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Autore: hanabi    13/09/2013    4 recensioni
Lontano, molto lontano, un mondo è pieno di leggende sulla propria origine e la propria storia. E in questo mondo tutto sembra duale: due soli, due continenti, due culture impermeabili, due etnie nemiche. Ma c'è un terzo incomodo, che esiste ed agisce nell'ombra...
Ed è quel terzo incomodo che unisce gli estremi di quel mondo, in una vicenda che sprofonda le radici nel remoto passato, tra intrighi e grandi imprese, sogni e vendette, misteri da svelare e sentimenti contrastanti, ferocia e sensualità. E alla luce di una luna che non è più solo un decoro del cielo, si dipana la storia dei protagonisti... come un gioco dei loro dèi. E di qualcun altro.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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(Chiedo scusa per il lungo stop, ma nella mia vita paradossale l'estate è il periodo dell'anno in cui ho meno tempo per seguire veramente i miei interessi. Non ho però rinunciato a continuare questa storia.)



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Tasia varcava il cancello sacro della shanda. 

Si muoveva in un silenzio teso, fiancheggiata dagli eunuchi, avvolta nella sua veste luccicante e impenetrabile, che infagottava il suo magnifico corpo rendendolo impossibile da indovinare; e con la maschera ben calcata sul volto, ma la candida capigliatura raccolta a cupola sul capo, e ben visibile.

I simboli del suo essere albina, essere donna, ed essere soprattutto la Prima tra le Prime. 

Non c’era in lei l’emozione che tutti si aspettavano: molte donne avevano reazioni estreme, il primo giorno che uscivano dalla shanda. Alcune piangevano di commozione o in preda all’isteria, altre tremavano di paura ed esitavano ad affrontare il mondo esterno, altre ancora ridevano follemente o dovevano essere portate fuori a braccia; quasi tutte cercavano istintivamente di nascondersi.

Lei non faceva nulla di tutto questo. Incedeva tranquilla, col suo passo lento e maestoso. Sorrideva appena, godendosi il suo trionfo senza esultare. 

Prima tra le Prime. 

Caso più unico che raro nell’intera Kelitha, per lei non era la prima volta: era sempre stata scelta come Prima tra le Prime dai suoi precedenti padroni. Perché non solo era bellissima, ma l’anziano eunuco del conte Ersha aveva intuito il suo talento, e l’aveva anche istruita. Tasia quindi era ben più del solito animale da letto: elegante e sicura di sé, aveva appreso a conversare, ascoltare, osservare e utilizzare la propria intelligenza, distinguendosi così da tutte le altre schiave in ogni shanda in cui era finita. 

Le era stato insegnato che la sua esistenza dipendeva unicamente dal suo padrone; la propria importanza dalle sua, la sua fortuna dalla sua felicità, il suo successo dal potere che avrebbe ottenuto sulle altre schiave. Ricordava sempre quello strano animale che il vecchio eunuco le aveva mostrato nel suo giardino: una lucertola volante che cambiava colore a seconda del luogo su cui si posava. 

Questa è la tua maestra, bambina mia. Devi fare come lei.

E le aveva spiegato che la lucertola cambiava colore solo per istinto. Ma un essere intelligente doveva fare di più: decidere quale fosse la superficie a cui conformarsi. Molti si conformavano al costume, all’ambiente, alle credenze, alle tradizioni, alle mode... 

Tasia si conformava unicamente ai desideri del padrone.

Mi feci raccontare tutti i dettagli della gioventù del principe Estsen. Così, quando venne a scegliersi una schiava per la notte, mi presentai in mezzo alle altre vestita da ragazzo, col costume di un paggio Kayumi.... e lui scelse me.

Essere diversa dalle altre, farsi notare. Vincere la fiducia del padrone, rendersi a lui indispensabile e poi, una volta raggiunta la maschera di Prima delle Prime, provvedere a controllare la shanda, fino a diventarne l’incontestata regina. Tasia aveva dimostrato più volte di avere questo talento. 

Ma non aveva mai immaginato di poter sedurre un maschio anche al di fuori di quel mondo chiuso e geloso, l’unico in cui poteva mostrare la sua accecante bellezza. Invece il suo fascino era riuscito anche in quell’incredibile impresa. Certo, c’era voluto un nobile come Deyan-shir per percepirlo. Un essere straordinario per molti aspetti... compresi quelli più deleteri. 

Come ha osato desiderarmi?

Era sicura di non avergliene dato alcun modo: con lui era stata educata ma irraggiungibile, come doveva essere una Prima tra le Prime. Certo, aveva segretamente osservato la sua figura elegante: si era chiesta come sarebbe stato avere un padrone giovane e bello come lui, invece degli uomini già maturi o vecchi che aveva servito sin da piccola. Ed era rimasta commossa a cogliere nel suo viso impassibile uno sguardo ardente, un’ammirazione misteriosa che l’aveva lusingata, proprio perché non poteva venire dall’esposizione della sua bellezza.

Ah, se fossimo stati soli io e lui...

Eppure sapeva che l’adulterio era qualcosa di totalmente impossibile, tra i nobili. Il solo pensiero aveva il sapore della morte. Nel segreto della shanda aveva attirato Estsen nel proprio letto, sfogando con lui i propri pericolosi desideri e lasciandolo ignaro e soddisfatto. Poi, più calma, aveva riposto le sue fantasie nel mondo delle cose impossibili, costringendosi a pensare soltanto al suo signore. 

Ma questo non aveva impedito al suo ospite di pensare a lei. 

E quella notte...

Rabbrividì, al ricordo. Un istante di autentico piacere. Annegato in una tempesta di vergogna, dolore, e giorni e giorni pieni soltanto di terrore.

Mi hanno considerato colpevole al pari dell’uomo che mi ha violato. 

E quel che gli avevano fatto le aveva tolto il gusto di odiarlo: cosa poteva augurargli di peggio? Non aveva neppure fatto in tempo a esultare per la gioia di averla avuta, sia pure con l’inganno: un istante dopo era già nelle mani dei torturatori. Poi era stato rapito, riscattato, privato del suo rango, marchiato a fuoco, ignominiosamente fustigato in pubblico, venduto per servire in un bordello... aveva pagato carissimo quel momento di incredibile passione per lei. Il suo spaventoso dolore aveva dato fama imperitura al nome della donna che l’aveva causato, e lei si era trovata ad esserne amaramente lusingata. 

Tasia, La Bellissima, colei per cui un principe perse tutto. 

