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Autore: Peppers    30/08/2013    3 recensioni
Dacia, 117 d.C.
Arinne vive in un piccolo villaggio celtico insieme al fratello Calaid. È una ragazza semplice ma possiede un dono molto particolare: è stata scelta dalla Dea Persefone, la Regina dei Morti.
Ceylon è un elfo della città di Uran. È un potente guerriero, un veterano di mille battaglie noto come Cane Nero. Insieme a Laslie, giovane sacerdotessa della Dea Varghas, Ceylon si imbatte casualmente in un’antica stele incisa.
È l’inizio di una spirale di eventi che inghiottirà i quattro personaggi, portandoli faccia a faccia con antichi miti, verità inenarrabili e segreti proibiti.
«Sbagliate a pensare che i sogni siano solo illusioni» aveva sentito dire molti anni indietro ad una sacerdotessa. «Il corpo non è che un riflesso dello spirito. Chiamate realtà la vostra casa, l’armatura, le armi e i gioielli. Tutto ciò non è che un velo fuggevole posto davanti ai vostri occhi. La realtà autentica sta aldilà di ciò che potete scorgere con i sensi. Prestate fede a queste parole e vi saranno aperte le porte al mondo della Dea Varghas. Solo allora sarete in grado di fare ciò che ci rende Elfi Onirici: potrete allenare la vostra mente e, con essa, anche il vostro corpo si irrobustirà.»
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ceylon si inumidì le labbra. Non era la paura a rendergli la gola secca, piuttosto la consapevolezza. Il cielo era d’acciaio, livido e sfumato da strisce gialle e verdi. Un’atmosfera così irreale non lasciava alcun dubbio: si trovava in un sogno. Nello studiare la desolazione immota che lo circondava, l’elfo portò una mano sopra gli occhi. Alberi scheletrici si assiepavano sulla carcassa arida della terra, non lasciando altra via che il sentiero su cui Cane Nero si trovava. 
Era stato lì troppe volte nelle ultime settimane. Un unico incubo, ricorrente fino all’ossessione. Mosse alcuni passi, poi si fermò. Con la punta dello stivale sollevò una pietruzza, lasciando un incavo secco e polveroso. Il braccio scivolò oltre le spalle, scostando appena la spada dal fodero. Ogni movimento faceva cigolare la corazza. Nel silenzio che lo circondava, anche il più piccolo rumore era assordante, ma Ceylon non se ne curava: tentare di passare inosservati serviva a ben poco. Sarebbero arrivati. Anche questa volta. Lo avrebbero trovato, non importa in che direzione correva, quindi tanto valeva affrontarli a viso aperto.
Sguainò l’arma. La pietra rossastra che impreziosiva il pomo sembrò infiammarsi alla fievole luce del cielo. L’impugnatura non era che una lamina d’argento larga pochi centimetri, ripiegata rozzamente su un imbottitura di cuoio fin sotto la guardia. Quest’ultima era priva di decorazioni, come pure la lama. Il risultato era una spada pressappoco banale, un’opera mediocre che nessun fabbro avrebbe mostrato a un guerriero di una certa fama. Eppure Ceylon non l’avrebbe avrebbe scambiata con nessun’altra arma. Era maneggevole e ben affilata. Gli bastava. Al resto avrebbe pensato la sua mano. I muscoli si tesero come la corda di un’arpa che attenda l’inizio dello spettacolo per far sentire la propria musica. Gli istinti da Elfo Onirico si stavano risvegliando, destati dalla mattanza che da lì a poco si sarebbe scatenata: le pupille si assottigliarono a piccole fessure, cercando tracce di vita nel cuore di quel bosco esanime, e i canini brillarono fra le labbra serrate. Dovette sforzarsi per riprendere il controllo di sé. Pian piano le pupille tornarono a essere due soli scuri sprofondati in un’iride violacea e i denti si ritrassero.
Sarebbe stato un grave errore sottovalutare una battaglia ardua come quella che gli si prospettava. Se fosse morto in sogno, il suo corpo non si sarebbe più destato. Forse lo avrebbero scambiato per un dormiente, almeno finché la pelle grigia non fosse sbiadita in un pallore mortale. Cose del genere accadevano con discreta frequenza a Uran, e nessuno ormai si sorprendeva più. Addentrarsi troppo nelle visioni notturne poteva rivelarsi rischioso, ma era l’unico modo per un Elfo Onirico di incontrare la Dea Varghas. Ceylon aveva abbastanza esperienza per capire che la Signora dei Sogni era ovunque attorno a lui: nell’albero scuro e nodoso, nelle crepe della terra e nel cielo immobile e silenzioso. Si celava dietro qualsiasi forma, plasmando quella realtà esistente solo nella propria mente. Ogni Elfo Onirico tentava di trarre il massimo da quella comunione di spirito e corpo con la Dea: era così che Varghas allenava i suoi protetti.
