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Autore: Kia85    15/09/2013    7 recensioni
Liverpool 1961. Quando John Lennon riceve in regalo cento sterline, non pensa molto prima di chiedere al suo amico Paul McCartney di unirsi a lui in un viaggio all’insegna dell’avventura, un viaggio che cambierà la loro vita, la loro amicizia e li preparerà a essere Beatles.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Lennon , Paul McCartney
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ticket to Paris

 

Capitolo 2: “Sul cuscino”

 

“Che cazzo ha detto?”

La voce di John sembrò quasi un ringhio e Paul dovette zittirlo con una mano sulla bocca.

Shh! Hai promesso che non ti saresti arrabbiato.” gli ricordò, mantenendo la mano in posizione.

John lo guardò, aggrottando la fronte e rivolgendogli uno sguardo penetrante e assai infastidito. Come osava fargli una tale richiesta dopo quello che gli aveva riferito?

“John, ti prego. Se cominci a parlare a voce alta, sveglierai Mike e… papà.”

John guardò verso l’alto e fece scrollare le spalle, accogliendo docilmente  la preghiera di Paul. Dopotutto erano a casa McCartney, John era solo un ospite. Avrebbe dovuto comportarsi in modo educato, altrimenti chi la sentiva Mimi?

Avevano passato la sera ad ascoltare i dischi di Paul, suonare la chitarra e quando il signor McCartney gli aveva intimato di andare a dormire, avevano spento la luce e continuato a parlare e parlare e ancora parlare. Era passato solo un anno da quando John aveva deciso di rischiare e prendere Paul nella sua band, era solo da un anno che si frequentavano, eppure gli sembrava di conoscerlo da tutta una vita. Avevano gli stessi gusti, provato gli stessi dolori, ritrovato la gioia di vivere grazie alla musica…

Poi la conversazione aveva deviato verso la band, verso il loro futuro, ciò che ne sarebbe stato di quel piccolo gruppo, che prospettive avessero realmente… E nel bel mezzo di quello scambio di idee e sogni, Paul gli aveva riferito, ridendo e facendo prima promettere a John di non arrabbiarsi, una frase del padre: “Perché non vi liberate di John? È uno che porta guai.” (1) E John era semplicemente andato su tutte le furie. Era la band di John, nessuno poteva togliergli tutto ciò che stava dando un senso alla sua vita, tutto ciò che aveva costruito con fatica. Non riusciva a trattenersi quando si trattava di questo particolare argomento. Si arrabbiava e si arrabbiava ferocemente perché nessuno, a parte i componenti della band, poteva ficcare il naso nei loro affari e soprattutto dire ciò che dovevano fare o non fare. Poteva parlarne John, poteva parlarne Paul, potevano parlarne anche George e Colin ma nessun altro.

E Paul, subito dopo, lo rassicurò perché, “La band non va da nessuna parte senza di te!” e “L’ha detto solo perché non ti conosce ancora bene, John. Non ti conosce come ti conosco io.”

John ridacchiò e si stese sul letto, a pancia in su.

“Tu non mi conosci, Paul.” gli disse, scuotendo il capo, un sorriso sconsolato tirava le sue labbra.

Paul lo guardò preso in contropiede solo un istante, ma si destò immediatamente e si sdraiò accanto a lui.

“Sì, invece.”

Non era uno che si lasciava scoraggiare facilmente e John lo sapeva bene ormai.

“Ascolta, ti conosco, John, meglio di chiunque altro. Magari non lo ammetterai mai, ma non puoi neanche negarlo. Per esempio… so che entrambi impazziamo per Elvis e so che preferiresti andare a sbattere contro un palo della luce, piuttosto che indossare quegli stupidi occhiali.”

“Sì, ma non sai che spero di andare a sbattere contro un palo della luce per sistemare questo naso del cazzo che mi ritrovo.” esclamò John ed emise  un’altra piccola risata.

Paul rise con lui e si voltò appena per guardare il profilo del suo viso: “Stronzate. Lo fai perché speri sempre di incontrare la tua Brigitte Bardot dietro l’angolo. Cosa che, tra l’altro, lasciatelo dire, non accadrà mai, quindi mettiti l’anima in pace.”

“La speranza è l’ultima a morire, Paul, non lo sai?” affermò con enfasi, “Allora, dimmi, cos’altro pensi di sapere di me?”

