Note
dell’autrice #1: dopo la mia breve parentesi non-slash con “Good night, Julian”,
eccoci qua con una long. E sì, stavolta torno allo slash…
Premetto che le long le odio e le amo: mi piace progettarle ma poi perdo
l’ispirazione. Ogni categoria di efp in cui ho
scritto contiene almeno una mia long incompleta. L Tuttavia qualcuna l’ho conclusa, quindi c’è
speranza che possa concludere anche questa, considerato che si tratterà di al
massimo 15 capitoli.
Bene, dopo questa incoraggiante premessa, vi auguro buona
lettura. Naturalmente parliamo di John, Paul e il viaggio a Parigi. Mica pizza
e fichi. J
Ticket to Paris
Capitolo 1: “Vieni via con me”
Un centone.
Un vero centone.
Cento fottute sterline lì, fra le sue mani, fra le mani ancora
tremanti di John Lennon. Ed erano tutte per lui, come regalo per il suo
ventunesimo compleanno. Circa cinque sterline per ogni anno della sua misera vita.
Valeva davvero così tanto? E tutti quei
soldi regalati da qualche parente lontano in quel di Edimburgo, uno zio, che
era già tanto se John lo andasse a trovare una volta all’anno. Forse avrebbe
dovuto ringraziarlo, magari inviargli un telegramma: “Caro zio stop- Grazie per il bel gruzzolo stop- Prometto che ne farò
un uso accorto stop- Ti ricordo che l’anno prossimo ne compio ventidue stop-
Non perdiamoci di vista stop”
Quando John si era fatto vivo a ora di pranzo, Mimi gli
aveva consegnato il vaglia e lui lo aveva aperto con fare indifferente,
totalmente inconsapevole del tesoro che si nascondeva dentro quella piccola
busta di carta ruvida. Aveva dovuto rileggere più volte di cosa si trattasse e
soprattutto contare bene gli zero dopo l’uno. Erano quelli che facevano la
differenza, in fondo. Chi l’avrebbe mai detto, un numero tanto insignificante
come lo zero, che diventava in realtà così incredibilmente importante se
accostato ad un altro numero. Era in qualche modo un messaggio di speranza: tutti
gli zero del mondo, tutti i perdenti come John avevano qualche possibilità di
diventare qualcuno. Avevano solo bisogno di trovare il compagno perfetto,
quello che li avrebbe resi speciali, preziosi.
Forse era stato questo pensiero a far scattare John verso
la porta di casa, prima che zia Mimi potesse chiedergli: “Che ci vuoi fare con
tutti questi soldi, John?” oppure partire subito con un “Non sarebbe meglio
metterli da parte, John?” Ma John sapeva
già come utilizzare quei soldi. I soldi significavano principalmente libertà,
la libertà di fare quello che si desiderava, anzi meglio, di andare dove si
desiderava. Non c’era nient’altro che un ragazzo di quell’età, imprigionato in
una città umida e maleodorante come Liverpool, bramasse di più.
Fortunatamente John ne conosceva un altro, con i suoi
stessi sogni e la stessa urgenza di lasciare quella città. E lui forse era
proprio quel compagno perfetto, quello che l’avrebbe reso speciale e importante
proprio come uno zero su quel vaglia ed era quindi giusto che John condividesse
questo magico, formidabile regalo con quella persona. Per questo motivo John si
era precipitato fuori di casa e ora correva a perdifiato, come un pazzo, per il
campo da golf, con quel piccolo pezzo di felicità stretto saldamente fra le
mani e il vento che gli scompigliava i capelli e accarezzava le guance,
incurante del fatto che con le sue scarpe stesse praticamente sollevando intere
zolle di erba e rovinando, di conseguenza, il terreno perfettamente curato.
Rise.
Che
si fotta il campo da golf con tutti i suoi golfisti snob!