«Sbagliate a pensare che i sogni siano solo illusioni» aveva sentito dire molti anni indietro ad una sacerdotessa. «Il corpo non è che un riflesso dello spirito. Chiamate realtà la vostra casa, l’armatura, le armi e i gioielli. Tutto ciò non è che un velo fuggevole posto davanti ai vostri occhi. La realtà autentica sta aldilà di ciò che potete scorgere con i sensi. Prestate fede a queste parole e vi saranno aperte le porte al mondo della Dea Varghas. Solo allora sarete in grado di fare ciò che ci rende Elfi Onirici: potrete allenare la vostra mente e, con essa, anche il vostro corpo si irrobustirà.»
Le parole della sacerdotessa potevano anche essere vere, ma Ceylon sospettava che la mistica aveva taciuto volontariamente sull’altra faccia della medaglia. La Dea Varghas era tanto incline a elargire doni ai più meritevoli, quanto a ignorare le suppliche dei più deboli. Ogni settimana nel cimitero della città veniva scavata una nuova buca per accogliere un elfo smarrito nel sonno.
Con una smorfia Cane Nero scacciò il pensiero. Non c’erano motivi per cui dovesse temere l’ira della Signora dei Sogni. Eppure quella visione sempre uguale a se stessa. Arricciò il naso, un riflesso condizionato dal proprio animale guida. Il momento era vicino. Uno scricchiolio dietro di sé. Colpì senza nemmeno guardare. La lama sibilò nell’aria e la punta di un ramo cadde, falciata dall’arma dell’elfo. Ceylon si allontanò di un passo, gli occhi fissi al legno da cui non stillava nemmeno una goccia di linfa. Un altro scricchiolio. Il guerriero balzò indietro, appena in tempo a schivare l’affondo di un secondo tralcio. Gli alberi si muovevano, prendendolo di mira. Protendevano le loro dita avvizzite, ora tentando di ostacolarne il cammino, ora cercando di coglierlo di sorpresa. Ma Cane Nero non era un combattente facile da cogliere in fallo. Si chinava, saltava, correva e colpiva con precisione, indifferente al pensiero che la selva tutt’attorno si stava trasformando in un esercito pronto a braccarlo. Ringhiò contro un nemico che non aveva volto. La lama guizzava in una danza da cui i rami si ritraevano, per poi tornare subito dopo all’attacco, ancor più numerosi. Non c’era tempo per riflettere. Gli attacchi si susseguivano incalzanti. Si ritrasse appena in tempo a evitare una fronda, che tuttavia gli sfiorò un orecchio. I capelli tirati dietro la nuca si sciolsero, ricadendo sul viso madido di sudore. Una radice si avviluppò attorno al piede. La recise con un fendente. Tentò di riguadagnare l’equilibrio. Non vi riuscì.
Si ritrovò col viso sul terreno secco. Un ramo gli graffiò l’armatura, un altro lo trascinava indietro, un altro ancora mirò fra la corazza e lo spallaccio. Non badò alla fitta di dolore ma brancolò e con gran fatica riguadagnò l’arma. Prese a correre, liberandosi dalla stretta degli alberi. Cercava ancora di schivare i colpi, gli occhi inchiodati al sentiero che si dipanava di fronte a sé come un gomitolo infinito. Alle orecchie gli giunsero dei sussurri indistinti. Erano tutto attorno a sé. Non troppo lontani, eppure ovattati come da una distanza infinita. Era forse la voce della Dea che gli stava parlando? Non poté soffermarsi sul pensiero. Bisognava correre. Scappare. Scappare? No. I nemici erano ovunque: dietro di sé, ma anche davanti. Stava scappando dalla minaccia, e al tempo stesso correndo dritto fra le sue braccia spalancate. Ciò che prima reputava l’unica speranza di vita,  adesso gli sembrava un piano profondamente stupido.
Rallentò e riprese fiato. I contorni degli alberi si stavano facendo sempre meno distinti, sfumando le sagome in ombre. Accennò un colpo con la spada, scoprendo che la lama fendeva l’aria come gli alberi fossero incorporei. Eppure  qualcosa c’era. Lo avvertiva nell’aria che a ogni respiro gli annegava i polmoni. L’idea che le ombre potessero sgusciare dentro il proprio corpo lo innervosì. Con un basso ringhio si abbandonò alla propria forma animale. Si contorse, rimpicciolendosi fino a divenire un mastino dal pelo scuro e irto.
