CAPITOLO 2
Costanzo si alzò dal divano,
con uno strano mal di testa. Ma tanto ci era abituato.
Si incamminò verso la cucina,
senza pensieri. Non perché non ne avesse, ma semplicemente perché era stanco di
averceli in testa. In seguito aprì il bidone, a questo punto seguito dalla sua
unica considerazione. Suo figlio. Dentro vi era la carta della brioche che
aveva comprato per lui, vuota.
“Allora l’ha mangiata…”
Pensò lui, con un sorriso
sulla sua espressione che indicava dispiacere.
“Figlio mio, riuscirai mai a
perdonarmi?”
Poi si rattristò ancora di
più, a seguito dell’altra domanda…
“E ad accettarmi?”
Guardò avanti a sé. La sua
biblioteca che di solito era sempre affollata, quel giorno era stranamente
vuota. Vuota… Non era strano, succedeva tutti gli anni così, la scuola finiva,
l’estate iniziava e non ci veniva più nessuno. Vi erano solo una ragazza che era
presente ogni giorno su quel divanetto a leggere, con cui non aveva mai
parlato, neanche una volta, e Stefano. Lo guardò e sorrise. Quante risate si
erano fatti assieme, quanti sfoghi Stefano aveva avuto con lui… Conosceva la
sua vita, era come se Stefano si confidasse con Ambrogio perché non aveva nessun
altro amico con cui farlo. Amico. Ecco, lui per Sefano era considerato tale. E
non ne aveva altri.
Poi lo osservò meglio. Era sui
libri, ma non fissava quelli… Guardava altrove.
Terminato il libro, non ebbe
emozioni. La storia la conosceva ormai a memoria, ma non voleva dire nulla. La
prima volta che la sentì era stata sua madre a leggergliela. A Monica era
piaciuta tantissimo. Lei aveva pianto quella volta… Ora “piangere” era un verbo
che non faceva più parte del suo vocabolario. Non le apparteneva più.
Ormai chiusa la copertina di
“Romeo e Giulietta”, si alzò dal divanetto e fece per andare a depositarlo al
suo posto. Poi guardò l’orologio. Era tardissimo. Era ormai l’una. Doveva
tornare a casa e cucinare.
Si indirizzò verso l’uscita.
Ad un certo punto, una mano
sulla spalla la bloccò. Lei si girò di scatto e si ritrovò davanti a quel
ragazzo che prima aveva notato, essere presnte in quell’aula. Rimase un attimo
perlessa. Aveva fatto qualcosa per attirare la sua attenzione?? Pensò lei quasi
infastidita. Lui sembrò quasi leggerle nella mente.
<< Prima mi stavi guardando. >>
Lei rimase di sasso.
<< Cosa?
>>
Lui non mollava quella sua
espressione decisa e altezzosa.
<< Hai capito benissimo. >>
Lei scrollò la testa.
<< Lasciami in pace. >>
Così detto cercò di
allontanarsi, ma lui le si parò di nuovo davanti.
<< Volevo testare se era vero che le ragazze
erano tutte stronze, per darmi torto, ma… Lo sai che me ne stai dando
motivo? >>
Monica sbuffò, ormai raggiunto
il suo limite di discorso con un estraneo che non fosse suo padre o la sua
amica.
<< Che cosa vuoi? >>
Lui sorrise.
<< Che tu mi dica perché mi guardavi, ad
esempio… >>
Lei continuava ad essere
spiazzata. L’aveva guardato? Si, l’aveva fatto. Ma per poco! Non c’era nessun
interesse dietro quell’occhiata. E lui era un idiota se aveva notato ciò.
<< Per vedere chi c’era e tu eri l’unico, perciò
mi sono soffermata… Ora posso andare?
>>
Lui la squadrò da capo a
piedi.
“Ma chi si crede di essere sta
ragazzina?”
Lo pensò solo, pensò di
giocare lo stesso gioco.
<< E dopo?
>>
<< Dopo quando?
>>
<< Poco tempo fa, prima di alzarti. >>
Lei si mise le mani sul viso,
per coprirsi, per cercare di pensare, per non esplodere.
<< Non lo so!! Ora devo andare, me lo faresti
questo onore di scostarti e lasciarmi passare??
>>
Di fronte al suo tono
autoritario, Stefano non potè fare a meno di alzare le mani in segno di resa e
di spostarsi da davanti a lei. Lei lo seguì con lo sguardo fino a che non si
ritrovò il passaggio libero per poterlo intraprendere. Così Monica si
allontanò, lasciando così Stefano, insoddisfatto.
<< Tornerai domani, vero? >>
Lei alzò le spalle e proseguì
senza voltarsi. Lui, invece, continuava a rimanere fermo immobile.
Quella ragazza continuava a
fargli la stessa impressione che le aveva mostrato all’inizio. Quello sguardo
era triste, si vedeva… Qualunque cosa le fosse successa l’aveva fatta soffrire
parecchio e lui, quello sguardo, lo riconosceva fin troppo bene. Era lo stesso
che trovava in bagno la mattina davanti a quello specchio, lo stesso che
odiava.
In qualche modo pensò a quella
ragazza in positivo, finalmente dopo tanto tempo gli era successo, e sperò che
l’indomani l’avesse ribeccata in quella biblioteca, nonostante la sua parte
razionale stesse litigando con quella irrazionale per dirle di stare attenta,
che è una facciata, che è stanca di soffrire. Ma la zittì.
Davanti a lui, Ambrogio gli
sorrise, facendoglio il segno di Ok con la mano. Setfano contraccambiò e si diresse
verso quella scrivania per ritirare i libri.
Gli era venuta fame.
Monica era davanti ai
fornelli. Cercava di girare il sugo della pasta. Si portò il cucchiaio di legno
alla bocca e lo gustò notando quanto quel giorno le fosse venuto perfetto. Fu
fiera di se. Poi scolò la pasta ormai pronta e la mise nel sugo. La girò nella
padella e la servì nei piatto.
Suo padre arrivò
stiracchiandosi e sedendosi a tavola, arrivato da poco dal suo ufficio.
<< Ciao tesoro!
>>
<< Ciao papà.
>>
Lui la scrutò.
Niente, non era cambiato
nulla. Era sempre uguale, il suo sguardo era tale. Nessun miracolo era avvenuto
in quella mattina a cambiare la sua esistenza. Gabriele si stava quasi
rassegnando…
<< Cosa hai fatto sta mattina? >>
Lei si sedette in tavola e
cominciò a prendere la forchetta, rispondendo alla domanda senza alzare lo
sguardo dal piatto.
<< Sono andata in biblioteca e ho letto Romeo e
Giulietta. >>
<< Ah, si… Se non sbaglio era il libro preferito
della mamma… >>
<< Già.
>>
Non aveva alzato lo sguardo da
quel piatto per un preciso motivo. Non era per la questione del libro, suo
padre ormai conosceva a memoria quello sguardo, non c’era nulla da nascondere.
Più che altro, Monica, stranamente, stava pensando a quel ragazzo.
Dopotutto l’aveva guardato per
pochissimo e completamente con indifferenza. Perché si era preso la briga di
parlarle? La cosa le infastidiva ancora, ma soprattutto la lasciava perplessa.
Era da tanto che non parlava con un ragazzo. La sensazione la rendeva strana.
Non riusciva a comprenderla, non riusciva a contraddistinguela, non riusciva a
darle un nome. “Strana” era l’aggettivo che le aveva dato, ma forse, il più
adatto, sarebbe stato “Nuova”. E a lei il “nuovo” la spaventava…