Rieccoci
qua col nuovo capitolo.
“Gala”, dal titolo, deriva dal greco e
significa “latte”. Come mai? Leggerlo per scoprirlo ...
La
storia adesso incomincia a entrare nel vivo, ora che i due bischeri – Hashirama
e Madara – sono nati, le vicende dei personaggi prenderanno a legarsi tra di
loro. Incrociamo le dita ...
Ah,
mi ero dimenticata di dire nei capitoli precedenti, che per “Najtine la Fata”
non intendo che il personaggio ha le orecchie a punta, bacchetta magica e le
ali, no la “fata” era una curandera, una sorta di strega bianca e questo
termine si trova nella tradizione popolare medievale.
Un
sentito ringraziamento per i miei lettori e recensori, in particolare Ame Tsuki e Sagitta72.
Vi
auguro buona lettura,
H.
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Capitolo
Quarto: Gala
Sfamare
Menma è problematico. Non è rimasto quasi più niente da mangiare, la dispensa
del nostro rifugio patisce come noi la fame, noi, due uomini, inadatti per
natura a nutrire un neonato. Nell'inerzia dell'attesa, pensieri cupi affollano
la mia mente, i quali m'inducono a pensare che se non salteremo in aria,
moriremo d'inedia. O forse sto già crepando di fame, poiché, per quanto la
desideri, la mia bocca non si apre dinanzi al cucchiaio di pappa d'avena
offertomi (come l'avrà reperito?) dal Benefattore. Storco il viso, nauseato.
Mio cugino ne approfitta per riporre il cucchiaio, rimestarlo in quella sbobba
di fortuna, io nel frattanto nascondo quanto dettatomi dal tabarro, lui mi
porge ancora quell'insopportabile pappetta molle. Ostinato filantropo, gran vizio
della sua famiglia paterna.
"Devi
mangiare", mi comanda. "Sembri un cadavere." Parla proprio lui,
i cui zigomi resi prominenti da una quaresima fuori stagione gli ingrandiscono
gli occhi, quegli occhi così belli che, alle feste e serate mondane, ammaliavano
le donne lì presenti. Pallido, ora, estremamente pallido, sporco di polvere
raggrumatasi nel sudore, come lerci e fiaccati si appoggiano i suoi ricci sulla
fronte aggrottata. Conosco quello sguardo. Mi costringerà a mangiare, anche a
costo di forzarmi le mascelle. E mi chiedo: se lui appare così, io quale
mostruoso aspetto sto sfoggiando?
"Tu,
invece, sei l'ottava meraviglia del moooh-gulp!", ecco mi ha gabbato per
l'ennesima volta, infilandomi traditore il cucchiaio in bocca e il sapore di
quella robaccia mi paralizza la lingua. Fa schifo, è fredda e viscida, l'ingoio
a fatica, lo stomaco si ribella, disgustato, grugnisce il suo disappunto, vuole
ricacciarla via. Ma si adegua, sconfitto. E' pur sempre cibo e la fame torna a
rodermi le viscere.
Il
Benefattore mi cede la scodella, appoggiandomela sul grembo e mi sottrae Menma,
destatosi e già frignante e desideroso anch'egli di nutrimento. Mi detesto per
l'arrendevolezza delle mie mani, che non piangono la perdita di quel dolce peso,
l'unico loro interesse consiste nell'afferrare la ciotola e il cucchiaio,
ingozzandomi senza riprender fiato tra una cucchiaiata e l'altra. Stupido
stomaco avido e traditore, accetteresti di nutrirti perfino di topi se te li
offrissero!
"Tieni",
mi allunga il cugino un biscotto leggermente infiappito. "Gli darà un po'
di gusto ..." E mentre io gli divoro in un battibaleno pure quello, egli
estrae un cornetto di mucca traforato, riempiendolo di latte. Menma, affamato,
si serve di esso senza alcun rimorso, suggendo energico, i pugni chiusi e le
nari dilatate quanto gli occhi bicromi.
"Lo
hai bollito?", gli chiedo, leggermente preoccupato delle doti di balia del
mio parente.
L'occhiata
lanciatami è spietata. "Ovvio", dice, provocandomi un feroce rossore
per il mio scetticismo. Avendo ereditato un carattere sostanzialmente
estroverso, amabile e talvolta eccessivamente esuberante e disponibile verso il
prossimo (un po' come lo zio materno di Menma), tutti tendono a dipingerlo come
uno stolto, un pagliaccio, per poi tremare dinanzi ai suoi scatti di collera o
quando quella sua giovialità si sostituisce ad un'inflessibile serietà. Ignorano
che lui si atteggia così per meglio manipolarli, come il toreador che gioca col
toro prima di infliggergli l'estocade finale.
Questo
nei confronti degli altri eper quel che mi concerne, il Benefattore non sa
portarmi rancore troppo a lungo. "Mi prendi per un babbeo?", sorride,
seguitando ad allattare Menma col cornetto, magro sostituto del seno materno.
Ecco che termina il latte, il piccino piange, ne esige ancora, è finito, mio
cugino lo appoggia sulla sua spalla, Menma piange disperato e rutta e piange e
invoca quel latte che non riceverà. Vorrei dargli un po' della mia pappa
d'avena, me è ancora troppo piccolo per digerirla.
Mio
cugino, cullando il piccino, tenta di sopprimere con le parole quella frignante
protesta. "Temo che a breve dovremo abbandonare questo rifugio. A
Konohagakure hanno bombardato il bombardabile. Non siamo più al sicuro, bisogna
procedere verso casa!", si alza, barcolla, la vista gli si offusca,
costringendolo a coprirsi gli occhi con le dita fusiformi ereditate dal padre.
Lo
afferro, prima che sbatta contro il muro o, cadendo riverso sul pavimento,
schiacci il piccolo Menma col suo peso. "Ah, sì?", ringhio, frustrato
dall'apprensione. "E dove speri di andare così ridotto? Hai mangiato,
almeno? O meglio, quando è stata l'ultima volta che l'hai fatto?", bercio
fuori di me, grattando dalla scodella gli ultimi rimasugli della sbobba e
ficcandoglieli ferocemente in gola. Il Benefattore non replica, si limita a
sorbire la pappa in silenzio.