Attraverso i propri occhi di canide, Ceylon vide il mondo tingersi di colori preclusi alla vista di un elfo. Percepiva in modo più distinto anche gli odori, e di nuovo la pressante sensazione di minaccia tornò a pungergli il naso. Si abbandonò a una fuga lungo il sentiero, con le ombre che gli lambivano la coda. Si facevano beffe di lui, attendendo solo un passo falso per piombargli addosso e inghiottirlo. Si sentì scuotere il petto da un’ira incontenibile. Non era una prova legittima lottare contro un nemico contro cui non aveva armi. Nessun guerriero poteva abbattere un avversario privo di un corpo.
Il paesaggio iniziò a mutare. La piana desolante si modellò in una schiera di colline accidentate fra le quali correva il sentiero, giungendo al più alto di quei picchi. Ceylon mordeva il terreno con le unghia, senza badare alla bava che colava ai lati del muso. I sussurri si alzarono in un coro assordante. Premevano sulle orecchie sensibili da cane, ma anche così non riuscì a comprenderne il significato. Si sentì infiacchito dallo sforzo di reggere quei ritmi inumani e provò l’impulso di abbandonarsi alle ombre e a quella nenia che cercava di ammaliarlo. Ma la ferma volontà di vivere lo costrinse ad andare avanti.
Non rallentò nemmeno quando sentì la terra tremare.
Tutte le colline, eccetto la più alta, si sgretolarono in una valanga di roccia e una spaccatura segnò il sentiero davanti a sé. Non rallentò. Sapeva che ce l’avrebbe fatta. Era sempre stato così nelle ultime settimane. La crepa si allargò fino a divenire una voragine che si apriva in un vuoto oscuro e nebuloso. Ceylon tentò di colmare con un balzo la distanza che lo separava dal resto del sentiero. Si rannicchiò e con tutte le proprie forze si librò in aria. Le ombre non avrebbero potuto attraversare quel vuoto, dall’altra parte sarebbe stato al sicuro. Mentre sovrastava la fenditura udì una voce argentina. Una nota lenta e melodiosa sovrastò la cacofonia di sibili e parole intellegibili, annunciando una salvezza che sembrava essergli preclusa. Si ritrasformò in elfo non appena ebbe chiaro che non sarebbe riuscito a raggiungere l’altra sponda del sentiero. Con un grugnito batté contro la dura roccia, scivolando nello strapiombo. Riuscì ad aggrapparsi con una mano, impedendo al vuoto di inghiottirlo.
«Cosa vuoi da me?»
Urlò, contro nessuno in particolare. Le ombre e il coro di voci si attenuarono, lasciando solo il misterioso canto. Solitaria nel sogno desolato, quella voce sembrava sospesa come un manto caldo. Ceylon rimase ad ascoltare quella nota che vibrava di energia, una mano stretta alla spada, l’altra aggrappata alla roccia. Guardò in basso, poi in alto. Il cielo era mutato in una distesa scura quanto una macchia di inchiostro su cui splendeva, solitaria, una falce di luna.
Una falce di luna. Si inumidì le labbra: il simbolo della Dea Varghas.
La roccia su cui Ceylon era aggrappato cadde, sprofondando Cane Nero nel vuoto.
Si destò sul giaciglio su cui stava riposando, sudato e angosciato, ma ancora vivo. Frastornato dal sogno, ci vollero diversi secondi prima che ricordasse dove si trovava. Era una camera dell’Ossario, il luogo in cui gli Elfi Onirici si recavano per sognare: una palestra della mente, un santuario del corpo e un calderone ribollente di chiacchiere sulle novità più scottanti della città. Si rizzò a sedere, poggiando i palmi sul bordo in pietra del letto. Il largo torace di Ceylon si alzava ritmicamente, godendo delle fresche sensazioni della vita. Dalla finestra, unica interruzione in un solido muro in pietra, filtravano i bagliori di una mattina indaffarata: Uran si era svegliata da un pezzo e i suoi abitanti sfrigolavano per le vie come un torrente di figure indistinte. Una lieve brezza cinse l’elfo in un abbraccio, provocandogli un fremito. Si ricordò di essere solo in calzoni.
