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Autore: GenGhis    22/09/2013    2 recensioni
Questi racconti nascono principalmente da molto tempo libero, uniti ad una notevole capacità di elaborare idiozie e trascriverle su carta. Non mi andava di dover scrivere sempre le stesse cose, quindi non c'è un vero e proprio tema che accomuna queste storie. Solo, appunto, tanto tempo libero e la stessa penna.
Genere: Demenziale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Racconto 10
La Genesi

***

 

Scholz scese dalla cunetta a gambe larghe; il retro del suo impermeabile si gonfiava e si svuotata come la vela di una nave, mentre le labbra si arricciavano scoprendo le gengive e le piastrine d’argento del suo apparecchio: era proprio una mattina ventosa e gli alberi, frustati dall’aria gelida e da una seccante pioggerellina sottile, si piegavano in uno scricchiolante inchino al suo passaggio, frettoloso e sollecito giù per il pendio. Oltre alla cerata color giallo limone, stridente con i suoi capelli biondo scuro, indossava una polo a strisce bianche e verdi e un paio di attillati blue-jeans a sigaretta dall’aspetto striminzito, che gli lasciavano scoperte le caviglie, nude sopra le flosce scarpe da tennis, e rendevano la sua figura ancor più oblunga e smilza. Così Francis Scholz, allampanato e sgargiante e con una curiosa espressione indispettita che gli capeggiava in volto, sfilando lungo il sentiero sabbioso che dalla brughiera conduceva al villaggio - le lenti degli occhiali di plastica rossa appannate dall’umidità e dalle goccioline di pioggia - si squadrò il polso, che fuoriusciva dalla manica grondante dell’impermeabile e, sul quadrante del suo orologio di gomma, lesse le cifre 11:43. Si fermò, circospetto, squadrando di fronte e alle sue spalle la strada deserta; si sfilò gli occhiali fissandoli con miopi occhi incavati, poi li lasciò cadere sull’erba umida e cominciò a calpestarli, metodicamente, mentre udiva il crocchiare delle lenti frantumate e delle asticelle spezzate sotto le suole delle sue scarpe.
Raccolse i pezzi fracassati della sua montatura, li infilò nella tasca destra dei jeans e, dopo aver controllato di nuovo l’orario a capo chino - ancora le 11:43 - riprese il suo cammino schioccando le dita, fischiettando il ritornello di un motivetto pubblicitario.
- Se vorrai... potrai... OCB, extra slim! - canticchiò, incerto - Bella vita avrai... OCB, extra slim!
Cercò nelle tasche sul retro dei pantaloni e s’infilò in bocca un rettangolo grigiastro di gomma da masticare; ammutolì, spingendo avanti e indietro la mascella con fare risoluto, mentre un ragazzo basso e tracagnotto, sotto uno straordinario ombrellone a spicchi arcobaleno, gli passava accanto.
- Buongiorno, Scholz. Vedo che stamattina ci siamo svegliati bene - ghignò, colpendolo beffardamente in testa con il manico dell’ombrello: aveva un sorriso minuto e diabolico, e una grossa testa squadrata con i capelli tagliati a spazzola.
- ‘Giorno Colin: sai che stavo proprio per venirti a chiamare? E questo tendone da circo, si può sapere dove l’hai preso? Vuoi una cicca? - aggiunse, mostrando il pacchetto.
- Ma se non mi chiami mai - bofonchiò l’altro e, stesa la gomma sulla lingua rossa come una fragola, cominciò a ruminare; Francis finse di non averlo udito, e concentrandosi sullo stridio delle sue dita che scorrevano sulla plastica madida dell’impermeabile, rimase fermo ad osservare l’ombra sfuocata che aveva davanti. Colin alzò un braccio ed accennò al suo volto.
- E gli occhiali, che fine hanno fatto? Bah - scosse il testone con una smorfia stizzita - Comunque, che volevi da me? Perché stavi andando a chiamarmi?
Scholz alzò le spalle, soprappensiero.
- Sai cosa? Non lo so davvero. Camminavo, tranquillo, pensando ai fatti miei... - schioccò le dita, ma il suono uscì flebile e scivoloso - E ho pensato: chissà se Colin è in casa?
- Invece sono qui - lo interruppe, mentre sul suo viso appariva un’espressione furbesca: aggrottò le sopracciglia ispide e le sue pupille baluginarono, torve - Che strano, perdi gli occhiali è la prima cosa che fai è venire a cercarmi? A cosa devo tanta premura?
- Premura... Come parli bene, tu! - replicò Francis, sardonico, senza che il suo sguardo vitreo, vagando su per i tetti dei palazzi, si soffermasse su di lui - Ad ogni modo, se ci tieni a saperlo, gli occhiali non li ho persi e, anzi, è proprio di questo che volevo parlarti. Conosci Freddie O’Brien?