Talvolta
la sua generosità m'irrita a tal punto che vorrei strangolarlo, però desisto,
poiché anch'io ho peccato di simile eccesso e così non posso scagliare la prima
pietra.
Cala
la notte. Abbiamo procrastinato per qualche ora la nostra partenza. Siamo
sfiniti, il sonno nuoce alle nostre ossa ammaccate dal pavimento duro e per
fortuna che c'è il tabarro, che amorevolmente ci copre, riscaldandoci quel
tanto per non rabbrividire nel sonno.
Un
vagito. Di fame. Che posso fare?
"Non
ho niente, tesoro", sussurro a Menma, il cui pianto aumenta di volume ad
ogni secondo che passa. "Non ho niente da darti" e vi giuro che più
le lacrime gli rigano le guance smorte e sporche, più la mia anima s'accartoccia,
sopraffatto dall'impotenza. Per non svegliare mio cugino, il quale dorme
rannicchiato come un gatto pur di cedermi quanta più stoffa possibile del
tabarro, mi metto in piedi col nipotino in braccio e prendo a ballucchiare un
piccolo valzer consolatorio per l'esausto piccino. Ottenuta finalmente la sua
attenzione, oso spingermi oltre, azzardando un'arietta dal Faust di Gounod (la musica, eh!), la stessa che la mia bisnonna
cantava a mo' di ninnananna per i suoi figli, nipoti, pronipoti e a suo tempo
per i figli del padrone ...
C'era una
volta a Tulé un re, fedele
fino alla
tomba, e a lui fu donato,
cara
memoria della sua bella,
un bel
calice d'oro cesellato ...
"...
Eh, no!", s'interruppe Kiyora, chinandosi per terra onde raccogliere la
bianca cuffietta di pizzo che Hashirama, in piena crisi di ribellione
vestiaria, aveva afferrato dalla sua testa e scaraventata giù dalla culla.
Sbattutala contro la coscia, la giovane la rinfilò a fatica al suo legittimo
proprietario, il quale storse il capo neanche avesse voluto svitarselo dal
collo. "Benedetto fanciullo, vuoi gelarti le orecchie?", gli chiese,
sistemandogli il delicato nodino sotto il mento e, dichiarandosi soddisfatta,
lo sollevò dalla culla e lo avvolse nella morbida coperta di lana addolcita da
decorazioni in merletto, cullandolo. "Eppoi, mica vuoi presentarti tutto
sciatto, vero? Che dirà il cappellano?"
Francamente,
Hashirama del cappellano se ne infischiava altamente, soprattutto se
incontrarlo significava agghindarsi peggio di una bambolina di porcellana e coi
suoi occhioni grandi, marroni, dalle ciglia lunghe quasi femminee, hé, ad una
bella pupetta ci poteva assomigliare.
"Allora,
che ne dite? Non l'ho preparato bene? I Sinjori saranno contenti, spero",
volle Kiyora l'opinione di sua madre Najtine e di Haruka, intenta a trattenere
uno sgusciante Madara, insofferente a quel suo tenerlo per la vita alla stregua
d'un gatto. "Hai visto com'è ben vestito il tuo fratello di latte, tesoro
mio? Oggi lo battezziamo, sai? La Sinjora m'ha poi promesso di donarti una
vesticciola simile, quando verrà il tuo turno!", parlò lei dolcemente al
figlio, portandosi assieme ad Hashirama alla medesima altezza. Smettendola di
contorcersi come un fachiro, il piccino osservò attento il volto del Sinjorino,
allungando una manina bavosa verso il nastro, tirandolo a sé in modo da
rubargli la cuffietta.
Il
piccolo Senju poteva, su suo capriccio, denudarsi di tutte le cuffiette di
questa terra, ma guai se qualcun altro osava mettersi in mezzo, guastandogli il
divertimento! Non appena i suoi morbidi capelli castano scuro vennero a
contatto con l'aria leggermente più fredda, egli s'imporporò sdegnato, cacciò
un belluino grido di battaglia e schiaffeggiò in una rapida zampata il naso di
Madara, che rimase a bocca aperta per la sorpresa, prima di sciogliersi
anch'egli in un pianto stizzito. E avrebbe pure ottenuto la sua giusta vendetta
se sua madre, dopo avergli sottratto la cuffietta, non si fosse alzata,
separando i due litiganti. "Cattivi, cattivi, brutti e cattivi tutti e
due!", li rimproverò Kiyora, mentre Najtine sogghignava segretamente tra
sé e sé.
"Ma
come, furbastro? Aspetta di essere più grande per simili giochi ...",
disse al nipotino, alludendo alla strana mania di Madara di sottrarre,tirando, ad
Hashirama un qualsivoglia capo d'abbigliamento, dai calzini, alle fasce-pannolino,
alla copertina e se gli oltraggiati strilli di risposta del Sinjorino avessero
trovato una traduzione, di sicuro sarebbero stati non dissimili ad un "E smettila, lurido maiale ladro pervertito!"
Ma
a parte questo, i due non s'importunavano troppo, o meglio, tutto dipendeva
dall'umore già pestifero del moro - sì, i quattro ciuffi che aveva in testa
avevano ripreso il corvino della madre, solo con sfumature azzurrine invece che
viola - il quale, imparato a stare seduto, tentava ora saltellando sulle
chiappe ora strisciando di afferrare Hashirama, che aveva a sua volta appreso a
gattonare con un mese in anticipo pur di sfuggirgli, nascondendosi sotto il
tabarro di Najtine. Gli adulti, ovviamente, interpretarono la cosa come un
segno di grande precocità da parte di ambedue i pargoli, in particolare quando
Madara, raggiunto il nascondiglio del compagno di poppate, ne sollevava il
lembo alla ricerca del fuggitivo; rapida come la morte, una manina tesa lo
aspettava al varco, una manina che gli rifilava un bel ceffone, costringendolo
ad abbassare stupito e umiliato il tabarro. Allora, dimostrando di essere già
un testardo, il piccolo Uchiha rotolava dalla parte opposta, infilando la testa
sotto il mantello e alla fata cadeva per poco il fuso dell’arcolaio non appena
i suoi timpani sperimentavano l’acuto strillo di Hashirama, presto seguito da
quello di Madara. Prontamente la donna scostava il tabarro dal punto in cui i
due s’erano accampati, rivelandoli intenti in una strana zuffa, il moro che
stava tentando di smutandare – anzi, spannolizzare – il castano, mentre questi
ricambiava il favore tirando vendicativo i pochi ciuffi del suo assalitore.