Anche lei aveva perduto tutto, una Prima tra le Prime non scendeva dal suo trono se non per entrare nella sua tomba: tale era la convenzione presso la nobiltà kelith. Secondo ogni logica quindi Estsen avrebbe dovuto ucciderla, ma forse la morte non gli era sembrata abbastanza per il disonore che aveva patito. Aveva ricevuto un’incredibile offerta in oro da parte del signore di un paese che ormai odiava e disprezzava...

Gamosh-shir.

Sembrava infatti che il principe di Shana non aspirasse ad altro che a possedere quella femmina, ed Estsen aveva provato una torbida soddisfazione a cedergliela, convinto che quella fosse una punizione peggiore della morte. La crudeltà di Gamosh era infatti ormai leggendaria: un terzo delle schiave della sua shanda non sopravviveva a un rivolgersi delle stagioni. 

Ma proprio per via del disprezzo che aveva per le sue donne, il posto di sua Prima tra le Prime era ancora vacante. E Tasia aveva deciso di puntare a quel titolo. Non aveva dovuto usare nessun trucco per attirare l’attenzione di Gamosh, perché bastava il fatto di essere stata di Deyan per renderla speciale. Pochi incontri con lui, e aveva scoperto che dietro la ferocia di quell’uomo c’era un inconfessabile senso di inferiorità, che aveva plasmato la sua intera esistenza. Il suo animo era tormentato da una ferita perenne nel suo orgoglio; il suo desiderio più ardente, piegare un’indomabile maestà che in realtà ammirava, chiedendo, anzi implorando la sua approvazione e considerazione...

E lei l’aveva accontentato, comportandosi come lui segretamente voleva. 

Era un gioco pericoloso, perché comportava un po’ di sfida, e qualche esperienza di dolore era da mettere in conto: ma lei si era indotta a goderlo come una spezia; e dopo le prime volte a recitare, aveva scoperto di non averne più bisogno: la violenta eccitazione di certe situazioni la compensava di qualche livido o escoriazione. Giorno dopo giorno Gamosh aveva finito per intossicarsi di lei: era affascinato dallo scandalo che rappresentava; in soggezione davanti alla sua esperienza, e incantato dalla sua educazione che faceva di lei ben più del solito animale senza cervello. La chiamava per nome, unica tra tutte le femmine della sua shanda, e si fermava a dormire da lei trascurando i letti delle altre schiave. Tasia vegliava per essere sempre regale e perfetta al suo risveglio, quando le avrebbe raccontato dei suoi grandi progetti di cui non comprendeva nulla, ma che ascoltava fingendo di approvare. Si era accorta dell’immensa solitudine di quell’uomo acido e amaro, del suo desiderio inconfessabile di essere amato. Gliene aveva data l’illusione. 

Guardami, padrone, sentiti bene con me, e fammi vivere, lasciami vivere, lasciarmi esistere ancora...

Sapeva benissimo che quando non erano più appetite o appetibili, le albine bevevano il loro vino alla sera, e al mattino non si svegliavano più. Una ruga, un difetto fisico, una gravidanza troppo faticosa, una malattia... e si procedeva, in silenzio e senza sofferenze. L’aspettativa di vita delle ragazze dai capelli bianchi era quindi molto corta, a paragone di quella delle donne del popolo a cui era consentito di invecchiare: una manciata di cicli di soli e svanivano nel nulla, spesso senza neanche arrivare alla piena maturità. Erano addestrate a considerare questo assolutamente naturale: l’ignoranza in cui erano mantenute addolciva il loro triste destino, condizionandole a pensare unicamente al presente, e a considerarsi delle privilegiate. Ozio e lusso erano compensazioni adeguate per una vita così effimera.

Ma io non voglio che sia effimera!

Era di nuovo la Prima tra le Prime di un principe. Con un po’ di attenzione, avrebbe potuto vivere fino alla sua morte: e Gamosh non era ancora vecchio. Le sue gambe erano piene di vene gonfie e bluastre, che sulla pelle d’albino risaltavano sgradevolmente, e i reni funzionavano male: ma con un po’ di cura avrebbe potuto durare ancora a lungo...

E devo generargli un figlio al più presto, un erede al trono: così lo legherò completamente a me.

Sperava di essere ancora capace di procreare: in tutta la sua vita era stata ingravidata una volta sola, ma nel momento sbagliato. L’eunuco con lei aveva cercato in tutti i modi di nascondere e proteggere quella gravidanza, ma lei non aveva voluto rischiare di perdere la perfezione del suo corpo per un figlio di cui non era certo chi fosse il padre. Aveva fatto in modo che Estsen sapesse che era incinta: l’ordine di abortire era arrivato immediatamente, e quel che era uscito dal suo grembo era stato chiuso in un vaso, per essere gettato oltre il confine con Shana.

Rabbrividì.

Non pensare a quel bambino, Tasia, non pensare, non pensare...  

Arrivò alla fine del lungo corridoio e i servi separarono le grandi cortine di velluto, facendole frusciare nel silenzio. 

Gamosh era lì, che la guardava soddisfatto mentre i cortigiani erano pietrificati in un sorriso agghiacciato. Molti avevano sconsigliato a Gamosh quella palese provocazione di un vicino: Estsen non avrebbe gradito affatto trovarsi davanti la propria ex-moglie in un’occasione ufficiale. Gamosh avrebbe potuto tranquillamente godersi quella donna in privato, senza clamore, e molti imbarazzi sarebbero stati evitati...

Il principe non li aveva ascoltati. Anzi, aveva provato piacere all’idea di sfidare le convenzioni dell’Augusto Consorzio in un modo tanto clamoroso. Che tutti sapessero che il letto di Estsen era territorio di conquista Shanì: e se il principe avesse voluto obiettare, tre divisioni in assetto di guerra erano pronte al confine con Itka, e in una tenda del loro accampamento un albino nerovestito e mascherato attendeva ordini...

Il capo degli eunuchi picchiò a terra il suo bastone ornato di campanelli e proclamò con voce acuta e solenne:

“Salutate la nobile Tasia, Prima tra le Prime dell’eccellentissimo principe Shana-iban-Unari Gamosh-shir!”

Tutti chinarono appena il capo, vergognandosi di farlo per una donna, e soprattutto per quella donna. Lei li ignorò: avanzò nel silenzio e sorrise al suo signore, con un inchino perfetto.  

Devo essere felice. Devo sentirmi felice. 

Sì, era bello sospirare sugli antichi manuali dell’erotismo, che rappresentavano invariabilmente amanti nobili dai tratti raffinati, con occhi rapaci e corpi forti e flessuosi, capaci di far gridare di piacere le ragazze a cui si avvinghiavano... ma erano solo favole, e lei aveva imparato a temere il momento in cui si avveravano. 