Così distratto e stordito era, che inciampò sul marciapiede, rovinando a terra, sfregando
uno zigomo contro il duro asfalto. John imprecò ad alta voce e nella sua testa.
Maledetti, fottutissimi i suoi occhi ciecati! Ma la scarica di adrenalina, che
ancora attraversava il suo corpo, era più forte del dolore e questo fu breve:
così come era arrivato, infatti, scomparve. John si rialzò con un balzo un po’
maldestro, sistemando la sua giacca di pelle, e riprese la sua corsa. Sapeva
dove stava andando, sapeva che le gambe lo stavano portando lì, eppure il cuore batté sorpreso e un
po’ più veloce quando entrò nel cortile di Forthlin
road. Batté all’unisono con la mano di John, che bussò alla porta, impaziente,
e sussultò con il corpo di John quando dall’interno della casa giunse una voce
familiare.
“Arrivo!”
Il respiro di John, già ansante, si fece ancor più
pesante quando sentì lo scricchiolio del legno sotto i passi non proprio
leggiadri del giovane uomo che un istante dopo aprì la porta: Paul McCartney
era di fronte a lui, con i suoi jeans logori, la camicia forse un po’ troppo
grande e in mano un sandwich, che aveva già subito il suo famelico attacco.
“Oh, John! Che sorpresa.” lo salutò, sorridendo e
osservando divertito mentre l’amico, piegato in due, cercava di riprendere
fiato con una mano sul petto.
Mannaggia ai suoi quasi ventun anni! Non aveva più l’età
per quegli sforzi fisici. Chi gliel’aveva fatto fare di correre in quel modo?
Ah già, lui!
“Che cosa ti è successo alla faccia?” domandò poi
preoccupato, notando i graffi sul suo viso.
“Oh… - sospirò John, mentre la respirazione lentamente si
calmava -…ho avuto un duello. Un duello all’ultimo sangue con un marciapiede presuntuoso
che non mi voleva far passare. Inutile dire che ho vinto io.”
John ammiccò con quella sua espressione sempre molto
furba e Paul sbuffò, contrariato.
“Certo, e magari se qualche volta indossassi quegli
stupidi occhiali potresti evitare di ritrovarti sempre con qualche cosa che non
va su quella faccia da schiaffi che ti ritrovi.”
“Gli occhiali, Paul, ispirano zero rock ‘n roll.” commentò John, scuotendo il capo con
quell’atteggiamento da persona saggia che davvero non gli si addiceva per
nulla.
Paul alzò gli occhi al cielo, sospirando rassegnato. Su
determinate questioni John diventava un vero testone. No, ma che cosa stava
pensando? John era sempre stato un fottuto idiota che faceva di testa sua.
Poteva sbatterci la testa cento volte, ma non recepiva mai il messaggio.
“Se lo dici tu. Vuoi entrare per, che ne so,
disinfettarti? – gli domandò Paul, facendogli un cenno con la mano - Stavo per
mangiare con papà, ma penso che possa aspettare qualche altro minuto.”
John scosse il capo energicamente.
“No, grazie. Per così poco. Per chi mi hai preso, una
femminuccia?” domandò indignato.
“Non mi permetterei mai, è solo che, sai, potrebbe infettarsi
e… oh, lascia perdere. Fa’ come ti pare.” sbottò infine.
Al diavolo John e tutte le volte in cui Paul si
preoccupava per lui! Che senso aveva, se John neanche lo stava a sentire?
“Comunque se proprio desideri fare qualcosa per aiutarmi,
potresti offrirmi quella delizia che ti ritrovi in mano.”
Paul guardò il suo sandwich e ritirò la mano, il più
lontano possibile da John: “Niente da fare, è mio, l’ho preparato con molta
fatica solo per me.”
“Molta fatica? Tu chiami fatica riempire due fette di pane
con un po’ di burro, lattuga e formaggio?”
“Sempre meglio del qui presente signor ‘resta a cena,
nessuno brucia le uova col bacon meglio di me’!”