Solo l’allettante prospettiva della pappa riusciva a calmare le urla ferine che
uscivano impunite da quelle gole nuove di zecca, desiderose d’essere collaudate
quanto prima.
"Ponja
... parlando del ba-battesimo ... Quando ... quando sposerai il Paĉjo
...?", tartagliò ad un certo punto Haruka, riacciuffando Madara e
ritrovandosi di conseguenza la mano sbavata in segno di protesta.
Il
sorriso della giovane s'incrinò in un che di sinistro. "Il giorno in cui
verrà strisciando a chiedermelo, filina mia!" Ed effettivamente, non
mancava giorno che Tajima non insistesse acciocché Kiyora venisse a vivere con
lui, marmocchio compreso. Dal canto suo, la mora era irremovibile: l'Uchiha aveva
promesso di sposarla compiuti i sedici anni? Ottimo, allora avrebbe atteso e
siccome non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, o Tajima si
pigliava tutti e due con la benedizione della Chiesa o ciccia, senza contare
che l'essere divenuta la nutrice del figlio del padrone le riempiva le giornate
e l'ultima magagna che poteva sopportare erano le lamentevoli insistenze
dell'uomo, sicché, appena lo scorgeva dalla finestra, Kiyora correva in camera
sua, chiudendosi a chiave e cantando ad alta voce per non udire i battiti alla
porta dell'Uchiha.
Talvolta,
però, le richieste di Tajima si facevano così insistenti che neppure i rimedi
della giovane potevano metterle a tacere; di conseguenza, ella balzava giù
dalla sedia a dondolo e, spalancando la finestra, gridava spazientita:
“Ohé,
ma la smetti di rompermi le pigne? I pargoli starebbero dormendo, sai? Santa
Trinità, se mi fai scaturire il Sinjorino, la Duchessa m’impicca con le mie
budella! E allora, chi si prenderà cura di Madara? Tu, razza di totano?”
Sorvolando
sul “totano” nell’ultima domanda retorica, Tajima ribatté ostinato: “Certo,
perché sono suo padre! E in quanto tale è ingiusto vedermelo privato!”
“Aria
fritta con cipolle! Manco te ne cale di lui!”
“Baggianate!”,
sbraitò l’Uchiha, che incominciava a perdere la pazienza. “M’importa moltissimo
di lui, così come dovrebbe importare a te la magra figura che ci stai facendo
fare alla comunità intera! La gente parla!”
“E
lasciali fare, hanno la lingua apposta!”
“Io”,
si batté l’uomo il petto, indicandosi “quando metto su famiglia, non voglio che
nessun possa dire! Capito? Niente chiacchiere! Nessun Uchiha a Mokuton ha mai portato
il titolo di “bastardo” e mio figlio non farà eccezione!”
“Ma
sentilo, sentilo, il gran pater familias!”, roteò Kiyora gli occhi in maniera
beffarda. “E a me non pensi, hundino? Non pensi alla vergogna che potrei
provare giù in paese, sentendomi dare della baldracca? Della concubina? Io
vengo solo se mi sposi, intensi?”
“Non
si può fino ai tuoi sedici anni!”
“E
allora, aspetta! Che fretta c’è?”
“Ma
nel frattempo torna a casa, vivaddio!”
“Sono
già a casa, pirla, a casa mia, di mia madre!”
“Manchi
ai bambini …”
“Forse
ad Haruka, ma agli altri due masnadieri no di certo …”
“Benedetta
knabina, quando ti impunti così avrei voglia di strangolarti!”
“Ecco,
bravo!”, berciò Kiyora, afferrando Madara dalla sua culla e mostrandoglielo
ancora insonnolito dalla finestra. “Strangolami davanti a tuo figlio! Avanti,
strangolami, ch’è la volta buona che t’impiccano e hai finito di scocciarmi!”
Najtine,
filando imperterrita malgrado le grida belluine e la raffica d’insulti
scaraventati a destra e a manca, li giudicò entrambi due cretini.
Quanto
a Madara, egli visse abbastanza serenamente questo braccio di ferro tra i suoi
genitori; a onor del vero, gli importava ben poco. Aveva questioni più pressanti
cui badare: contendersi ad Hashirama il seno di sua madre. Il piccolo Senju,
quando si trattava di poppare, non era un rivale da sottovalutare: complice il
periodo di schifosi surrogati e un inverno assai rigido, il piccino aveva
sviluppato una fame pressoché mostruosa e siccome lo stesso Madarain fatto di
appetito non era secondo a nessuno, la povera Kiyora, appena terminato con uno,
doveva issare lo strillante altro per allattarlo e così via suggendo.
Lentamente, la mora stava incominciando a svezzare Hashirama e le richieste di
poppare presero a diminuire; nondimeno, le prime settimane furono orribili.
