui dentro?».
 
Un pugno sullo stomaco.
 
«Levati dal nostro tavolo, imbecille!».
 
Sangue.
 
Fischi, risate e altri scherni…
 
Un sospiro sereno uscì dalla bocca dell’uomo che aveva abbandonato il cappotto per terra.
Quello era il suo mondo e non poteva desiderare cosa migliore.
Solo quelle persone potevano farlo sentire a suo agio. Non aveva bisogno di nascondere niente grazie alla loro ingenuità ed ignoranza.
 
 
Appena il proprietario del locale lo riconobbe, gli fece un enorme sorriso.
«Oh, Nakamura!».
«Salve, Kyo!», lo salutò stringendogli la mano.
«Come va?», gli domandò l’amico.
«Sono in periodo di affari. Devo guadagnare qualcosa in un modo o in un altro», rivelò strofinandosi le mani.
«Sei sempre il solito…».
 
Nakamura tirò fuori dalla tasca della giacca un mazzo di soldi. Li mostrò all’altro chiedendogli: «Dov’è quell’uomo?».
«E’ seduto là in fondo», rispose indicandolo, «Quando gli ho detto che avrebbe potuto lavorare con la Mafia, si sono illuminati i suoi occhi. Desidera conoscerti».
«Eccellente, caro mio», si complimentò prima di dargli la ricompensa, «Adesso devo interrogarlo».
«Stai tranquillo. Non è un tipo che ragiona; ha solo voglia di compiere atti criminali. Sai, crede di poter diventare qualcuno», lo informò facendogli l’occhiolino.
«Questo renderà tutto ancora più facile!».
 
Fu allora che cominciò ad avvicinarsi all’interessato, il quale stava bevendo un boccale di birra.
Era una persona di mezza età; aveva la carnagione abbastanza scura, ma si era tinto i capelli di bianco. Non guardava in faccia nessuno e aveva un’espressione notevolmente risoluta.
Nakamura si sedette di fronte a lui.
«Saresti…?», chiese l’uomo stranito.
«Colui che deve farti una proposta di lavoro».
Appena disse quella frase, si rianimò completamente.
«Signor Nakamura! E’ un piacere incontrarla!».
«Ti prego, niente formalità. Diamoci del tu».
«Va bene, grazie. Mi chiamo Takahiro Fujiyama».
«Piacere di conoscerti. Dunque… saresti disposto a collaborare veramente?».
«Che altro potrei fare in questa misera vita?», rispose con malinconia.
«Hai dei precedenti penali?».
«No, nessuno mi ha mai beccato. E’ anche vero che non ho mai impugnato una pistola fra le mani; la mia unica arma era una tastiera», rispose con atteggiamento fiero.
«Eri un hacker, giusto?».
«Lo sono ancora. Lavoravo spesso di notte nelle discoteche per racimolare un po’ di soldi. Me la sono dovuta sempre cavare da solo, visto che quei bastardi dei miei genitori non si sono mai interessati al mio benessere», raccontò con rabbia.
«E adesso vorresti fare delle esperienze più movimentate, dico bene?».
«Esatto. Dimmi quello che devo fare! Ho sempre ammirato le vostre associazioni!».
Nakamura fece una breve risata.
«Mi dispiace infrangere i tuoi sogni, ma noi mafiosi siamo in guerra».
«Sul serio?», chiese incredulo.
«Non vedere il nostro mondo come qualcosa di perfetto. Siamo isolati dal resto della società e otteniamo ciò che vogliamo con l’inganno. Ci mettiamo d’accordo solo in caso di emergenza».
Takahiro rifletté per qualche secondo, poi disse: «Quindi… se devo attaccare un’altra famiglia mafiosa, rischio davvero di mettermi nei guai».
«Te ne sei pentito?».
«No, assolutamente! Sarà una cosa fantastica e divertente!», rispose gioiosamente, «E cosa mi darai in cambio?».
 
Dopo averlo scrutato bene, Nakamura si avvicinò di più all’uomo.
«Riceverai così tanto denaro che potrebbe bastarti per sei mesi», affermò.
«Ehi, mi piace!».
«Però… c’è un problema», continuò l’altro.
«Cioè?».
«Beh, prima devi accettare tutte le condizioni del nostro accordo».
«Non importa quale piano tu abbia in mente! Voglio semplicemente mettere alla prova me stesso!».
«Ciò che voglio dirti adesso non riguarda una questione di azione. Si tratta di un sacrificio…».
Il bianco rimase sorpreso nel sentire quella parola.
«Ascoltami bene…», lo avvertì Nakamura, «… tu sai già troppe cose su di me anche per merito del mio collega. Hai accettato questo incarico, ti ho confessato molte cose e non vorrei pentirmene».
I suoi occhi neri andarono a piantarsi su quelli di Takahiro.
«Sappi che potresti anche venire scoperto dai membri dell’altra famiglia; ti farebbero subire in seguito dei trattamenti poco piacevoli per strapparti una confessione».
Il suo volto si fece spaventosamente serio.
«Non importa se ti minacceranno di morte o se decideranno di risparmiarti per aver detto la verità. Se oserai lasciarti sfuggire dalla bocca il mio nome o qualsiasi altra cosa riguardante la mia persona… io sarò costretto ad ammazzarti e non ti darò neanche la metà dei soldi».
 