John aggrottò la fronte: “Ehi, è successo una volta sola.”
“Una volta che mi ricorderò per tutta la vita. Grazie.”
“Andiamo, Paul, dammi quel sandwich. – lo pregò John - In
cambio ti darò qualcosa che vale mille dei tuoi preziosi e faticosi manicaretti.”
Paul guardò titubante l’espressione maliziosa dell’amico:
non prometteva niente di buono. Tuttavia la curiosità in Paul era troppa:
perché John era corso da lui, sfigurandosi mezza faccia? E che cos’era quel
pezzo di carta stretto forte nella sua mano? Che cosa voleva da Paul? Con un
gran sospiro, infine, Paul gli porse il panino e John lo afferrò con un agile e
rapido movimento del braccio, divorandolo subito dopo in un sol boccone, sotto
lo sguardo sconsolato di Paul.
Per tutta risposta John gli rivolse un ghigno soddisfatto
e fece un vago gesto con la mano: “Non fare quella faccia, mi sdebiterò prima
che il tuo stomaco possa protestare.”
Paul incrociò le braccia sul petto e si appoggiò allo
stipite della porta.
“Sono tutt’orecchi.”
“Lo vedi questo?” gli domandò John, cominciando a
sventolare il vaglia postale sotto il suo naso, mentre Paul lo fissava incerto.
“Cos’è?”
“Questo, amico
mio, è il biglietto per lasciare questa città di merda.”
L’incertezza sul volto di Paul divenne ora vera e propria
perplessità. Aveva sempre considerato se stesso come uno dei pochi in grado di
sapersi rapportare con John Lennon e soprattutto capirlo. Ma c’erano momenti,
come quello a cui stava attualmente assistendo, in cui John arrivava e con la
sua impetuosità lo travolgeva e lo lasciava interdetto. E Paul non sapeva mai
cosa fare né cosa dire.
John sorrise fra sé e gli afferrò le spalle: “Paul, partiamo!”
Paul sbatté le palpebre e la sua doveva essere
un’espressione davvero ebete perché tutto quello che riuscì a dire fu: “Eh?”
“Sinceramente, amico, ti credevo più sveglio.”
“Per essere sveglio ho bisogno di mangiare e qui c’è
qualcuno che me lo sta non solo impedendo, ma mi sta anche sottraendo il cibo.”
John rise. Era così euforico che non si curava più di
tanto del tono usato da Paul o delle parole che uscivano dalla sua bocca.
“Partiamo, andiamocene via da Liverpool.”
“Si può sapere che stai farneticando?”
“Non sto farneticando, ragazzino. Sto dicendo, vieni via
con me.”
“Per andare dove con esattezza?”
“Non lo so, Francia o Spagna o… Trovato! Andiamo in
Spagna. Con tutte quelle ragazze prosperose. Uh, il divertimento è assicurato.
Che ne dici?” gli domandò poi, guardandolo impaziente e speranzoso.
Paul gli sorrise appena, prima di chinare il capo e
arrossire lievemente: “La proposta è allettante, John, ma non posso, voglio
dire… Lo sai che non abbiamo molti soldi…”
“Ehi, non mi sembra di averti detto ‘fatti dare i soldi
dal vecchio Jim e partiamo’. Ho detto solo ‘partiamo’, non ti devi preoccupare
di tutto il resto. Si è già preoccupato qualcun altro di questo. – gli spiegò,
facendogli l’occhiolino e indicandogli il vaglia - Cento splendide sterline
solo per noi. Regalo di compleanno anticipato, mio caro.”
Paul lo guardò davvero sconcertato per un istante, con la
bocca semiaperta e il cuore che aveva perso un battito: “Mi stai dicendo che
vuoi che venga con te e che non devo pagare nulla?”
“Sì, una cosa del genere.”
rispose John, ridendo.