“So che il tuo colore preferito è il verde, so che la mattina non rinunceresti mai a fare colazione con i cereali (2) e che in camera tua nascondi dei disegni di dubbio gusto.”

Paul trattenne una risata, portandosi una mano sulla bocca, e John lo guardò indispettito.

“Si chiama arte, Paul, tu, per caso, capisci qualcosa di arte?” lo prese in giro, sempre più divertito dal fatto che Paul credesse davvero di conoscerlo solo grazie a queste cose.

Ma Paul ignorò il suo prendersi gioco di lui, perché sapeva che era un’altra delle sue caratteristiche, scherzare su qualcosa che invece corrispondeva alla realtà, e continuò a parlare con un tono di voce più quieto, quasi riservato, ma anche sicuro di sé.

“So anche che la morte di tua madre ti ha sconvolto più di quanto tu stesso voglia ammettere…”

L’espressione di John cambiò drasticamente. Prima sorpreso, poi incredulo per il fatto che Paul si fosse addentrato, temerario, in un campo così ostile e pericoloso, lo sguardo di John, i lineamenti del suo viso divennero in un istante freddi e distaccati, ma per qualche strano motivo lui cercò comunque il suo sguardo. 

“Ragazzino.”

E Paul, incurante dell’aria minacciosa sul volto dell’amico, proseguì: “…e so che ti stai trattenendo dal mostrare quanto realmente tu stia soffrendo, perché credi che significherebbe mostrare a tutti la tua debolezza.”

John aggrottò la fronte e lo riprese, con un tono sempre più d’avvertimento, sperando che lui si fermasse, si fermasse subito, ORA, prima di farlo incazzare sul serio, prima di costringere John a chiudergli quella fottuta bocca con uno dei suoi pugni.

“Paul-”  

“Ma non è così, John, non devi avere paura, perché, sai,  ci vuole grande forza anche per lasciarsi andare, per dire che la vita fa fottutamente schifo, per piangere, per-”

John si voltò sul proprio fianco e gli afferrò la maglietta con le mani. Stronzo d’un Paul, perché non stava zitto? Perché stava portando allo scoperto qualcosa che John aveva faticosamente sotterrato, giù, in profondità, così profondamente che nessuno avrebbe più potuto trovare quella… cosa, e portarla fuori, lì, dove tutti, in particolare John, avrebbero potuto vederla. 

“John Lennon non piange, chiaro?” sibilò, un ghigno malevolo gli torceva le labbra, “Ficcatelo in quella zucca vuota che ti ritrovi e poi vai a farti fottere.”

Ma, nonostante quell’aria intimidatoria, quelle parole aggressive, quei gesti ostili, non un singolo brivido di paura attraversò il viso di Paul, che continuò a guardare John e parlare con lui serenamente, come se stessero ancora discutendo dei progetti della loro band, come se volesse fargli notare, dolcemente, che in realtà non aveva nascosto quel dolore così bene, che al contrario era lì, in superficie e solo Paul riusciva a vederlo.

Solo lui.

“Oh sì, invece, non desideri altro dalla morte di Julia, vuoi solo piangere, piangere fino a quando la testa fa male, fino a quando non ti rimangono più lacrime da versare per lei, perché lei non c’è più-”

“Chiudi quella cazzo di bocca!” gli intimò, stringendo intensamente la maglietta nei suoi pugni.

Sentì gli occhi inumidirsi e provò a fermare le lacrime imminenti, ma non ci riuscì, e la realtà era che non voleva fermarsi e Paul sembrava saperlo meglio di lui, perché vi era già passato. O forse perché lo conosceva davvero?

“…e tu non puoi fare nulla per riportarla indietro e ti disperi, impotente, pensando che non l’hai mai abbracciata abbastanza e che non sentirai più il suo profumo, quel profumo che da bambino era tutto ciò che serviva per calmarti. Non lo sentirai più, John, non la vedrai né toccherai più.”

“Ti ho detto di smetterla, stronzo!” sbottò John e lo spinse contro il muro, con meno forza di quella che aveva desiderato, con la vista annebbiata dalle lacrime mai versate, con il cuore che le stava spingendo fuori, nonostante tutto in John gli stesse urlando di non farlo, non lasciarsi andare di fronte a quel ragazzino.

