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Autore: GiuliaSke    15/09/2013    1 recensioni
Tra le strade di Londra si aggira un pericoloso assassino, che miete le sue vittime in un modo tanto agghiacciante quanto particolare...
«Non ce la faremo mai.» Ansimò il più basso dei due, che nonostante fosse abituato a corse disperate come quella in atto, aveva il cuore in gola e i muscoli indolenziti. [...] Un tono squarciò il cielo grigio ed uniforme una figura scura si distinse nettamente dalla fonte improvvisa di luce. Sherlock si era completamente accostato come un’ombra alla parete di mattoni, con il volto di profilo solcato da piccole gocce. [...] Poi si avvicinò cautamente al suo orecchio e gli bisbiglio due parole: «È qui.»
Genere: Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 2


«L’FBI?!» Esclamò Sherlock allibito e vagamente indignato, facendo rimbombare la sua voce per tutto l’ufficio principale e nei corridoi di Scotland Yard.
«Avete chiamato altri incompetenti dall’America per avvitare lampadine?!»

Ancora una volta il giovane detective girava innervosito sui suoi passi al cospetto della scrivania di Lestrade, che ospitava numerose scartoffie, bicchieri di caffè take-away e un ispettore snervato dalla giornata e dal continuo borbottare del fradicio Sherlock Holmes. Si massaggiava ripetutamente gli occhi nella speranza che il ragazzo dai riccioli gocciolanti scomparisse dalla stanza come era venuto.

John si trovava dalla parte opposta del suo amico, a braccia conserte, augurando a tutti i presenti in quella stanza che l’infantile scenata finisse presto e di trovarsi, una volta risolta la questione, finalmente nel caldo, morbido e asciutto letto.

«Sherlock, non è un’intera squadra di uomini, è solo un’agente. E non è neanche uno qualunque.» Lo ammonì Lestrade abbassando il tono della voce, nonostante l’agente in questione si trovava fuori dal loro ufficio, seduto in attesa nel corridoio.

«Oh, certo! Un agente speciale. Mi sembra ovvio, ci vuole qualcuno di davvero speciale per riuscire a far scappare un uomo massiccio che cammina sui tetti con solo il potere della sua presenza! Erano settimane che gli davo la caccia ed ora...»

«Sherlock finiscila!» Lo interruppe il medico spazientito; «Sai che non è colpa sua.»
Sherlock si voltò verso il compagno con occhi sorpresi, credendo che lui stesse dalla sua stessa parte. Tacque nell’istante in cui allacciò lo sguardo indurito di John, cercando in modo evidente di decifrarlo.
L’ispettore colse il momento di silenzio per prendere di nuovo parola, guardando prima l’uno poi l’altro; «Ha ragione. Perché infatti non era coinvolto nel vostro caso, ne’ l’abbiamo chiamato noi. A dir la verità non doveva neanche trovarsi qui.»

I due tagliarono il loro contatto inafferrabile contemporaneamente al terminare della frase dell’ispettore: Sherlock posò gli occhi incuriositi su di lui che si tirò indietro allo schienale imbottito, portandosi alla bocca il bicchiere di caffè; mentre John diresse l’attenzione verso Will che se ne stava seduto con la schiena curva, tenendo gli occhi bassi e parendo molto inavveduto dalla situazione. Qualcuno gli aveva appoggiato sulle spalle una coperta arancione per asciugarsi, vedendo che racchiudeva ancora negli occhi un’espressione stralunata e assente dietro a quelle lenti rigate dalla pioggia, che lo faceva sembrare più a una vittima colpita da un trauma che un’agente speciale dell’ FBI.

«L’hanno trovato in aeroporto completamente confuso che chiedeva del Minnesota. Ha chiesto di essere portato nella sede centrale, e qui alla Yard si è identificato come detective speciale dell’FBI. A quanto ci ha riferito si trovava in America, ma senza sapere come, si è trovato nel cuore di Londra scaricato da un aereo.» Lestrade prese un’altra pausa nel sorseggiare il suo caffè. Si era creata una strana tensione nella stanza.
«Ci ha dato un paio di numeri per confermare la sua identità, ma appena fu lasciato solo qui dentro per qualche minuto, si è dileguato. Finché non l’avete trovato voi.»
«Erano numeri falsi?» Chiese incuriosito John.
«Affatto. Al primo numero ha risposto un suo superiore... un certo Jack Crawford... e si è preso ogni responsabilità del ragazzo. Da quanto ho capito verranno a prenderlo il prima possibile,ma...»