Era incredibile come in quel
momento non riuscisse a smettere di sorridere, ridere, sentirsi così euforico
ed elettrizzato per qualcosa che doveva ancora accadere.
“Ma John! Sono soldi
tuoi, dovresti usarli per te, metterli da parte per il futuro oppur-“
“Oh, smettila, stai
cominciando a parlare come Mimi. Potresti evitare di rovinarmi fottutamente i
piani? I soldi sono miei e ne faccio quello che mi pare e piace. E Paul, mi
piacerebbe tanto fare una vacanza con il mio migliore amico.”
Aveva detto la parola
magica. Anzi, le parole magiche. Sapeva che Paul non avrebbe resistito a quelle
piccole, preziosissime parole, per tutti quei suoi pensieri struggenti per cui,
nella sua opinione, John gli avrebbe preferito Stuart. Ma erano due cose
diverse, agli occhi di John, erano due ruoli completamente diversi, quello di
Stuart e quello di Paul.
Il sorriso che Paul
trattenne sulle sue labbra fu ciò che gli confermò di aver colpito nel segno.
“Che sia chiaro,
Paul, se non vieni tu, guarda che impiego meno di un secondo, a trovarmi un
altro compagno di viaggio. Sono sicuro che a George piacer-”
“No, no, no, ci sto.
– si affrettò a dire Paul, il viso improvvisamente in fiamme - Vengo con te.”
“Ottimo!”
“E’ solo che… mio
padre, sarà difficile da convincere.”
“Sono sicuro che
saprai fare del tuo meglio. Pensa a quello che ci aspetta: nuove eccitanti
esperienze, ragazze, cibo che non puzza di porto, ragazze, nuovi generi
musicali e… ho già detto ragazze?”
domandò ridendo e la sua euforia riuscì a contagiare anche Paul, che si unì a
lui.
“Vedrò cosa posso
fare.”
“Ti conviene essere
convincente, Paul. – esclamò John, afferrandogli il mento con una mano - Altrimenti
ti rapisco e ti porto via lo stesso, principessa.”
Poi lo spinse
lievemente con una mano sulla spalla.
“Vai da paparino,
ora. Altrimenti col cazzo che ti manda, se ritardi ancora il suo pranzo.”
“John!” lo rimproverò
Paul, a voce e con lo sguardo.
Il giovane ridacchiò
e cominciò ad allontanarsi. Paul rimase sull’uscio di casa, guardandolo andare
via.
“Mettiti gli occhiali
per tornare, coglione, alle ragazze spagnole non piacciono i volti tumefatti.”
John, appena fuori
dal cancelletto, indossò gli occhiali, si voltò verso di lui e gli sorrise,
alzando il pollice. Messaggio ricevuto.
L’istante successivo
John non c’era più, ormai era sparito dalla sua visuale, ma Paul aveva ancora
lo sguardo fisso nel punto in cui l’amico si era fermato a sorridergli,
incapace di muoversi, incapace di ascoltare qualunque altro suono che non fosse
la voce di John illustrargli il suo invito gentile e il battito del suo cuore
martellare nelle orecchie un po’ più veloce.
Sorrise liberando
quel sorriso che poco prima si era costretto a trattenere, ripensando a tutte
le volte in cui aveva dovuto nascondere a John e a chiunque altro, l’effetto
che quel ragazzo con gli occhiali e il naso aquilino aveva su di lui. L’effetto
che aveva su di lui da quando si erano incontrati, da quando la sua vita era
cambiata in quella calda, afosa giornata di inizio luglio.