Del
resto, quando Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro si presentò alla porta di casa di
Najtine, suo nipote versava in condizioni davvero critiche, strappando
un’esclamazione di preoccupato stupore perfino a quella scettica per natura di
Kiyora. Infatti, in seguito alla morte della sua balia, se ne chiamò presto
un’altra, sennonché Hashirama si rifiutava di nutrirsi da lei, neanche avesse
intuito tramite un arcano ragionamento d’infante che la persona che fino a quel
momento l’aveva allattato fosse deceduta, per di più di morte violenta. Non
volle rimpiazzi, anzi, non volle proprio mangiare, per la disperazione di sua
madre la Duchessa Anise che vegliava in lacrime sul figlio, rimpiangendo quel
latte che i suoi seni oramai non potevano più offrirgli. Si temette dunque per
la sorte di Hashirama, dimagrito in un battibaleno da un morbido frugoletto ad un
fragile scheletrino: non solo declinò la poppa della seconda balia, bensì della
terza, della quarta, etc.; prese a vomitare il latte ingurgitato per
disperazione; piangeva e strillava giorno e notte come un ossesso e si rigirava
esagitato nella culla che pareva epilettico.
A
suo modo, Hashirama stava onorando il lutto per la scomparsa della sua nutrice,
visto che neppure un cane aveva presenziato al suo funerale.
Fu
forse per questo motivo che, nel momento in cui l’anziano Duca comunicò ai
figli e alla nuora di voler affidare il nipote per un anno – secondo le usanze dell’epoca
– alla figlia della Fata, nessuno osò sollevare delle obiezioni, neppure Tōka
Senju, la quale si limitò ad annuire tristemente.
“Ve
lo riporterò bello come il sole!”, aveva promesso loro Kiyora, quando Sua
Grazia e la Duchessa vennero a portarle il bambino, il quale dormicchiava
respirando appena appena. “Avete la mia parola.” I due Senju sorrisero a fior
di labbra a mo’ di ringraziamento e non per scortesia, bensì in quanto entrambi
provati da quell’atroce esperienza, assistere al deperimento di un bébé fino a
quell’istante considerato uno splendore di salute. Rassicurati i sinjori con
questa ottimista promessa e congedatasi da loro, Kiyora cedette allora il suo
figliolo a Najtine e riempì il vuoto del suo abbraccio con il Sinjorino, il
quale strabuzzò gli occhi, allarmato da quell’inatteso scambio. Prese quindi a
tirare su col naso, a sforzare la trachea già di suo abbondantemente sfruttata,
ma ecco! Oh, il miracolo della natura! Quali segrete paroline gli aveva
sussurrato la ragazza, mentre prendeva posto sulla sedia a dondolo? Parole
certamente di conforto, come consolanti erano quei ghirigori tracciati col
polpastrello sul visino scavato, gli occhioni sporgenti e le manine ossute, che
Hashirama schiuse e riaprì nel tentativo di afferrare il dito della mora. Con
l’altra mano, lei si slacciava la blusa e la tetta turgida ebbe appena il tempo
di fare capolino, che il piccolo Senju s’attaccò al capezzolo, suggendo vorace,
gli occhi chiusi in apprezzamento e le dita intente in strani esercizi motori.
Non si separò neppure quando Madara, frignando incollerito, gli diede tramite
una serie di singhiozzi-gridolini del porco egoista, specificando in questo
arcano e indecifrabile linguaggio infantile che quella era la sua tetta e che sloggiasse
immediatamente. Hashirama, ineffabile, fece orecchie da mercante, gli rispose
solamente a pasto terminato attraverso un soddisfatto ruttino e fu forse questa
piccola provocazione che istigò in mio nonno il vindice pallino di smutandare
ad ogni occasione il suo fratello di latte, il quale, omettendo i primi problemucci
d’adattamento, riprese a mangiare con regolarità, riacquistando peso e cessando
i suoi estenuanti isterismi con sommo sollievo di sua madre la Duchessa, la
quale malgrado le fosse stato consigliato di sfruttare il periodo di
convalescenza per rilassarsi, non passava giorno che non trovasse un modo per
venirlo a trovare, magari adducendo qualche flebile scusa o portando calzini,
cuffie, vestitini nuovi anche per Madara o sapone o coperte o altro denaro per
pagare ogni spesa aggiuntiva. E spesso, sedendosi accanto a Kiyora, Anise si
fermava assorta a contemplare il figlio che poppava come un matto, mentre
un’espressione d’infinita malinconia le si dipingeva in volto e il fievole e
sempre più saltuario dolore ai propri seni le ricordava maligno quell’arcano
rimpianto, di non aver mai allattato personalmente la sua creatura sia per
motivi estetici che di etichetta. Alla fine della visita, la Duchessa si
raccomandava sempre con voce roca, dopo aver baciato e ri-baciato la testolina castana
del suo bébé, di trattarlo bene e di avvertirla al minimo problema.
“Non
avrei mai immaginato che l’allattamento fosse per i ricchi un qualcosa di
sconveniente!”, confidò una sera Kiyora a Najtine, intanto che cambiava le
fasce ai due marmocchi.
“Non
a caso nelle loro vene, quelle dei nobili in particolare, scorre ghiaccio al
posto del sangue!”, replicò la fata, aiutandola a finire il lavoro e a
sistemare nella semplice culla Hashirama e Madara, entrambi troppo stanchi e
satolli di latte per protestare l’eccessiva vicinanza, in poche parole dormire
nella stessa culla, preferendo invece rimandare a più tardi la loro diatriba
lattea, addormentandosi quasi subito, Hashirama coi pugnetti portati
all’altezza della testolina come le icone bizantine, Madara col suo immancabile
pollice in bocca.
Una
piccola tregua che durò all’incirca quattro ore quando, in sincronia perfetta, i
due ulularono nel cuore della notte la loro fame lupesca.
... Nessun
tesoro tanto gli piaceva!
Se ne
serviva nei giorni solenni,
e ogni
volta ch'egli vi beveva,
i suoi
occhi di lacrime eran pieni ...
