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Autore: Leke_96    23/08/2013    7 recensioni
[storia ad oc]; [posti oc finiti]; [coppie het]; [ AU: Psyren e Beyblade]
[arancione]; [scene forti, possibili (sicure) morti]; [linguaggio]; [la nota "violenza" non dovrebbe esserci ^^", non troppo almeno]
Dal capitolo 1- “Allora, vuoi andare su Psyren sì o no?”
“Sì, sì va bene…”
“Grazie per aver risposto alle domande, aspetta la prossima chiamata. Arrivederci.”
Il freddo tut-tut preregistrato le invase i timpani.

Osservò la cornetta per un secondo, immobile, silenziosa, gli occhi chiusi, mentre le mani tremavano incontrollate.
Camminò fino a raggiungere la porta, afferrando la maniglia, aprendola con uno scatto.
E poi si voltò, alzando una gamba a malapena coperta da un pantaloncino cortissimo, conficcando con violenza uno dei suoi tacchi 15 nel corpo ovale del telefono.
“Arrivederci un corno, stronza.”
“Benvenuto su Psyren.
Ora il tuo mondo è connesso."

Hope you like it ;D
Genere: Azione, Dark, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Ryuga, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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Chapter one ~01~            Prima chiamata.

 

16 settembre 2010

Sentì il telefono squillare, rimbombante sulle pareti di quella via deserta.
Era il terzo.
La terza cabina telefonica che non appena le passava accanto cominciava a squillare insistentemente .
Osservò la cornetta nera, inarcando le sopracciglia sempre più perplessa.
Sul vetro traslucido il suo riflesso le rilanciava uno sguardo dubbioso, bagnato dalle gocce di pioggia che, monotone, battevano sulla cabina, producendo un ticchettio scomposto.
I suoi stessi occhi, rossi come il sangue secco, sembravano riflettere i pensieri che le attraversavano la mente, e che più volte, convergevano sulla convinzione che i telefoni pubblici stessero impazzendo per conto proprio.
Le sopracciglia erano così inarcate da scomparire quasi del tutto sotto la frangetta nera come la pece, i cui ciuffi, normalmente scarmigliati, ora erano afflosciati sugli occhi, bagnati e attaccati alla fronte.
Sentì il telefono continuare a squillare, insistendo, e, a meno che non fosse impazzita di colpo, aumentare il volume degli squilli.
Si tappò un orecchio, quando uno squillo acuto e prolungato le perforò un timpano con la stessa precisione millimetrica di un ago.
Sbuffò, entrando nella cabina e richiudendosela alle spalle con uno scatto secco.
Afferrò il telefono, portandosi la cornetta finalmente silenziosa all’orecchio, ma quando fece per rispondere, con un ringhio già alla base della gola, solo il tu-tut preregistrato della linea telefonica le rimbombò nei timpani.
Aggrottò le sopracciglia, fissando con astio l’oggetto semicircolare che stringeva in mano.
Se quello era uno scherzo, non era affatto divertente.
Rimise a posto la cornetta, masticando stizzita un paio d’insulti, poi, l’apparecchio pubblico, rigettò, dall’apposita fessura, quella che sembrava una carta telefonica.
L’agguantò senza pensarci, portandosela direttamente davanti agli occhi: non era nulla di più di una semplice carta telefonica rossa, con un angolo il cui colore sfumava in un nero intenso.
L’unica cosa fuori dall’ordinario in quel piccolo oggetto rettangolare, era la scritta, candida come la neve, che al suo centro recitava una sola parola: PSYREN.
Era scritta in stampatello, su tutta la lunghezza orizzontale della carta; impossibile non notarla, e fu proprio quella parola a lasciarla interdetta.
Osservò la carta, e poi il telefono, passando lo sguardo dall’uno all’altra un paio di volte, poi incuriosita avvicinò l’oggetto rettangolare all’apposita fessura, buttandola direttamente dentro i circuiti del telefono.
Forse quella carta aveva ancora del credito…
Ichigo avvicinò la cornetta all’orecchio.
Attese un paio di secondi, in cui dall’altra parte della linea telefonica si udì solo un leggero ronzio.
Dopo poco, la voce registrata di una donna le esplose nei timpani, cominciando quello che sembrava a tutti gli effetti, un questionario per telefono.
 
