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Autore: Amens Ophelia    23/08/2013    3 recensioni
"Tredici anni, una katana insanguinata che premeva sulla schiena, che nessuno aveva il coraggio di affondargli nel petto.
Tredici anni, infiniti spasimi affrontati ed evitati, ma la ferita più dolorosa che avrebbe subìto si chiamava destino; Itachi era solo in attesa del suo fato.
Tredici anni, e già il sapore della morte ottenebrava i suoi sensi. Non aveva scelto lui cosa farne della sua vita, se mai la sua era stata un’esistenza".
***
Itachi contro il nome Uchiha, contro se stesso e ciò che è stato costretto a diventare. Può un incontro fortuito far fiorire sentimenti sepolti da tempo, anzi, forse mai germogliati?
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Itachi, Nuovo Personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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6. Ciò che desidero ricordare
 

 
 
Non aveva mai amato il silenzio, Eiji Ando, perché lo riteneva una sorta di morte, una terribile quiete che non riusciva a procurargli la pace dei sensi che invece dava agli altri. Persino nei momenti in cui non trovava le parole per parlare, si rifiutava di farsi abbracciare dal silenzio, mettendosi a urlare o sfogando la sua ira con calci e pugni sugli alberi. Si guardò le mani e trovò le sue dita percorrere le cicatrici bianche che quelle risse verso l’assenza di suoni gli avevano procurato, contro le dure cortecce delle piante. Erano ferite guarite da tempo, ma ancora le sentiva sanguinare dentro, in qualche modo.
          «Qualcuno si decide a parlare o devo dare di matto come al solito?», sbottò impaziente, osservando la sorella e l’Uchiha in piedi davanti al suo letto. Chissà da quanto tempo stavano vegliando su di lui, senza nemmeno fiatare. Non era un genio, ne era consapevole, ma aveva facilmente intuito che quel gelo era stato causato da qualcosa di sconvolgente. Dello scontro del pomeriggio ricordava solo le premesse, ma non la conclusione: quel bandito lo aveva violentemente colpito alla tempia con il manico della spada, e lui si era accasciato a terra, tutto qui.
           Guardò Hikari negli occhi e provò una grande rabbia per se stesso. «Non sono riuscito a proteggerti», sussurrò, stringendo le lenzuola e abbassando subito lo sguardo.
          «Eiji!», esclamò lei, con voce tremante, accarezzandogli i pugni chiusi. Non aveva saputo dire altro, non riusciva ad aggiungere parole per farlo sentire meglio, anche se i pensieri non le mancavano. Desiderava che sapesse che lui sarebbe sempre stato il suo eroe, che non aveva nulla di cui rimproverarsi, che teneva alla sua vita più della propria… che si sarebbe sacrificata volentieri, sotto quella katana affilata, per lui.
          «Come ti senti?», domandò Itachi, fissandolo con aria seria. Vederlo privo di sensi l’aveva fatto preoccupare, ma si era subito accertato della minima entità del danno: un piccolo bozzo sulla regione temporale.
          «Va decisamente meglio, ho solo un po’ di mal di testa, ma nulla di grave. La mia capoccia è davvero dura quanto dicono!». Il sorriso gli ricomparve spontaneamente sul volto e riuscì a tranquillizzare i due ragazzi più delle parole.
          «Dovresti riposare», gli consigliò il moro, uscendo dalla stanza.
          I gemelli lo osservarono andarsene in silenzio, poi si lanciarono un’occhiata serena. Dovevano la vita a quel ragazzo misterioso, dal nome funesto. Avrebbero cercato un modo per ringraziarlo, ma l’unico che veniva loro in mente era quello di accoglierlo nella loro “famiglia”, renderlo uno di loro, per tutto il tempo che lui avesse desiderato. Non c’era bisogno di scambiarsi parole, perché era come se i pensieri dei due si fossero trasmessi telepaticamente, con uno sguardo d’intesa.
           «Va’ da lui e chiediglielo, io intanto mi faccio una bella dormita. Dovrò essere in forze per andare a raccogliere un po’ di legna, domani», rise. Sapeva benissimo che Hikari non gli avrebbe permesso di uscire dal letto per almeno una settimana, ma voleva che lei capisse che stava bene, e fare lo spaccone era l’unico modo che conosceva per mostrarle che era l’Eiji di sempre.
            La gemella gli baciò la fronte e chiuse la porta, sospirando. Finché aveva suo fratello, qualsiasi terribile cosa potesse accadere, il mondo non le sarebbe mai crollato addosso, ne era certa.
 