Un’occhiata distratta alla propria destra lo rassicurò che tutto era come lo aveva lasciato: l’armatura amaranto su un piedistallo di legno, accanto alla porta; la  cotta d’acciaio nero su un comodino, insieme alla spada; la maglia su una sedia, accuratamente piegata. Accuratamente piegata? Ecco un indizio che rivelava il passaggio di una fra le sacerdotesse dell’Ossario. Non faticava a immaginarla in punta di piedi, attenta a non disturbare il suo sonno. Di certo aveva rinvigorito l’incensiere con una buon pugno di Tateesha, l’erba allucinogena usata dalle adepte di Varghas per promuovere sogni e visioni. Il suo odore acre saturava ancora l’aria, librandosi in rigagnoli di fumo. Con la sgradevole sensazione di essere ancora intrappolato in un sogno, Ceylon si sgranchì le gambe.
Si diresse su un lato della stanza, l’unico spoglio eccetto per un alto specchio incastonato in una ricca intelaiatura. Nell’atmosfera vaporosa della camera, la superficie lucida risplendeva come un’isola evanescente. Il guerriero avanzò cauto, chinando il capo come a cercare qualcosa nell’immagine riflessa. Fissò con intensità la superficie lucida: il letto, gli incensieri, la finestra, ogni oggetto si trovava nell’esatta posizione. Si sarebbe detto una copia identica, tranne per un solo dettaglio. Ceylon non scorse il proprio riflesso. D’istinto volse la testa, guardando dietro di sé con fare allarmato. Poi calò lo sguardo, arrendendosi all’evidenza degli insegnamenti delle sacerdotesse.
«Badate nello specchiarvi, Elfi Onirici». Le parole gli riaffiorarono alla mente con la stessa fermezza con cui erano state pronunciate molti anni addietro. «Solo gli sciocchi credono di scorgere il riflesso del proprio corpo. Quella che vedete è la vostra anima. Uno specchio è un potente artefatto, l’anello di congiunzione fra il nostro mondo e quello dei sogni».
Quale turbamento scuoteva il petto possente di Ceylon? Sapeva bene la risposta: l’irrequietudine per un sogno che lo perseguitava. Una visione di cui non riusciva ad afferrare il significato. Nel profondo della propria anima, Cane Nero non era sicuro di voler scorgere il senso di quell’incubo senza via di fuga. Si rifiutava di affrontare la realtà racchiusa nella propria mente, questa l’unica ragione per cui non scorgeva se stesso nello specchio.
«Esci fuori»
La voce si tinse più di rabbia che fermezza. Dal bordo dello specchio fece capolino un guerriero cupo, dai lineamenti duri e gli occhi viola: l’anima di Ceylon apparve in calzoni, accigliata per essere stata sorpresa a nascondersi. L’elfo guardò negli occhi se stesso mentre la parte più intima della propria mente celava con una smorfia il disagio di quella sfida.
«Voltati. Fammi vedere le ferite»
Il riflesso batté il piede con impazienza, valutando se assecondare o meno i voleri del corpo, poi sbuffò irritato, mostrando una schiena segnata da linee arrossate. Benché Ceylon sentisse la pelle tirare e bruciare, nessuno di quei segni era particolarmente grave. Se la sarebbe cavata con un po’ di riposo e, nella migliore delle ipotesi, senza aggiungere una nuova cicatrice al proprio corpo. Annuì lentamente, ma la sua soddisfazione non fece altro che acuire l’indignazione del spirito nello specchio.
Fu distratto dallo scricchiolare della porta sui cardini. Volse appena il capo, scorgendo una figura allampanata avvolta in una tunica blu. Sulla sopravveste di fili d’argento brillò la mezza luna di Varghas, qualificando la nuova arrivata come una sacerdotessa. Ceylon tornò a concentrarsi sullo specchio, scoprendo che il proprio riflesso era svanito. Non se ne sorprese: l’ingresso dell’elfa era un motivo come un altro per sviare la questione irrisolta del sogno.
«Se avessi saputo che eri sveglio, avrei bussato»
Due occhi chiari bramarono Ceylon, ma il guerriero non vi badò, rispondendo al saluto con una scrollata di spalle.
«Sono venuta a chiudere le imposte, la luce del sole non giova a chi dorme»
«Ho dormito abbastanza per oggi, considera la stanza libera per qualcun altro.»
La sacerdotessa, ancora poggiata allo stipite della porta, si avvicinò a Cane Nero.
«Ho degli unguenti per queste» sussurrò, carezzando delicatamente la schiena dell’elfo. Il tocco di quel dito affusolato lasciò intendere che, con molta probabilità, le attenzioni della sacerdotessa non si sarebbero limitate ai dei semplici massaggi. Ceylon era chino sulla sedia, la dita che indugiavano sui propri vestiti. Da una stanza limitrofa proveniva un gemito sommesso: un altro guerriero stava godendo delle belle forme di una ragazza. Finse di non badarvi e si rivestì in fretta.