Il
29 giugno dello stesso anno, giorno dei Santi Pietro e Paolo, il sovrano di Hi,
Re Sorato XIOotsusuki, impalmava una bella straniera, figlia di un imperatore,
Sua Eccellenza la Principessa Kaguya. La peculiarità di codesto imeneo
risiedeva nelle origini della regale sposa, la quale non proveniva, come le
previe regine, né da Tsuchi, né da Kuminari, né da Mizu, né da Kaze, né da
qualsiasi altra città libera o granducato o principato confinante con Hi. Sua
Eccellenza Kaguya veniva da una nazione lontana (così lontana che solo chi
aveva studiato geografia o viaggiato poteva figurarsela mentalmente) e aveva
conosciuto Sua Maestà quando questi era ancora un Principe
Ereditariosballottato di qua e di là per il globo terrestre su istruzione di
suo padre, il defunto Re Soma VIII.
Il
matrimonio reale, celebrato con uno sfarzo senza pari, galvanizzò l'intero
regno, da nord a sud, da est ad ovest e le casse dello Stato ingrassarono per
la folla di sudditi dalle province o di visitatori, che si prestò a rimanere
pigiata negli angusti marciapiedi o appollaiata alle finestre pur di vedere la
sposa arrivare nel Duomo di Nostra Signora dei Miracoli a Konohagakure o
viceversa, la coppia reale uscire da esso sulla carrozza scoperta e salutare i
festanti sudditi con un artificioso svolazzo di mano di repertorio. L'euforia
generale sconvolse talmente la psiche dei konohagakuriani e hiliani in
generale, che ogni screzio politico venne accantonato; perfino gli oppositori
più accaniti della monarchia - i famigerati repubblicani che avrebbero dato la
mano destra per veder la testa dei reali rotolare nello sterco di vacca -
ebbene pure loro si sciolsero in un esaltato: "Dio salvi il Re! Dio salvi la Regina!"
Insomma,
ci si riscoprì d'un tratto patriottici, perfino i più scettici.
A
Mokuton l'effetto esaltante delle nozze reali venne prontamente assorbito
dall'incrinabile imperturbabilità dei suoi abitanti i quali, un giorno di ferie
e qualche bicchiere di vino gratis a parte, non si ritrovarono né più ricchi né più privilegiati di prima,
anzi, con la scusa che i padroni avevano dovuto lasciare la tenuta per
presenziare alla funzione nel duomo, l'Amministratore ne aveva approfittato per
godersela un poco, angheriandoli ulteriormente con le sue prepotenze e se il
mio prozio simpatizzò con la classe lavoratrice, fino a pagare con la propria
vita tale empatia, lo si deve a suo padre, il bisnonno Tajima, che, eletto a
portavoce di tutti i mezzadri, si rivolse all'ultima autorità rimasta a
Mokuton, quando i Senju erano assenti: il parroco. Col vecchio medico quale
testimone (saranno stati analfabeti, ma mica fessi, eh!) il bisnonno e i suoi
compari obbligarono il parroco a compilare il primo cahier de doléances mai esistito a Mokuton, un dettagliato resoconto
di tutte le malefatte dell'Amministratore, alcune dimostrate, altre solo
ipotizzate. In un appassionato quanto indignato appello al Duca, vi si
denunciavano dopo anni di silenzio le birbonate e prepotenze cui i mezzadri
erano sottoposti, le ladrerie compiute alle sue spalle e lo si invitava a
prendere quanto prima dei seri provvedimenti. Ovviamente, questo quadernino non
giunse mai nella scrivania né del Maljunulo Sinjoro né di Butsuma Senju,
giacché il parroco, temendo ripercussioni da parte dell'Amministratore, lo
nascose ai piedi della quattrocentesca statua di Santa Lucia e lì sarebbe
rimasto per tre lustri, fino ad un suo casuale ritrovamento che avrebbe portato
al giusto licenziamento dell'Amministratore prima, ad una tremenda tragedia
nella famiglia Senju poi, segnando per sempre il destino delle due famiglie e
dei loro componenti.
"Lui
era venuto a punirci per i peccati compiuti dai nostri antenati", avrebbe
confessato Kawarama a suo fratello Tobirama in seguito all'orribile sciagura.
"Dobbiamo rassegnarci a raccogliere quanto seminato."
Intanto
però, l'Amministratore (vi sarete resi conto che non voglio neppure dargli un
nome) si accertò di fargliela pagare a quei disgraziati che lo avevano
denunciato; il parroco, del resto, non ci mise molto a confidargli i loro nomi.
La conseguente rappresaglianon tardò a venire: l'Amministratore e i suoi
sottoposti, cui era stato erroneamente riferito che i mezzadri stavano
organizzando una sommossa ai danni del padrone, irruppero di notte nelle case
dei recriminanti e, strappatili a viva forza dal letto, li menarono a sangue
davanti ai loro atterriti famigliari, ficcando poi la loro testa nel buco sul
retro casa che fungeva da pitale. Lo stesso fato lo avrebbe subìto anche Tajima
Uchiha, sennonché le oche nel cortile, accortesi dei visitatori notturni, similmente
alle loro ave del Campidoglio presero a starnazzare impazzite, svegliando tutti
gli abitanti del casolare, i quali, affacciandosi alla finestra, intuirono il
motivo di quella visita sgradita e di fatti, vestito il parente alla bell'e
meglio, lo fecero uscire di soppiatto dalla cucina. Correndo trafelato nei
campi bui come l'inchiostro, l'uomo si diresse verso il solo posto che avrebbe
potuto dargli asilo: la casa di Najtine la Fata.
"Mi
danno la caccia, nascondimi!", esclamò egli senza fiato alla moglie, che
gli venne ad aprire dopo che questi ebbe per poco sfondato la porta a furia di
disperati colpi. (Pur seguitando a non vivere assieme, Tajima e Kiyora avevano
nel frattempo convolato a nozze).
Senza
neanche dargli il tempo di deglutire la saliva, la giovane lo tirò dentro casa,
spingendolo in camera sua. "Qui!", disse, indicandogli la capiente cassapanca.
"Nasconditi qui! Non muoverti, non respirare! A loro ci penso io!",
lo istruì, per quanto lei per prima non sapeva come accidenti comportarsi,
proprio in quella notte le doveva succedere un tale teatrino, l'unica notte in
cui Najtine non c'era!