Passando per la cucina, quasi non le venne un colpo nel trovarsi davanti Itachi; pensava che fosse fuori, probabilmente intento a riflettere su questioni che lei non poteva nemmeno lontanamente immaginare. Invece era in piedi davanti al tavolo, con indosso la sua casacca pulita, intento a tirare fuori le trote dalla cesta.
            «Così rischi di sporcarti», lo ammonì timidamente lei, avvicinandosi.
            «In questo modo avrei una scusa per fermarmi un giorno in più», sorrise l’Uchiha.
Hikari spalancò gli occhi, di fronte a quella reazione: non solo era ciò che lei ed Eiji desideravano, ma aveva anche notato come ormai il ragazzo sorridesse spontaneamente, senza farsi troppi problemi, rispetto a prima.
             «Allora ti lascio campo libero», affermò, spostandosi e osservandola pulire il pesce. Aveva una manualità atipica per una ragazzina di tredici anni, e questo lo rattristò. Guardò le sue piccole mani, così infantili, le cui estremità erano paradossalmente rovinate e ruvide. Immaginava da quanto tempo fosse costretta a svolgere mansioni domestiche che avrebbero dovuto essere compiute da un adulto, pensò a quante gioie le erano state negate… in fondo, sotto questa ottica, i gemelli non erano tanto diversi da lui; erano stati costretti a maturare prima del tempo, pur di stare al mondo.
              «Ecco fatto», sorrise lei, dopo aver sciacquato le trote e averle infilzate sugli stecchi. «Sono già le sette, è ora di cucinare. Pensavo che, se a te va bene, potremmo fare una specie di grigliata», propose. L’Uchiha annuì e la seguì verso il retro della casa.
 
La giovane appiccò la fiamma nel piccolo focolare di pietre, poi si accovacciò per terra e prese ad osservare le lingue di fuoco danzare lentamente nel vespero, aspettando che tutta la legna bruciasse, per cuocere il pesce sulla brace.
              «Scusa per la mia reazione», mormorò timidamente, alzando lo sguardo verso l’Uchiha, che sembrava non aver afferrato a cosa si stesse riferendo. «Intendo dire, l’essere rimasta così impressionata da quello che hai fatto… Temo di averti offeso, con quell’atteggiamento. Ti devo la vita, e ti ringrazio anche per esserti occupato di Eiji, davvero. Perdona quegli occhi sbarrati, quel vuoto... non ero io, non volevo che tu mi vedessi così», spiegò imbarazzata, stringendosi le ginocchia al petto.
               Itachi scoppiò in una risata spontanea e incredula. «Mi chiedi scusa, dopo che ti ho terrorizzata a morte?», le chiese.
               «Tu mi hai salvata. Ci hai salvati», si affrettò a precisare, sorridendo.
               «Ho solo riportato in vita un brutto ricordo, invece. Lo capisco dai tuoi occhi, che ancora non riescono a guardare i miei». Nella sua voce c’era una nota di rammarico, l’ennesimo senso di colpa che stava maturando.
              «Non è vero!», quasi gridò lei, avvicinandosi. «Posso condurre le mie pupille ad annegare nelle tue, senza paura», asserì, affondando lo sguardo nel suo.
              Quel contatto visivo così sincero stupì il ragazzo, che si vide costretto ad interromperlo. Non voleva che quei preziosi occhi blu come la notte potessero in qualche modo intorbidirsi, a furia di scrutare i suoi.
             «Ci sono delle cose che non capisco. Cosa ti impediva di muoverti? Da dove nasce la paura per lo sharingan, la diffidenza per gli Uchiha?», domandò qualche minuto dopo, prendendo due trote ed adagiandole sulla griglia che Hikari aveva appoggiato sul braciere. La osservò serrare le labbra, pensierosa. Che domanda idiota! C’era bisogno di sentirsi dire in faccia ciò che la gente urlava da decenni alle spalle degli Uchiha, contro il ventaglio che svettava con arroganza sulle loro maglie? «Non ha importanza, posso immaginarlo. E hai perfettamente ragione; questi sono davvero gli occhi di un mostro», commentò atono, fissando i tizzoni iridescenti.
              «No. Questi sono gli occhi del tuo clan, è vero, ma, prima di tutto, sono gli occhi di Itachi, gli occhi cui devo la vita», lo rassicurò con lo sguardo lucido. Una lacrima tremante insisteva per scendere, ma lei la ricacciò indietro, strizzando le palpebre: non era ancora ora che le stelle cadenti solcassero il cielo dei suoi occhi. «Perciò, affinché tu capisca, ti racconterò cos’è successo nove anni fa.
 