«Un’altra volta, forse»
La ragazza ritrasse la mano, sospirando affranta. Quella delusione dipinta sul volto era uno dei motivi per cui Cane Nero evitava l’unione con le ragazze dedite alla religione. Non era piacere né passione, la loro, ma solo una fede al limite del fanatismo. Il culto di Varghas professava la supremazia dell’anima sul corpo? Allora schiere di sacerdotesse erano pronte a tutto per soddisfare i desideri più reconditi dei migliori guerrieri di Uran. Lo facevano in nome della religione, ben intenso, non erano certo delle sgualdrine. Sulle prime era stato interessante: con la propria fama di combattente, Ceylon aveva visto crescere l’esercito di belle ragazze disposte a dividere le bellezze del proprio corpo. Ma poi tutto era divenuto così scialbo e monotono, una vera scocciatura. Eppure, a giudicare dai gemiti, di elfi insaziabili ce n’erano molti. Era il volto oscuro degli Elfi Onirici, guerrieri ingordi nel corpo e nell’anima, affamati di prestigio, potere e ricchezze. Dopo mezzo secolo, Cane Nero aveva fatto l’abitudine anche a quello.
Indossò la maglia, la cotta e chiese aiuto alla sacerdotessa per stringere le cinghie della corazza di amaranto. Sotto lo sguardo avido della ragazza, Ceylon lasciò la stanza stringendo nella mano il fodero con la spada. Un corridoio lugubre, senza finestre, percorreva il perimetro quadrato dell’Ossario. A destra e a sinistra, altre porte conducevano a camere identiche a quelle in cui Cane Nero si era svegliato. In molte di queste altri elfi stavano certamente sognando, intorpiditi in sogni ricamati dalla mano della Dea Varghas. Percorrendo il corridoio fino a trovare la scala per il piano inferiore, Ceylon incrociò altre sacerdotesse: figure dallo sguardo allucinato, che lo squadravano con deferente interesse. Una gradinata rischiarata da alcune torce lo condusse a un passaggio privo di porte laterali, una galleria dal soffitto a volta che collegava i piani superiori con il cortile interno dell’Ossario. Si ritrovò all’aria aperta, all’ombra di un porticato. A pochi passi da sé si estendeva uno spiazzale gremito di vasche d’acqua calda in cui erano immersi dozzine di elfi. A qualsiasi ora del giorno e della notte i bagni termali erano sempre occupati, al punto che Ceylon si era ormai rassegnato a godere dal colonnato quell’aria calda e carica di profumi: capannelli di guerrieri scaldavano i muscoli prima di recarsi ai piani superiori, cogliendo l’occasione per chiacchierare assieme; un giovane rampollo tentava di darsi delle arie, lusingando le sacerdotesse che percorrevano le passerelle da una vasca all’altra; raccolti in un angolo isolato del porticato, loschi figuri parlottavano sottovoce, certi che nessun orecchio avrebbe udito gli accordi segreti che stavano scambiandosi. Il cuore pulsante della vita sociale di Uran batteva senza sosta, e Ceylon si chiese se anche gli altri Elfi Onirici, come lui, avevano l’impressione che qualcosa di grosso stesse per accadere. Se anche era così, non lo davano a vedere: i loro volti non esprimevano nulla di più che una sicurezza arrogante. Ma Cane Nero sapeva che non bisognava fidarsi dei propri occhi, perché molti Elfi Onirici celavano i propri segreti con la stessa abilità con cui si trasformavano in animali.
Crivellando la testa con pensieri d’ogni tipo, Ceylon si abbandonò alla contemplazione dell’immenso teschio di drago posto al centro del cortile. Aveva sempre pensato che fosse solo una decorazione, un trofeo così imponente da poter ospitare senza alcuna difficoltà un uomo fra le fauci spalancate; ma si era dovuto ricredere una notte che, ingannando il tempo in una delle bettole della città, aveva sentito un elfo dal volto grinzoso raccontare la storia della fondazione di Uran. Era stato uno sproloquio troppo lungo per essere seguito con attenzione, Cane Nero non ricordava che pochi e sparsi frammenti. Un manipolo di esuli, il nucleo originario degli Elfi Onirici, si era insediato nella caverna quando il mondo era ancora giovane. Avevano dovuto fronteggiare l’immensa bestia e certamente sarebbero morti se non fosse intervenuta Varghas. Grazie agli insegnamenti della Dea gli elfi, manipolando le arti del sonno, ebbero la meglio sulla bestia assopita. Così era sorta Uran, sotto il segno di una prodigiosa vittoria e con la benedizione della Signora dei Sogni. Un bel mito, anche se Ceylon dubitava fosse andata proprio come il vecchio aveva raccontato. Qualsiasi fosse l’origine dei resti del drago, i primi coloni elfici riutilizzarono i frammenti dello scheletro per la costruzione dell’Ossario: i residui di potere racchiusi nelle ossa della bestia agivano come cassa di risonanza, amplificando i sogni degli elfi. Le visioni partorite in questa costruzione erano intrise di un potere antico, Cane Nero ne era al corrente, e più cercava di non dar peso alla cosa, più la stranezza di ciò che gli stava accadendo tornava a galla, come spinta da una forza superiore.