Ma
il suo tabarro sì, neanche la fata l'avesse sospettato, e di fatti Kiyora se lo
mise addosso a mo' di sostegno e protezione, sedendosi sopra il mobile, Madara
e Hashirama stretti al collo. Molti anni dopo, poiché il mondo è un Uroboro,
una scena simile si sarebbe ripetuta: sua nipote, mia zia, avrebbe atteso col
figlio in braccio i "difensori dell'ordine" alla ricerca di suo padre
e di suo zio, che lei aveva precedentemente nascosto in casa. Soltanto perché i
capi di questa marmaglia erano amici di vecchia data di suo marito e avevano
colto l'occasione per pareggiare dei conti comunque sbilanciati (il padre del
Benefattore s'era giusto difeso e basta), mia zia sarebbe scampata ad una
caterva di colpi allo stomaco, salvando così il nonno e il prozio.
Similmente,
anche Kiyora la fece scampare a Tajima per intercessione di un Senju,
sfruttando per una volta il suo speciale status a Mokuton. Le servì un enorme
coraggio, però. Un'audacia accompagnata dal tremore delle gambe e dal cuore che
le batteva a mille nel petto, mentre udiva i cani dell'Amministratore abbaiare
verso la sua abitazione, ben presto seguito da un deciso rumore di passi.
"Aprite
questa porta, streghe!", gridarono da fuori.
Kiyora
non si schiodò dal suo posto.
"Aprite
o giuro su Dio che appena dentro vi torco il collo, puttane!"
La
mora strinse di più a sé Madara e Hashirama, i quali neppure fiatavano,
intuendo secondo i loro ragionamenti d'infante che qualcosa di brutto stava
accadendo e che non era il caso di fare storie.
Un
calcio, due calci, tre calci. La porta crollò, sfondata, frantumandosi in un
bedlam di schegge e tavole irregolari al primo contatto col pavimento. Entrarono
come un fiume in piena, invadendo e violando la sacralità domestica coi loro
stivali sporchi di fango, d'orina e sangue, rovistando dappertutto, distruggendo,
dissacrando. In mezzo a questo blasfemo bailamme, la giovane nutrice era
rimasta immobile come il sole, i due pargoletti oramai un tutt'uno con lei e
col tabarro.
"Avanti,
parla! Dove hai nascosto il tuo uomo?", si rivolse brusco l'Amministratore
a Kiyora, dopo un'oretta buona d'infruttuose ricerche.
"In
questa casa gli unici maschi che vi abitano sono questi due bambini."
"Non
fare la furba, troia. Sappiamo che tuo marito è venuto qui a nascondersi! Dove
lo hai ficcato?"
"Non
è insultandomi che mi persuadi a dirtelo! Eppoi, io non so niente, non ho visto
niente, a che pro mentirti?"
"Piuttosto,
perché non eri a letto? Perché sei seduta qui?"
"Stavo
allattando ..."
"Mi
pare che questo qui sia un po' grandicello per poppare ..."
"Non
il mio, però!"
"Suvvia,
carina, poche storie: quella cassapanca è l'unico posto in cui non abbiamo
controllato. Alzati: se davvero tuo marito non è in questa casa, non hai nulla
di cui temere!"
"E
appunto perché questa è casa mia, che mi alzo come e quando ho voglia e adesso
non ne ho!"
"Non
scherzare con me! Alzati o ..." e le puntò con freddezza assassina la
volata del fucile dritto al cuore.
Kiyora
impallidì fino al grigiastro, incominciando poi a gridare isterica: "Cornuto!
Avresti davvero i coglioni di sparare ad una donna disarmata, per di più con
dei bambini in braccio?", ululò, ingobbendosi e torcendosi con busto e
spalle per proteggere i piccini, adesso piangenti e terrorizzati. Gli uomini
dell'Amministratore si mossero a disagio sul loro posto: decisamente il loro
superiore stava sorpassando ogni limite, specie se ancora non aveva intuito la
vera identità di quella donna.
"E
sai quanto me ne frega; una puttana e dei bastardi in meno, come se il mondo vi
potesse mai rimpiangere!"
"Puttana
sarà tua madre e bastardi sarete te e i tuoi fratelli! Lo sai chi sono io? Sai
chi è lui, figlio di scrofa?", strillò ella esasperata dal terrore,
indicando appena Hashirama, riconoscibile dai ciuffi castani che spuntavano dal
tabarro. "Io sono la balia del figlio del padrone! Il figlio primogenito
del Duca! Se gli dovesse mai succedere qualcosa, quant'è vero Iddio, Butsuma
Senju ti farà squartare vivo e getterà le tue viscere merdose ai maiali!"
Una
dolorosa stretta ai capelli la interruppe, piegandole dolorosamente il collo all'indietro.
"Me ne sbatto dei Senju, di quegli ingrati rotti in culo, mangiapane a ufo,
parassiti! Pensi che ti salverai il deretano nascondendoti dietro di loro? Che
siano onnipotenti? Oh no, un giorno dimostrerò quanto essi siano fatti di carne
e sangue e quel giorno gliela farò pagare non cara, no, carissima, salatissima,
li farò disperare, li umilierò e tu sarai la prossima, tu e il tuo bastardo e
quel cacasotto di tuo marito! Ah sì, e la strega che chiami madre!"
"Se
non sarai tu a morire per primo, chi augura la morte ad una persona, accorcia
la sua e l’allunga a quell’altra!", sentenziò serena la padrona di casa,
comparendo alle loro spalle.
Calò
immediatamente un pesante silenzio.
"Che
blateri mai, strega?", la derise l'Amministratore, seppur un poco
titubante.
"La
pura verità", replicò serafica la fata, avanzando verso il gruppetto, che
indietreggiò, impaurito. "E adesso, andatevene via o vi getto il
malocchio!" e in tutta onestà, gli uomini lì presenti non avevano alcunché
da obiettare, anzi, stavano giusto per esaudire il desiderio della donna,
sennonché l'Amministratore li ordinò di restare.
"Che!