- Freddie O’Brien? E che c’entra lui, adesso? - la sua bocca si contrasse in una smorfia contrariata mentre, dopo avergli stretto il braccio da sopra l’impermeabile, lo tirava bruscamente sotto l’ombrello - Accidenti, Scholz! Non possiamo stare qui a discutere di O’Brien mentre diluvia! Se mi raffreddo mia madre mi ammazza: non voleva neppure farmi uscire, ma dovevo per forza comprarla.
Infilò una mano nella tasca del suo piumino blu scuro, reggendo con l’altra il manico ricurvo dell’ombrello, e gli mostrò l’angolino di carta argentata di una tavoletta al cioccolato.
- Eppure non sei tanto grasso - sfuggì detto a Francis; l’altro lo fulminò con un’occhiata velenosa.
- Lo so, cretinetti, difatti ho il diabete... Ma certamente tu non saprai neppure che vuol dire - ridacchiò crudelmente, squadrandolo - Sai che a volte sei un vero idiota, Scholz?
Francis sbuffò, senza sentirlo; camminavano l’uno accanto all’altro, attraverso il villaggio desolato, mentre il battere cadenzato della pioggia sopra le loro teste si faceva talmente rumoroso da ingarbugliare i loro discorsi. Si fermarono davanti al portone verde splendente di un palazzo di mattoni scalcagnati, con un temibile battente d’ottone a forma di testa di sfinge che oscillava da un lato e dall’altro, trasportato dalle raffiche di vento gelido; Colin si sfregò le orecchie arrossate dal freddo e suonò il campanello, sotto una targa che recitava “P. J. Simmons A. Stewart”.
- Riguardo a quel Freddie O’Brien - sussurrò, poggiandosi al muro - È stato lui a romperti gli occhiali, Francis?
Scholz annuì, inquieto, mentre la porta si apriva davanti ai loro occhi: una donna minuscola, con una vaporosa capigliatura corvina ed odiosi lineamenti porcini spuntò sul pianerottolo, diritta come una sbarra su un paio di eleganti scarpe scollate di raso azzurro, che le stringevano i piedini piccoli e cicciotti. Il suo petto procace era costretto in una blusa color cipria, nella cui scollatura sprofondavano le grosse biglie pallide di un filo di perle mentre, subito sotto, una gonna scura dalla linea fasciante le lambiva le ginocchia globose e la linea robusta dei polpacci: la madre di Colin li fece passare in salotto, scivolando alle loro spalle con passo aggraziato, camminando in bilico sui tacchi alti.
- Era tanto tempo che non venivi a trovarci, Francis - tubò soavemente, accosciandosi su una poltroncina di velluto con le gambe accavallate - Come stanno i tuoi genitori, caro? Colin mi ha detto che avete passato l’estate in Germania, a casa vostra; dev’essere stato fantastico, no? Dimmi, Francis, la vostra famiglia è originaria di Berlino, o viene dalla provincia?
- In realtà siamo di qui - Francis avvampò - Siamo stati in villeggiatura, quest’estate, in Cornovaglia. Colin dev’essersi sbagliato con qualcun altro.
- Oh, sarò stata certamente io a fare confusione - si affrettò a squittire la signora Simmons, con gli occhi neri che luccicavano - Anche se non credo sia esatto dire che siete di qui, caro: Scholz non è certo un cognome inglese, non ti sembra? Qual è il cognome da nubile di tua madre, Francis?
Scholz si concentrò sul piano di cristallo di un tavolino da tè: la trasparenza del vetro specchiava e replicava i bon-bon, avvolti nelle loro confezioni patinate, intrappolati nella lastra lucida sopra le quattro zampe oblique di legno chiaro. La signora Simmons ne prese uno, con delicatezza raccolto fra le sue manine da roditore come un piccolo rubino sferico, e con un sorriso molle gli disse:
- Gradisci un dolcetto, caro? Sono all’arancia.
- No, grazie. Sono a posto così, signora Simmons.
- Non dire assurdità, Francis; Colin non ne può mangiare, per via del diabete. Su, prendilo: è all’arancia - ripetè, sorridente - E togliti quella cerata, o mi bagnerai la moquette.
- Sì, beh, la toglierà in camera mia - bofonchiò Colin, chiudendosi la porta dello sgabuzzino alle spalle e muovendosi a passi pesanti con i soli calzini ai piedi. Lo afferrò per le spalle e lo sospinse su per le scale; urlò, in direzione del salotto - Anche perché se ne va tra poco! Giusto il tempo di spiegarmi che c’entra Freddie O’Brien con i suoi occhiali!... E tu, che vai dicendo della Cornovaglia? Non m’hai detto tu che avete visto il Duomo, e bevuto birra, e parlavi in tedesco?...