«Quindi abbiamo a che fare con un’incompetente che non sa prendere l’aereo?» Aggiunse borbottando di nuovo il consulente con il suo sarcasmo pungente, sbirciando Graham dalle persiane in alluminio.
«No Sherlock, abbiamo tra le mani un’agente perso per qualche strana ragione!» Sbottò stufo l’ispettore, alzando il tono come un vecchio padre paziente che rende chiaro il contesto al figlio cocciuto.
«Ma non uno qualunque: uno speciale e dobbiamo trattarlo con i fiocchi.»

Sherlock rimase immobile alla persiana per qualche lungo secondo, poi si girò verso l’ispettore: tese le labbra e arricciò leggermente il naso in disapprovazione.
«Bene!» Esclamò allungando le braccia verso l’attaccapanni per prendere il lungo cappotto impregnato d’acqua e infilarselo con slancio; «Andiamo John. Sono sicuro che l’ispettore ha parecchio da fare con l’amministrazione dell’aeroporto... insegnate a loro che non basta avere una tessera identificativa per salire su tutti gli aerei a piacimento.»
Appena l’alta figura si dileguò a passo svelto, Lestrade sospirò e scosse la testa in direzione di John; lui replicò facendo spallucce e continuò la questione ormai in procinto di dissiparsi: «Terrete l’agente con voi finché non torneranno a prenderlo?»
«Le prigioni della Yard non sono esattamente delle stanze d’albergo... credo che lo sistemeremo in un Hotel qui vicino per il tempo necessario.»

«Non ascoltare Sherlock... sai, lo conosci... appoggeremo l’agente se ce ne sarà bisogno.»

«JOHN!» Chiamò la voce lontana del giovane consulente dai labirintici uffici e corridoi della centrale.
Il biondo alzò gli occhi al cielo e con un gesto della mano salutò Greg, allontanandosi dal suo sorriso comprensivo.
Camminando di nuovo si accorse che, come il suo amico prima di lui, stava letteralmente grondando d’acqua, lasciando tracce di bagnato su tutte le mattonelle bianche. Sotto gli sguardi dei poliziotti che passavano, tra cui Donovan che lo salutò con un sorriso ambiguo, si sentiva impacciato e ridicolo: uscire dalla centrale il prima possibile senza farsi troppo notare sarebbe stata l’unica salvezza di quella giornata.

Notò che pure il nuovo arrivato lo stava guardando: aveva un barattolino di pasticche in mano e probabilmente si aspettava da un momento all’altro notizie per lui. John avrebbe voluto scusarsi di averlo buttato a terra così selvaggiamente: si sentiva come se avesse abbattuto un compagno che combatte per la stessa causa.
Cercò di trovare le parole giuste, ma vedendo Lestrade alla porta, sentendo la sensazione di bagnato dei vestiti, pensando alle occhiate e al coinquilino impaziente che avrebbe preso il taxi a breve senza di lui, si spicciò ad andare dritto verso l’uscita e rimandare tutto a un’occasione più favorevole.
 

John si sedette al lato sinistro del taxi, chiudendo dietro si sé lo sportello dell’auto. Al suo fianco si trovava Sherlock con le dite alle labbra, assorto dal paesaggio fuori dal finestrino. Il mezzo partì non appena il medico diede l’indirizzo e lungo il tragitto gravò un consistente silenzio.
Non sopportava gestire quei momenti imprevedibili di Sherlock, soprattutto dopo una giornata-no come quella e i numerosi interrogativi aperti tra l’uomo scappato e il nuovo arrivato. Ma non resisteva neanche al desiderio di risposte.
Si schiarì la voce; «Credo lo sottoporranno ad altre domande... quel Will Graham intendo...»

Fu la prima cosa che gli venne in mente. Un’affermazione che non risvegliò nessuna risposta né interessamento da parte di Sherlock.

