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Autore: Honey Tiger    11/09/2013    12 recensioni
Sono Eva Salmons, uno dei tanti frutti del Dexcell. Ho 18 anni, e sono una ragazza estremamente riservata e poco socievole.
Non conosco molta gente, sicchè la mia madre adottiva mi ha sempre tutelata nei riguardi del mondo che mi circondava, così fino ad ora, ho avuto poco più che qualche paio di amici.
Ultimamente, non faccio altro che riflettere e farmi domande su una persona che non dovrei affatto avere tra i miei pensieri. Però non riesco proprio a levarmi dalla testa quei suoi occhi corrucciati dal dolore che mi trasmisero un malessere profondo con solo alcuni timidi scambi di sguardi.
Queste sono tutte certezze che io, come voi, che state leggendo questa sciocca sintesi della mia vita sino a questo momento, avete forse afferrato la significanza, ma quello che voi non sapete, cari miei lettori, è ciò che si cela dietro al mio sorriso spento di oggi. Quello che voi non sapete, e che forse nemmeno io riesco bene a comprendere è che questa cosa, che fa di me una "diversa" cambierà la mia vita per sempre. Da oggi a questa parte, nulla sarà più come prima. La scuola, le mie confidenze, le mie passioni...che cosa saranno?
Genere: Fluff, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3. Richford. 

 


      Diverse forme di nuvole mi scorrono davanti agli occhi, ma con la mente queste sono la cornice di un pensiero ben più profondo, perfino del cielo stesso.

«Quanto credi che sia in alto questo treno?» domanda Mona attaccata al vetro della nostra cuccetta come una ventosa, totalmente assorta nel contemplare i paesaggi che scorrono rapidamente fuori dal finestrino del treno.
Il mezzo su cui stiamo viaggiando verso Richford è uno degli ultimi modelli tutt’ora in circolazione. Il Dexcell ha fatto sì che avesse la possibilità di volare nel cielo, senza nessun’ostacolo, sorretto solamente dalla poca forza di gravità che questo nostro pianeta in rovina conserva ancora.
La nostra cabina è costituita da due comode poltrone color mogano e un piccolo tavolo situato in mezzo ad esse, sopra il quale, due ragazzi sconosciuti avevano posato e ora stavano giocando con una scacchiera.
«Si può sapere che cosa stavi facendo alla stazione quando ci siamo perse?» mi chiede Mona distaccandosi da quel finestrino che l’aveva tenuta incollata sino ad allora ad osservare il paesaggio circostante, con la fronte rossa.
“Che mi abbia visto parlare con quello sconosciuto?” mi domando mentre una voce acuta annuncia: «La sala bar chiuderà fra pochi minuti. Vi preghiamo di affrettarvi per soddisfare ogni vostro desiderio culinario.»
«Ti vado a prendere qualcosa da mangiare, non avevi detto di avere fame?» e senza aspettare una sua risposta mi alzo e esco dalla nostra cabina, riuscendo così ad evitare l’interrogatorio ormai prossimo, lasciandola sola con quei due sconosciuti tanto concentrati quanto silenziosi.
Seguo il corridoio che divide, in due metà perfette il treno, fino ad arrivare ad una saletta quasi del tutto deserta. Lentamente prendo un respiro e mi appoggio al muro osservando il mio riflesso sul vetro enorme che mi sta dinanzi.
Mi dispiace essermi comportata in quel modo con Mona, ma non avevo proprio intenzione di parlare di quello che mi era capitato. Magari se le avessi raccontato tutto si sarebbe perfino messa a ridere oppure avrebbe trovato del tutto assurda la mia reazione. Ma d'altronde come biasimarla, neanche io riesco a credere di aver reagito così male, con un ragazzo a me del tutto sconosciuto, che nulla aveva fatto, se non salvarmi da quella folla spietata.
«Guardalo! E’ proprio lui…» bisbiglia una ragazza, sbucata fuori dallo stesso corridoio dal quale ero venuta io. La sua amica, stretta al suo fianco sembra sgranare gli occhi dal terrore, mentre entrambe guardano qualcosa che ancora non rientra nel mio campo visivo.