Vedendo l’interessato impallidire, aggiunse: «Se stai già pensando di ritirarti, ti sconsiglio di farlo; nessuno mi vieta di ucciderti adesso. Sarebbe scorretto se tu rifiutassi la mia offerta dopo tutto quello che ci siamo confidati».
Assumendo un’espressione più tranquilla, concluse dicendo: «Perciò conviene che tu svolga bene il tuo compito, altrimenti sprecherai la tua vita in questi ultimi giorni. A te la decisione».
 
 
 
 
*****
 
 
 
 
«Maledizione, rispondi!».
 
Il signor Nostrade era impegnato a conversare nella sua stanza tramite dei messaggi con un suo collega di Hiroshima.
In passato alcuni capi Mafia specializzati in informatica avevano creato un sito Internet protetto e riservato solo ai mafiosi.
Purtroppo Light non riusciva a trovare un accordo con quell’uomo; dato che quest’ultimo aveva scoperto che Nakamura era interessato a quella famiglia, non voleva più aiutarlo in nessuna faccenda.
 
«Si crede un boss, ma in realtà ha paura della sua stessa ombra!», si lamentò chiudendo di colpo la schermata del sito.
 
 
All’improvviso qualcuno bussò alla porta del suo ufficio.
«Avanti…».
Una sua nuova guardia del corpo si precipitò dentro la stanza.
«Capo, un signore si è sentito male proprio di fronte al cancello della villa. Cosa dobbiamo fare?».
Light rimase stupito.
«E chi è?».
«Non lo sappiamo. E’ una persona molto anziana e non riesce a camminare!».
«… Va bene, portatelo dentro. Badate bene a non lasciare nella sala degli oggetti che potrebbero insospettirlo».
«Agli ordini», concluse abbandonando poi il piano superiore.
“Ci mancava solo un vecchio asmatico…”, pensò irritato prima di seguire la guardia.
Purtroppo non c’erano molte abitazioni nella zona dove vivevano.
 
 
Il signore venne fatto sdraiare su un divano. Ansimava ed era parecchio accaldato.
Sembrava essere molto grande di età.
 
«G-Grazie mille…», mormorò.
«Potete andare. Resto io con lui», ordinò il signor Nostrade alle guardie.
Prese una sedia e si sedette vicino a lui.
«Come sta adesso?».
«Abbastanza meglio».
«Ha avuto un mancamento?».
«Credo di sì. Stavo passeggiando tranquillamente, poi ho cominciato a vedere tutto offuscato», spiegò.
«Vuole chiamare qualcuno?».
«No, vivo da solo… Sono vedovo».
«Capisco…».
«Mi dispiace disturbarvi».
«Non è colpa sua. Può capitare a tutti».
 
 
 
 
Intanto Senritsu aveva sentito dalla sua camera il capo che stava parlando con una persona della quale non aveva riconosciuto la voce.
Ormai era completamente sveglia e decise di andare a controllare cosa stava succedendo.
Era di malumore. Non avere Kurapika vicino era la cosa migliore per non scatenare la sua angoscia.
Basho stava ancora dormendo; questo la faceva sentire ancora più isolata.
 
 
 
Cercò di affacciarsi dalla rampa di scale senza essere vista e notò che lo sconosciuto era un uomo di età avanzata.
Aguzzò le orecchie per ascoltare la conversazione.
 
 
«Com’è bella la sua casa!», esclamò il signore meravigliato.
«Oh, la ringrazio…».
«Deve essere molto ricco!».
«Sì… sono tesori di famiglia. Ce li tramandiamo», mentì.
«Davvero?».
 
Senritsu udì improvvisamente un battito negativo e carico di odio, il quale riecheggiò nella sua testa fino a darle l’impressione che sarebbe scoppiata.
La giovane osservò quella strana persona: l’atmosfera sinistra proveniva da lui.
 
«Invece noi eravamo una piccola famiglia povera».
«Eravate?».
«Sì, ti ho detto che non ho più nessuno…».
«Mi dispiace…».
«Ti dispiace?».
 
Lo sguardo di quel signore divenne penetrante.
Senritsu tremò.
 
«Come mai non elargite soldi per i più bisognosi, anziché fare gli egoisti?».
 
Cosa stava succedendo? Sembrava che quella persona conoscesse già Light. Era come se gli stesse rinfacciando un dovere mai compiuto.
 
Il signor Nostrade cercò di sviare l’argomento.
«Forse ha la febbre. E’ meglio che le porti qualcosa di fresco da bere».
 
 
Quando si incamminò verso la cucina, la mora continuò ad osservare l’interessato per evitare che facesse qualcosa di sospetto.
 
Tutt’ad un tratto lo sentì ridere. Prima faceva attenzione a non farsi sentire, poi la sua risata divenne abbastanza sonora.
La giovane non ebbe il coraggio di muovere un muscolo.
 
«Eh, sì… Nakamura ha proprio ragione».
 