Ma Paul ormai le aveva viste, le lacrime che avevano cominciato a scorrere sul viso di John e che andavano a morire sul cuscino.

“Sai che è così, John, e sai che non vuoi fermarmi perché ne hai bisogno, ne hai fottutamente bisogno.”

“Vaffanculo, Paul!” gli urlò, ma la voce gli uscì spezzata, a causa dei singhiozzi che stavano lentamente prendendo il sopravvento su di lui.

Infinito era l’odio che John provava per se stesso perché era debole, perché aveva combattuto tutta la sua vita per non essere così, per non piangere ogni volta che la vita gli riservava l’ennesimo, straziante torto; poi era arrivato Paul e con poche parole, con il suo tono pacato o forse con quella profonda comprensione che intravedeva nei suoi occhi, era riuscito a farlo crollare. John lo detestava, detestava tutto quello che riusciva a scatenare in lui in un modo così dannatamente facile.

“Ti prometto che andrà tutto bene, John, che se vuoi piangere, puoi farlo, perché anche a me viene voglia di piangere quando penso a lei. È solo… normale. E ti prometto anche che sarà il nostro segreto e che nessuno saprà che il grande John Lennon, colui che diventerà più famoso di Elvis, ha pianto sul letto del suo amico Paul McCartney, colui che diventerà anche più famoso del suddetto John Lennon.”

John, impotente, si lasciò scappare una risata, rifilandogli un debole pugno sul petto: “Sì, ti piacerebbe, eh?”

C’era un’altra cosa che detestava di Paul, e cioè come lui altrettanto facilmente potesse trasmettergli serenità e fiducia, in se stesso e nel futuro, come potesse infondere in lui tutti quei sentimenti positivi che John pensava di non poter provare e che, al contrario, sembravano sempre presenti in Paul.

“Sarà un segreto solo nostro, John. Fra me e te.” gli sussurrò, portandosi un dito alle labbra, “E il cuscino.”

Un’altra risata e poi si arrese e John pianse e pianse e Paul rimase al suo fianco, mormorando di tanto in tanto parole di conforto e piangendo con lui, per rassicurarlo che non era solo nel suo dolore, che non doveva necessariamente essere solo e che quando lo desiderava, poteva aggrapparsi a lui e condividere quella perdita a cui nessuno poteva porre rimedio.

E da quel momento John e Paul piangevano insieme per la morte e qualche volta ne ridevano anche insieme. Perché loro potevano farlo, ma questa volta solo loro e nessun altro, nessuno, neanche George o Colin. Solo loro due, su quel cuscino, che volente o nolente, accoglieva e cancellava le loro lacrime e le loro risate.

****

Paul accarezzò il cuscino su cui ogni sera riposava il capo e sospirò, ripensando ai numerosi e importanti eventi di quella giornata.

Aveva da poco terminato di parlare con suo padre per la questione del viaggio. 

Da quando, quella mattina, John lo aveva invitato a fare quel viaggio con lui, tutti i sentimenti in Paul si erano accesi e scatenati contemporaneamente, rendendolo fin troppo irrequieto: c’era l’eccitazione per una nuova, misteriosa avventura; poi il dolce tepore infuso da quelle poche parole che Paul aveva aspettato e desiderato sentirsi rivolgere e che finalmente John aveva liberato; e c’era anche il timore di dover comunicare a suo padre che stava per partire, chissà per quanti giorni e per dove esattamente, con quel ragazzo che proprio non gli piaceva.

Ma doveva farlo! Non poteva semplicemente prendere e andarsene di casa. Di sicuro al ritorno, la porta di casa sua sarebbe stata chiusa, forse per sempre.