«Non pensavo sarebbe tornato così presto…» sibila l’altra ragazza portandosi una mano all’altezza della bocca per coprire quel ghigno di terrore che ora le oscurava il volto già pallido.
Senza capire e di sottecchi cerco di guardare lungo quel corridoio che nasconde il soggetto dei loro pettegolezzi, ma subito qualcosa, mi fa desistere, con mio grande imbarazzo, dall’azione.
Il ragazzo, con il quale mi ero scontrata e incontrata alla stazione, ora stava attraversando, quasi totalmente assorto nei suoi pensieri, nonostante i chiacchiericci evidenti di quelle due ragazze, la saletta dove io avevo deciso di fermarmi per schiarirmi un po’ le idee. Imbarazzata, perché sicura di essere stata notata a curiosare, incrocio le dita e abbasso lo sguardo contemplando il suolo freddo e sterile del treno. Vorrei tanto chiedergli almeno scusa per il trattamento spiacevole che gli ho riservato, ma in cuor mio so che non ci riuscirei mai, ma anzi forse peggiorerei solo le cose.
«Hey ragazzina. Come mai tutta sola? Non hai più nessuno da rimproverare?» scherza lui fermandosi al centro della stanza, con quella sua voce tanto profonda quanto strafottente, facendomi rabbrividire.
Alzo lo sguardo, pronta a difendermi da quell’accusa ironica e con mio grande stupore noto che molti, tra alunni e professori, ci stanno fissando come se fossimo due alieni da studiare.
«Non sono una ragazzina…» ribatto io insicura con un filo di voce, cercando di non dare troppo nell’occhio.
«Comunque volevo chied…» e prima di continuare la mia timida e incerta frase lui mi parla sopra sovrastando il mio intervento «Stai bene?» domanda con un sorriso quasi del tutto impercettibile.
Faccio in tempo ad annuire che, dopo avermi lanciato un ultimo sguardo enigmatico, il ragazzo dai capelli neri scompare dalla mia vista, accedendo ad un nuovo e separato da una porta trasparente, corridoio. Gli studenti, diventati più fitti e numerosi, incominciano a sparpagliarsi lanciandomi qualche occhiata curiosa e severa e io, senza comprendere il perché di quei gesti, faccio per andarmene di lì il più velocemente possibile.
«Eccomi Mona. Perdonami per averti fatto aspettare così tanto!» esclamo mostrandole le due bibite che ero riuscita a raccattare appena qualche istante prima che il vagone degli alimenti chiudesse. I due ragazzi, ancora intenti a giocare a scacchi mi guardano appena e poi proseguono la loro partita esclusiva senza troppi preamboli.
«Purtroppo avevano finito tutte le scorte del cibo, mi dispiace» proseguo io appoggiando il mio malloppo sopra al tavolino e rapidamente mi siedo di fronte a lei cercando di improvvisare un sorriso.
«Oh beh, se ti avessi chiesto di prendermi qualcosa mi sarebbe dispiaciuto. Ma comunque non fa nulla, ti ringrazio Eva…» borbotta lei, guardandomi con la peggiore delle sue occhiate. Uno sguardo dispiaciuto e confuso.
Mona è sempre stata una ragazza buona e gentile e mai, in dieci anni di amicizia, sono entrata in contrasto con lei, se non per futili scemenze. E’ sempre stata comprensiva e gentile con me e raramente mi è capitato di vederla imprecare per qualcosa. Devo ammettere, che se non fosse stato per il suo continuo e solido appoggio, molte volte sarei crollata in un baratro dal quale molto probabilmente non sarei più fuoriuscita.
«Beh io…hai ragione.» le confido senza troppi preamboli, scusandomi a modo mio. Lei mi sorride comprensiva e consapevole che sotto, sotto sto nascondendo qualcosa di cui non ho ancora voglia di parlare ma che presto verrà a galla.
Uno scatto improvviso della porta ci fa voltare entrambe verso l’entrata della cuccetta. A fare irruzione nella nostra cabina è un uomo che mai avevo visto prima d’ora. Doveva avere almeno cinquant’anni, e con quel corpo massiccio e tarchiato sembrava essere quasi una caricatura vivente.