*
 

9 marzo 2010

Il sole morente si stagliava contro i grattacieli.
Li tingeva di nero, rendendoli i protagonisti assoluti di un paesaggio cittadino tipico del grande centro di Tokyo, con il cielo rosso, come il sangue fresco, e le sagome, nere come la notte, delle case cittadine.
Sul pendio di un parchetto, a gambe incrociate, seduta sull’erba fresca ricoperta di brina, una ragazzina di quattordici anni faceva saettare lo sguardo dal foglio, che reggeva sulle gambe magre, al paesaggio sottostante.
I capelli, lunghi e marroni, le contornavano il volto paffuto da bambina, ricoprendo un po’ i suoi grandi e particolari occhi, dal colore dell’ambra, macchiati di screziature di un intenso amaranto.
Era bassa, ben nutrita, con un aspetto buffo, reso ancora più esilarante dalle sopracciglia aggrottate dalla concentrazione.
Indossava una canott azzurra, dove, sul petto, era disegnata una gran stella gialla, resa luccicante dalla marea di brillantini che vi erano incollati sopra, e una piccola gonnellina rosa.
Ai piedi aveva delle scarpe azzurre, assicurate alle caviglie da dei laccetti bianchi.
Ad ogni polso aveva dei polsini bianchi, e un collarino di velluto nero, stretto attorno al collo, con un pendente che altro non era se non un ciondolo di zaffiro.
Osservò il disegno riprodotto sul foglio, agguantando una matita rossa, e sfumando un angolo vicino ad un raggio arancione del sole.
Sorrise soddisfatta, annuendo appena, e con un gesto fluido rimise album e colori nello zainetto di tela blu.
Si alzò da terra, allungando un braccio per prendere lo zaino, una volta afferrato vi rovistò dentro, estraendo una torchia di un grigio metallizzato.
Nell’atto di estrarre la torcia, però, una piccola carta telefonica rossa capitolò fuori dalla borsa, appoggiandosi a terra e cadendo un paio di metri lontano dai suoi piedi.
Era una card rossa, il cui angolo destro sfumava in un nero intenso, e dove, una scritta bianca, recitante una sola parola, le ricopriva tutto il fianco.
Shizumiya Kiara osservò quella card in silenzio, un’ombra scura le era calata sugli occhi altrimenti luminosi, felici e ridenti come quelli di una bambina.
Si chinò per raccoglierla, stringendola tra le dita, e ricacciandola nella cartella con un gesto secco.
S’incamminò, preparando la torcia per quando il sole sarebbe calato del tutto, camminò per dieci minuti, percorrendo velocemente le centinaia di metri che la separavano dalla sua accademia, quando raggiunse il vecchio incrocio che portava alla via principale del centro di Tokyo, i suoi occhi bicolori si posarono involontariamente sul telefono pubblico posto a ridosso dell’angolo destro della strada.
Tentennò, stringendo la torcia con forza, tanto che le nocche divennero bianche per lo sforzo.
Fece scivolare la cartella lungo il braccio, aprendo la tasca dove aveva chiuso la carta telefonica rossa, la prese, avviandosi verso il telefono, e inserendola nell’apposita fessura.
L’apparecchio proruppe in un fischio metallico, che gracchiò nelle orecchie di Kiara, come se qualcuno avesse fatto cozzare due pezzi di lamiera dritti nei suoi timpani.
Si tappò le orecchie, serrando gli occhi, ed emettendo un grugnito di disappunto.
Il fischio durò un paio di secondi, secondi che sembrarono infiniti alle sue povere orecchie martoriate.
Fattosi improvvisamente silenzioso, Kiara afferrò la cornetta, tenendola di qualche centimetro lontana dall’orecchio destro, ed aspettando.
Cosa, nemmeno lei lo sapeva.
La voce registrata di una donna l’accolse con un freddo “Benvenuto.”, aveva un tono glaciale, capace di far raggelare il sangue nelle vene.
Per tutta l’ora successiva, Kiara rispose alle domande che quella donna le pose, riuscendo a mantenere un discreto controllo dei nervi.
Quando finì, una volta rimessa a posto la cornetta, e recuperata la carta telefonica, Kiara ebbe un brivido lungo la spina dorsale.
Si guardò intorno, constatando con orrore come il cielo fosse diventato scuro.
Si affrettò ad accendere la torcia e, dopo aver lanciato un’occhiata in tralice all’ombra scura che al suo fianco era proiettata sul marciapiede dalla luce artificiale, corse dentro l’accademia S.N., prima che questa chiudesse i cancelli per la notte.
 
