Ticket to Paris
Capitolo 2: “Sul cuscino”
“Che cazzo ha detto?”
La voce di John sembrò quasi un ringhio e
Paul dovette zittirlo con una mano sulla bocca.
“Shh! Hai promesso
che non ti saresti arrabbiato.” gli ricordò, mantenendo la mano in posizione.
John lo guardò, aggrottando la fronte e
rivolgendogli uno sguardo penetrante e assai infastidito. Come osava fargli una
tale richiesta dopo quello che gli aveva riferito?
“John, ti prego. Se cominci a parlare a voce
alta, sveglierai Mike e… papà.”
John guardò verso l’alto e fece scrollare le
spalle, accogliendo docilmente la
preghiera di Paul. Dopotutto erano a casa McCartney, John era solo un ospite.
Avrebbe dovuto comportarsi in modo educato, altrimenti chi la sentiva Mimi?
Avevano passato la sera ad ascoltare i dischi
di Paul, suonare la chitarra e quando il signor McCartney gli aveva intimato di
andare a dormire, avevano spento la luce e continuato a parlare e parlare e
ancora parlare. Era passato solo un anno da quando John aveva deciso di
rischiare e prendere Paul nella sua band, era solo da un anno che si
frequentavano, eppure gli sembrava di conoscerlo da tutta una vita. Avevano gli
stessi gusti, provato gli stessi dolori, ritrovato la gioia di vivere grazie
alla musica…
Poi la conversazione aveva deviato verso la
band, verso il loro futuro, ciò che ne sarebbe stato di quel piccolo gruppo,
che prospettive avessero realmente… E nel bel mezzo di quello scambio di idee e
sogni, Paul gli aveva riferito, ridendo e facendo prima promettere a John di
non arrabbiarsi, una frase del padre: “Perché non vi liberate di John? È uno
che porta guai.” (1) E John era semplicemente andato su tutte le
furie. Era la band di John, nessuno poteva togliergli tutto ciò che stava dando
un senso alla sua vita, tutto ciò che aveva costruito con fatica. Non riusciva
a trattenersi quando si trattava di questo particolare argomento. Si arrabbiava
e si arrabbiava ferocemente perché nessuno, a parte i componenti della band,
poteva ficcare il naso nei loro affari e soprattutto dire ciò che dovevano fare
o non fare. Poteva parlarne John, poteva parlarne Paul, potevano parlarne anche
George e Colin ma nessun altro.
E Paul, subito dopo, lo rassicurò perché, “La
band non va da nessuna parte senza di te!” e “L’ha detto solo perché non ti conosce
ancora bene, John. Non ti conosce come ti conosco io.”
John ridacchiò e si stese sul letto, a pancia
in su.
“Tu non mi conosci, Paul.” gli disse,
scuotendo il capo, un sorriso sconsolato tirava le sue labbra.
Paul lo guardò preso in contropiede solo un
istante, ma si destò immediatamente e si sdraiò accanto a lui.
“Sì, invece.”
Non era uno che si lasciava scoraggiare
facilmente e John lo sapeva bene ormai.
“Ascolta, ti conosco, John, meglio di
chiunque altro. Magari non lo ammetterai mai, ma non puoi neanche negarlo. Per
esempio… so che entrambi impazziamo per Elvis e so che preferiresti andare a
sbattere contro un palo della luce, piuttosto che indossare quegli stupidi
occhiali.”
“Sì, ma non sai che spero di andare a
sbattere contro un palo della luce per sistemare questo naso del cazzo che mi
ritrovo.” esclamò John ed emise un’altra
piccola risata.
Paul rise con lui e si voltò appena per
guardare il profilo del suo viso: “Stronzate. Lo fai perché speri sempre di
incontrare la tua Brigitte Bardot dietro l’angolo. Cosa che, tra l’altro,
lasciatelo dire, non accadrà mai, quindi mettiti l’anima in pace.”
“La speranza è l’ultima a morire, Paul, non
lo sai?” affermò con enfasi, “Allora, dimmi, cos’altro pensi di sapere di me?”
“So che il tuo colore preferito è il verde,
so che la mattina non rinunceresti mai a fare colazione con i cereali (2)
e che in camera tua nascondi dei disegni di dubbio gusto.”
Paul trattenne una risata, portandosi una
mano sulla bocca, e John lo guardò indispettito.