Cercò di esaminare il suo volto pallido, la sua figura marmorea. I suoi occhi vitrei riflettevano le luci esterne della città, come specchi, mentre milioni di dati comparivano nel suo inaccessibile palazzo mentale. John avrebbe voluto accedere a quel computer, leggere dai riflessi i dati in continua analisi, i suoi pensieri. Solo per un istante. Solo per aiutarlo.
«Dobbiamo solo attendere che commetta un errore, Sherlock. Non è il primo serial killer che si dimostra più imprevedibile del solito...»
 
Le iridi trasparenti ripresero vita, i suoi occhi si spostarono lentamente nella direzione del biondo, scrutando la sua affabile espressione.
«Abbiamo già atteso troppo a lungo, e quest’ultimo inseguimento ne è la prova.» Puntualizzò il detective; «Il nostro criminale sa come confonderci. Tolta la maschera rende prevedibile ogni mossa, per poi sfuggirci tra le dita come neve al sole. Insabbia ogni prova e torna a colpire, meccanicamente. Per lui è come giocare al gatto e al topo.»
 
«Potrebbe cadere nei suoi stessi giochetti!»
 
«Quattro omicidi in tre settimane e ancora scorrazza indisturbato per le strade di Londra. Se la cava piuttosto bene per adoperare solo dei “giochetti”, non trovi?» Ribatté sarcastico, sfilando dalla tasca dei pantaloni il suo cellulare.
Il medico a tali parole arricciò le labbra, scosse lievemente la testa e si voltò verso il finestrino; mentre il ticchettio svogliato dei tasti risuonava nell’autovettura.

Poco dopo il taxi frenò a destinazione, davanti alla luce offuscata dello Speedy’s Cafe in chiusura: Sherlock ripose rapidamente nella tasca il telefono e aprì la portiera, allontanandosi di nuovo a grandi passi dalla porta del 221B. Ancora una volta John si affrettò confuso a seguire l’irragionevole amico, ma dopo qualche passo incerto sul marciapiede di Baker Street si arrese nel chiedergli dove stesse andando;
«Ho bisogno di una boccata d’aria.» Rispose la profonda voce ormai lontana dall’infreddolito compagno, che roteando gli occhi a denti stretti, balbettò qualche parola non conclusa, per poi fermarsi e urlargli dietro arrendevole: «Sai una cosa? Non importa. Continua pure a stare per le tue!»

tornò indietro a pagare il conto del taxi, lasciando l’alta figura solitaria dissolversi nell’oscurità.
John entrò sospirando nell’appartamento tanto ambito in quella frenetica giornata: la sua atmosfera, calda e famigliare, lo avvolse come in una pesante coperta. Si trascinò nel farsi una doccia, nel bere una tazza confortante di tè seduto sulla sua comoda poltrona, in attesa che il sonno estenuante lo avesse costretto ad andare a letto.
Ma troppi pensieri ronzavano nella sua testa, e poco a poco, cullato dalla pioggia e dalla luce tenue, sprofondò in un sonno inconscio e profondo.
 
 

Il giorno seguente un radioso sole allietò la fresca mattinata dei Londinesi, illuminando con raggi festanti le stanze dissolute dalla notte precedente: in particolare un appartamento non comune pareva più dissestato del solito e un odore acre, che appestava tutta la stanza, disturbò i sensi del medico ancora assopito.
Torse il naso sprezzante, sentendo i muscoli delle braccia e delle spalle indolenziti mentre cercava di rifugiarsi da quella sgradevole aria pesante.