Avete paura di questa befana?"
"Chi
insulta senza un valido motivo dimostra di non possedere troppo cervello!"
Per
tutta risposta alla massima di Najtine, l'uomo le elargì un possente
manrovescio, gettandola a terra. "Taci, baldracca, e dimostra di averne un
poco anche tu!"
Di
nuovo calò il silenzio, stavolta mortale.
"Solo
un maiale colpirebbe una donna", mormorò infine la fata ieraticamente,
rialzandosi. All'improvviso, Najtine gli batté le mani davanti agli occhi, a
qualche centimetro dal suo naso. "E allora vai! Vai a rotolarti coi tuoi
simili, porco!", gli ordinò, indicandogli la porta.
L'Amministratore
appoggiò le mani ai fianchi, gettò indietro il capo e si esibì in una grassa e
insolente risata. "Via, vecchia! Il Medioevo è finito da tem- ... Oink!",
si tappò la bocca con la mano incredulo del suono emesso dalla sua gola. Ché
infatti, mescolandosi alle risa, un vero e proprio grugnito maialesco era
eruttato dalle sue labbra, scioccando tutti, tranne i piccini, che ripresisi
dallo spavento iniziale incominciarono a ridacchiare.
Oink, oink!
"Oh
Gesù, Giuseppe, Maria ...", si segnò velocemente Kiyora, portandosi le
ginocchia al petto, tanto l'aveva invasa
la paura della superstizione, mentre osservava l'Amministratore cadere
bocconi sul pavimento, grugnendo e dimenandosi e trotterellando a quattro zampe
verso la porcilaia, dove si gettò tra
gli esterrefatti suini, i quali si domandarono se dovevano contendersi anche
con questo nuovo arrivato le loro ghiotte ghiande.
Oink, oink, oink!
"Vade
retro, Strega!", gridarono terrorizzati i sottoposti dell'uomo, intasando
l'uscita in uno scomposto mucchio, essendosi infatti gettati nella fuga
esattamente nello stesso istante.
Najtine
sogghignò, puntando contro loro due dita e bofonchiando gutturali parole di
minaccia, che si persono nel vento notturno, soppresse dagli ululati dei
fuggitivi.
"Si
è ... si è davvero trasformato in un ... maiale?", le domandò la figlia
sull'orlo dello sconcerto, una volta che nella casa ritornò una certa calma.
"Potresti ripetere anche con lui?", avanzò ella la sua richiesta,
indicando Tajima, che in quel momento stava aiutando ad uscire dalla
cassapanca, dopo aver coricato Hashirama e Madara nella loro culla.
"Senti,
donna, non infierire ..."
Riprendendosi
il suo tabarro, la fata incrociò le braccia al petto, svelando l'arcano: "Neniu,
non l'ho "trasformato". Ho
solo rilassato la sua coscienza d'uomo, visto che èuna bestia nell'animo. In
ogni modo, domani mattina ritornerà in sé e non si sovverrà niente di questa
notte, un po' come se avesse sperimentato una forte ubriacatura. Forse
preserverà una vaga sensazione di aver fatto una figuraccia e di
doversoprattutto stare alla larga dalla mia casa!", disse, massaggiandosi
la spalla indolenzita dal carico di affanno che il tabarro aveva accumulato
dalla figlia e i piccini, passandoglielo e conseguentemente irrigidendole i
muscoli. "Ciononostante, pur conoscendo le dinamiche del futuro, mi
sarebbe davvero piaciuto trasformarlo sul
serio in un porco, coda inclusa!", rimpianse tristemente, dirigendosi
verso il caminetto e lì riprese il suo infinito lavoro all'arcolaio. In
silenzio, dietro di lei, la sua pupilla riaccompagnava Tajima dalla sua
famiglia.
Najtine
possedeva un'incomprensibile, per i non-adepti, chiaroveggenza e appunto per
questo motivo ella aveva previsto il progressivo allontanamento spirituale di
Kiyora nei suoi confronti; l'affetto sincerofinora dimostratole dalla mora da
quel momentosi sarebbe mutato gradualmente in un formale rispetto, più che
altro dovuto al timore di subire la medesima sorte dell'Amministratore, il
quale, come da lei predetto, si chiese nelle successive settimane come
accidenti fosse finito a ruzzolare nel fango e nella merda tra i maiali,
nutrendosi delle loro ghiande. Kiyora, col passare del tempo, avrebbe perfino
smesso di vedere Natsumi Uchiha. Ciò dispiaceva grandemente sia alla fata che
al fantasma, giacché la prima aveva perduto una potenziale apprendista, la
seconda una persona a cui manifestarsi.
"Cinque
anni e quattro mesi", consolò ella il tabarro, che vibrava il suo
disappunto, aderendo al suo corpo da dea mater. "E avrò una persona cui
insegnare ciò che sento, ciò che
vedo."
Sospirò,
appoggiando il fuso e gettando un ciocco di legno nel caminetto.
Non
sempre pagano a questo modo gli atti di misericordia.
...
Quando, sul freddo letto, il passo estremo
della
morte il re sentì arrivare,
per potere
alla bocca avvicinare
la coppa,
fece uno sforzo supremo ...
L'estate
ingiallì nell'autunno e, prima che ci si potesse rendere conto, giunse il 23
ottobre, segnando il momento della restituzione di Hashirama alla sua vera
famiglia, la quale si trovava brevemente di passaggio a Mokuton, giusto per
sbrigare le ultime formalità concernenti l'amministrazione della tenuta, per poi ripartire col bambino alla volta di
Konohagakure, dove avrebbero trascorso l'inverno e il primo mese di primavera,
fino a Pasqua.