****
Schiamazzi
di bambini che giocavano e richiami di madri forse troppo apprensive giungevano
da qualche parte del cortile della chiesa, intorno a lui. Ma tutto arrivava a
Paul come un unico suono ovattato, come se avesse appena immerso la testa in
una bacinella piena di acqua tiepida e le voci, i rumori, giungevano alle sue
orecchie come una vibrazione distorta e indistinta. La sensazione era
rafforzata dal caldo atipico di quella giornata. Il sole splendeva alto nel
cielo, riscaldando piacevolmente l’ambiente circostante, ma su Paul aveva un
effetto maggiore. Piccole e numerose gocce di sudore gli imperlavano la fronte
e il collo e lui era anche convinto di averne sentito una scivolare per tutta
la lunghezza della sua schiena. Ma fintanto che il sudore non si appropriava
anche delle sue mani, non era un problema per Paul.
Stava
suonando e cantando “Twenty flight
rock” con una chitarra che non era sua e si era dovuto arrangiare,
imbracciandola al contrario.
Stava
suonando con una dozzina di occhi puntati su di lui: c’era il suo amico Ivan,
che l’aveva convinto ad accompagnarlo a quella festa e c’erano anche i componenti
di quel piccolo gruppo di musica skiffle, che poco
prima si era esibito alla festa, su un palco improvvisato. Paul aveva assistito
alla loro performance con una concentrazione tale che in quel momento aveva
fatto sparire tutto il resto: proprio lì, di fronte a quel palco traballante,
Paul era rimasto in piedi, catturato dalla musica che stava ascoltando,
risucchiato in un luogo dove c’erano solo lui e quei ragazzi, suoi coetanei,
non molto diversi. Non si era mai sentito così entusiasta, così coinvolto da un
gruppetto sconosciuto e sgangherato, il cui cantante non ricordava neanche le
parole delle canzoni e suonava con una tecnica decisamente discutibile. Ma
forse era proprio questo ciò che l’aveva colpito maggiormente. I Quarrymen, o come diavolo si chiamavano, non avevano paura
di sbagliare, neanche di fronte a decine e decine di persone che erano lì, ad
ascoltare loro. E non perché probabilmente la maggior parte degli spettatori
non si sarebbe neanche accorta dei loro errori. Non avevano paura perché in
quel momento non era importante, sbagliare o fare gli accordi giusti. Ciò che
contava davvero era suonare, suonare per un momento in cui sparivano tutte le
ingiustizie della vita, suonare insieme ai propri amici, condividere quell’emozione
che probabilmente non avrebbe potuto ripetersi.
Lasciarsi
andare e al diavolo tutto il resto! Lo sapeva bene il cantante del gruppo. Ivan
lo conosceva, si chiamava John, gli aveva detto. E Paul l’aveva osservato divertito:
un nome tanto semplice e comune per un ragazzo che era indubbiamente sicuro di
sé e a giudicare da come si atteggiava su quel palco, con quelle movenze
spavalde e quelle espressioni che sembravano prendere in giro il pubblico,
piuttosto che ricercarne l’approvazione, anche alquanto eccentrico. Non poteva
chiamarsi “solo John”. Sarebbe stato più appropriato qualcosa come Humphrey o Driscoll o, perché no, Gaylord.
Insomma un nome che sarebbe rimasto impresso, un nome che potevi andare in giro
a dire: “Ehi, conosco un tizio di nome Gaylord.” E
qualcuno ti avrebbe inevitabilmente domandato: “E che tipo è?”, perché uno con
quel nome doveva avere sicuramente delle caratteristiche uniche nel loro genere,
che lo differenziavano da tutti gli altri. A quel punto potevi incominciare a
sciorinare ogni più piccolo, succoso particolare del tizio in questione, sicuro
di avere tutta l’attenzione concentrata su di te. Ma John? Non potevi dire:
“Ehi, conosco un tizio di nome John.” Tutta la considerazione che potevi
ricevere era un: “E allora? Io ne conosco sette.”
Forse
anche John era dello stesso parere e per questo motivo stava puntando tutto sul
proprio aspetto (capelli alla Teddy boy, decisamente
alla moda), le espressioni del suo viso (ammiccanti e maliziose), la postura
(audace e impertinente)… In qualche modo doveva catturare l’interesse di
qualcuno, di chiunque. Beh, c’era riuscito. John aveva avuto tutta l’attenzione
di Paul su di sé.