Un lato pigro e indolente di John non si arrendeva in alcun modo all’idea di tornare a correre dietro ai ritmi sostenuti delle giornate precedenti: almeno,non così presto. Il bracciolo del divano gli pareva ancora troppo morbido per alzarsi; ma ogni suo sogno di prolungato riposo fu spezzato da un rumore di vetri infranti.
Il biondo aprì gli occhi, si posizionò seduto, stendendo la schiena intorpidita e si guardò attorno: era tutto come l’aveva lasciato prima di addormentarsi scomodamente sulla poltrona, solo con un’aria più densa, impregnata di fumo, e la coperta scozzese di lana sulle sue spalle.
Nessun pericolo. Nessun segno di alcuna presenza.
Guardò l’orologio, si stropicciò ancora il viso scacciando la stanchezza e solo poco dopo si accorse che qualcuno di famigliare gli svolazzò veloce a fianco. La figura nella penombra si diresse verso l’ampia finestra e aprì di colpo le tende, facendo entrare la forte luce di quella giornata radiosa.
John non trattenne un lamento, mentre si oscurava gli occhi doloranti dal forte chiarore improvviso.
«Oh, sei finalmente sveglio John.» Disse voltandosi nella sua direzione quella chioma riccioluta in controluce, ancora più splendente.
Facendo sventolare di nuovo quella sua larga vestaglia blu, aprì con un gesto la finestra, permettendo alla brezza fresca di ravvivare tutta la sala, rendendola più respirabile.

John, frastornato, cercò di tenersi il più possibile vigile, nonostante quel tono sereno da parte del coinquilino lo rendesse più confuso che mai. Sembrava più disteso, indifferente come al solito: ogni traccia di turbamento cancellato da quell’empatico volto. Davvero era di nuovo il solito e frenetico Sherlock, quello che passava da un capo all’altro della stanza, riposato e carico, sfogliando i quotidiani e alcuni documenti?

«Se è stato il rumore della tazza in frantumi a svegliarti, non ti preoccupare. Ho messo le ghiandole salivari in un vasetto di marmellata. Ah, e ricordati che quello in cucina non è propriamente zucchero... Prima che ricominci a borbottare come una casalinga isterica.» Affermò con non curanza Sherlock, portando la sua attenzione ad alcuni volumi sul tavolo.

John corrugò la fronte nell’udire le bizzarrie del coinquilino, prendendo pazienza e lasciando correre ancora una volta quelle -ormai ordinarie- abitudini del detective.

«Quando sei tornato?» chiese John con voce rauca, strofinando i capelli biondo cenere dietro la nuca, ancora fermo sulla poltrona.

«Mh, non saprei... da quando la Signora Hudson ha un gatto?»

«Da qualche giorno credo... Penso l’abbia trovato vicino a uno dei suoi bidoni...» rispose il basso compare, cercando di omettere un sorrisetto divertito;
«... L’ha chiamato Sherly.»

Sherlock nell’udire il nome si fermò per un secondo, accigliato. Guardo il compagno con espressione allibita e incredula, per poi tornare nuovamente a girare le pagine, con disapprovazione:
«Santo cielo, spero sia uno scherzo di cattivo gusto... »

«Oh no, è proprio così. Dovresti vederlo con il berretto!» Replicò John più serio possibile, terminando inevitabilmente la frase ridacchiando di gusto;
«Sul blog farebbe furore, sai? Presto ti toccherà competere contro quel gatto per decidere chi, tra i due, è il vero Sherlock Holmes

Il giovane in vestaglia assottigliò gli occhi, lanciando al biondo un’occhiata tagliente:
«Sai che ti preferivo quando dormivi?»

John continuò a mostrargli un ampio sorriso vagamente appagato e beffardo, notando il tono secco alla presa in giro, e quell’opposta inclinazione vero l’alto di un angolo della bocca. 

Sherlock si riprese dalla distrazione scuotendo brevemente la testa un paio di volte e tornò a setacciare con le mani varie carte;
«In ogni caso... Avevi ragione John. Avevi sorprendentemente ragione!»

Voltandosi i suoi occhi parevano brillare, più vivi che mai, e il medico militare non poté altro che rispondergli con un’espressione interrogativa, quasi confusa per aver usato in un’unica frase “John”, “sorprendentemente” e “ragione”.

Il giovane stavolta mostrò un chiaro sorrisetto, con quel suo sguardo  profondo, avvicinandosi al suo interlocutore:
«si, John! Sei stato magnificamente perspicace! Come farei senza la tua ingenuità...»  

«Cos- Sherlock, per l’amor del cielo spiegati! » Lo interruppe il biondo, intollerante ad un altro suo mezzo complimento.