Così, per tutto il pomeriggio aveva riflettuto e cercato di trovare le parole e il modo migliore per comunicare la notizia al padre. Non era mai stato tanto difficile, neanche quando aveva dovuto riferirgli dell’ingaggio di Amburgo. In fondo in quel caso si trattava di un lavoro, parola che piaceva assai al padre, e Paul magari avrebbe anche guadagnato qualche soldino. Ma questo? Era solo un viaggio, uno svago, non ne avrebbe ricavato proprio nulla, solo una colossale perdita di tempo. Gli sembrava quasi di sentirle già, quelle parole rivolte a lui, col tono sempre calmo di suo padre. “Perché sprecare il tuo tempo in questo modo, quando potresti trovarti un lavoro? Un lavoro vero.” Quel tono pacato che lo feriva molto più di una bella sfuriata, come facevano tutti gli altri padri del mondo. Ma Paul ormai vi era abituato, avevano già percorso molte volte questa strada e lui sapeva di non dover mai lasciarsi abbattere da ciò che suo padre pensava di lui, di ciò che faceva, di come si vestiva, degli amici che frequentava, perché dopotutto rientrava nel naturale conflitto generazionale tra genitori e figli. Era un concetto che gli ripeteva sempre John, forse in un modo un po’ troppo sgarbato a volte, ma Paul l’aveva capito e si fidava sempre di quello che John aveva da dire e offrire.

La sera, dopo aver cenato, dopo che Mike aveva dato la buonanotte ed era sparito su per le scale, Paul si era infine deciso a parlare, trovando il coraggio di affrontare suo padre da qualche parte dentro di lui. Dove esattamente non lo sapeva, ma sapeva che c’era e che l’aveva piantato John nel corso degli anni, fin dalla prima volta che lui aveva trovato la forza per lasciarsi andare di fronte a Paul, su quello stesso letto, sullo stesso cuscino. Ripensando a quel momento, Paul aveva informato il padre della sua intenzione di partire con John, con lo stesso tono, lo stesso atteggiamento che aveva usato con l’amico, deciso, non timoroso, ma anche tranquillo. Non doveva sembrare troppo arrogante e presuntuoso, ma neanche troppo sottomesso. Aveva diciannove anni ormai. Non gli stava chiedendo il permesso di partire, lo stava semplicemente informando per correttezza, tutto qua.

Suo padre non l’aveva presa bene, in un primo momento, ma non proprio per il motivo che si aspettava Paul. Non capiva perché John volesse spendere tutti quei soldi anche per lui. Se Paul l’avesse saputo con esattezza, avrebbe anche potuto rispondergli. Ma no, non lo sapeva e forse non voleva saperlo: John gli stava facendo questo regalo e Paul era sicuro che neanche lo stesso John fosse a conoscenza del motivo che l’aveva spinto a fare quella proposta, ma Paul l’avrebbe accettata, senza chiedere perché o percome.

A suo padre aveva rivolto semplicemente una scrollata di spalle e un orgoglioso, “Sono il suo migliore amico”, era una risposta niente male, anche se Jim gli aveva rivolto uno sguardo alquanto scettico. Paul non aveva capito se lo scetticismo del padre fosse dovuto alla risposta o all’evidente orgoglio che aveva accompagnato quelle parole. Tutto ciò che aveva capito era che il suo vecchio gli avesse rivolto un cenno del capo, un cenno che voleva dire inequivocabilmente ok e Paul aveva sentito una piccola parte di sé saltare per la sorpresa e per la gioia, mentre l’altra si preparava ad accogliere qualunque richiesta avesse dettato il padre, perché ci doveva comunque essere sotto qualcosa in cambio di quel via libera ottenuto così semplicemente. Per questo motivo Paul aveva accettato di fare i mestieri in casa per un intero mese, di cucinare per lui e Mike e soprattutto, considerato che il viaggio era pagato da John, di non ricevere neanche uno scellino da parte sua per questo viaggio. Nessun problema, avrebbe usato un po’ dei suoi risparmi. Tutto sommato, poteva andare peggio. Doveva ritenersi fortunato. Molto fortunato.

E ora se ne stava lì, sul suo letto, a guardare il soffitto, le mani ben infilate sotto il cuscino. Era così felice che se avesse lasciato la presa sul cuscino, avrebbe potuto sollevarsi a mezz’aria. Stava per partire con John e suo padre lo stava lasciando andare, senza nessun rancore. Stava per partire con John per la Spagna, in un lungo viaggio in cui avrebbero attraversato la Francia e magari avrebbero anche potuto vedere Parigi con il suo Moulin Rouge, i suoi Champs- Élysées e quell’ammasso di ferraglia, famoso in tutto il mondo come Tour Eiffel. Era solo ferraglia, ma l’avrebbe vista con John e John era in grado di far apparire come un capolavoro assoluto anche un mozzicone di sigaretta.