“Si chiama arte, Paul, tu, per caso, capisci
qualcosa di arte?” lo prese in giro, sempre più divertito dal fatto che Paul
credesse davvero di conoscerlo solo grazie a queste cose.
Ma Paul ignorò il suo prendersi gioco di lui,
perché sapeva che era un’altra delle sue caratteristiche, scherzare su qualcosa
che invece corrispondeva alla realtà, e continuò a parlare con un tono di voce
più quieto, quasi riservato, ma anche sicuro di sé.
“So anche che la morte di tua madre ti ha
sconvolto più di quanto tu stesso voglia ammettere…”
L’espressione di John cambiò drasticamente.
Prima sorpreso, poi incredulo per il fatto che Paul si fosse addentrato,
temerario, in un campo così ostile e pericoloso, lo sguardo di John, i
lineamenti del suo viso divennero in un istante freddi e distaccati, ma per
qualche strano motivo lui cercò comunque il suo sguardo.
“Ragazzino.”
E Paul, incurante dell’aria minacciosa sul
volto dell’amico, proseguì: “…e so che ti stai trattenendo dal mostrare quanto
realmente tu stia soffrendo, perché credi che significherebbe mostrare a tutti
la tua debolezza.”
John aggrottò la fronte e lo riprese, con un
tono sempre più d’avvertimento, sperando che lui si fermasse, si fermasse
subito, ORA, prima di farlo incazzare sul serio, prima di costringere John a
chiudergli quella fottuta bocca con uno dei suoi pugni.
“Paul-”
“Ma non è così, John, non devi avere paura,
perché, sai, ci vuole grande forza anche
per lasciarsi andare, per dire che la vita fa fottutamente schifo, per
piangere, per-”
John si voltò sul proprio fianco e gli
afferrò la maglietta con le mani. Stronzo d’un Paul, perché non stava zitto?
Perché stava portando allo scoperto qualcosa che John aveva faticosamente
sotterrato, giù, in profondità, così profondamente che nessuno avrebbe più
potuto trovare quella… cosa, e portarla fuori, lì, dove tutti, in particolare
John, avrebbero potuto vederla.
“John Lennon non piange, chiaro?” sibilò, un
ghigno malevolo gli torceva le labbra, “Ficcatelo in quella zucca vuota che ti
ritrovi e poi vai a farti fottere.”
Ma, nonostante quell’aria intimidatoria,
quelle parole aggressive, quei gesti ostili, non un singolo brivido di paura
attraversò il viso di Paul, che continuò a guardare John e parlare con lui
serenamente, come se stessero ancora discutendo dei progetti della loro band,
come se volesse fargli notare, dolcemente, che in realtà non aveva nascosto
quel dolore così bene, che al contrario era lì, in superficie e solo Paul
riusciva a vederlo.
Solo lui.
“Oh sì, invece, non desideri altro dalla
morte di Julia, vuoi solo piangere, piangere fino a quando la testa fa male,
fino a quando non ti rimangono più lacrime da versare per lei, perché lei non
c’è più-”
“Chiudi quella cazzo di bocca!” gli intimò,
stringendo intensamente la maglietta nei suoi pugni.
Sentì gli occhi inumidirsi e provò a fermare
le lacrime imminenti, ma non ci riuscì, e la realtà era che non voleva fermarsi
e Paul sembrava saperlo meglio di lui, perché vi era già passato. O forse
perché lo conosceva davvero?
“…e tu non puoi fare nulla per riportarla
indietro e ti disperi, impotente, pensando che non l’hai mai abbracciata
abbastanza e che non sentirai più il suo profumo, quel profumo che da bambino
era tutto ciò che serviva per calmarti. Non lo sentirai più, John, non la
vedrai né toccherai più.”
“Ti ho detto di smetterla, stronzo!” sbottò
John e lo spinse contro il muro, con meno forza di quella che aveva desiderato,
con la vista annebbiata dalle lacrime mai versate, con il cuore che le stava
spingendo fuori, nonostante tutto in John gli stesse urlando di non farlo, non
lasciarsi andare di fronte a quel ragazzino.
Ma Paul ormai le aveva viste, le lacrime che
avevano cominciato a scorrere sul viso di John e che andavano a morire sul
cuscino.
“Sai che è così, John, e sai che non vuoi
fermarmi perché ne hai bisogno, ne hai fottutamente bisogno.”