«Notizie da Lestrade. Avvenuto all’alba, presso il parco Victoria: il nostro uomo ha commesso il suo errore.»
«... Ovviamente non c’è più tempo da perdere, e per questo hai cinque minuti per pulirti quella chiazza di bava colata sulla camicia e prepararti al meglio. I giochi ricominciano!» Anticipò tempestivo Sherlock prima che John potesse aprir bocca, lasciando la stanza.
John, istintivamente, chinò la testa verso la camicia, toccandosi l’angolo della bocca; poi sorridendo, scosse la testa e si levò in piedi, avvicinandosi alla soglia del corridoio prossimo alla stanza del coinquilino.

«Un’ultima cosa... Il pacchetto, grazie.»

La testa riccioluta, spuntò appena dalla sua camera. Alzò un sopracciglio in chiaro segno di incomprensione, mentre si allacciava gli ultimi bottoni della camicia: osservò lo sguardo inflessibile di John e la mano tesa in richiesta, che attendeva.
Dopo un secondo tentativo di farla franca, il detective, roteando gli occhi e sbuffando, estrasse dal cassetto il pacchetto mezzo vuoto di sigarette e lo consegnò al proprio dottore;
«Al diavolo la Salute, John! Erano necessarie!»
«Zitto e vestiti.»

 
In seguito a un passaggio in taxi e una breve camminata tra viali alberati, i due consulenti detective raggiunsero il lato ovest del vasto parco, dove i bagliori colorati delle sirene della polizia rischiaravano la zona. La pattuglia della Yard e una squadra della scientifica erano già sul posto, accompagnato dall’ispettore Lestrade che guardava meditabondo attorno a sé, dando ordini ai suoi uomini.

«Sherlock, eccoti finalmente!» Lo accolse l’ispettore, con sollievo, mostrando la sua solita aria disperata; non sembrava in gran forma dall’ultimo incontro.

«Mostrami le novità.» Pronunciò sbrigativo infilandosi i guanti neri, analizzando da subito quella distesa di alberi cespugliosi, il prato ingiallito a chiazze, e il fruscio del vento.

I tratti di Greg si rindurirono, traspirando compostezza e un pizzico di pazienza, e solo dopo un breve saluto rivolto a John e ricambiato più umanamente, l’ispettore diede cenno di seguirlo.
«Un’altra morte misteriosa, come potrete immaginare... Spero che questa volta troverete il nesso di questa storia...»
Sherlock e John si scambiarono una rapida occhiata.

Pochi metri dopo l’ispettore alzo un braccio teatralmente, che subito cadde nel mostrare la scena del delitto:
un corpo di un ragazzino pallido, con un’espressione vuota e scossa, era disteso supino presso l’ombra di un incupito platano, senza vita.

«Stessa modalità?» chiese il biondo, a braccia conserte, mentre osservava la vittima con rammarico e concentrazione.

«Non un’imprecisione.» Replicò Sherlock, chinandosi sul corpo, senza indugi.
«A quanto pare non ero l’unico che cercava movimento quella notte.»

Il medico appresso imitò il collega, cominciando ad esaminare il corpo esanime:
«L’ora del decesso deve risalire a cinque ore fa circa... Nessun segno di violenza, se non qualche livido attorno al collo, le braccia... E ovviamente il suo marchio.»

Sherlock nell’ascoltare le parole del medico militare portò il suo sguardo scrupoloso sulla bocca del ragazzo senza vita: le sue labbra erano sfregiate da incisioni crude, trafitte da un filo nero in nailon, che si muovevano a zig-zag per l’apertura in maniera grottesca. Con l’indice sfiorò appena il coagulo secco di sangue, e lo sgretolo poco dopo averlo esaminato ad occhio nudo.
Poi diresse la sua attenzione alle braccia, minuziosamente, seguendo poi ai larghi indumenti neri che lo coprivano.

«Morto di infarto.» Terminò di dire John, appoggiando delicatamente il polso a terra e togliendo le due dita dal gelido collo.