Nel percorrere le due lunghe rampe d’uscita, sentì il proprio spirito risollevarsi. Era ben lieto di tornare a immergersi nella vita di Uran, lasciandosi alle spalle le effimere visioni dell’Ossario. Lì, per strada, la vita non aveva sorprese da rivelargli. Forse la preferiva per questo. Sentire le nobili donne, imbellettate nei loro vestiti appariscenti, imprecare contro la polvere delle viuzze non aveva prezzo. Si atteggiavano in una gara sfrenata per chi era in grado di dimostrare di più ma, il più delle volte, dimenticavano di provenire dal fango. Ceylon, invece, lo teneva bene a mente. Era un elfo che si era fatto da sé, con nessun altro aiuto se non la propria spada. Quell’arma sempliciotta che tutti erano propensi a deridere. Facciano pure pensò, allacciandosi il fodero in cuoio alle spalle,  sicuro che quel solido acciaio lo avrebbe tratto dai guai ancora per un bel po’. Se fra gli Elfi Onirici tutti erano concordi nel riconoscere il valore di Cane Nero, c’era qualcuno che, proprio per i suoi modi tutt’altro che ambiziosi, lo preferiva agli altri.
Come Ashter, ad esempio, il Mercante di Schiavi. Ceylon sapeva bene che quell’omuncolo dagli occhi da topo e la mente da volpe lo adulava e, in fin di conti, non gliene importava nulla, almeno finché pagava per i suoi servigi. Deciso a riscuotere la propria ricompensa per l’ultima retata nei territori umani, il guerriero si diresse verso il Mercato degli Schiavi. Sorgeva nella Fossa, il quartiere più impopolare di Uran. Asserragliati fra esalazioni sulfuree e baracche degradanti, i bassifondi degli Elfi Onirici formavano un quadro abbastanza variopinto: tagliagole e fuorilegge, ubriaconi ed elfi che non potevano più fare a meno della Tateesha condividevano il proprio spazio con famiglie soffocate dalla povertà. Per alcuni, la vera piaga di Uran; per Ceylon, un luogo non diverso dalla parte più ricca della città.
Quando Cane Nero calcò il cortile del Mercato degli Schiavi, Ashter stava facendo bella mostra della propria mercanzia. Alcuni prigionieri erano allineati uno a fianco all’altro, nudi, affinché fossero giudicati con maggiore imparzialità. Gruppi di elfi passeggiavano lentamente, valutando il pezzo migliore, mentre il Mercante balzava dall’uno all’altro dei propri avventori, attento a non lasciarsi sfuggire nessuna possibilità.
«Questo ragazzo ha gli occhi completamente bianchi» osservò una coppia, avvicinandosi con curiosità a un ragazzetto tremante. «Per la sua cecità, spero lo concederai a un buon prezzo»
«Più che un difetto, la definirei una particolarità»
Ashter si passò la lingua sulle labbra e riordinò i capelli tirandoli all’indietro. Gesticolava con tono affabile, velando dietro uno sguardo bonario la capacità di rigirare ogni discorso a proprio favore.
«Questo schiavo è nato a Uran, sapete? Sua madre è stata catturata quando ancoro lo portava in grembo. È cieco fin dalla nascita.»
Ceylon si avvicinò silenziosamente al mercante, seguendone divertito le movenze teatrali. Ashter non lo scorse, o semplicemente finse di non vederlo, rimanendo assorto nella discussione con i propri clienti.
«Ciò non cambia il fatto che questo Erhain non vede nulla. A che serve uno schiavo cieco?»
Il Mercante sfoggiò il suo miglior sorriso. Senza ombra di dubbio si aspettava una domanda del genere: la risposta era pronta già da tempo.
«Vi infastidisce dover fare qualcosa mentree siete osservati dai vostri servi? Questo ragazzo è la risposta al vostro problema. E se vi imbarazza che possa anche sentire allora ...»
Fece un gesto eloquente, sfiorando le orecchie del ragazzo, poi con una risata gracchiante batté la mano sulle sue giovani spalle. L’idea parve interessante alla coppia che si allontanò parlottando in modo compiaciuto. Ashter profuse loro un inchino servile, finché non scomparvero oltre il cancello.