«Buongiorno ragazzi» esordisce lui guardandoci tutti e quattro con un sorriso smagliante, e mentre io e Mona, non conoscendo il soggetto appena entrato nella cabina, ricambiamo con un saluto indifferente, gli altri due ragazzi vicino a noi ci fanno capire subito di chi si tratta chiamandolo con il suo attuale titolo.
«Per chi non mi conosce, io sono il professor Masosky. Insegnante di Storia del Dexcell e storia generale, della scuola di Richford.» si presenta, guardando più me e Mona che gli altri due suoi alunni.
Poi, non vedendoci rispondere prosegue, questa volta rivolgendosi ai due ragazzi vicino a noi con fare affabile.
«Warston, Joyce, che ne dite di andarmi a prendere il cappotto che ho lasciato nella cabina degli insegnanti?» quanto detto dal professore sembra più un ordine che una richiesta vera e propria e così i due ragazzi, senza fare troppe domande su cosa, effettivamente, potesse servirgli o meno un cappotto all’interno di un treno del tutto riparato e riscaldato, escono dal nostro scompartimento, pronti ad effettuare quanto comandato.
Una volta rimaste da sole con il professore, noto i suoi occhi quasi del tutto grigi, squadrarmi da capo a piedi, come nel tentativo di trovare delle parole opportune per iniziare il suo probabile discorso.
«Bene,bene…» borbotta lui sedendosi vicino a Mona. Lo vedo aprire e chiudere la bocca varie volte, senza però far fuoriuscire alcuna parola da essa, se non qualche “bene, bene” nel tentativo di temporeggiare e cercare di riflettere il più possibile sul da farsi. Che cosa vuole da noi?
«Qualcosa non va professore?» domanda Mona guardandolo con una preoccupazione evidente.
«Voi siete due nuove studentesse, sbaglio?» controbatte lui, deviando il quesito di Mona e rilanciandoci un’altra, interessata, domanda.
«Si, è il nostro primo anno a Richford.» taglio corto io cercando di farlo arrivare al fulcro del suo discorso.
«Allora forse non conoscerete Key Austrang …»
«Perbaccolina, certo che lo conosciamo! Lo conoscono tutti» replica Mona, voltandosi entusiasta verso di me, che invece scuoto la testa in segno di diniego.
«Io non ho mai sentito parlare di lui…non seguo molto il gossip, scusatemi. E ad ogni modo chi dovrebbe essere questo Key Austrang?» chiedo, giustificandomi per la mia mancata conoscenza.
«Qui non si tratta di gossip ma di cronaca, Eva. Key Austrang è…»
«Un assassino… Key Austrang è un assassino da poco uscito di prigione.» conclude il professore guardandoci entrambe con premura e preoccupazione.
«Beh…e questo cosa significa?» insisto non riuscendo a comprendere il punto.
«Significa che sta per frequentare il suo terzo ed ultimo anno a Richford, e più volte, in questa giornata, ho avuto modo di vederlo in vostra compagnia, signorina…»
«Salmons…» lo aiuto io a concludere la frase sbarrando completamente gli occhi.
«E’ per questo che vorrei pregarla…pregarvi, di fare maggiore attenzione. Stategli il più lontano possibile.» conclude il professor Masosky alzandosi nuovamente in piedi con un’autorità mai espressa sino ad ora.
Vari secondi di silenzio incessante incombono in questa nostra cabina, ora diventata improvvisamente fredda e desolata, perfino Mona, che ora deve aver compreso il mio precedente cruccio sembra non voler aggiungere più nulla al riguardo.
«Perché? Perché ha ucciso delle persone?!» esclamo quasi innervosita, mentre mi ricordo di quegli occhi di ghiaccio dalle sfumature color lavanda che mi avevano salvata e aiutata a riprendermi, assorbendosi passivamente le mie offese senza replicare o reagire in qualche modo.
«Questa è un’altra storia signorina Salmons. Una lunga e triste storia.» sindaca lui volgendosi verso la porta che lo avrebbe portato al di fuori di questa stanza.