*
 
Poche ore prima, sotto la luce di un sole in procinto di tramontare, una ragazza, dai rossi capelli mossi, e dai brillanti occhi verdi come due smeraldi, leggeva un giornale, comodamente seduta sulla panchina di un parchetto poco lontana dal centro di Tokyo.
Aveva un cipiglio severo, dipinto sul volto dai tratti adulti, ed, ogni tanto, faceva schioccare la lingua contro il palato, producendo uno schiocco secco.
Indossava una maglietta mono spalla, di un tenue rosa antico, caratterizzata dalla vertiginosa scollatura sulla schiena, che la lasciava quasi completamente scoperta, in compenso, sul davanti, era completamente coperta.
A fasciarle le gambe, aveva una minigonna dai colori militari, sorretta in vita da una cintura, che portava legata sul lato sinistro una Beretta Cougar in bella mostra, in più, ai piedi aveva degli stivali di pelle nera, con un vertiginoso tacco a spillo.
Sulla prima pagina del giornale, un titolo era scritto a caratteri cubitali, così da ricoprire quasi tutta la facciata: “La società segreta di Psyren: una leggenda metropolitana analizzata da uno dei più grandi studiosi dell’occulto del nostro secolo.”.
L’articolo era una tesi proposta da una certa Emily Cherry, una famosa studiosa dell’occulto, morta qualche mese prima per, a detta dei media, “circostanze misteriose.”
Di per se, quella tesi non diceva nulla di più di quanto non si sapesse già per fama su Psyren, l’unica cosa che approfondiva era l’esistenza e l’aspetto del suo fondatore, un tale ri-soprannominato dalle masse Nemesis Q.
In allegato, al centro delle colonne che componevano l’articolo, era stato posto uno schizzo artistico dell’uomo, se così era possibile chiamare un tale dalla testa di falco.
Nella vignetta, Nemesis Q aveva addirittura una donna caricata sulle spalle come un sacco di patate.
Megan riusciva a trovare il tutto stranamente esilarante.
Sentì qualcuno appoggiarsi alla panchina, e con la coda dell’occhio intravide una mano maschile adornata da un anellino in argento sul mignolo.
Sbuffò sonoramente, alzando gli occhi al cielo.
Riprese a leggere con fare scocciato, sperando che il tizio con l’anello e i suoi amichetti fossero giunti lì per caso.
Speranze vane, ovviamente.
“Ciao.”
Megan non lo calcolò, girando, invece, le pagine del giornale, e incominciando un nuovo articolo.
“Mi chiamo Jin.”, si presento il ragazzo con l’anello, aprendo il volto in un sorriso smagliante.
“Non m’interessa.”, rispose secca, senza distogliere lo sguardo dalle parole impresse a fuoco sulla carta grigia.
Jin rimase spiazzato.
Si riprese un attimo dopo, facendo il giro della panchina, per sedersi proprio accanto alla quindicenne.
“Ad ogni modo, come ti chiami?”, domandò, facendo passare un braccio attorno alle sue spalle magre.
Megan se lo scrollò malamente di dosso, incenerendolo con un’occhiataccia in grado di pietrificare sul posto anche un basilisco –e, nel frattempo, mandando un alfabeto d’insulti contro tutti i donnaioli del mondo.
“Rutherford.”, sibilò tra i denti, riaprendo il giornale scocciata, “Quindi ora che lo sai, sparisci.”
“Veramente la mia idea era quella d’invitarti a bere qualcosa.”
Megan chiuse il giornale, di scatto, puntando le iridi, poco più grandi di un dischetto da hockey, sul volto sorridente del ragazzo che aveva appena provato ad adescarla.