«Sai benissimo che questo Erhain  sarebbe un pessimo schiavo»
Ceylon dileggiò il mercante, invitandolo ad avvicinarsi.
«Metti in mostra il meglio di ognuno e, prima o poi, qualcuno sarà interessato all’acquisto»
Ashter si risollevò, lisciandosi la veste turchina impreziosita da un minuzioso ricamo di perline. Si guardò intorno e, avendo visto che nessun altro cliente si mostrava interessato agli acquisti, si avvicinò al guerriero. Insieme percorsero il cortile, sedendosi in una panca vuota addossata al muro di cinta.
«Qual buon vento ti porta da queste parti, Ceylon?»
«Non fingere di non ricordare, Ashter»
«Ogni volta spero tu sia qui per l’acquisto di una manciata di schiavi»
«Vai a rifilare i tuoi umani a qualcun altro»
Il mercante sorrise, mostrando una fila di denti bianchissimi. Aveva un mento aguzzo e profumava. Per essere un elfo che viveva nella Fossa, Ashter curava in modo maniacale il proprio aspetto: faceva parte del proprio mestiere. Del resto, il giro di schiavi gli fruttavano tanti bei quattrini, una parte dei quali erano destinati alla compagnia di guerrieri che regolarmente gli procuravano nuovi carichi. Nonostante l’immensa fortuna, nascosta chissà dove, quell’elfo subdolo non aveva mai acquistato una casa decente. Si ostinava a mescolarsi ai rifiuti di Uran; un po’ per comodità, un po’ per superstizione.
«Non cambiare mai ciò che ti va bene, Ceylon» gli aveva sussurrato una volta, quando il delirio causato da una dose eccessiva di Tateesha si era smorzato in una conversazione insolitamente sincera.
Ashter fece cenno alle guardie che presidiavano il Mercato di stare a distanza dagli schiavi, spiegando che, secondo il suo infallibile giudizio, la presenza di elfi armati, pur necessaria, rischiava di snervare la clientela, rendendo infruttuosi i guadagni.
«Ho un’offerta per te, mio caro Ceylon. Piuttosto che in denaro, vorrei pagarvi in umani. Vedilo come un dono per ...»
«Scordatelo, Ashter»
«Ma il loro valore è superiore alla somma che ti dovrei!»
«Gli schiavi vanno sfamati, mentre un borsello di soldi non ha bisogno di cibo»
Ashter rimuginò in silenzio lisciandosi il mento a punta, infine si arrese alle richieste del guerriero e mise mano ad una tasca interna della veste, traendone una piccola sacca in cuoio. Se la rigirò per un po’ fra le mani, lanciandola in aria e riafferrandola al volo.
«D’accordo, ma c’è una questione di cui volevo discutere»
La voce del mercante era improvvisamente meno servile, pur mantenendo il tono di falso rispetto.
«Ne avete portati meno delle altre volte. Ho come l’impressione che forziate la mano sui prigionieri. Sono merce preziosa, Ceylon, e vanno trattati con il massimo riguardo»
«Vuoi forse insegnarmi come cacciare gli animali?»
«Lungi da me, Cane Nero. Vorrei solo ricordarti, come ho detto anche agli altri, che dovreste limitare al massimo le perdite.»
«Ashter, c’è una cosa che non ti è chiara, forse perché non hai mai messo il tuo naso adunco fuori da Uran. Siamo costretti a spingerci sempre più a sud. A breve scorgeremo il confine romano.»
«Non avrai paura degli uomini dell’Impero?»
«Finché rastrelliamo le campagne, nessuno si da pena per un pugno di celti che scompare. Ma se creiamo problemi ai romani, rischiamo di alterare l’equilibrio che regge l’intera baracca.»
Ashter strinse la labbra in un’espressione di irosa insoddisfazione.
«Dunque?»
«Hai detto che gli schiavi sono merce preziosa. Le nostre incursioni stanno impoverendo le terre. Dovresti aggiungere che sono anche merce rara. Accontentati di ciò che riusciamo a trovare.»
Il mercante scosse la testa, socchiudendo gli occhi. Ceylon sentì i canini dell’elfo scattare ma sapeva che non sarebbero mai arrivati alle armi. Ashter era troppo furbo per abbandonarsi a impeti rabbiosi e inconcludenti. Digerito il boccone amaro, il trafficante di uomini passò a Ceylon la sacca con l’oro.
«Voi mercenari siete solo dei farabutti in cerca di soldi facili» borbottò a denti stretti, alzandosi di scatto e avviandosi verso un gruppo di clienti appena arrivati.