Addio, Deyan-shir.

Non voleva più saperne della passione, non voleva più pensare agli altri suoi padroni, al bel giovane che l’aveva desiderata al punto di distruggere quasi entrambi... voleva pace, voleva ricchezza, voleva sicurezza; voleva la vita. 

E Gamosh, sia pure con le sue crudeltà e le sue manie, il suo corpo sgraziato e pesante, il suo alito sgradevole e la sua incapacità di sostenere più di un coito ogni due giorni, era tutto questo.

Me lo farò bastare.






*






Un urlo umano filtrò tra le rocce, riverberando ed espandendosi nel silenzio della desolazione, dove la torrida aria asciutta lo assorbì disperdendolo. 

Ran, seduto all’ombra di tre immensi macigni bizzarramente incastrati insieme, si sentì a disagio. La sua gente sapeva essere brutale e non aveva molti scrupoli quando si trattava di punire un nemico; ma quando era il momento si andava per le spicce, senza trascinare a lungo la faccenda. 

Per i kelith le cose erano diverse, naturalmente: non avevano mai fretta. C’era sempre una componente di piacere nel loro modo di infliggere sofferenza, ed era questo che disturbava la mentalità sayanni.

Con i pellebianca ogni cosa diventa peccaminosa, anche la morte.

Guardò i kelith con lui: sogghignavano nervosamente. Molti rimpiangevano di non poter assistere allo spettacolo. Aydie, seduto con le spalle all’ingresso della caverna, canticchiava una canzone Kayumi mentre si preparava una foglia di spezia da masticare. 

“Anche uomini molto istruiti commettono errori molto sciocchi,” disse, filosoficamente. 

Nafur, esperto mercenario ed ex pretoriano alla corte del principe di Adara, era andato da solo a sollazzarsi nel quartiere dei bordelli kelith. Ne era uscito nel colmo della notte, contento e distratto. Così non si era accorto di una figura scura che l’aveva seguito tra i vicoli, e quando l’aveva sentita era stato troppo tardi. 

Era un soldato esperto, con una vasta esperienza sul campo di battaglia. Ma non gli era servita a nulla: prima ancora che potesse gridare si era trovato disarmato, abbattuto, legato e imbavagliato; e solo un istante prima che il suo avversario gli calcasse un sacco sulla testa, Nafur aveva visto che aveva la pelle azzurra.

“Kelith non buono guerriero,” aveva sentenziato un'assurda voce di fanciulla. 

E due braccia forti l’avevano sollevato come un pacco, portandolo via.

Nessuno si era accorto di nulla. 

L’avevano portato nella desolazione, molto lontano dall’abitato: un luogo inospitale che ben pochi si erano peritati di esplorare, non contenendo nulla di utile. Il mercenario era stato trascinato in un luogo chiuso e pieno di echi, e legato saldamente a un grosso masso orizzontale. Gli avevano tolto il sacco dalla testa e il bavaglio, e si era trovato in compagnia di un piccolo gruppo di predoni della Squadra Sacrilega, e dei suoi due capi. 

Deyan era vestito di nero, come un carnefice;  la sua testa bianca catturava la luce delle torce con cui la caverna era illuminata. La sua voce era riverberata nel silenzio, calma e inespressiva. 

“Grazie per essere rimasto su Luna di Fuoco, Nafur. Quando hai saputo che sia io che Ran eravamo riusciti a tornare da Zakkara, avresti potuto scappare in qualche angolo di Kelitha e non tornare più: nessuno avrebbe potuto impedirtelo. Invece sei stato così avventato da rimanere: evidentemente ho sottovalutato la tua audacia... e tu il genere di nemici con cui avresti avuto a che fare.”

“Non so di cosa tu stia parlando, signore! Sono solo un informatore, e i miei clienti sono sempre stati contenti di me...”

“Quali clienti?” aveva chiesto Ran, con voce minacciosa.

Nafur aveva stretto le mascelle. “Mi spiace, ma le transazioni di noi informatori... sono riservate.”

Deyan aveva fatto un pallido sorriso. “Niente è riservato quando in palio c’è una grossa somma, dovresti saperlo. Un informatore non rivela le sue transazioni? Non importa: si paga un altro informatore che le scopra. È quel che ho fatto, ed è risultato che i tuoi clienti sono i nobili dell’Augusto Consorzio.”

“Cosa?! Ma io... io...”

“Quando siamo arrivati a Zakkara c’era una nave kelith ad aspettarci. E non è stato un caso: Jenna-shir era lì apposta per me. C’è solo un modo che spieghi come i nobili sapessero con tanta precisione i miei movimenti. E un solo uomo in grado di trattare con dei principi... uno che ha vissuto vicino a loro. Un pretoriano.”

Nafur li aveva guardati, in preda al panico. “Non sono il solo ad aver lavorato per un nobile!... Come potete affermare che sia una spia? Che prova avete?”

“I cinquecento Astri che hai incassato di recente. Nessuno su Luna di Fuoco è in grado di pagare una cifra simile per un’informazione che ci riguarda.” 

“Ci... cinquecento Astri?!... Io non li ho mai avuti...”

“Il denaro lascia sempre tracce, Nafur. Nessuno meglio di te dovrebbe saperlo.” Lo sguardo di Deyan si era fatto tagliente. “Noi albini non ci intendiamo solo di belle schiave e buoni vini: siamo educati a governare. Io dovevo ereditare una nazione, e i miei maestri mi hanno insegnato tutto sull’uso delle spie, sulla corruzione, e su come uomini che si reputano furbi nascondono le loro ricchezze.”

Nafur si era irrigidito, pallido come uno straccio. 

“Già, le ricchezze. Credevi che fossero importanti solo per te? So che molti mi odiano per la mia origine; ma come predone sono rispettato, perché finora non ho sbagliato un solo colpo. Ho comprato informazioni e le ho pagate bene e puntualmente, e la Fratellanza non ha mai avuto motivo di lagnarsi di me. Tutto è andato bene e ognuna delle parti si è arricchita, finché non sei arrivato tu con la tua idea... vendermi la mappa di Zakkara con una mano, e vendere me e Ran a Deera con l’altra!”

“Carogna sleale,” aveva ringhiato Ran. “Lo sai cosa mi avrebbero fatto, se mi avessero catturato?!”

Nafur l’aveva guardato, come se si fosse accorto solo in quel momento di lui. 