“Vaffanculo, Paul!” gli urlò, ma la voce gli
uscì spezzata, a causa dei singhiozzi che stavano lentamente prendendo il
sopravvento su di lui.
Infinito era l’odio che John provava per se
stesso perché era debole, perché aveva combattuto tutta la sua vita per non
essere così, per non piangere ogni volta che la vita gli riservava l’ennesimo,
straziante torto; poi era arrivato Paul e con poche parole, con il suo tono
pacato o forse con quella profonda comprensione che intravedeva nei suoi occhi,
era riuscito a farlo crollare. John lo detestava, detestava tutto quello che
riusciva a scatenare in lui in un modo così dannatamente facile.
“Ti prometto che andrà tutto bene, John, che
se vuoi piangere, puoi farlo, perché anche a me viene voglia di piangere quando
penso a lei. È solo… normale. E ti prometto anche che sarà il nostro segreto e
che nessuno saprà che il grande John Lennon, colui che diventerà più famoso di
Elvis, ha pianto sul letto del suo amico Paul McCartney, colui che diventerà
anche più famoso del suddetto John Lennon.”
John, impotente, si lasciò scappare una
risata, rifilandogli un debole pugno sul petto: “Sì, ti piacerebbe, eh?”
C’era un’altra cosa che detestava di Paul, e
cioè come lui altrettanto facilmente potesse trasmettergli serenità e fiducia,
in se stesso e nel futuro, come potesse infondere in lui tutti quei sentimenti
positivi che John pensava di non poter provare e che, al contrario, sembravano
sempre presenti in Paul.
“Sarà un segreto solo nostro, John. Fra me e
te.” gli sussurrò, portandosi un dito alle labbra, “E il cuscino.”
Un’altra risata e poi si arrese e John pianse
e pianse e Paul rimase al suo fianco, mormorando di tanto in tanto parole di
conforto e piangendo con lui, per rassicurarlo che non era solo nel suo dolore,
che non doveva necessariamente essere solo e che quando lo desiderava, poteva
aggrapparsi a lui e condividere quella perdita a cui nessuno poteva porre
rimedio.
E da quel momento John e Paul piangevano
insieme per la morte e qualche volta ne ridevano anche insieme. Perché loro
potevano farlo, ma questa volta solo loro e nessun altro, nessuno, neanche
George o Colin. Solo loro due, su quel cuscino, che volente o nolente,
accoglieva e cancellava le loro lacrime e le loro risate.
****
Paul accarezzò il cuscino su cui ogni sera riposava il
capo e sospirò, ripensando ai numerosi e importanti eventi di quella giornata.
Aveva da poco terminato di parlare con suo padre per la
questione del viaggio.
Da quando, quella mattina, John lo aveva invitato a fare
quel viaggio con lui, tutti i sentimenti in Paul si erano accesi e scatenati
contemporaneamente, rendendolo fin troppo irrequieto: c’era l’eccitazione per
una nuova, misteriosa avventura; poi il dolce tepore infuso da quelle poche
parole che Paul aveva aspettato e desiderato sentirsi rivolgere e che finalmente
John aveva liberato; e c’era anche il timore di dover comunicare a suo padre
che stava per partire, chissà per quanti giorni e per dove esattamente, con
quel ragazzo che proprio non gli piaceva.
Ma doveva farlo! Non poteva semplicemente prendere e
andarsene di casa. Di sicuro al ritorno, la porta di casa sua sarebbe stata
chiusa, forse per sempre.
Così, per tutto il pomeriggio aveva riflettuto e cercato
di trovare le parole e il modo migliore per comunicare la notizia al padre. Non
era mai stato tanto difficile, neanche quando aveva dovuto riferirgli
dell’ingaggio di Amburgo. In fondo in quel caso si trattava di un lavoro,
parola che piaceva assai al padre, e Paul magari avrebbe anche guadagnato qualche
soldino. Ma questo? Era solo un viaggio, uno svago, non ne avrebbe ricavato
proprio nulla, solo una colossale perdita di tempo. Gli sembrava quasi di
sentirle già, quelle parole rivolte a lui, col tono sempre calmo di suo padre. “Perché
sprecare il tuo tempo in questo modo, quando potresti trovarti un lavoro? Un
lavoro vero.” Quel tono pacato che lo feriva molto più di una bella
sfuriata, come facevano tutti gli altri padri del mondo. Ma Paul ormai vi era
abituato, avevano già percorso molte volte questa strada e lui sapeva di non
dover mai lasciarsi abbattere da ciò che suo padre pensava di lui, di ciò che
faceva, di come si vestiva, degli amici che frequentava, perché dopotutto
rientrava nel naturale conflitto generazionale tra genitori e figli. Era un
concetto che gli ripeteva sempre John, forse in un modo un po’ troppo sgarbato
a volte, ma Paul l’aveva capito e si fidava sempre di quello che John aveva da
dire e offrire.