«Oh, ce ne parli la prego…dobbiamo conoscere chi dormirà sotto il nostro stesso tetto per un anno intero» insisto alzandomi a mia volta dalla poltroncina rossa. Non volevo e non potevo permettergli di andarsene così, dopo avermi totalmente sconvolta e confusa.
«Conoscevo Key dal suo primo anno qui a Richford. E sebbene non fosse mai stato un gran simpaticone avevo sempre provato stima nei suoi confronti e nelle sue capacità straordinarie.» Inizia a raccontare lui, tirando fuori qualcosa che forse non vedeva, in realtà, ora di raccontare da tempi inenarrabili.
«Inoltre mi era sempre sembrato un ragazzo buono, altruista e pronto a dare la vita per gli ideali in cui credeva. E poi era innamorato, innamorato di un angelo.» prosegue il professore fermandosi ogni tanto per prendere fiato.
«Susan Summon era davvero una ragazza fuori dal comune. Gentile, premurosa, terribilmente buona, onesta e di una bellezza fuori dal comune; amava Key con ogni cellula del suo corpo.»
«Amava…? Perché amava?» lo interrompo io, spaventata di sentire la risposta a quella domanda.
«Non vorrà dire che lui le ha…»
«Key non avrebbe mai torto un capello a Susan. Ma due anni fa, durante una delle tante, terribili, lotte contro gli Ocuber… Key, mandato sul campo di combattimento da suo padre in persona, per le doti stupefacenti di lotta che lui aveva da sempre dimostrato di avere, si ritrovò a dover assistere a qualcosa che non avrebbe mai voluto vedere.» sia io che Mona, vacillammo, come distrutte dall’attesa raggelante al quale quel racconto ci stava sottoponendo.
«Susan lo seguì a sua insaputa. E fu uccisa davanti ai suoi occhi dal principe, Fang III, degli Ocuber. Fang fu poi ammazzato dallo stesso Key, ormai privo di autocontrollo» raccontò il professore appoggiandosi con la schiena alla porta scorrevole.
«E fu così che Key, colto da una disperazione inconsolabile, cedette al male e si unì con la parte più oscura dei Bariesu. Con loro si dimenticava del dolore incessante e di tutto il male subito.» terminò il professore aprendo un po’ la porta nel tentativo di concludere finalmente quella conversazione, ormai diventata terribilmente pesante per lui.
«Ha passato il suo ultimo anno di vita in una delle prigioni più crudeli dei Bariesu, in totale solitudine» sospirò.
«Io non ne sapevo niente.» sussurro io con un filo di voce, del tutto incredula da quanto ho appena ascoltato.
«E’ stato rilasciato grazie alla congrega, per mancanza di prove effettive, ma io temo e spero che ci ritorni presto»
«Ci ha comunque salvati facendoci vincere la battaglia!» esclama Mona intenta a dare una svolta a questa conversazione triste e malinconica.
«Avrebbe preferito non farlo e tenersi la donna che amava…» sospiro io con gli occhi lievemente lucidi.
Il professore fa in tempo a guardarci entrambe per un ultima volta, che quei due ragazzi, mandati in spedizione per prendere quello che ora appariva solo come un diversivo per parlarci in privato, rientrano all’interno della cuccetta porgendogli il cappotto invernale con riverenza.
«Grazie mille ragazzi. Beh, mi ha fatto piacere conversare con voi due. Spero che presterete ascolto alle mie parole» e dopo aver detto questo, esce richiudendo la porta dietro di sé, scomparendo dalla nostra vista.
Sembra così assurdo tutto quello che il professore ci ha appena raccontato, seppure così vivido e triste. Mille pensieri mi attraversano e torturano la mente: sparando giudizi, sentenze e pensieri che alla fine dei conti sarebbero sempre inevitabilmente sbagliati. Non so se provare pena o disprezzo per quel ragazzo, ma forse dovrei cercare di non provare nulla, solamente indifferenza.
Mona mi guarda con quel suo solito sguardo comprensivo e intenso, che mi fa capire, che quando avrò bisogno di sfogarmi, lei ci sarà. E questo mi concede quel conforto necessario, per riuscire a sorriderle di nuovo.