“Non gli interessava,” disse Deyan. “Tu non sei niente per lui, solo un barbaro che per qualche strano gioco del destino è diventato famoso. Io invece sono uno dei nobili che lui tanto odia, perché è stato a causa loro che si è trovato degradato e costretto a lasciare il suo comodo posto di guardia di palazzo. Sia tu che io avremmo avuto un destino peggiore della morte, e sarebbe stata la fine della nostra Squadra Sacrilega. Nafur non avrebbe sentito la nostra mancanza... ma non ha considerato il fatto che suoi confratelli non l’avrebbero pensata allo stesso modo. Sarebbe stato come se lui avesse tagliato un albero per venderne la legna, dimenticando tutti coloro che vivevano dei suoi frutti.”

Il prigioniero aveva tremato, comprendendo la trappola che Deyan gli aveva costruito intorno. 

“Così non mi è stato difficile raccogliere le prove che lo inchiodassero. E siccome ho in progetto di continuare a riprendermi ciò che la mia gente mi ha tolto in Kelitha... non posso tollerare una loro spia alle mie spalle.” Si era chinato sul prigioniero. “Quindi, Mastro Nafur, devi morire. Ti avrei eliminato nel modo che noi adepti di El adoperiamo per i traditori... ma il mio amico Ran ha un credito di sangue con te perché a causa tua ha perduto un amico. Non potevo defraudarlo della sua vendetta: quindi sarà lui a ucciderti.”

“Non potete,” aveva protestato lui. “Le regole di Luna di Fuoco...”

“... ci vieterebbero quel che stiamo facendo,” completò Deyan. “Ma qual’è lo spirito di quelle regole? Conservare l'ordine. E chi le custodisce?... Ti abbiamo rapito in segreto, ma nessuno può nascondere qualcosa ai Marjaban. Essi sanno tutto, anche che sei una spia: hai comprato da loro i tuoi spostamenti e c’era un solo motivo per cui potevi voler andare a Zakkara prima che ci andassimo noi. Secondo il loro uso non sono intervenuti, rimanendo ad attendere gli eventi. Ora però sono inquieti: la prossima volta potresti vendere altri segreti di Luna di Fuoco, forse ancor più delicati... non è meglio per loro voltare la testa, far finta di non vedere, e lasciare che Ran e io facciamo pulizia eliminando un potenziale pericolo per tutta la Comunità?”

Nafur aveva guardato in quegli occhi rossi, privi di misericordia; e la sua voce era tremata.

“E se ti sbagli, Deyan-shir?... Se invece i Marjaban inchiodassero te e la tua squadra qui, su Luna di Fuoco, per sempre?... Potrei aver lasciato tracce che tu non hai considerato, e il tuo crimine non essere così segreto come credi. Una volta risaputo che tu uccidi chi ti intralcia, i Marjaban non potrebbero più far finta di non vedere. Ti ritroveresti incapace di fare qualsiasi missione, e i tuoi uomini ti abbandonerebbero; le tue risorse prima o poi si esaurirebbero, e finiresti nuovamente su quel banco degli schiavi dove il marchio che porti ti ha sempre destinato! Sei proprio sicuro di voler correre questo rischio?!...

Deyan l’aveva guardato con un’alzata di sopracciglia.

“Sì, Nafur. Sono disposto a correrlo.”

Aveva sciolto un involto di cuoio, disponendolo accanto a sé. Dentro Ran aveva visto il luccichio metallico di alcuni strumenti misteriosi...

Anche Nafur li aveva visti, e la sua faccia era diventata verdastra. 

“Che... che significa... ”

“Ho detto che sarà il mio amico Ran a mandarti tra le braccia della Misericordiosa...” Deyan aveva fatto un remoto, sottile sorriso. “Ma sarò io a insegnarti ad amarla: alla fine la invocherai con tutto il tuo cuore. Benché mi sia capitato di rado di esercitare l’antica arte con le mie stesse mani... ho visto abbastanza per sapere come si fa.” 

“Dèi del profondo, Deyan-shir,” aveva esalato Ran.

“Non temere, amico mio: avrai la tua vendetta, te l’ho promessa. Ma anch’io mi prenderò la mia, per tutto quel che mi è costato il tradimento di quest’uomo.” Aveva scelto una lama affilata, terminante in un uncino. “Per colpa della sua avidità il nobile Jenna-shir è morto, e la dea che venerava è adirata. C’è un solo modo per placarla.”

“La... dea?!.. no... no signore, no...”

Shi-El, Nafur.” 

Un brivido era sceso nelle schiene di tutti. 

“Nooo!!!...” aveva urlato Nafur, e si era contorto contro le corde in uno spasimo di puro terrore: aveva rivolto a Ran uno sguardo disperato. “Ti prego, sayanni, uccidimi, uccidimi... sono colpevole, è vero, è vero, guardami, sono colpevole, usa la tua lancia, spaccami il cuore, ora, subito, ti prego...” 

Ma lui non si era mosso.

Allora aveva cominciato a gemere e a smaniare, mentre Deyan si copriva il capo con un drappo nero, e cominciava a recitare una lunga preghiera nella sua ermetica, musicale Lingua Antica. Ran non capiva le parole, ma ne sentiva il potere: era un’invocazione solenne e insieme intima, la consacrazione di una vittima per una divinità assetata di sangue...

I kelith si erano affrettati ad andarsene, lasciandolo solo; e Ran si era trovato sospinto da essi fuori dalla caverna, senza tanti complimenti. Solo in quel momento si era accorto che non era l’unico sayanni presente: anche Naysiak era stata scovata dal suo nascondiglio, dov’era stata fino a quel momento a sorvegliare il suo padrone, ed era stata trascinata fuori quasi a forza.

“Svelti, o la sua dea prenderà anche voi!...”

Ran non aveva mai visto tanta paura negli occhi di uomini che pur erano predoni, avvezzi a guardare in faccia la morte. E non aveva opposto resistenza, lasciandosi condurre fuori da lì: dopotutto nemmeno lui aveva voglia di restare a vedere cosa intendesse Deyan per vendetta. 

Una volta all’aria aperta, nella luce accecante del giorno, lui e Naysiak si erano guardati. Lei non era bella in quel momento: sporca di polvere, il corpo malridotto dipinto a strisce nere, come una tigre, gli abiti di pelle macchiati, il collare da animale. Ran aveva distolto lo sguardo, impiegando qualche istante a ritrovare un equilibrio nella ridda di sentimenti che provava, e quando aveva rialzato gli occhi... lei non c’era più. 

“Dov’è andata?!” aveva chiesto ai kelith intorno a loro.