La sera, dopo aver cenato, dopo che Mike aveva dato la
buonanotte ed era sparito su per le scale, Paul si era infine deciso a parlare,
trovando il coraggio di affrontare suo padre da qualche parte dentro di lui.
Dove esattamente non lo sapeva, ma sapeva che c’era e che l’aveva piantato John
nel corso degli anni, fin dalla prima volta che lui aveva trovato la forza per
lasciarsi andare di fronte a Paul, su quello stesso letto, sullo stesso
cuscino. Ripensando a quel momento, Paul aveva informato il padre della sua
intenzione di partire con John, con lo stesso tono, lo stesso atteggiamento che
aveva usato con l’amico, deciso, non timoroso, ma anche tranquillo. Non doveva
sembrare troppo arrogante e presuntuoso, ma neanche troppo sottomesso. Aveva
diciannove anni ormai. Non gli stava chiedendo il permesso di partire, lo stava
semplicemente informando per correttezza, tutto qua.
Suo padre non l’aveva presa bene, in un primo momento, ma
non proprio per il motivo che si aspettava Paul. Non capiva perché John volesse
spendere tutti quei soldi anche per lui. Se Paul l’avesse saputo con esattezza,
avrebbe anche potuto rispondergli. Ma no, non lo sapeva e forse non voleva
saperlo: John gli stava facendo questo regalo e Paul era sicuro che neanche lo
stesso John fosse a conoscenza del motivo che l’aveva spinto a fare quella
proposta, ma Paul l’avrebbe accettata, senza chiedere perché o percome.
A suo padre aveva rivolto semplicemente una scrollata di
spalle e un orgoglioso, “Sono il suo migliore amico”, era una risposta niente
male, anche se Jim gli aveva rivolto uno sguardo alquanto scettico. Paul non
aveva capito se lo scetticismo del padre fosse dovuto alla risposta o
all’evidente orgoglio che aveva accompagnato quelle parole. Tutto ciò che aveva
capito era che il suo vecchio gli avesse rivolto un cenno del capo, un cenno
che voleva dire inequivocabilmente ok e Paul aveva sentito una piccola
parte di sé saltare per la sorpresa e per la gioia, mentre l’altra si preparava
ad accogliere qualunque richiesta avesse dettato il padre, perché ci doveva comunque
essere sotto qualcosa in cambio di quel via libera ottenuto così semplicemente.
Per questo motivo Paul aveva accettato di fare i mestieri in casa per un intero
mese, di cucinare per lui e Mike e soprattutto, considerato che il viaggio era
pagato da John, di non ricevere neanche uno scellino da parte sua per questo
viaggio. Nessun problema, avrebbe usato un po’ dei suoi risparmi. Tutto
sommato, poteva andare peggio. Doveva ritenersi fortunato. Molto
fortunato.
E ora se ne stava lì, sul suo letto, a guardare il
soffitto, le mani ben infilate sotto il cuscino. Era così felice che se avesse
lasciato la presa sul cuscino, avrebbe potuto sollevarsi a mezz’aria. Stava per
partire con John e suo padre lo stava lasciando andare, senza nessun rancore.
Stava per partire con John per la Spagna, in un lungo viaggio in cui avrebbero
attraversato la Francia e magari avrebbero anche potuto vedere Parigi con il
suo Moulin Rouge, i suoi Champs-
Élysées e quell’ammasso di ferraglia, famoso in tutto
il mondo come Tour Eiffel. Era solo ferraglia, ma l’avrebbe vista con John e
John era in grado di far apparire come un capolavoro assoluto anche un
mozzicone di sigaretta.