Lo osservò per circa un minuto, guardandolo sconvolta con le iridi di smeraldo che parevano voler lanciare lo stesso fuoco dell’inferno di Lucifero.
E poi, inspiegabilmente, scoppiò a ridere, trattenendo una mano sulla pancia, mentre l’altra era calata sugli occhi lacrimanti.
Rise, per minuti interi, con un principio di soffocamento quando, finalmente, riuscì a sedare l’attacco di risate.
Tossì, schiarendosi la voce roca.
Jin la guardò sconcertato: nei suoi diciassette anni di vita nessuna ragazza aveva mai osato scoppiargli a ridere in faccia in modo così eclatante.
Lanciò un’occhiata ammonitrice ai suoi tirapiedi, facendo chiaramente intendere che se non avessero smesso di mascherare penosamente le loro risate –o meglio: se non avessero smesso definitivamente di ridere- se la sarebbero vista molto male, poi tornò a concentrarsi sul viso, scosso da fremiti e sbuffi, e rosso come un pomodoro maturo, della quindicenne.
Megan scostò la mano dal volto, rivolgendogli un ghigno ferino, che scoprì i canini appuntiti, bianchi come il marmo.
Oh, si era divertita.
“Senti bello.”, soffiò, incrociando le braccia sopra la testa, stiracchiandosi, e inarcando la schiena come un gatto appena sveglio, “Lo vedi questo? Bé, sappi che sta a significare che sono già occupata.”
Lo sguardo di Jin scivolò veloce sul collo della quindicenne, e, in fine, su un grosso livido violaceo, che saettava sulla pelle chiara della ragazza nell’incavo tra il collo e la spalla.
“E poi…”, sussurrò, allargando il ghigno da predatore che le incrinava gli angoli della bocca “Io, al contrario di tutte le altre puttane che sicuramente ti sei portato a letto da quando avevi dodici anni, io ho un certo onore che mi piacerebbe conservare, oltre che una reputazione, quindi Jin-belle-donne, vedi di scomparire nel giro dei prossimi dieci secondi.”
Il sorriso di Megan cambiò drasticamente: chiuse gli occhi, e piegò la testa di lato, serrando le labbra morbide, e mostrando l’espressione più zuccherosa, ma soprattutto falsa, del suo repertorio.
Jin non si mosse, semplicemente rimase sbigottito, per la terza volta nel giro di quindici minuti.
“Spero di essere stata chiara, Jin-belle-donne.”, Megan ridacchio, riagguantando il giornale e riaprendolo ad una pagina a caso.
“Tu brutta pu—“
Jin si bloccò, l’insulto lasciato in sospeso.
Rimase inchiodato alla panchina, il cranio perforato dagli occhi della quindicenne.
Un immenso mare verde, ribollente d’ira e furia.
“Provaci.”, ringhiò, con lo stesso calore di una tempesta di neve “Prova anche solo a pensare di darmi della puttana, ed io ti assicuro, teppista, che una bella pallottola nel cranio non te la toglie nessuno.”
Megan si spostò appena, quel tanto che bastava per far tintinnare la canna della pistola contro l’acciaio della panchina.
Jin sbiancò, di colpo, alzandosi di scatto, e indietreggiando velocemente, ponendo diversi metri di distanza tra loro.
“Tu… tu sei pazza!”, pigolò, il terrore dipinto sul volto.
“Forse, ma ora impegnatevi a sparire, una buona volta!”
Megan sorrise, mentre li osservava scappare con la coda tra le gambe, soddisfatta.
“Tsk, creduloni.”, ridacchio, mentre nell’unica tasca della minigonna sentiva la pressione della carta telefonica rossa contro la gamba.
 