Paul pregustava già il divertimento che lo aspettando: sarebbero stati solo loro due, Paul e John, perché John aveva scelto lui per primo, aveva pensato al suo migliore amico. Il sorriso che nacque spontaneamente ripensando a quelle parole si spense quasi subito, quando una piccola vocina dispettosa cominciò a sussurrargli, diabolica, che John aveva scelto lui perché ormai Stuart non c’era più, perché il fottuto Stuart era rimasto ad Amburgo e John non poteva più contare sulla sua amicizia ventiquattrore su ventiquattro, sette giorni alla settimana… Ma no, non era così. John aveva scelto Paul solo perché era Paul, non un ripiego, non il rimpiazzo di Stuart. Doveva essere così. 

La vocina diabolica continuava la sua cantilena e Paul strinse il cuscino sulle orecchie. La odiava, quella parte di sé che doveva sempre razionalizzare tutto e di conseguenza rovinare tutto. Perché non poteva essere solo come John? Istintivo allo stesso modo, menefreghista quando occorreva…

Poi si ricordò, si ricordò delle lacrime di John sul cuscino, di quel suo lato debole che mostrava solo a lui nelle notti disperate, si ricordò di tutto ciò che c’era dietro quel John e fu felice di essere Paul. Ricordò le parole strazianti di John, sul non essere desiderato dai propri genitori, sul fatto che non ci potesse essere dolore più grande. Lui, al contrario, Paul era stato amato dai suoi genitori, suo padre aveva sempre bisogno di lui e lo stesso valeva per Paul. Ricordò il modo tragico e improvviso in cui la morte aveva strappato Julia alla vita e a John, e ripensò a sua madre, all’essersi abituato lentamente alla sua morte e fu grato di averle potuto dire addio. Una pietà concessa a lui e non a John, un destino crudele che si faceva beffe di chi non meritava tali atroci sofferenze.

Era grato di essere Paul e lo sarebbe sempre stato, perché solo Paul avrebbe potuto avvicinarsi a John in quel modo. Se non fosse stato Paul, forse sarebbe stato solo “quello che suonava con John”, un misero conoscente o, al massimo, un amico come tanti, ma non il migliore.

Lui era il migliore, non c’era alcun dubbio.

Il migliore amico di John.

Sorrise, rilassato e soddisfatto per aver messo a tacere quell'odiosa vocina, e guardò l’orologio. Era appena passata mezzanotte. Non appena fosse sorto il sole, si sarebbe alzato e sarebbe corso da John per comunicargli la bella notizia e John sarebbe stato fiero di lui per come aveva affrontato il padre, per essere stato convincente e perché ora John non aveva bisogno di rapirlo.

Con l’euforia che scorreva nelle sue vene, Paul si voltò per stendersi sul fianco, nascondendo il viso nel cuscino e inspirando a fondo l’odore sulla federa. Poteva quasi sentire ogni singolo lamento, ogni singola risata sua e di John, poteva percepirne l’umidità, poteva udirne il suono, poteva sentire tutto ciò che quel cuscino aveva assorbito di John e Paul. La migliore ninna-nanna.

Sospirando, chiuse gli occhi, pronto per abbandonarsi ai suoi dolci sogni e sperò che la notte passasse presto, solo per poter parlare con John e dirgli…

“Vengo via con te.”          

 

 

(1)- Citazione presa dall’Anthology

(2)- Colore e cibo preferito di John sono stati trovati su una di quelle carte collezionabili dei Beatles degli anni ’60.

 

 

Note dell’autrice: sì, beh, non volevo aggiornare oggi, ma volevo festeggiare il meraviglioso banner che la mitica Lights ha fatto per me. Se avete bisogno di banner per la vostra storia, potete contattarla qui: https://www.facebook.com/pages/Banner-Lights/324802020873918?fref=ts

Allora, siamo al secondo capitolo. Tutto il ricordo iniziale è basato sull’Anthology, praticamente. Quando John e Paul ascoltavano la musica insieme e poi come ha detto John, piangevano della morte e ne ridevano ma potevano farlo solo loro e nessun altro.

Ringrazio kiki che ha corretto il capitolo e chi ha recensito o anche solo letto. ^_^

Abbiamo accennato in questo capitolo alla gelosia per Stuart, ebbene, la riprenderò nel capitolo 3, “Gelosia, folle gelosia”.

Buona domenica e alla prossima

Kia85

   
 
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