Avevamo intorno ai quattro anni, quando la Terza Grande Guerra Ninja era in procinto di infuriare. Anche tu avevi quell’età e, per quanto piccolo, credo che possa ricordare quanto l’aria di Konoha, in quel periodo, fosse tesa, carica di pessimi auspici. Per il conflitto imminente, si stava scatenando una vera e propria corsa alle armi e i ninja si erano letteralmente fiondati alla bottega di mio padre, l’arrotino Hyobe Ando, nella zona più umile del villaggio.
              Quel giorno, anche io ed Eiji eravamo nel suo laboratorio. Lo osservavamo meravigliati, cercando di contare ogni volta quante scintille potessero scaturire dalla lama di una katana a contatto con la smerigliatrice, ma la velocità con cui queste si alzavano in volo era tanto elevata da lasciarci a bocca aperta. Lo stupore, però, venne estinto dall’arrivo di tre uomini della polizia, esponenti del clan Uchiha. Avevano chiesto a mio padre di uscire dalla bottega, in modo da poter parlare pubblicamente, sotto gli sguardi degli altri abitanti.
              Quelle parole ci strozzarono il respiro. Banditi, esiliati da Konoha, perché una spada si era spezzata durante un combattimento tra un poliziotto e un criminale, provocando il ferimento dell’agente; questi aveva subito riferito che la spada era appena stata ritirata dall’atelier degli Ando, pagata profumatamente per essere rifinita come un rasoio.
               Era vero; anche mio padre ammise che ricordava di un giovane agente passato a riprendersi la katana, ma aggiunse che l’aveva avvertito di quanto la saldatura tra la lama e il manico fosse instabile, consigliandogli di fare un salto dal fabbro per accertarsi della tenuta. Ricordavamo anche noi quella discussione, ma non potevamo essere creduti: avevamo solo quattro anni e una mente facilmente suggestionabile.
               A nulla era valso il tentativo di mio padre di regalare una preziosa katana antica che teneva da anni nel negozio… quella che ho cercato di impugnare oggi, indegnamente. Non c’erano giustificazioni plausibili: gli Ando avevano tramato contro la sicurezza del Villaggio della Foglia, con un attentato diretto alle forze di sicurezza. Gli Ando erano sullo stesso piano dei traditori, pertanto andavano allontanati.
               Mia madre, kunoichi originaria del Villaggio del Vortice, cugina della famosa Kushina, aveva cercato invano di opporsi a quella decisione. Era scesa velocemente in strada, avendo sentito quella discussione dalla finestra della cucina, e aveva tentato di convincere l’ufficiale a non cacciarci. Ricordo ancora il sorriso di quell’uomo, reso ancora più intenso e sinistro dallo sharingan: “Tu sei una kunoichi, Aiko Uzumaki, e pertanto resterai al Villaggio. Konoha non può rinunciare a te, in punto di guerra! La decisione è presa: tuo marito e i vostri figli lasceranno la Foglia, seduta stante. D’altronde sono semplici civili, non rappresentano una perdita per nessuno, qui…”, gli rise beffardo in faccia.
               “Per me sì!”, aveva urlato lei, in lacrime, lanciandosi verso l’uomo, pronta a ferirlo con tutte le sue forze. Gli altri due erano pronti a difenderlo, ma il capo fece loro cenno di non disturbarsi. Lo sharingan gli aveva permesso di contemplare in anticipo le mosse di mia madre, così la bloccò in tempo, assestandole un colpo al collo che le fece perdere i sensi.
                Le mie urla, le lacrime di papà, i singhiozzi di Eiji non riuscirono a ridestarla in tempo per salutarci, prima che il corpo di polizia ci sospingesse con forza verso le porte del Villaggio, con quei pochi bagagli che ci aveva concesso di preparare in fretta e furia. Konoha era rimasta a guardare, nessuno aveva mosso un dito per evitare la nostra cacciata… nessuno. Non eravamo nessuno, come potevamo pretendere che qualcuno si accorgesse di noi?
               Papà, negli anni, costruì questa semplice casa, esercitò la sua professione nello sgabuzzino, insegnò ad Eiji i trucchi del mestiere. È rimasto con noi fino a tre anni fa, quando un bandito l’ha accoltellato perché non aveva soldi per pagarlo. Che ironia! La storia si ripete, ma non insegna nulla. È toccato a noi dargli sepoltura, a dieci anni: Eiji ha scavato la fossa, io ho intrecciato una corona di fiori; un funerale sobrio, con solo due familiari presenti. Era il massimo che potevamo fare, per lui, ma l’abbiamo fatto con il cuore.
               Mamma invece è scomparsa nella Guerra, molto probabilmente lasciandosi uccidere dal nemico, rinunciando a combattere, rifiutandosi di proteggere il Villaggio che non aveva salvaguardato i suoi affetti.
               Se c’è una cosa che mi consola, è pensare che siamo stati tutti inconsapevoli delle nostre sorti, ci siamo trovati dentro i nostri destini senza rendercene conto, in fretta, e non abbiamo potuto fare niente per cambiarli… e forse, questa è stata una fortuna, perché vivendo in un tale angolo di mondo, nella foresta, la guerra non ci ha particolarmente sfiorati, così come l’attacco della Volpe. In qualche modo, per quanto sia stato atroce crescere senza nostra madre, lontano dagli amici, dal villaggio, la nostra disgrazia è stata ciò che ci ha salvati».
               Il ricordo giaceva ancora perfettamente nitido nella sua mente, più limpido di quanto desiderasse, e le lacrime lo confermarono. Non voleva piangere, aveva speso fin troppe giornate a disperarsi, senza risolvere nulla, ma non riusciva a trattenersi, quella sera. Tutto quello che era successo in quelle ventiquattro ore sembrava un piano del destino per farle cambiare idea sulla famiglia Uchiha, grazie a Itachi, e, forse, per farle trovare il coraggio di guardare al futuro con più speranza.
 