*
 
Ayumo svoltò l’angolo, sbuffando, e bloccandosi davanti al vicolo ceco.
Si voltò di scatto, alzando gli affilati occhi del colore screziato degli opali verso il cielo, ed emise l’ennesimo sbuffo scocciato.
“Allora volete uscire?”, domandò, picchiettando con la punta del piede sull’asfalto.
Nessun rumore.
Digrignò i denti, ringhiando.
“Bene, se non volete uscire da soli, vorrà dire che vi verrò a prendere di mia spontanea iniziativa.”, urlò, i nervi a fior di pelle, e la voglia insana di stringere le lunghe dita affusolate attorno al collo di qualcuno.
Quella proprio non era una buona giornata.
Ebbé, dopo un’ora passata al telefono a rispondere a domande decisamente… strane, essere di pessimo umore era il minimo.
La minaccia funzionò.
Da dietro il muro in mattoncini rossi le figure magre di quattro ragazzi si pararono davanti alla sua visuale, inchiodandosi in mezzo alla strada, e piantando le mani sui fianchi.
“Ciao, Opale.”, salutò uno dei due al centro, dai piccoli e maligni occhietti neri, e dalle guance affossate, “Ti abbiamo cercato per tutta la mattina.”
“Avevo da fare.”, ringhiò, scocciata, graffiando sbadatamente i lunghi jeans scuri già di per sé rovinati.
“Che diavolo vuoi adesso, Cojiro?”, sibilò, poi, adocchiando i due energumeni ai lati del ragazzo smunto.
“Beh, vedi, non ti ho ancora opportunamente ringraziato per la figuraccia dell’altro giorno.”, rispose, Cojiro, gli occhi neri iniettati d’odio.
“Specifica ‘altro giorno’! Sai, ormai ti ho già dato tante di quelle lezioni che è difficile ricordarsi per quale vuoi la rivincita.”
Cojiro digrignò i denti, producendo un ringhio basso che rimbombò sulle pareti rossicce dei palazzi circostanti.
Notò, però, da sotto la pesante felpa blu che Ayumo indossava –nonostante ci fossero almeno venti gradi- una piccola fasciatura bianca alla mano sinistra, che si attorcigliava attorno al polso per poi scomparire sotto la manica.
Cojiro ghignò, rivolgendo uno sguardo vittorioso alla quindicenne dai capelli bicolori, sussurrando un qualcosa al ragazzo biondo alla sua destra.
Sul volto spigoloso di quest’ultimo comparì prima un’espressione accigliata, che lasciò il posto, nel giro di pochi secondi, ad un ghigno poco rassicurante.
“Vedo che ti sei fatta male.”, constatò Cojiro, indicando con un cenno della testa il polso fasciato della ragazza, “Oggi è evidentemente il nostro giorno fortunato, sei d’accordo, Opale?”
“Pfff.”, Ayumo trattenne appena una risata, mascherandola malamente in un colpo di tosse.
“Vediamo se ho capito: tu, che non sei mai riuscito a sfiorarmi neanche un solo capello, proprio tu, Cojiro, speri di ‘farmela pagare’ con l’aiuto dei tuoi amichetti e del fatto che ho un polso fasciato?”, Ayumo scoppiò a ridere, reggendosi la pancia tra le braccia, “Lo sai, a volte mi chiedo se voi uomini siete così stupidi di natura, o se lo diventate crescendo.” (senza offesa per nessuno, ovvio ^-^ ndAutrice)
“Beh, Opale, voglio proprio vedere come—“
Si bloccò, osservando stranito gli occhi brillanti come due opali di Ayumo; aveva smesso di ridere, raddrizzando la schiena, le lunghe unghie, affilate come degli artigli, giochicchiavano nervose con dei filetti spezzati dei pantaloni, mentre i capelli, azzurri e con qualche ciocca rossa come il fuoco che faceva capolino tra tutti quei colori freddi, venivano leggermente mossi dal lento dondolio della nuca della loro proprietaria.
Ayumo piegò la testa da entrambi i lati, lasciandola poi ricadere verso sinistra, con alcune ciocche di capelli che le ricadevano leggeri sul volto.
“Vattene.”, ringhiò, autoritaria, senza muovere un muscolo, “Non oggi, Cojiro.”
Non aspettò risposta, si girò, di scatto, dando le spalle ai quattro ragazzi, e balzando agilmente oltre il muretto di mattoni del vicolo.
Si calò il cappuccio sugli occhi, nascondendo il volto, e camminando rasente muro, -così da poter evitare i raggi troppo caldi del sole- si incamminò svogliata verso il centro di Tokyo, mentre, tra le dita, stringeva convulsamente una particolare card rossa.
 