E
ora John ricambiava il favore, fissando Paul con i suoi occhi magnetici,
osservando ammaliato come le sue dita da mancino si muovevano abilmente sulle
corde della chitarra, creando accordi diversi da quelli che John aveva imparato
e sì, forse un po’ più corretti, ma giusto un po’. Era solo un ragazzino
dopotutto. Quanti anni poteva avere? Quattordici? Non poteva sapere più cose di
John, lui era già un uomo. Quel Paul ai suoi occhi era solo un bambino, un
bambino che giocava con qualcosa più grande di lui.
Giocava
bene, però, John doveva riconoscerglielo. Non l’avrebbe mai detto, quando Ivan
li aveva raggiunti e interrotto i loro festeggiamenti per la riuscita del
concerto, con il moccioso al suo fianco, introducendolo come “Paul McQualcosa”. John si era limitato a rivolgergli un vago
cenno del capo, prima di tornare a immergersi nella sua birra e nei commenti
post-concerto con gli altri membri del suo gruppo. Ma poi Ivan aveva aggiunto
qualcosa sul fatto che anche Paul sapesse suonare la chitarra. John non vedeva
proprio come questo potesse essere considerato un argomento di suo interesse.
Molti ragazzi ormai sapevano strimpellare una chitarra, non era un fatto così impressionante.
E se John lo desiderava, Paul poteva suonare qualcosa proprio lì, in quel
momento, con la sua chitarra, la chitarra di John. No, John non lo desiderava,
non lo desiderava affatto. Tuttavia non voleva guastarsi la festa sapendo di
aver fatto piangere un ragazzino insicuro, a causa della sua scarsa
considerazione. Perciò gli aveva consegnato la sua chitarra con uno sguardo che
andava dal “se proprio devi farlo” al “ti spezzo in due se la graffi”.
Paul
non era così insicuro come sembrava. Nel momento in cui la sua mano si chiuse
sul manico della chitarra, la sua espressione cambiò improvvisamente. Come se
avere quello strumento fra le mani significasse tutto per lui, significasse
essere finalmente completo. John l’aveva percepito bene, questo cambiamento,
perché era ciò che avveniva in lui ogni qualvolta imbracciava la sua chitarra e
cominciava a suonare. Era ciò che contava davvero nella sua vita. Erano bastati
un paio di accordi, le prime parole cantate per far capire a John che voleva
quel ragazzo nella sua band e che questo non avrebbe potuto fare altro che
migliorare la loro tecnica, le loro sonorità. Sarebbe stato come dare stabilità
alla loro carretta scardinata, sistemare le viti delle ruote traballanti. Ma
d’altra parte aveva anche paura. In quel momento Paul non sembrava poi così
diverso da John nell’atteggiamento. Se l’avesse preso nel suo gruppo, avrebbe
dovuto condividerne la leadership. Paul non era come gli altri, Paul aveva
qualcosa, qualcosa che John cercava e temeva in qualunque altra persona al di
fuori di se stesso: la sicurezza. Una cosa che John faceva solo finta di avere
e che lì, di fronte a Paul che suonava in quel modo, era svanita
all’improvviso, facendolo sentire ora incredibilmente nudo. Era assai probabile
che alla fine Paul non solo avrebbe condiviso la leadership con John, ma
avrebbe anche potuto usurparne il ruolo, relegando John a essere un semplice
frammento di cornice a quel quadro di nome Paul McQualcosa.
Cosa
doveva fare? Cosa doveva fare ora che Paul aveva terminato la sua esibizione e
tutti stavano guardando John?
Il
giovane si scrollò le spalle, prese la chitarra e la consegnò a Pete. Poi
avvolse un braccio intorno alle spalle di Paul.