Paul pregustava già il divertimento che lo aspettando:
sarebbero stati solo loro due, Paul e John, perché John aveva scelto lui per
primo, aveva pensato al suo migliore amico. Il sorriso che nacque
spontaneamente ripensando a quelle parole si spense quasi subito, quando una
piccola vocina dispettosa cominciò a sussurrargli, diabolica, che John aveva
scelto lui perché ormai Stuart non c’era più, perché il fottuto Stuart era
rimasto ad Amburgo e John non poteva più contare sulla sua amicizia
ventiquattrore su ventiquattro, sette giorni alla settimana… Ma no, non era
così. John aveva scelto Paul solo perché era Paul, non un ripiego, non
il rimpiazzo di Stuart. Doveva essere così.
La vocina diabolica continuava la sua cantilena e Paul
strinse il cuscino sulle orecchie. La odiava, quella parte di sé che doveva
sempre razionalizzare tutto e di conseguenza rovinare tutto. Perché non poteva
essere solo come John? Istintivo allo stesso modo, menefreghista quando
occorreva…
Poi si ricordò, si ricordò delle lacrime di John sul
cuscino, di quel suo lato debole che mostrava solo a lui nelle notti disperate,
si ricordò di tutto ciò che c’era dietro quel John e fu felice di essere Paul.
Ricordò le parole strazianti di John, sul non essere desiderato dai propri
genitori, sul fatto che non ci potesse essere dolore più grande. Lui, al
contrario, Paul era stato amato dai suoi genitori, suo padre aveva sempre
bisogno di lui e lo stesso valeva per Paul. Ricordò il modo tragico e
improvviso in cui la morte aveva strappato Julia alla vita e a John, e ripensò
a sua madre, all’essersi abituato lentamente alla sua morte e fu grato di averle
potuto dire addio. Una pietà concessa a lui e non a John, un destino crudele
che si faceva beffe di chi non meritava tali atroci sofferenze.
Era grato di essere Paul e lo sarebbe sempre stato,
perché solo Paul avrebbe potuto avvicinarsi a John in quel modo. Se non fosse
stato Paul, forse sarebbe stato solo “quello che suonava con John”, un misero
conoscente o, al massimo, un amico come tanti, ma non il migliore.
Lui era il migliore, non c’era alcun dubbio.
Il migliore amico di John.
Sorrise, rilassato e soddisfatto per aver messo a tacere
quell'odiosa vocina, e guardò l’orologio. Era appena passata mezzanotte. Non
appena fosse sorto il sole, si sarebbe alzato e sarebbe corso da John per
comunicargli la bella notizia e John sarebbe stato fiero di lui per come aveva
affrontato il padre, per essere stato convincente e perché ora John non aveva
bisogno di rapirlo.
Con l’euforia che scorreva nelle sue vene, Paul si voltò
per stendersi sul fianco, nascondendo il viso nel cuscino e inspirando a fondo
l’odore sulla federa. Poteva quasi sentire ogni singolo lamento, ogni singola
risata sua e di John, poteva percepirne l’umidità, poteva udirne il suono,
poteva sentire tutto ciò che quel cuscino aveva assorbito di John e Paul. La
migliore ninna-nanna.
Sospirando, chiuse gli occhi, pronto per abbandonarsi ai
suoi dolci sogni e sperò che la notte passasse presto, solo per poter parlare
con John e dirgli…
“Vengo via con te.”
(1)- Citazione
presa dall’Anthology
(2)- Colore e
cibo preferito di John sono stati trovati su una di quelle carte collezionabili
dei Beatles degli anni ’60.
Note dell’autrice: sì, beh, non volevo aggiornare oggi, ma volevo
festeggiare il meraviglioso banner che la mitica Lights
ha fatto per me. Se avete bisogno di banner per la vostra storia, potete
contattarla qui: https://www.facebook.com/pages/Banner-Lights/324802020873918?fref=ts
Allora, siamo al secondo
capitolo. Tutto il ricordo iniziale è basato sull’Anthology, praticamente. Quando
John e Paul ascoltavano la musica insieme e poi come ha detto John, piangevano
della morte e ne ridevano ma potevano farlo solo loro e nessun altro.
Ringrazio kiki che ha corretto il capitolo e chi ha recensito o anche
solo letto. ^_^
Abbiamo accennato in questo
capitolo alla gelosia per Stuart, ebbene, la riprenderò nel capitolo 3, “Gelosia,
folle gelosia”.
Buona domenica e alla
prossima
Kia85