- Che c’entra? Siamo anche andati in Cornovaglia - sibilò Francis - In villeggiatura.
Colin aprì la porta della sua camera con un calcio: si avvicinò alla libreria, meditabondo, e infilò la tavoletta di cioccolato - ancora incartata in un foglio d’alluminio - fra i due grossi tomi polverosi di un’enciclopedia per ragazzi. Dopo averlo sfidato con lo sguardo a commentare, sporgendo in avanti il mento rotondo e ancora imberbe, si gettò sul letto con uno strillo da uccello, fra i cuscini celesti e la federa a quadretti rimboccata attorno al materasso; il suo corpo paffuto veniva sballottato dal rinculo delle molle e Francis rise, in piedi, davanti all’altra sponda del letto.
- Sai che me ne importa della Cornovaglia - esclamò - È di Freddie O’Brien che m’interessa. Allora? Vi siete picchiati? Ti ha suonato come un tamburo, eh, il vecchio Freddie?
- “Vecchio” - fece eco Scholz e, dopo essersi steso accanto a lui, alzò gli occhi sul ruvido soffitto maculato dall’umidità, e sulle impalpabili ragnatele ordite negli spigoli fra i muri - Ha solo qualche anno più di noi, no? Dicono che il signor O’Brien, tanto tempo fa, abbia sparato ad una donna: così, senza un motivo in particolare, solo perché lei era lì e lui aveva un fucile in mano. Secondo te può succedere? Può succedere che un uomo faccia del male ad un altro solamente perché gli va?
Colin alzò gli occhi al cielo; poi si voltò verso di lui, appoggiato su un fianco e con un’espressione derisoria: aveva le mani intrecciate dietro la testa, e batteva i piedi scalzi l’uno contro l’altro.
- Mica è morta, la vecchia - ribatté, e si lasciò sfuggire un sospiro - Beh, quante te ne ha date? Doveva essere di buon umore, oppure nascondi i lividi sotto i vestiti... - infilò le mani tozze sotto la polo a strisce bianche e verdi, e tentò di scoprirgli la pancia; Francis sentì il contatto gelido delle sue dita innervate attorno alla concavità serica dell’ombelico e lo spinse via, inquieto.
- Cosa c’è, ti vergogni delle tue ferite di guerra? - ridacchiò Colin, coricandosi. Si cacciò in bocca un tassello di cioccolata e bofonchiò, mentre questo si squagliava nella sua bocca e diventava una colla molliccia - Perché avete litigato, poi?
- È successo stamattina: io venivo dalla brughiera e lui era già lì, da solo, senza ombrello e con i capelli tutti bagnati. Mi blocca così, per i gomiti e mi dice “dammi l’impermeabile, sporco nazista”. E io gli dico di no, che può anche andarselo a comprare. E lui, lui... Insomma, per farla breve iniziamo a darcele, e lui mi ha rotto gli occhiali, così - fece finta di tenere fra le mani un bastoncino di cristallo, e di spezzarlo in due parti identiche, mentre con la bocca mormorava - Crac.
- Però tu l’impermeabile ce l’hai - mugugnò.
- Poi è arrivato un signore, mi ha visto per terra e lui è scappato di corsa.
- Bene - Colin sorrise in maniera indecifrabile - Quindi hai un testimone.
- No, non so chi fosse quell’uomo: non l’avevo mai visto prima. Forse non era di queste parti.
- Francis...
- Che c’è? - gridò Scholz, e con uno scattò della schiena si mise seduto, poi scivolò giù dal letto, tremante di rabbia - Che c’è, non mi credi? E allora non mi credere, sai che me ne faccio. Tanto io dico solo bugie, no? Non c’è proprio da fidarsi di me, eh già! Basta, che ci rimango a fare qui, con uno che mi dà del bugiardo e sua madre che... - grosse lacrime bianche gli rotolavano dalle guancie, mentre sentenziava, ormai con voce stridula - Tu non sei più mio amico, Colin! Per quanto mi riguarda, puoi fare anche conto che io sia morto! Addio!
Si sbatté la porta alle spalle, e filò giù per la scalinata fingendo di indossare un paio di paraocchi, concentrandosi solo sui movimenti ritmici delle sue gambe che superavano i gradini uno dopo l’altro. Infilò la porta e sbucò in strada: corse via, sollevando schizzi d’acqua scura dalle pozzanghere che incontrava ad ogni passo.