«Mi dispiace avervi fatto passare tutto questo… è assurdo», mormorò il ragazzo, pietrificato. Non trovava le parole adatte per descrivere la sensazione di disgusto che provava, né per cercare di lenire le sofferenze di Hikari. Non era mai stato bravo nell’esprimersi, era un suo limite, ma questo non significava che non provasse nulla, anzi, spesso le emozioni che avvertiva riuscivano a sopraffarlo al punto da costringerlo a trattenere il respiro, proprio come in quel frangente.
              «Ma tu non hai fatto nulla», sorrise la ragazzina, asciugandosi gli occhi con un rapido gesto delle mani.
              «Hikari, il capo della polizia, quello che vi ha cacciati dal villaggio… era mio padre», sussurrò lui, guardandola dritto negli occhi.
              La giovane Ando raccolse le ultime due trote dalla griglia e le appoggiò nel piatto, cercando di non smettere di mostrarsi imperturbabile. Quella notizia l’aveva colpita, non avrebbe mai immaginato di trovarsi di fronte al figlio di chi aveva deciso delle loro vite, ma, allo stesso tempo, era fermamente convinta di quello che aveva detto poco prima riguardo alla fortuna di essere scampati a disastri peggiori, grazie all’esilio. Coprì gli ultimi tizzoni ardenti con la cenere, prese il piatto e si alzò in piedi, assolutamente serena.
              «Non hai fatto niente, Itachi. Tu sei nostro amico, ti dobbiamo la vita», lo rassicurò lei, prima di tornare in casa.
              Per quanto volesse precisare che le cose non stavano così, che si sentiva colpevole per tutto quello che era successo, seppur, chiaramente, non lo fosse, si tenne in silenzio e la seguì.
 