«C’è un’altra possibilità, Ashter.» lo richiamò il guerriero, con le braccia conserte e le labbra appena increspate in un sorriso. «Puoi sempre catturare da te gli Erhain
Il mercante ignorò la provocazione, ritrovando nuovamente il proprio atteggiamento accondiscendente. Ceylon rimase per un po’ ad ammirare l’abile tecnica con cui quell’odiosa faccia da topo adescava un giovane elfo. Sarebbe tornato a chiamarlo quando avesse avuto bisogno di nuovi schiavi, ne era certo. Come ogni cosa a Uran, anche la tratta degli schiavi era restia al cambiamento. Gli Elfi Onirici anelavano alle profondità insondate della mente e per questo disprezzavano le faccende materiali, relegando gran parte dei lavori ai propri servi. Gli schiavi erano il vero motore della città: Uran aveva bisogno di Ashter e dei suoi schiavi, e Ashter aveva bisogno di guerrieri come Ceylon, disposti a sfidare il mondo fuori dalla città. Era un equilibrio immutabile, una linea granitica destinata a durare in eterno.
Prese la via che conduceva fuori dalla Fossa, ma appena prima di varcare i cancelli del Mercato si voltò. Posò lo sguardo su quegli uomini nudi, in balia dei capricci di una razza a loro sconosciuta. Si chiese quanti di loro si trovavano lì per mano sua, e scoprì di non provare rimorso né pietà verso quei profughi affamati. Fece un altro passo, ma di nuovo guardò il cortile. Ashter, col viso raggiante, stava incassando il prezzo pattuito per una nuova vendita. Ceylon si rigirò il borsello pieno d’oro fra le mani. Chiuse gli occhi e si chiese perché faceva tutto ciò: non trovò alcuna giustificazione. Poi li riaprì e scene familiari di soldati in armi, nobili altezzosi e sacerdotesse esaltate tornarono a colorargli la vita. Sparì nella moltitudine di elfi che riempivano strade e piazze. Era imbarazzante porsi delle domande, soprattutto quando si è a corto di risposte. Molto più semplice essere inghiottito dall’ordinaria follia di Uran.
 
L’ANGOLO DEL BARDO:
Prima di snocciolare i miei commenti, mi preme ringraziare coloro che hanno speso tanto belle parole per questa storia. Un grazie particolare a:
Laila Osquin, ormai quasi una  “madrina” del mondo della Ruota del Destino
Kuma_cla, per le sue 4 recensioni in un sol giorno (riuscissi ad avere io questi ritmi!)
Draukar,per il suo colpo di fulmine con l’Oniricon
E ovviamente un grazie ai viaggiatori occasionali, che hanno lasciato una traccia fra i commenti, un grazie a chi segue silenziosamente la storia e un grazie a chi ha bruciato parte del suo tempo a leggere le mie ciarlatanerie (e poi è scappato via dopo appena 10 righe :D). Mai quanto adesso ho sentito forte il sostegno di chi legge le mie storie. D’accordo, non siete una folla siete in pochi, ma per i miei standard è già un successone xD xD E poi chi ha mai badato ai numeri? :P E a proposito di numeri …. Quello di oggi è un aggiornamento bello tosto. Una bella passeggiata per le vie di Uran assieme a Ceylon. Per me è stata una vera sfida. Nella mia testa, brulicano idee, ma tutte devono sottostare alla golden rule del “Show, don’t tell”. Più di una volta mi sono dovuto frenare nello scrivere una bella papella sul culto della Dea Varghas, sullo stile di vita degli Elfi Onirici, su questo o quel dettaglio. Mi sono frenato nel timore di appesantire troppo la lettura con cose di scarso interesse (al momento u.u), dando solo pochi ed essenziali elementi per apprezzare pienamente il nuovo palco degli eventi. Non so quanto sono andato vicino nel centrare l’obiettivo. Se sia un disastro o un buon lavoro, il giudizio è solo vostro! Qui finisce “ufficialmente” il secondo capitolo. In realtà sono solo a metà di quanto mi ero proposto nella scaletta. C’erano altre due belle parti ma, vista la lunghezza quasi paragonabile all’intero primo capitolo, ho deciso di diluire in due capitolo diversi gli eventi. Sotto, come al solito, trovate la mappa di Uran. Qualche parola sui colori per distinguere le location (in ordine di incontro nella storia)
VERDE = OSSARIO
ROSSO= IL QUARTIERE DELLA FOSSA
BLU=IL MERCATO DEGLI SCHIAVI (in realtà lo conoscevate già, ma repetita iuvant xD)


   
 
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