“Nakamura?”, pensò la ragazza, “… Chi è?”.
 
«Alla fine la tua brama di possedere vince sempre. Non sei cambiato di una virgola», continuò a dire quell’individuo.
 
Con estrema velocità rimosse dalla faccia una maschera molto aderente, mostrando a Senritsu il suo vero volto.
Era molto più giovane e dei capelli castani di media lunghezza arrivavano a toccargli le spalle.
«Maledetto travestimento! Che caldo…», si lamentò.
Gettò poi un rapido sguardo al salone e sorrise.
«Allora è così la tua villa! Chissà dove nascondi i tuoi beni…».
 
La ragazza rimase atterrita nel vedere che aveva portato con sé anche un pugnale.
 
«Il sottoscritto Shijo non fallisce mai!».
 
“No… no…”.
La giovane si sentì mancare l’aria. Tornò senza farsi sentire al piano superiore e si fermò nel corridoio per riprendere fiato.
Mise una mano sul petto: il suo cuore stava battendo all’impazzata.
La sua mente era ormai focalizzata su un unico pensiero.
“… Un impostore”.
 
 
 
 
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Spiaggia dell’autrice:
 
*si spalma la crema solare* Salve, ragazzi! Vi sto scrivendo dalle Hawaii… scherzo.
Perdonate il mio leggero ritardo, ma le vacanze sono per tutti! xD
Avrei potuto aggiornare prima, però questo mese sono successe tante novità e sono anche rimasta traumatizzata per diversi fatti…
Una normale mattina di fine Luglio… andai al mare e… verso mezzogiorno… incontrai una mia vecchia professoressa in bikini @.@...
Aaaaah… Stavo scrivendo sotto l’ombrellone e ho smesso per essermi cavata gli occhi = cieca e felice.
A proposito di cecità, mi sono gustata il film di HxH: Phantom Rouge (o “Ruggero”, come dice mia nonna xD).
Ci sono più fan service che in Host Club o in Hetalia!
Kurapika cieco è così vulnerabile… Se fossi stata Hisoka quando è andato a visitarlo in ospedale, gli avrei fatto cose peggiori Il biondino da piccolino era identico a Gon: vivace e sorridente. Ma perché Pairo lo ha trattato così male? Non se lo merita! T^T… Ah, Kurapika è TUTTO sua madre!
Ci sono state troppe KiruGon… ma Retsu è troppo dolce! **
Basta, sto spoilerando troppo…
Poi nella mia mente si era riaccesa la lampadina che Kura potesse essere una donna.
Il signor Togashi ha disegnato le carte da gioco versione summer e… ha fatto Kura con i pantaloncini corti, una camicetta blu, sexy e aderente… e un cappello di paglia! -.-‘’
Una strana sporgenza si vedeva in corrispondenza del suo petto… ed io sono morta!
Ora sto meglio perché mi sono auto convinta che fosse il vento sulla camicia… E’ un maschio, non insistete! ò.ò
Tornando al capitolo, spero che vi sia piaciuto!^^
Non doveva andare così. In teoria Kurapika avrebbe dovuto fare una cosa molto brutta, ma l’ho rimandata di due capitoli.
Senritsu è sempre più confusa; ha scoperto l’identità di Shijo, ma non è tutto così facile xD…
Light butta benzina sul fuoco e Nakamura sa come prendere le persone!
Vi do un suggerimento: attenti al Nen! Aspettatevi il peggio.
Se volete donare qualche jeni per allontanare Kurapika, Gon e Killua da Neon e da quei cinque, chiamate il numero “ventordici diciassei quintidue”. Servizio in abbonamento.
Cosa farà Leorio? Eeeeh… immaginate.
 
Un grazie di cuore a tutti quelli che hanno commentato/messo la storia fra le preferite/ricordate/seguite/l’hanno leggiucchiata velocemente/hanno letto qualche riga… EEEH, MACARENA!
Sto parlando di:
Faith Yoite
Hiroto49, al quale dedico questo capitolo per tutti gli incoraggiamenti che mi fa. Sono orgogliosa di avere un recensore come te. Ci siamo appena conosciuti, ma ti stimo! Grazie davvero.
Chichi Zaoldyeck
Raine93
Crazyforever
 
Poi ci sono i lettori anonimi!^^
Recensite che mi fa piacere sentire le vostre opinioni; posso migliorare!
 

 
 
 
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Nel prossimo capitolo:
 
«Da questo momento… non ricorderai più niente».
 
«Occhi scarlatti, eh? Interessante!».
 
«Voglio avere quell’oggetto. Devo andare a quell’asta!».
 
«Ormai tu sei il mio braccio destro; non dimenticarlo».
 
«Quello specchio… Cos’è successo alla mia faccia?!».
 
«Non ti permettere mai più di insultarla!».
«Kurapika, lascia stare! Andiamo via!».
 
«Devo sapere cosa sta succedendo!».
«Leorio, non ti intromettere».
 
«Capo… la nostra villa è…».
 
 
 
 
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Un saluto a tutti,
Scarlet Phantomhive.
 

 
 
  
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