Aydie aveva indicato l’imboccatura della caverna. 

“È tornata dal suo padrone. Quella non ha paura di niente, neanche di una dea.”

Ran si era sentito il cuore pesante.

Per giorni interi l’aveva evitata: gli bastava chiudere gli occhi per rivederla nelle vesti seducenti di una schiava kelith. Aveva provato il desiderio di ridere di lei... e altri desideri, inammissibili: e ogni volta la sua Membrana l’aveva castigato ricordandogli il suo dovere di uomo d’onore. Alla fine, esasperato, era andato a ubriacarsi; e aveva così ritrovato la pace. 

Ma era pieno di risentimento: Deyan non si rendeva conto di cosa gli aveva fatto! In un colpo solo aveva rovinato tutta l’immagine ideale che lui si era tenuto gelosamente nel cuore: la guerriera forte e coraggiosa, la perfezione marziale impersonificata...

Ora al suo posto c’era una sgualdrinella tutta veli e sonaglini. 

Dannazione! 

Aveva perdonato a fatica il suo amico, e solo perché dopotutto era un kelith, incapace di comprendere appieno il cuore di un sayanni. Ma questo non valeva di certo per Naysiak, che si era prestata a quel gioco. E così, quando finalmente l’aveva incontrata nel nuovo quartiere della Squadra Sacrilega, aveva respinto sdegnosamente ogni sua offerta di riparazione, trattandola con disprezzo; e non si era lasciato commuovere dalla sua espressione ferita. 

Aveva creduto che la faccenda si chiudesse lì. Ma non aveva fatto i conti con l’orgoglio di lei, o forse Naysiak aveva capito che scusarsi non sarebbe servito a nulla, e che doveva cambiar tattica. Allora gli era andata fin sotto al naso per dirgli che era un montanaro senza educazione, e che del suo perdono non se ne faceva nulla. Le parole tra loro si erano fatte grosse; e poiché lei, a causa della sua imperfetta conoscenza della lingua, non poteva combattere alla pari una battaglia di insulti con Ran (ben pochi su Luna di Fuoco avrebbero potuto, del resto), gli aveva chiuso la bocca con un gran manrovescio. Ran non ci aveva visto più: in men che non si dica era partita una vera e propria rissa, sotto gli occhi allibiti di tutti i predoni. Era accorso Deyan, che aveva ordinato a Naysiak di fermarsi; lei aveva obbedito immediatamente...

Ma Ran non si era fermato, se non un attimo troppo tardi.

Solo quando l’aveva vista inerte e scomposta nella polvere, con la mascella livida e un filo di sangue che  le traboccava dalla bocca, si era reso conto di averla colpita solo perché lei non si era difesa. La sensazione di esser stato sleale l’aveva riempito di una vergogna così acuta da fargli dimenticare completamente la sua ira: aveva gridato ai predoni di portargli dell’acqua, le aveva tamponato la faccia con una pezza bagnata, pregando che si riprendesse...

“Apri gli occhi, Xarani, ti prego, guardami!”

Lei ci era riuscita, roteando lo sguardo con aria stranita e un gemito di dolore. Lui l’aveva aiutata a rimettersi a sedere e lei si era di nuovo sentita male: ma poi aveva vomitato un grumo di sangue, ed era stata meglio. Si era pulita la bocca col dorso della mano, senza recriminare. E l’aveva guardato con una tale franchezza che lui si era sentito uno stupido ad aver dubitato di lei...

“Ora amici?” gli aveva chiesto, da vera guerriera. 

Ran si era sentito sciogliere, e finalmente l’aveva abbracciata, felice di poterlo fare e non sentir altre sensazioni, felice di averla ritrovata. I sayanni avevano mandato degli urrà e lei gli aveva sorriso... nonostante la faccia tumefatta e un occhio semichiuso. 

La contentezza di Ran era durata poco. Due giorni dopo Saal si era presentato alla sua porta trascinandosi dietro Naysiak, col volto ammaccato, e la tunica stracciata sulla schiena affinché tutti vedessero che era stata frustata. Ran era rimasto esterrefatto a quel crudele spettacolo, ma i suoi predoni l’avevano guardato scuotendo la testa: possibile che non si fosse reso conto che lei portava un collare? Aveva commesso un delitto, attaccando briga con un uomo libero; e dato che lui non si era disturbato a intercedere per lei, Deyan non aveva avuto altra scelta che punirla: era una questione d’onore. 

A Ran dunque era toccato rimanere in piedi mentre lei si inginocchiava davanti a tutti, per chiedergli perdono. Ma non era umiliata. Gli aveva toccato un piede e aveva recitato la formula dell’implorazione a memoria, ma con la voce colma di una strana fierezza. Poi aveva alzato quel suo sguardo limpido e senza rancore su di lui, aspettando la sua risposta.

E Ran si era sentito bruciare gli occhi. 

“Ti perdono.”

Ma sapeva bene di esser lui il vero colpevole, la causa prima di tutto quell’inutile dolore. 

Se avessi accettato subito le sue scuse... se non me la fossi presa tanto per quello stupido vestitino...

Ma non era per il vestito che si era adontato, doveva essere onesto con se stesso: era per aver scoperto la propria immonda lussuria. Per alleggerirsi la coscienza aveva fatto in modo di scaricarne la colpa su di lei, l’innocente causa del suo peccato; e ci era riuscito mirabilmente. 

Povera ragazza, quanto ha pagato caro un momento di spensieratezza! Sono riuscito un’altra volta a farla frustare per una colpa che era soltanto mia. Sono contento, adesso? Sono fiero di quel che ho fatto?!

Erano troppo gravi le colpe che aveva verso di lei. Troppo grande la distanza tra la nobiltà dei loro cuori. E aveva il coraggio di definirsi amico di Naysiak? Con tutto il male che le aveva fatto, solo perché era migliore di lui?

Perdonami tu, Xarani. Perdonami, perché non sono degno di te.











Era notte quando la piccola comitiva si diresse di nuovo verso l’abitato. Deyan procedeva svelto davanti a tutti, alla luce fioca delle stelle, senza inciampare neanche una volta. I suoi occhi pallidi riconoscevano sentieri noti a lui solo; a una certa distanza gli altri lo seguivano, illuminandosi il cammino con luci schermate. 

Naysiak non aveva luce, seguiva quella degli altri. E si affidava ai suoi sensi animali, perché gli occhi le bruciavano: per la polvere, la stanchezza e le lunghe ore insonni. Percepiva la traccia metallica del suo Liberatore: anche se si era purificato e cambiato d’abito, gli era rimasto attorno un alone sanguigno. Gli altri kelith emanavano note di spezie, e aromi esotici nell’alito e nel sudore; il sayanni dietro di lei sapeva di cuoio, resina e legno bruciato: e anche da lui veniva un lieve odore di sangue.