In cucina trovarono Eiji, seduto sul divano. Inutile dire come la sorella lo strigliò per essersi alzato dal letto senza aver chiesto aiuto, contro le loro raccomandazioni. Lui sviò i rimproveri con il consueto buonumore, accomodandosi a tavola.
               Anche la cena trascorse tranquilla, ancora più silenziosa del pranzo. Nessuno osava aprire bocca e stavolta gli sguardi erano bassi. Le emozioni che vibravano nell’aria erano più o meno simili: gratitudine, rimorso, senso di condivisione; ma afferrare le parole per esprimersi sembrava essere un peccato mortale, in tutta quella pace.
               Hikari sparecchiò la tavola e si dedicò alla pulizia dei piatti, mentre Eiji si appisolò sul divano, ancora un po’ spossato. Quando terminò quel compito, la ragazza uscì di casa per prendere una boccata d’aria fresca, sperando che si sarebbe rivelata una soluzione per ristorare anche i pensieri, oltre che i polmoni. Qualche istante dopo, anche Itachi la raggiunse, appoggiandosi come lei sul parapetto di legno che proteggeva il modestissimo patio dell’abitazione.
              «Stanotte partirò. Ho abusato fin troppo della vostra ospitalità», affermò deciso, puntando gli occhi nella luna piena.
             «Non è così», si affrettò a smentirlo lei.
             «È così», la interruppe sorridendo, accarezzandosi una manica della casacca. «È tornata come nuova, grazie».
             Hikari non aveva nemmeno sentito quella riconoscenza, perché un dettaglio più importante aveva catturato la sua attenzione.
             «Rifallo, per favore», gli chiese con dei lucciconi negli occhi.
             «Cosa?». Proprio non capiva a cosa stesse alludendo.
             «Sorridi. È questo ciò che desidero ricordare, della nostra giornata: il tuo sorriso», esclamò lei, fremendo.
             Itachi accontentò la sua richiesta, a cuore aperto, spontaneo come nell’atto di respirare. Anche lui voleva chiudere così quella breve parentesi di felicità.
 
La porta si aprì alle loro spalle e sull’uscio comparve Eiji, sbadigliando. Si reggeva perfettamente in piedi da solo, sembrava in ottima forma, nonostante il bernoccolo rosso sulla tempia.
            «Cosa state facendo, qui fuori?», domandò con la voce ancora impastata di sonno.
            Itachi, per tutta risposta, si sfilò la katana e la porse ai fratelli. Nel tardo pomeriggio, prima di tornare a indossare le sue vesti consuete, aveva provveduto a lavarla, cercando di farla tornare immacolata come quando la sua lama era ancora innocente. Avrebbe desiderato tanto che lo stesso si potesse dire anche della sua anima.
            «Ho deciso di vivere per la pace e questa non mi serve più, ve la regalo. Prendetela come un dono per la vostra ospitalità», affermò guardandoli con attenzione, come per scolpire per sempre nella memoria quei volti gioviali che tanto lo avevano sollevato.
            «Ma che dici? Vuoi ripartire… e senza spada?!», esclamò il giovane Ando, stupito.
            «Ti prego, rimani con noi! So che siamo insopportabili, che chiacchieriamo incessantemente, che ci punzecchiamo a vicenda… ma è stato meraviglioso trovarti, Itachi! Non abbiamo mai avuto un amico», lo implorò Hikari, cingendogli l’avambraccio e guardandolo negli occhi.
            «Mi dispiace, ma io non posso essere questo, oggi è stata un’eccezione. Non posso conoscere questi sentimenti di amicizia, non li merito. Sono cresciuto rigidamente per far affidamento solo sui miei sensi, fuggendo le emozioni; questa è la mia regola. Potete chiamarmi insensibile, spietato… non vi posso dar torto, lo sono. Non mi supplicare, Hikari, perché io non ho mai conosciuto la pietà! I tuoi occhi non possono fare nulla per farmi cambiare idea. Vi accorgerete presto di quanto sia stata una fortuna che stanotte un mostro come me se ne sia andato; sentirete parlare di me, purtroppo». Il tono di voce era quasi meccanico, eppure la sua mano aveva tremato nell’allontanare quella della ragazza.  
            «N-non dire stupidaggini! Tu puoi benissimo restare qui con noi, lo sai! Non ci interessa quanto scura possa essere la tua ombra, perché oggi la luce del tuo sorriso è riuscita a vincerla. Ti prego, resta, Itachi! Sai che non ce ne importa nulla di Konoha, del villaggio…», lo pregò in lacrime lei, cominciando a singhiozzare.
            «Non posso obbligarti a restare, ne sono consapevole, ma se lo desideri, ti chiedo anch’io di fermarti con noi. Conoscerti è stato un vero piacere, sembriamo quasi avere una certa sintonia! E poi, non permetterai che Hikari perda tutte le scommesse da qui in avanti!», ridacchiò Eiji, con una luce cristallina nelle iridi.
            «Vi ringrazio, ma ora è morto. Tutto ciò che poteva essere vivo in me, ora è morto. Ha conosciuto la breve luce dei vostri sorrisi, la limpidezza dei vostri occhi, il calore della vostra gioia, ma è appassito definitivamente, perché tutto questo non merita di vivere in me».
 