“Quanti
anni hai, ragazzino?” gli domandò, la bocca a pochi centimetri dal suo viso.
Paul
aveva cercato, fallendo, di trattenere una smorfia disgustata: “Quindici.”
“Te
ne avrei dati quattordici.” rispose John, colpito.
“Non
vedo tutta questa differenza.”
“Forse
perché non ti apparti mai in bagno da solo, è così?”
Paul
sgranò gli occhi, arrossendo violentemente e John ridacchiò divertito insieme
ai suoi compagni, dandogli una pacca sulla schiena.
“Ti
va un po’ di birra?” gli domandò, offrendogli la bottiglia che aveva in mano.
“No,
grazie.”
“Beh,
allora…- sospirò John, prendendo un sorso della bevanda ambrata- Paul, è stato
incantevole fare la tua conoscenza, ma sai, abbiamo un altro concerto stasera.
Come qualunque artista che si rispetti, dobbiamo riposare e ritrovare la
concentrazione.”
Paul
annuì comprensivo, mentre John gli rifilava una potente pacca sulla spalla, e
dopo un ultimo cenno ai ragazzi, si voltò e si allontanò. John lo seguì con lo
sguardo. Senza che se ne accorgesse, un sorriso si era allargato sul suo volto
e una decisione era stata presa nella sua testa e nel suo cuore, una decisione
rischiosa. Ma se c’era una cosa di cui nessuno poteva dubitare, era che John
Lennon amasse il rischio.
Anche
Paul amava il rischio, non lo sapeva nessuno, ma c’era una parte di lui che era
spericolata, intrepida. Era quella parte che l’aveva aiutato a suonare non
bene, benissimo pochi minuti prima; quella parte che aveva ignorato, al suo
posto, la pressione di quegli sguardi curiosi e sorpresi su di lui; quella
parte che aveva litigato con il suo lato più coscienzioso, quando John si era
avvicinato a lui e gli aveva parlato con il fiato intriso dell’alcol della
birra. Avevano litigato infervorate perché se da un lato Paul pensava, “Ma che
cazzo vuole questo coglione da me?”, dall’altro era sicuro che quel ragazzo non
fosse come voleva apparire, che in lui ci fosse qualcosa di completamente
diverso che attirava Paul, qualcosa che Paul avrebbe imparato ad amare, anche
sotto quella coltre fetida di birra.
John
aveva qualcosa che avrebbe cambiato la sua vita per sempre.
****
E l’aveva cambiata
davvero. Grazie a John, che l’aveva accettato nel suo gruppo, Paul aveva
vissuto esperienze che altrimenti avrebbe potuto solo sognare. La sua vita era stata
tutto un susseguirsi di eventi che l’avevano fatto crescere, maturare sia dal
punto di vista musicale, sia da quello umano.
Paul era ora un
giovane uomo sicuro di ciò che voleva e
lui voleva solo seguire John, dovunque fosse andato. In qualche strano modo,
ogni volta che Paul accettava le proposte di John, quelle più eccentriche, così
come quelle più ordinarie, non si pentiva mai.
E mentre sospirava,
ancora in piedi nello stesso punto dove aveva visto sparire l’amico, Paul era
certo che John non l’avrebbe deluso neanche questa volta.
Note
dell’autrice #2: ebbene, via con uno. Sto cercando di
attenermi il più possibile a fatti realmente accaduti, ovviamente per quanto
possibile. Ho letto solo recentemente che i parenti che inviarono le famose
cento sterline a John erano di Edimburgo. Naturalmente quando si tratta di
Beatles non si è mai sicuri della veridicità di certe affermazioni, se qualcuno
dovesse sapere con certezza che non fosse così, me lo faccia pure notare.
Bene allora ringrazio
kiki che ha corretto e si è già letta quasi un terzo
della storia. XD E ringrazio Lights per lo splendiderrimo banner.
Il prossimo capitolo
si intitola “Sul cuscino”.
A presto
Kia85