Il detective si alzò con slancio, fece qualche passo avanti e indietro, enunciando al suo compare fremente, l’esito della sua osservazione: «Ragazzo pressappoco sui vent’anni, bocca cucita con filo di nailon –mediamente nuovo- mentre ancora probabilmente respirava. Ha macchie di vernice bianca e di fuliggine sugli indumenti: ha un lavoro part-time di imbianchino di giorno, mentre sicuramente di notte...»
«Sherlock, hanno trovato questo zaino in un cespuglio...» Lo interruppe Lestrade, mostrandogli la prova che subito agguantò in tutto il suo peso: era un banalissimo zaino retrò, grigio e sgualcito, da ex universitario, e soprattutto pieno di oggetti di varie dimensioni.
Le scaltre mani del giovane detective tirarono fuori dal sacco dell’argenteria come candelabri, porta gioie di valore, gioielli e orologi; «... un ladruncolo.»

«Ancora una volta il serial killer ha seguito i suoi schemi: una quinta  vittima con le stesse caratteristiche... Perché lo fa?» chiese John, riflettendo.

«Non per soldi... la refurtiva rimane sempre nelle mani dei teppisti o comunque sul luogo... non prende neanche un penny...»
Il consulente si voltò in seguito verso Lestrade, che si trovava dietro le quinte ad ascoltare passivo, usando un tono indispettito;
«... Perché chiamarci ispettore, qui non c’è nulla di diverso, di utile.»

«Davvero? Allora prova a guardare questo.» Controbatté il poliziotto, spostandosi a pochi metri dal luogo del delitto, per portare i due detective davanti a un altro elemento del caso: su un terreno umido, a distanza da un piccolo stagno florido, vi era distesa una seconda salma.

Era una giovane ragazza, dai lunghi capelli rosso-metallico raccolti in una coda, gli occhi vitrei sbarrati, che giaceva a terra sul prato macchiato di sangue con la schiena perforata da un proiettile. Le sue labbra sfiorite erano cucite grezzamente con lo stesso filo atroce.
«Oh... Una seconda vittima...» Mormorò colpito Sherlock, mostrando un sottile sogghigno.
Si incurvò sulla lesione fresca, utilizzando questa volta la lente portatile, per poi procedere rapidamente con la stessa valutazione eseguita sul precedente corpo;
«Proiettile di calibro 9... Sicuramente una Walther P99... Ha usato un’arma. È decisamente qualcosa di nuovo.»

«Dopo l’inseguimento di ieri avrà preferito semplificarsi il lavoro.» Ipotizzò il biondo, squadrando da cima a fondo la ragazza colpita.

«Parliamo di un metodico e meticoloso assassino, John. Questo è il suo metodo di procedere e non lo cambierebbe per alcuna ragione al mondo. Confronta le due cuciture: la bocca della ragazza è stata inequivocabilmente cucita con la stesa pressione, ma meno curata, con i punti troppo distanti tra loro. Qualcosa deve averlo allarmato... Sul terreno ci sono dei solchi: deve averla trascinata fin qui nell’intento di gettarla nello stagno, prima che qualcosa lo indusse a scappare definitivamente.»

Sherlock si alzò ancora una volta di scatto, senza riprendere fiato dall’intera deduzione, continuando ad esporre le sue fulminee riflessioni: sembrava cercasse in tutti i modi di guarire da quella momentanea cecità, vedendo poco a poco uno sprizzo di luce;
« Sembra che non sia solo la presenza di un secondo ladro tra le vittime scelte che lo abbia disturbato... No, c’è qualcos’altro. è stato preso di sprovvista per la prima volta... »

«Sherlock...» Lo interruppe incerto John, schiarendosi la gola.

«Non ora, sto cercando di pensare.» Lo azzittì secco, portandosi i polpastrelli congiunti alle labbra;

«Sherlock, è tornato. Lo stralunato, è qui... » Continuò il medico, guardando aldilà delle sue spalle;

Il giovane riccioluto inarcò un sopracciglio e, seguendo lo sguardo del compare vide, sotto l’ombra di un albero circostante, un ragazzo in plaid grigio, con una camicia a quadri stropicciata che, immobile, osservava la scena.

«Oh, per l’amor del cielo! Stavolta cosa ci fa lui qui?!» Disse il detective irritato, lanciando uno sguardo infuocato a Lestrade che, intimorito dall’accusa, sgranò gli occhi e scosse appena il capo, in avvertimento di non esserne il responsabile.
«Vuol dire che toccherà a me spiegargli le regole basi...» E, a passo svelto e minaccioso, fece svolazzare il suo lungo cappotto nero in direzione dell’intruso.