Itachi si girò rapidamente, decidendo di ignorare i singhiozzi della ragazzina e il silenzioso pianto del fratello. Sulla schiena sentiva il peso di quegli sguardi purissimi, come se le loro lacrime stessero cercando di spezzare l’incantesimo maledetto del ventaglio Uchiha. Impossibile, l’anatema era un marchio congenito, per sempre impresso nel suo cuore, da cui non si sarebbe mai potuto liberare. Nascere in una famiglia tanto prestigiosa, fruire del dono dello sharingan, essere temuto e rispettato, erano benefici che avevano un prezzo, decisamente alto da pagare. Venire al mondo in quel clan significava rinunciare a stringere legami profondi con persone esterne alla cerchia, morire quotidianamente per il glorioso nome della casata. Avrebbe fatto ancora i conti con il suo passato, ma, per quanto lo riguardava, d’ora in avanti avrebbe cercato di pensare solo al futuro, suo e di Sasuke.
            Passare quella giornata con Hikari ed Eiji gli aveva fatto capire ancora di più cosa significasse amare fino al punto di annullarsi e rischiare tutto, per un fratello. Quelle ventiquattro ore travagliate, tanto intense da apparire molto più lunghe, anche se passate inesorabilmente, gli avevano fatto maturare una scelta di cui andava orgoglioso.
           “Comunque andranno le cose, non voglio più i tuoi occhi, anzi, ti donerò i miei, piuttosto, affinché tu continui a vivere, ed io con te. Ti regalerò quel poco di luce che le tenebre non riusciranno ad avvelenare. Sasuke, mi terrò in vita solo per te. Impara ad odiarmi, io non smetterò mai di amarti, otouto”. Era il riflesso delle stelle o erano lacrime, a illuminare i suoi occhi scuri?
            Quella promessa tacita gli penetrò il cuore più di quanto potesse fare una spada.
 
Tredici anni, una katana insanguinata che premeva sulla schiena, che nessuno aveva il coraggio di affondargli nel petto.
           Tredici anni, infiniti spasimi affrontati ed evitati, ma la ferita più dolorosa che avrebbe subìto si chiamava destino; Itachi era solo in attesa del suo fato.
           Tredici anni, e già il sapore della morte ottenebrava i suoi sensi. Non aveva scelto lui cosa farne della sua vita, se mai la sua era stata un’esistenza.




Ecco, questa sarebbe la conclusione ufficiale della storia... ma mi è saltato in mente qualche episodio da aggiungere. Non vi garantisco che sia una brillante idea, mi inquieta un sacco ahahah :D Perciò volevo conoscere la vostra opinione: proseguire o non proseguire? (questo è il dilemma!) XD
Come sempre, grazie davvero di cuore per aver letto e... le mie carissime The Valkiria e DoubleSkin per le preziose parole!! :')
Spero che questa fiction sia stata di vostro gradimento!! ;)
   
 
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