*
 
Sbatté i cancellini l’uno contro l’altro, incurante della polvere biancastra che sporcava ancora di più il pavimento nero.
Tossì, quando respirò una nuvola di gesso, maledicendo, nel frattempo, quella psicopatica della prof.ssa Knight.
Sbuffò, afferrando stizzita una ciocca di capelli neri, screziati da un intenso rosso scuro, che le era finita davanti agli occhi, riportandola, con un veloce scatto della mano dietro l’orecchio.
Soleil guardò l’ora, osservando le lancette nere che a suon di “tic toc” scandivano le ore che stava passando dentro quella maledetta aula, a pulire un disastro che nemmeno aveva fatto lei; tutto per colpa di quella innocua battutina innocente.
Innocua, ovvio.
“Bah.”, sbottò, scrollando le spalle, e lanciando i cancellini sulla cattedra sporca di vernice.
Si pulì le mani, sbattendole tra di loro più volte, passando i palmi aperti sui pantaloni grigi della divisa della S.N.
Uscì dall’aula a passo spedito, quasi identica a come era stata lasciata prima del suo intervento, le mani affondate nelle tasche, strette attorno alla carta telefonica rossa che era arrivata a portarsi quasi sempre dietro.
“Yo, Sole!”, gridò, una voce alle sue spalle, costringendola a voltarsi.
“Yo, Nile!”, salutò, alzando una mano in un gesto di saluto.
“Hai già finito di ripulire l’aula?”, domandò, il ragazzo dalla pelle scura che, di corsa l’aveva affiancata, cominciando a camminare insieme a lei lungo i corridoi dell’accademia.
Soleil scrollò le spalle, incrociando le mani dietro la testa “Nah.”
Nile sbuffò, alzando al cielo gli occhi verdi “La Knight ti sgriderà un’altra volta.”
“E chi se ne frega? Ho di meglio da fare che ripulire un’aula perché me lo ha ordinato una pazza sociopatica!”
“E così da una semplice ora di pulizia diventerà una settimana –se non due- di punizione dove tutti i giorni dopo la scuola dovrai aiutare il bidello a pulire tutta la scuola.”
“Deve solo provarci!”, la sedicenne ringhiò, minacciosa.
“Oh, lo farà, sai che lo farà.”
“Tsk.”
Camminarono fino a raggiungere l’uscita, superando i grandi cancelli di metallo scuro della S.N.; il cielo che aveva già cominciato a tingersi del viola scuro della sera.
Soleil sbuffò, scocciata, quando si accorse, da lontano, che la cabina telefonica vicino alla scuola era già occupata, da una ragazzina che schiacciava ripetutamente i tasti uno e due, con le sopracciglia aggrottate, concentrata come pochi.
Non sembrò notarli, di fatti, quando le passarono accanto lanciandole un’occhiata curiosa.
“Non era una studentessa della S.N. quella?”, domandò Nile, non appena si ritrovarono fuori da portata d’orecchio, incrociando le braccia dietro la testa.
“Eh? E tu come fai a saperlo?”
“Ricordo che quando era iniziata la scuola aveva fatto un po’ di scalpore: una quattordicenne muta con la madre implicata nella faccenda di Psyren.”
“Ah, già, com’è che si chiamava…? Kira… Chia… Ah, Kiara, Shizumiya Kiara.”
“Sì, lei!”
Ci fu silenzio, per un paio di minuti, in cui solo i loro passi risuonavano per le strade che stavano già cominciando a svuotarsi.
“Né, Nile, ma tu sai dove stiamo andando?”, domandò Soleil d’un tratto, inarcando perplessa un sopracciglio.
Si distese una smorfia sul viso del suo compagno, mentre i suoi grandi occhi verdi la fulminavano con un’occhiataccia, “Non storpiare la pronuncia del mio nome come ti pare e piace!”, sbottò, in un mezzo ringhio, “E comunque io stavo seguendo te.”
A Soleil caddero le braccia.
“Ma… io stavo seguendo te!”
Nile si stampò una mano in fronte, sbuffando.
Tipico.
“Okay, ci serve una cabina, dove la troviamo?”
Soleil si guardò in torno, scrutando con gli occhi etero cromati i dintorni, poi scosse la testa, inarcando le sopracciglia, “Non ne ho idea, Nile.”, sospirò, massaggiandosi il mento.
“NON CHIAMARMI NILE!”
(per chi se lo stesse chiedendo, Soleil pronuncia Nile esattamente così com’è scritto xD ndautrice)
“Okay, okay, come vuoi, Nile.”
“Ti odio, te l’ho mai detto?”
“Contando anche questa direi… trentordici volte, sì.”, Soleil annuì, dando enfasi alle parole, ricominciando a camminare in cerca di una cabina telefonica.
Nile sospirò, passandosi una mano tra i capelli bicolori, scompigliando la frangia scarmigliata tinta di arancione.
“E chiedere informazioni?”, propose Sole, indicando un bar poco più avanti.
“Hei, bella idea, Sole.”
“Grazie.”
Soleil si bloccò, il piede a metà strada dal pavimento, si voltò, le sopracciglia aggrottate, “Beh?”
“Beh cosa?”
“Tu, non mi hai ancora fatto nessuna paternale sull’effrazione del regolamento della S.N., e il coprifuoco è già scattato, siamo usciti “di nascosto” –perché quello era uscire di nascosto Nile, non fare quella faccia-, io non ho pulito l’aula e l’altro giorno ho sgraffignato i budini dalla mensa e tu non mi hai ancora detto niente… Chi sei tu? E che ne hai fatto di Nile!?”, urlò, ridacchiando, puntandogli un dito contro il petto con fare accusatorio.
“Hai rubato dei budini dalla mensa?”, Nile alzò le sopracciglia, sorpreso “Ecco perché mancavano!”
“’Cidenti a me e alla mia boccaccia!”
Nile ridacchiò, trattenendosi a stento dallo scoppiarle a ridere in faccia “Sole, sbrighiamoci e troviamo una cabina telefonica, sono curioso di vedere cosa nasconde questo “Test attitudinale” per Psyren di cui parlava quell’idiota di Tetsuo.”
“Mh, bene allora!”, soleil ghignò, il volto illuminato dalla luce chiara del lampione, artificiale, troppo bianca e luminosa, che aveva contribuito a donare una sfumatura inquietante al volto snello della quindicenne “Scopriamo cosa si nasconde dietro la Leggendadel Paradiso, né, Nile.”
“Hai[1].”
 