“Mi sono addormentata?” mi domando, osservando l’area circostante nonostante non distingua nulla: solo l’oscurità che mi avvolge.
«Eva …» mi chiama una voce distante eppure cosi vicina al mio cuore.
«Chi sei?» domando io, mentre un senso malinconico si impossessa del mio cuore. Che cosa sta succedendo? Dove sono?
«Eva, apri gli occhi! Sono io, sono qui vicino a te.» sussurra lo sconosciuto mentre io continuo a girarmi intorno, spaventata come una bambina. Realizzo che sto facendo un altro dei miei soliti incubi, benché questo non mi trasmetta il solito senso di angoscia e impotenza ma una tristezza dettata da una mancanza a me sconosciuta, quando ecco che qualcosa mi ridesta dal mio breve ma intenso sogno.
«Eva!»
Spalanco gli occhi impaurita, mentre Mona si accomoda sulla poltroncina accanto a me.
«Un altro incubo?» domanda preoccupata, accarezzandomi i capelli come spesso faceva Sally; già mi manca.
«Si, questa volta era tutto diverso. C’era il buio che mi opprimeva,» mi blocco, riportando alla memoria la voce del ragazzo che chiamava il mio nome. «e una voce che ...»
Un richiamo riprodotto dall’altoparlante, insieme al fischio stridulo delle rotaie che impattavano con il suolo sottostante, segnò l’arrivo incondizionato alla nostra meta.
«Benvenuti a Richford ragazzi. Sentitevi liberi di fare domande a me e a tutti gli assistenti e collaboratori della scuola.» ci annuncia uno dei probabili insegnanti dopo che fummo tutti scesi dal treno volante.
Ad accoglierci, davanti a noi, si staglia un cancello dalla maestosità prorompente. Le sue fondamenta, decisamente impenetrabili mi fanno rimanere del tutto sbalordita.
«Se vi state chiedendo se è possibile violare questo posto, la risposta è no. Queste mura sono state costruite con la massima accortezza e sicurezza, viste le vicinanze con il bosco che ci divide dagli Ocuber.» la voce del professore universitario fa sì che io mi volti attorno per guardare ciò che spaventosamente mi circonda: una foresta che sembra distendersi senza un limite effettivo avvolge tutta la parte sottostante la scuola e il piccolo monte che la sorregge, erigendola in un punto strategico contro i suoi probabili ed eventuali nemici. I suoi alberi fitti e insormontabili, donano a tutta l’area una nota di mistero mai riscontrata in nessun’altra cosa.
I Bariesu, per difendersi e segnare il confine tra loro e gli Ocuber, devono aver usato una quantità smisurata di Dexcell.
«Potrete fare sogni tranquilli qui a Richford.» rassicura la stessa donna, vedendo i volti pallidi e spaventati dei nuovi iscritti all’università dei Bariesu, come reazione alla parola “Ocuber”.
«Quel cancello deve essere stata davvero un’invenzione formidabile, se riesce a tenere a bada esseri come gli Ocuber» sbotta Mona, simulando un risolino derisorio verso quegli esseri che nessuno dei “nostri”, considera e potrà mai considerare un vero e proprio essere vivente.
Lentamente mi volto a guardare il cancello diviso in tre strati. Una prima parte composta da dalle saette vorticanti di colore nero che guizzano da un lato a un altro della struttura. La seconda parte, costituita da un terriccio evaporante e inumidito che si frappone tra le due nette estremità, e una terza formata da delle saette altrettanto elettriche, ma di un colore diverso da quelle che si affacciano sulla foresta: del tutto bianche.
Tre rintocchi sordi come tonfi in una cascata profonda, ci avvertono che il cancello davanti a noi ci sta per mostrare la facciata principale della scuola, alzandosi letteralmente in aria, apparendo leggero come una piuma ai nostri occhi.
«Guarda un po’ chi c’è Eva? Il nostro bel ruba cuori!»
Alzo lo sguardo e noto davanti a me, l’unica persona che in questo mondo avrei sperato di non dover mai più rivedere: Darkan Kowalski.

 

   
 
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