Aveva dato il colpo di grazia al corpo sezionato che il Liberatore gli aveva offerto: il prigioniero era morto con un ghigno di gioia sulle labbra. Una volta strappata la lancia dal suo cuore, Ran aveva immerso le mani nel suo sangue. Quindi era uscito, nella luce del tramonto, e aveva alzato quelle lucide e rosse mani in direzione del sole azzurro.

“Per te, Nemel,” aveva proclamato.

Naysiak non conosceva quel rito, l’aveva guardato con stupore.

Cosa se ne fa lo spirito di un sayanni, del sangue di un misero kelith?

Ai suoi tempi un pellebianca morto era solo materiale. Niente che avesse un valore o meritasse rispetto. Dopo le battaglie i sayanni raccoglievano i corpi dei nemici e li utilizzavano: con i teschi adornavano le mura, coi femori facevano recinti o ricavavano flauti, e le scapole venivano incise artisticamente; bruciavano il grasso, davano la carne agli animali e agli schiavi, raccoglievano i capelli; e il resto lo usavano come fertilizzante. Solo per gli albini c’era più considerazione, vista la loro rarità.

E io ne ho uno proprio davanti a me...

Tante volte aveva pensato a cosa avrebbe fatto di Deyan, se lui non fosse stato il suo Liberatore. Aveva contemplato oziosamente i cento modi in cui avrebbe potuto ucciderlo: l’aveva visto addestrarsi e non era malaccio come combattente - era sicuramente meglio del mercenario che l’avevano mandata a rapire, un soldato ridicolmente debole - ma contro di lei non avrebbe avuto alcuna speranza. Dopodiché avrebbe utilizzato la sua magica carcassa per ottenere preziosi amuleti. Ci pensava con piacere, specie quando Deyan era cattivo con lei: scolpiva ossa di animale immaginando che fossero le sue; lisciava lo scalpo di Shartip immaginandoselo bianco, tagliava le sue pelli sognando di scuoiare quell’insopportabile massa di orgoglio kelith: e fantasticava di aprirgli il ventre per leggere il futuro tra le sue viscere...

Ma è il mio Liberatore, e io ho giurato.

Sospirò: quanto era diventata strana la sua vita! I Tirri le avevano fatto uno scherzo atroce, mandandola a vivere proprio accanto alla propria nemesi; e senza sconti, perché Deyan era esattamente uguale agli albini dei suoi tempi, quasi che gli dèi avessero voluto resuscitarne uno appositamente per lei. 

Questo non valeva per gli altri kelith: erano decisamente cambiati in un millennio. Naysiak notava quanto ci tenessero a distinguersi tra loro per provenienza,  a differenza di quando erano uniti sotto l’Impero; avevano guadagnato in loquacità quel che avevano perso in bellicosità, ponendo l’astuzia al primo posto tra le doti a cui aspirare. Anche i più ribelli tra loro avevano un solenne senso dell’ordine. Adoravano le simmetrie, le poesie complicate, la musica piena di abbellimenti, le decorazioni, le formalità, le classificazioni. Erano ribollenti di passioni che cercavano continuamente di codificare, avevano un senso della vergogna bizzarro per un sayanni, ma erano dei buoni compagni. Naysiak si stupiva di non provare più disgusto a trovarsi in mezzo a loro: aveva cominciato a conoscere quella gente pallida, e a riconoscere la loro umanità sotto la pelle diversa dalla sua.

Questo è male. I nemici devono rimanere nemici. Saggi erano i sayanni dei miei tempi, che non permettevano neanche di pronunciare il nome di un kelith. 

Si accorse di rimanere indietro: il suo passo non teneva il ritmo di quell’infaticabile ombra grigia davanti a lei. Era troppo stanca, e sentiva i brividi: aveva freddo, la sua carne stava gettando via il prezioso calore del corpo e non aveva mangiato abbastanza per generarlo. 

Si sforzò di camminare più rapidamente. Non avrebbe mostrato a Deyan o agli altri kelith la sua debolezza. Era una sayanni, una grande guerriera, una Figlia della Cometa...

Ma ne esistono con la schiena ridotta come la mia?

Si portò una mano sulla spalla, e strinse i denti: non sarebbe morta per così poco. La vita era forte in lei, e da quando era uscita dal Feretro bruciava con un ardore compresso, che a volte la stupiva. C’erano così tante cose da apprendere e sperimentare, in quel nuovo mondo in cui era rinata. Tante cose da fare, e da vedere. 

Quante volte ho sognato di poter veder le stelle, nella notte eterna della mia prigionia...

Si accorse quasi all’improvviso di essersi fermata a guardare il cielo. I kelith erano andati avanti, ma non era sola. Alle sue spalle, vicinissimo, l’uomo delle montagne bloccava il vento freddo col suo gran corpo. 

E tante emozioni da provare...

“Qualcosa non va?”

Lei chinò lo sguardo. “No. Perdono.”

Riprese a marciare rapidamente, cercando di raggiungere gli altri. 

Non sei stanca, Naysiak. Lo sai, che non c’è mai un ultimo passo. Lo hai imparato nella foresta, quando scappavi dalla tormenta verso la tua tana, e sapevi che se ti fermavi eri morta. Lo hai sperimentato nel Tempio, dove ti lasciavano al buio in un labirinto sotterraneo, e dovevi uscirne o morire nel tentativo. Hai riposato per più di un millennio, non ti è bastato?... Cammina, dunque, e non lamentarti. 

Il suo respiro si fece affannoso, il cuore le batteva forte nelle tempie. Il paesaggio si sciolse davanti ai suoi occhi in un grigiore bluastro indistinto tra cielo e terra, punteggiato dalle luci ondeggianti dei suoi compagni. Le guardò sperando di vederle avvicinarsi... e inciampò in una pietra.

Cadde pesantemente al suolo; i sassi appuntiti la accolsero maligni, graffiandola. Ingoiò il lamento frustrato del proprio corpo, che non ne poteva più... 

Due mani forti l’afferrarono e la rimisero in piedi. 

“Dobbiamo arrivare prima dell’alba, Xarani.” 

Lei si sforzò di mantenere un tono calmo e controllato. “Io stanca. Dire Seriema... io chiede perdono.” Cercò di prender fiato. “Randanai protegge Seriema per Naysiak? Io prego...”