«Sherlock aspetta!» Cercò di fermarlo Greg, auto consapevole di quanto sarebbe stato inutile; «In realtà è stato lui a ritrovare i corpi...»

«Non l’avevate accompagnato in un albergo?» Domandò il medico interdetto.

«Un nostro agente l’ha accompagnato fino alla porta d’ingresso... Non credevamo fosse così ambulante alle prime ore del giorno... E comunque si è dimostrato utile.»

«Meglio avvertirlo... » Rispose il biondo, per poi raggiungere l’amico di corsa prima che iniziasse a infierire contro l’ospite americano.
Sherlock appena fu a pochi passi dall’agente speciale lo chiamò con freddezza; ma non notando alcun accenno al suo richiamo, si avvicinò incuriosito, notando il singolare equilibrio statico con cui rimaneva in piedi davanti a quei metri d’erba, con gli occhi serrati. Pareva in uno stato di trans.

Il giovane Detective interpretò la sua condizione come un momento di sonnolenza e, indispettito, allungò la mano per scuotergli la spalla e svegliarlo; ma prima che i suoi guanti in pelle potessero sfiorarlo, il giovane dai riccioli scompigliati bisbigliò qualche parola. Spalancò gli occhi sbigottito, boccheggiando scosso in preda a tremori, con la fronte grondante di sudore.
Il suo sguardo perso andava a momenti verso Sherlock, incerto sulla sua vera presenza in quel momento, e in preda a una crisi nervosa indietreggiò verso il tronco dell’albero alle sue spalle, cadendo in ginocchio.

«Dio... Che gli hai fatto?!» Lo apostrofò John appena arrivato, vedendo lo stato in cui si trovava l’agente Graham. Da buon medico lo tranquillizzò, aprendogli la camicia per farlo respirare e, appena l’affanno si stabilizzò, cominciò a proferire parola, in tono profondo e dolente:
«Seguo il teppista fino al parco, nascondendomi cautamente dietro la vegetazione, aspettando. Lui non sa di essere stato visto mentre rubava soddisfatto... Concentrato sul controllo del bottino, mi avvicino alle spalle, bloccandolo con la mia mole. Lo immobilizzo saldamente prima di conficcargli nel braccio una siringa, con mano esperta. So che l’iniezione di gas nell’arteria gli provocherà un’embolia, causandogli una dolorosa morte che si consumerà nel giro di pochi minuti. Prima che il suo cuore smetta di battere, ancora con un filo di lucidità, infierisco cucendogli scrupolosamente le labbra, mostrandogli la pena da pagare per il suo crimine.»

Sherlock e John ascoltavano sbalorditi e interessati quel delirante rapporto dell’accaduto, mentre l’agente fissava nel vuoto, scavando in qualche modo nei suoi ricordi. Poi sussurrò appena sovrappensiero, quasi a sé stesso:
«Questo è il mio disegno.»

«Sono interrotto da un grido soffocato di una ragazza, una complice. L- lui è preso di sprovvista, lascia cadere il corpo a terra. Spaventata cominciò a fuggire, mentre l’assassino comprende di non poterla lasciar andare. Non sapendo cosa fare spara alla giovane in fuga, traforandogli un polmone. Perdendo il controllo della situazione, cuce anche a lei le labbra, per poi interrompersi e gettare la refurtiva nello stagno. Trascina anche la ragazza verso riva, ma udendo dei rumori distanti si abbandona alle insicurezze e fugge.»

Terminando di parlare il ragazzo spostò gli occhi umidi lentamente da terra, per poi riporli sul viso della vittima uccisa.
John pose una mano sulla sua spalla come conforto, notando dai solchi sul viso quanto era debole, ma non poté cancellare dal suo un immenso stupore da tutti quei particolari.

«Straordinario!»

«Come puoi sapere tutto questo...» esclamo Sherlock, assottigliando gli occhi, provando raro interesse per quel giovane agente così fuori dal comune.

L’agente cercò di alzarsi,barcollando titubante nonostante l’aiuto del biondo. Biascicò qualche parola a tono basso:
«Io... Io... Devo fare una chiamata.» 
 
  
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