*
 

10 marzo 2010; ore 00:15

Gwen guardò la cabina telefonica.
Gli occhi, del colore del cioccolato, assottigliati, nascosti sotto il cappuccio della pesante felpa nera, i denti scoperti in un mezzo ringhio furioso.
Quella storia la stava già stancando, e non era neanche cominciata!
Poca pazienza la sua, veramente troppo poca.
Lanciò uno sguardo all’orologio digitale della farmacia; i numeri, tinti di un verde fosforescente, s’illuminavano ad intermittenza, segnalando le ventiquattro passate.
Afferrò un ciuffo di capelli, riavviandoselo dietro l’orecchio, mentre altri continuavano a cadere dalla coda malfatta nascosta sotto il cappuccio, sbucando come fili di seta dello stesso nero brillante delle ali dei corvi.
Sbuffò, avvicinandosi a passo svelto verso la cabina, i tacchi che risuonavano ad ogni passo, scandendo lenti la sua avanzata.
Ma chi glielo aveva fatto fare, alla fine, di prendere parte a quella follia?
Poteva rischiarci la vita dopotutto, e poi, poteva sempre mettere la carta all’asta su internet.
Cinquemilioni di yen così erano assicurati.
. . .
Ghignò.
Si era seriamente fatta quelle domande?
Scosse la testa, ridacchiando tra sé e sé, aprendo la porta di vetro della cabina e richiudendosela alle spalle con uno scatto.
Afferrò la cornetta, portandosela vicino all’orecchio, estraendo da una delle tasche del maglione una card rossa, contrassegnata dallo strano logo rigirato bianco come la neve.
“Benvenuto al test attitudinale di Psyren.”
Fu una voce di donna a rispondere alla chiamata automatica effettuata dalla carta; un attimo dopo che Gwen l’ebbe infilata dentro l’apposita fessura.
“Sei pregato di rispondere alle seguenti domande: premi 1 per dire ‘sì’, e 2 per dire ‘no’.”
Gwen inarcò un sopracciglio, perplessa, squadrando sospettosa la cornetta che stringeva tra le mani.
Possibile che fosse solo una presa in giro?
“Domanda n°1: Sei giapponese? Premi sì o no.”
Giochicchiò un po’ con il filo del telefono, poi il suo dito si mosse, premendo sicuro il pulsante contrassegnato dal nero numero due.
“Domanda n°2: Sei un ragazzo? Premi sì o no.”
Due.
“Domanda n°3: Sei una ragazza? Premi sì o no.”
Per contrario direi proprio di sì… bah, che razza di cretinata… Uno.
“Domanda n°4: Sei una straniera attualmente risiedente in Giappone con più di 12 anni? Premi sì o no.”
Con uno scatto il secondo sopracciglio raggiunse il primo, scomparendo tra le pieghe del cappuccio calato.
Perché una registrazione ora si metteva pure ad utilizzare gli aggettivi femminili?
Veloce premette il pulsante numero uno.
………………
“Domanda n°30: Hai fratelli o sorelle? Premi sì o no.”
“ARGH!!”
Gwen scagliò la cornetta contro il vetro della cabina, osservandola con astio.
Trenta domande. TRENTA DOMANDE! Tra le più inutili e insignificanti esistenti al mondo (“Ti piace il cioccolato” “Hai paura degli insetti” “Hai paura dei mostri?” “Ti spaventa il buio?” e via dicendo)
Un pericoloso tic le prese l’occhio destro, quando la voce registrata ripeté quel logorroico “Premi sì o no.”
La riafferrò con uno scatto, premendo secca il numero due.
……………….
“Domanda n°61: …”
Un’ora.
Era trascorsa una fottutissima ora da quando quella pagliacciata era incominciata.
“… C’è un motivo particolare per cui vuoi andare su Psyren? Premi sì o no.”
Gwen tentennò un momento, il dito a pochi millimetri dal tasto del telefono.
Uno.
“Domanda n°62: Sei una ragazza che ha perso una persona cara su Psyren. Vuoi andarci per ritrovarla. È così, vero? Premi sì o no.”
“Cosa cazzo—?”
Osservò stranita la cornetta, “E tu come cazzo lo sai?”, ringhiò parlando per la prima volta da quando il test era cominciato.
“Per cortesia, premi sì o no.”
“Io non premo proprio un bel niente, se tu non mi dici chi sei!”
“Per cortesia, premi sì o no.”
Vaffanculo.
Ringhiò, abbandonando la cornetta lungo il fianco del telefono, voltandosi furiosa per aprire la porta della cabina.
“Hei rompi balle dove credi di andare?”
Si voltò di scatto fulminando la cornetta come se si trovasse davanti a quella donna che le aveva fatto domande senza capo né coda per un ora intera.
Ormai le era più che chiaro che non si trattava di una registrazione.
“Non ho tutta la serata, quindi premi quel cazzo di numero e fammi finire!”
“Vuoi che prema quel numero, stronza?”, ringhiò, riafferrando la cornetta, stringendola convulsamente in una mano mentre con l’altra schiacciava il tasto numero uno con così tanta forza che per poco non rimase incavato.
“Domanda n°63: Vuoi andare su Psyren? Premi sì o no.”
“Se sono qui vuol dire che ci voglio andare, non credi deficiente?”
“Rispondi a quella stupida domanda rompi balle, e smettila di rompere i coglioni con tutte ‘ste interruzioni!”
“Tutte ‘ste interruzioni? MA SE PER UN’ORA INTERA MI SONO SORBITA LE TUE STUPIDE DOMANDE DEL CAZZO!”
“E cosa vuoi una medaglia? Piantala di rompere e premi sì o no.”
Silenzio.
“Allora, vuoi andare su Psyren o no?”
“Sì, sì va bene…”
Uno.
“Grazie per aver risposto alle domande, aspetta la prossima chiamata. Arrivederci.”
Il freddo tut-tut preregistrato le invase i timpani.
Osservò la cornetta per un secondo, immobile, silenziosa, gli occhi chiusi, mentre le mani tremavano incontrollate.
La rimise a posto dolcemente, respirando a fondo, dando le spalle al telefono grigio.
Dieci, undici, dodici…
Camminò fino a raggiungere la porta, afferrando la maniglia, aprendola con uno scatto.
Tredici, quattordici, quindici…
Uscì dalla cabina di un passo, la mano ancora stretta attorno alla maniglia di metallo.
Sedici, diciassette, diciotto… diciannove…
Fu quando arrivò a venti, che Gwen Knight si girò di scatto, alzando una gamba a malapena coperta da un pantaloncino cortissimo, conficcando con violenza uno dei suoi tacchi 15 nel corpo ovale del telefono.
“Arrivederci un corno, stronza.”, ringhiò, strattonando la scarpa per farla uscire dal buco che aveva creato, uscendo definitivamente dalla cabina ora inutilizzabile, pestando a terra i piedi.
Dalla cornetta del telefono “bucato” si udì un leggero fischio, seguito poi dalla voce di una donna che, fredda come un pugnale, pronunciò nove parole precise.