 
Francis Scholz schiude le palpebre. L’immagine di un ragazzo nudo di fronte allo specchio strabuzza gli occhi: ha piumose sopracciglia bianche, la mascella dura e volitiva, un paio di braccia lunghe che lo impacciano, gli pendono lungo i fianchi, molli come due corde inarticolate. Non sa cosa farsene, il ragazzo fuori dallo specchio, ma il ragazzo che lo fissa è disinvolto, conosce ogni segreto, è nudo ma non si vergogna, non si nasconde.
- E tu? - gli chiede - Tu ti vergogni, Francis? Ti vergogni di come sei?
Francis reclina la testa da un lato, lo sguardo imbarazzato puntato verso il basso: le mutande sono attorcigliate attorno alle caviglie, fra i piedi lunghi ed ossuti. Sua madre l’ha visto attraversare il cortile sotto la pioggia, gli ha sfilato l’impermeabile fradicio e gli ha ordinato di salire al piano superiore a spogliarsi. Lui l’ha fatto, muovendosi a scatti come una macchina impazzita: è un bravo bambino.
Il suo corpo è bagnato: la sua pelle scintilla come sotto una colata di cera, nella luce bianca ed insistente della lampadina. Tutto è liquido, ribolle sotto il filo della sua epidermide arrossata, membrana dopo membrana: qualcosa ribolle sotto la pellicola sottile che avvolge il suo corpo.
Il ragazzo dello specchio tira in fuori il mento.
- Allora? - dice - Che c’è, ti vergogni? Cos’hai da vergognarti, Francis? Sono gli altri che devono vergognarsi, sono gli altri che dovrebbero essere come te. La colpa è stata di quello sporco inglese: è lui che se l’è andata a cercare, non l’abbiamo mica chiamato noi.
- Ti ha umiliato davanti a tutta la classe - continua, storcendo la bocca in una smorfia schifata - Ti chiamava “lurido nazista”, Francis, ti mortificava agli occhi dei tuoi compagni perché lui è un insetto, uno scarafaggio inutile, un reietto. Non te lo sei dimenticato, come ci si sente...
Francis abbassa lo sguardo sulle piastrelle, in silenzio, ma il ragazzo nello specchio non ha bisogno di udire le sue parole per conoscere le risposte: sa già che il male che gli ha fatto Freddie gli si è conficcato nel petto come una scheggia, che non si estrae più, che continuerà a bruciare per sempre.
- E gli altri, cos’hanno fatto? Cos’hanno fatto per aiutarti? Hanno cominciato ad imitare quel parassita, ad insultarti, ad evitarti come un lebbroso. E io te l’avevo detto, te l’avevo detto che non avresti risolto niente, facendo la vittima, aspettandoti comprensione. Colin non ti ha creduto, e nessun altro ti crederà, e questo perché ai loro occhi sei solo un lurido nazista: non sei un amico, non sei un compagno, non sei nemmeno una persona.
Pensava che accusandolo di averlo picchiato avrebbero finalmente capito che Freddie O’Brien era un ragazzo cattivo, e che non era lui a meritare il loro appoggio. L’aveva fatto a fin di bene.
- E...? - lo canzona il ragazzo, beffardo.
- Non è servito a nulla. Avevo torto.
- Smettila di vergognarti, Francis. Sono solo lombrichi, esseri inferiori. Guardati: ti vergogni ancora di ciò che sei?
Francis fa scorrere il pollice lungo una levetta, e la macchinetta si accende con un ronzio. Le minuscole lame che innervano le eliche si muovono in tondo, compiendo cerchi implacabili.
- Un taglio - ghigna il ragazzo nello specchio, eccitandosi - Zac! Un taglio e basta! Zac! Zac! Zac!
Impugna il rasoio con la mano destra, e respira a fondo. Ma il cuore gli batte talmente forte che cede, e la schiena gli si piega in due: poggia la testa contro il bordo piatto del lavandino, il dorso inarcato in una curva innaturale, e avvicina la macchinetta alla gola, nuda, sottile, morbida sotto il frullio delle lame.
Piange in silenzio, mentre ciocche di capelli biondo cenere cadono nello scarico. Il rasoio si inclina in avanti e indietro, attraversandogli il cranio, e le dita della mano sinistra si incontrano e si intrecciano col cannello del lavandino. Zac, zac, zac: per un po’ sente solo quello, e il peso dello sguardo del ragazzo nello specchio su di lui.
Si accarezza la testa, liscia sotto il suo palmo, e gli sembra di sentire il cervello pulsare, chiuso nel suo scrigno di ossa.
- Guardami - ordina Francis Scholz al suo doppione.
Alza il braccio destro, quello alza il braccio sinistro; le lacrime che colavano sul petto scivolano via.


Questo racconto ha partecipato al contest di Marge86 "I titoli del Maestro", ed è ispirato al titolo omonimo di una canzone di Guccini, "La Genesi".

  
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