“È mio amico, non c’è bisogno che me lo chiedi.”

Amico di un albino... 

Il vento soffiò contro di loro, e lei rabbrividì violentemente. Lottò per non far sentire il tremito nella propria voce.

“Randanai, ora prego andare. Io non utile...”

Lui sbuffò e la prese in braccio con facilità, come se fosse stata una bambina. Lei trasalì e scalciò debolmente.

“No!” mormorò, piena di vergogna. 

“Non è disonorevole per un guerriero farsi aiutare da un compagno.” Se la sistemò tra le braccia. “Stai ferma!”

E cominciò a camminare verso le luci del drappello di Deyan, tra un tintinnio di armi. 

“Io peso,” mormorò lei, imbarazzata. “Randanai fatica.”

“Fatica?” La sua risata quieta le giunse direttamente dal suo petto. “Sei piccola, Xarani.”

Lei gli mollò un pugno secco sul petto, che risuonò sul cuoio del suo farsetto. 

“Bene,” sorrise lui. “Adesso siamo pari con quello che ti ho dato in faccia.”

“No.”

Nessuno era mai riuscito a farmi perdere i sensi, nemmeno tra gli Xarani...

Le schiave di Deyan erano trasalite quando l’avevano vista rientrare nella shanda con i segni di quel pugno, ma erano state contente di sapere che era stato lui a picchiarla: voleva dire che lei gli piaceva davvero. Presto quella simpatica massa di muscoli l’avrebbe richiesta al padrone, e lei finalmente avrebbe dormito con lui, conoscendo il calore di un maschio.

Naysiak le aveva guardate, attonita: che relazione c’era tra un pugno in faccia e piacere a qualcuno? E in quanto a dormire con Ran, non ne vedeva la necessità: le notti erano fredde, ma lui le aveva regalato una pelliccia con cui scaldarsi; e nei lunghi inverni della Città Santa aveva già dormito con maschi, naturalmente vergini: non erano più caldi delle donne...

Le ragazze avevano riso di lei. 

Non aveva riso affatto il Liberatore, che le aveva chiesto conto delle sue azioni. Naysiak era rimasta stupita: qualcosa in lei riteneva che Ran dovesse essere onorato che una Xarani avesse fatto tanto per far pace con lui. Le sopracciglia del Liberatore si erano inarcate in modo minaccioso: le aveva rammentato che non era che una schiava, sull’ultimo gradino della pur semplificata società di Luna di Fuoco; e quel che si era permessa di fare a un grande capo di predoni, alzando le mani su di lui davanti a tutti, era stato di una gravità inaudita: un crimine punibile con la morte.

Naysiak si era scusata, con sincerità. Non perché avesse paura di morire, ma non era stata sua intenzione far fare una brutta figura al suo signore e metterlo in imbarazzo, né umiliare Ran di fronte a tutti i suoi uomini: aveva voluto solo far pace con lui. Ma ormai il danno era fatto, e Deyan era implacabile quando si trattava del suo amico. Il castigo era stato duro.

L’avevano frustata con una verga metallica, per lasciarle il segno. Lei non aveva gridato, nemmeno quando le avevano gettato un secchio di acqua calda salata sulla schiena, e aveva sentito il cuore scricchiolare nel petto. Ma quando aveva capito che l’avrebbero anche rinchiusa nel pozzo in cantina, si era messa a piangere. Tuttavia non si era ribellata, benché il terrore quasi la soffocasse: aveva trovato uno strano conforto nel pensiero che tutta quella sofferenza era il prezzo che aveva pagato per riavere l’amicizia dell’uomo delle montagne. 

Non ne vale la pena?

E all’improvviso tutto era stato accettabile. Non era crollata. Non aveva implorato di esser tirata fuori da lì. Non aveva gridato né tentato invano di scalare quelle strette, lisce pareti che sembravano schiacciarla. Era rimasta ferma, ad occhi chiusi nel buio, respingendo il ricordo del Feretro, e sostituendolo con quello di ben altro imprigionamento... quello tra le solide braccia di quell’uomo. 

Tienimi stretta, Randanai.

C’era qualcosa di così confortante nel suo abbraccio... era come essere avvolti dalla forza delle montagne che gli avevano dato i natali: un riparo contro qualsiasi tempesta. E i suoi occhi blu erano come il cielo del suo paese: bastava una bava di vento per farli passare dal più fosco dei temporali al sereno più smagliante. Naysiak li aveva rivisti nella sua mente e aveva sorriso, pur tra le lacrime. Aveva bisogno di quella luce, nel buio della sua esistenza. Aveva bisogno di quel calore, nel gelo eterno del suo cuore... 

Pa’ekin. 

Si vergognò: perché pensava a lui? Non doveva. Era un’altra cosa. Un altro tempo. 

Un’altra Naysiak...

Tantissimi cicli dei soli prima, in un giorno d’estate, era stata convocata al tempio e le avevano comunicato che quel generale sarebbe stato suo marito: ne aveva preso atto con rassegnazione. Il matrimonio era un dovere doloroso, ma necessario e inevitabile. Lei e Pa’ekin si conoscevano appena: lui era stato ammesso alla Presenza Divina quando lei era stata la Xarani di guardia, e per questo si erano battuti nei duelli sacri; ma era stato tutto. 

Un perfetto estraneo.

Dopo il loro fidanzamento però si erano incontrati più spesso, e avevano scoperto che ognuno di loro si era fatto un’idea sbagliata dell’altro. Pa’ekin era un grand’uomo autoritario, ma una volta fuori dai suoi panni marziali era un tipo cordiale, un buon compagno. E Naysiak, quando non era la rituale figura sacra, era una donna pratica e allegra, con quel velo di anticonformismo tipico degli sciamani. Si erano sorrisi, scoprendo che potevano piacersi: e Naysiak si era accorta di aver molto meno timore delle nozze di quanto avesse creduto...

Perché?

Si era accorta che c’era qualcosa di strano in lei. Un timido calore interiore, un’emozione sottile che percepiva quando lui le era vicino. Era una specie di gioia, qualcosa che ai suoi occhi rendeva Pa’ekin diverso da tutti gli altri amici e compagni. C’era un’energia in lui che riusciva magicamente a passare in lei, a stimolare la sua vita. Una volta aveva trovato il coraggio di prenderlo per mano, guardandolo negli occhi, e si era accorta che anche lui la sentiva. Lui aveva evitato il suo sguardo, imbarazzato, ma poi le aveva regalato una delle sue piume più belle, senza motivo...

Quanto si erano arrabbiati, i sacerdoti! 