“Benvenuto su Psyren.
Ora il tuo mondo è connesso."
 


Sommario:
[1] Hai: "sì" in giapponese

 
 
 
Angolo dell’autrice:
*l’autrice sbuca fuori da un cespuglio, e deglutisce trovandosi davanti un’orda di lettori infuriati*
Me: Ehm… ma vi siete arrabbiati per il ritardo?
Lettori: Grrrrrrrr *ringhio di furia ceca*
Me: *Gulp* Okay, lo so, ci ho messo… ah, tre mesi… no, buoni non mi ammazzate per piacere! *modalità pietà: on* vi prego, tentate di capirmi, ho fatto delle vacanze da schifo per via degli esami di riparazione (quasi sempre a lezione), ho avuto un blocco, quando tornavo a casa avevo la testa che scoppiava, e ho avuto un’illuminazione divina ADESSO! A tre giorni dall’esame; quindi vi prego, non linciatemi!!
Lettore 1: Fa quasi pietà…
Lettore 2: Ma noi abbiamo affidato a questa i nostri personaggi?
Lettore 3: Devo scusarmi col mio.
Me: Hei, capisco che siate arrabbiati, ma ho dei sentimenti anch’io, eh! T^T
Lettori: TU TACI!
Me: çuç
Ryuga: oh beh, te lo sei meritato.
Me: Ecco, solo tu ci mancavi çuç
Ryuga: E non piangere, dai!
Me: ç___ç
Tutti: …
Ah, ehm, se posso parlare, magari vi spiego un paio di cosucce ^^”: allora, lasciando pure perdere la pena capitale per il ritardo ehm… mostruoso, direi di cominciare col dire che è stata un’impresa riuscire a finire, ma ora ce l’ho fatta e il primo capitolo è stato finalmente pubblicato Yeyh! :D
Come seconda cosa, vi avviso che tutti i nostri personaggi frequenteranno un’accademia, la S.N. (Saint Nobaria), situata a Tokyo, ovviamente è tutto di mia invenzione e non esiste nessuna scuola con quel nome, ma lo dico giusto per chiarire; inizialmente tutto doveva svolgersi durante l’estate, ma con gli scleri miei e della creatrice di Gwen fatti a scuola (neh Bea?), ho optato per una roba del genere :’D quindi, gli oc soffriranno! MUAHAHAHA!
A proposito degli oc, vorrei farvi notare che in questo capitolo sono comparsi gli oc di: Lady_Light_Angel; bice_97; Xima_; Wolf_White_ (ci terrei a far presente che il carattere di Ayumo non è così come l’ho descritto io, o almeno non è proprio così, la descriverò meglio durante il resto della fic); e di Cronus, più la mia sono sei oc, gli altri compariranno non vi preoccupate ^_^
Ultime due cose e poi vi lascio, questo è un messaggio per Kya88Ryuu, e IoGio: se volete partecipare, a questa storia, io avrei bisogno di due oc bambini, un maschio e una femmina, la loro utilità si capirà poi durante la storia; se siete ancora interessate potete farmelo sapere, se invece non volete ditemelo direttamente, così do la possibilità ad altri, ovviamente se quegli “altri” vogliono, ovvio ^___^, però chi prima arriva e mi fa sapere sceglierà se fare l’oc maschio o quello femmina, quindi, Kya-nee e Gio, fatemi sapere.
L’ultima cosa è una sottospecie di avviso (avvertimento/minaccia di morte): Tutti i personaggi che compariranno in questa storia, a parte gli oc che ho inventato io, non mi appartengono, alcuni fanno parte dell’opera originale, altri mi sono stati gentilmente lasciati da alcuni autori, quindi, questi ultimi, sono di mio esclusivo uso e consumo (e dei creatori –creatrici- stessi, ovvio), quindi se volete utilizzarli dovete chiedere il mio permesso o direttamente agli autori, chiunque li utilizzerà senza permesso attirerà la mia ira, siete avvisati! @__@ *sguardo omicida*
Ordunque, io ho finito xD, mi fa male la testa @^@
Quindi grazie a tutti quelli che hanno partecipato, e a chi ha letto :)
A presto
LekeLeke
  
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