Ma le loro nozze erano state rimandate: l’Imperatore kelith aveva lanciato un violento attacco contro Sayanna, e Pa’ekin era stato costretto a partire di gran fretta verso la costa per organizzare la difesa. A lei era toccato il compito di Prima Guardia, un onore che la inchiodava nella Città Sacra assieme alle Divinità; e proprio mentre dal cielo si avvicinava la misteriosa Arca. 

Molte volte Luna di Fuoco era cresciuta e scemata, prima che Pa’ekin potesse tornare alla capitale. Quando finalmente ci era riuscito, aveva scoperto che Naysiak era stata condannata a essere sepolta viva. Solo per via del suo alto rango era riuscito a ottenere un ultimo incontro con lei, per dirle addio. Nelle prigioni del Tempio li avevano tenuti separati, ma erano riusciti a sfiorarsi le dita in un estremo saluto. E Pa’ekin le aveva sorriso, con le lacrime agli occhi.

Ti aspetterò oltre Ta’itza, mia sposa...

E poi gli Xarani l’avevano portato via. 

Non l’ho mai più rivisto. Non so che ne è stato di lui. Neanche il Padre t’yr ha trovato notizie, al di là del suo nome e di qualche data di battaglia. È svanito dal mondo, e anche dalla storia. 

E lei aveva creduto che mai più avrebbe provato quella sensazione, quel calore magico dentro di sé. Aveva immaginato che la sua vita sarebbe trascorsa con l’animo mutilato, capace solo di percepire quell’assenza, senza neanche saper bene cosa aveva perduto: un sordo dolore che addolciva in lei l’idea della morte...

Ma poi si era accorta di non sentirsi più così sola. Era quell’uomo che le faceva riprovare il desiderio di vivere. Era come se lo conoscesse da sempre, e forse la sua intimità con lo spirito del Liberatore l’aveva aiutata in questo. Non era che un volgare bandito, manesco e amante del vino, ma era anche un compagno sincero e un degno guerriero. E anche se le aveva fatto del male, nei suoi momenti di tristezza era sempre apparso a sollevarle il morale, facendole scordare quel dolore che era l’unico di cui lei avesse paura...

Si accoccolò meglio tra le sue braccia, sentendo il ritmo calmo e sicuro dei suoi passi, il suo ampio respiro, l’odore buono del suo corpo sano.

“Quando Randanai stanco, io cammina,” gli sussurrò.

“Sì,” rispose lui. 











Deyan arrivò silenziosamente davanti alla sua casa, davanti alla quale alcune torce spandevano una luce fioca.

Era solo: a un suo cenno gli altri predoni si erano dispersi per i vicoli, in modo che nessuno notasse il drappello. Alzò gli occhi al cielo, ancora buio; tranne che per la falce del mondo che era sorta a oriente, imitando il sorriso ineffabile della sua dea.

Benedetta sia la tua venuta, madre dell’oscurità. Benedetto il sangue che ho versato in tuo nome. 

Si sentiva segretamente euforico, come se avesse partecipato a una cerimonia nel suo tempio. 

Presto ci tornerò. E incontrerò di nuovo Krsyl...

Avrebbe avuto molte cose di cui parlare con lui. Nafur era stato molto loquace, mentre lo dissezionava mantenendolo in vita: aveva raccontato tutto ciò che sapeva; e non era poco. 

Si guardò intorno, stupito. Naysiak non c’era, da nessuna parte. Si stava abituando alla sua costante presenza, come se fosse imprescindibile: quando la vedeva, la accantonava automaticamente nella mente; ma la sua assenza lo inquietava...

Poi sentì il rumore di passi nella polvere, il tintinnio familiare delle armi di Ran. 

Come mai arriva così tardi?

Lo vide spuntare da un angolo della strada, col mantello di sghimbescio sulle spalle in modo da coprire in parte un fardello che portava tra le braccia. Era lustro di sudore nonostante il freddo, e aveva il respiro pesante; ma aveva la faccia più serena della sua vita. 

Deyan gli andò incontro e vide che il fardello era proprio Naysiak: riconobbe i suoi indumenti. Alzò gli occhi all’amico, preoccupato.

“Che è successo?”

“Parla piano,” sussurrò Ran. “Dorme.”

Dorme?!

Deyan prese l’orlo del mantello di Ran e lo sollevò appena. Vide la faccetta tonda di Naysiak con gli occhi chiusi, in un abbandono quasi da bambina. 

“Per quante leghe l’hai portata?” chiese, esterrefatto.

“Per quelle che erano necessarie.” 

La sua espressione si fece severa. E questa sarebbe una guerriera?

“Mettila giù.”

“No!” Ran fece mezzo passo all’indietro, come per proteggerla. “Lasciala dormire. Era sfinita, e bruciava di febbre; l’hai costretta lo stesso a combattere e a seguirti in quel posto nel nulla... e lei ti ha obbedito, finché ha potuto. Non potevi chiederle di più.”

“Se non ce la faceva a seguirmi, doveva dirmelo, non rimanere indietro.”

“Non voleva rallentarti!” Ran strinse i denti, sforzandosi di tenere la voce bassa. “Sono stato io a decidere di portarla, non me l’ha chiesto lei.” Lo guardò negli occhi, pressante. “Promettimi che non la rimprovererai per questo... che non le farai ancora del male a causa mia. Ti prego, Deyan-shir...”

Lui chinò lo sguardo, e sospirò.

“Te lo prometto.” 

Ran fece un sorriso di autentico sollievo. “Grazie, amico mio.” 

Deyan lo guardò: era così felice, con quella femmina sporca tra le braccia.... più felice di quando gliel’aveva mostrata bella e profumata. Forse era vero, che lui non aveva capito nulla dei sayanni.

Se non è questo il momento...

La sua mano scese lentamente alla cintura; infilò le dita nella tasca dove teneva la chiave del collare di Naysiak, e sentì un senso di peso nel petto. 

“Cosa facciamo?” Ran non aveva notato il gesto, guardava il viso addormentato di lei. “Non vorrei svegliarla...”

Deyan fece un profondo sospiro, stupito dalla tristezza che provava. 

Non devo essere così meschino...

“Portala a casa tua,” suggerì, con voce appena percettibile.

E lasciamo che la vicinanza faccia il suo corso.

Ran annuì, come se fosse stata la cosa più ragionevole. 

“A domani,” mormorò. 

E se ne andò. 

Deyan restò a guardarlo, mentre i suoi servi assonnati aprivano il portone per accoglierlo. Poi tolse la mano dalla cintura.

La chiave era rimasta lì.


  
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