Nei
mesi trascorsi tra giugno e ottobre, il Sinjorino aveva dato del filo da
torcere a Kiyora, specie quando, a furia di capriole e strilli frustrati,
imparò a camminare e iniziò dapprima la sua fase di lallazione, in seguito a
spiaccicare le prime pragmatiche paroline: "Mamma ... pappa ..." e se
il suo vocabolario fosse stato più articolato, di certo avrebbe aggiunto
"E pure in fretta, eh!" Poppare latte oramai non lo interessava,
trovava assai più divertente impiastricciarsi le mani di morbido purè di patate
e spalmarlo sulla testa di Madara (o "Dada", come Hashirama lo aveva
ribattezzato, essendo il nome del nonno ancora troppo complicato per la sua
linguetta inesperta) e il piccolo Uchiha, costretto ancora a gattonare, non
poteva competere con la vantaggiosa posizione eretta del Senju, impedendogli
così di rendergli pan per pariglia. Piangere però no, non gli voleva dare
codesta soddisfazione. Sicché, in una mattina ottobrina, Madara decise,
esigette, risolse, stabilì ed eseguì, di sollevarsi dalla sua animalesca
andatura a quattro zampe e di ergersi come i suoi simili homo sapiens sapiens,
camminando sui suoi piedini. Più facile a dirsi che a farsi: al bambino costò
una fatica immane sollevare in alto il sedere e formare una sorta di triangolo
tra salsiccesche gambe e braccia tese. E
quando gli parve di poter raddrizzare la schiena e compiere i primi fatidici
passi, ecco che la testa, più pesante del corpo, onorò le leggi di Newton e si
piantò per terra e in battibaleno il mondo si capovolse e Madara si ritrovò
supino per terra, la veste di lana sporca di terra e sollevata quel tanto da
mostrare al mondo le sue ancora acerbe grazie (Vorrei far notare, che all'epoca di mio nonno, i bambini piccoli
vestivano come bambine, con le sottane, e non calzavano alcun genere di
costrittiva mutanda, acciocché potessero urinare e defecare a loro piacimento,
quando natura chiamava, sollevandosi la vesticciola). Hashirama, che aveva
assistito all'esperimento in doveroso silenzio, alla vista del perplesso Uchiha
spaparanzato per terra gli trotterellò accanto a mo' di sostegno o forse per
tappare la zampillante fontanella tra le gambe del fratello di latte, il quale,
vuoi per la paura del ruzzolone vuoi per la pienezza della vescica, si stava
per l'appunto pisciando addosso e, a quanto pareva, il piccolo Senju si stava
divertendo un mondo ad aprire e chiude con la manina la parabola d'urina, un
po' quando si è alla Fontana delle Tette e si blocca un capezzolo per far
uscire più acqua dall'altro, schizzando i malcapitati attorno a quello
ostruito. "Lalla-la-mah-gah-tat-ta!", strillò Madara, agitandosi come
una tartaruga finita sul dorso, chiaro invito ad Hashirama di scegliersi un
altro passatempo. Togliendo la mano lercia di pipì dalle modestie del moro, il
Sinjorino se la ripulì sulla gonna della sua veste di verde velluto, osservando
attento e senza malizia come Madara si rotolasse prono, gattonandosene via
umiliato e offeso col sedere nudo al vento e, pensando che si trattasse di un
nuovo gioco, si alzò anch'egli la sottane e gli gattonò accanto in simile
maniera, in quanto pure lui privo di intimo.
Una
settimana dopo, Kiyora riportava Hashirama al Castello di Mori.
I
due pargoli, grazie alla loro infantile intuitività, avevano compreso che
qualcosa di strano stava accadendo quella mattina del 23 ottobre: la giovane
balia, vestitati con l'abito della domenica, aveva destato il Sinjorino e
lasciato invece Madara nella culla, che si issò sulle paffute e spellate
ginocchia per meglio studiare quell'inusuale programma, giacché la sua mamma
soleva sottrarli contemporaneamente a Morfeo, senza precedenze. Spiò come Hashirama venne fatto colazionare,
seppur controvoglia, e sottoposto ad una lunga toeletta: con mesta
accuratezza, Kiyora lavò e strofinò ogni
centimetro della sua piccola figura; gli tagliò le unghie delle mani e dei
piedi, più quattro dita di capelli arricciatisi tra di loro in un'arruffata
matassa e infine lo unse di un profumato unguento alla lavanda, vestendolo
infine. Per la prima volta, il piccolo Senju indossò un paio di mutande, poi le
calze bianche di lana lunghe fino al ginocchio, seguite da dei pantaloncini
alla zuava blu di Prussia e nascosti da una lunga blusa del medesimo colore, su
cui spiccava un ampio colletto di pizzo bianchissimo. E vennero le scarpe, quel
gran mistero, fino ad allora Hashirama aveva girovagato per il mondo scalzo o
al massimo con indosso degli spessi
calzettoni. Senza fiatare, fissando in muta partecipazione gli occhi sempre più
umidi e lucidi di Kiyora - E' il fumo,
mio bebo, è il fumo del caminetto, sai? -
il bambino si lasciò pettinare e non osò scendere dal letto imbottito di
paglia, dove la balia lo aveva appoggiato, dedicandosi ora a Madara, attendendo
entrambi in assoluta immobilità. Il piccolo Uchiha si dovette accontentare di
un trattamento più approssimativo, quel tanto da farlo apparire pulito e
decente dalla cesta, in cui sua madre lo depose e che si mise in spalla, allacciandosi
le cinghie alla cintola e incrociandole per sicurezza al petto. Sistemato al Sinjorino la mantellina e un
cappellino alla gavroche, Kiyora s'avviò assieme a Najtine e il carrettiere
Majstro Bourbon (così soprannominato per via della sua fenomenale golosità per
l'omonima crema), venutole appositamente a prendere.
Nessuno
proferì parola fino all'arrivo ai cancelli del Castello.
I
padroni li stavano attendendo nel salottino privato, una confortevole stanza
tappezzata di caldo e avvolgente rosso cardinale, dalle cui pareti innumerevoli
ritratti di Senju di ambo i sessi e vestiti secondo la moda delle epoche più
disparate osservavano vacuamente annoiati i loro discendenti, in particolare la
Duchessa Anise la quale, annunciata Kiyora, balzò dal canapè, gli occhi
spalancati dall’aspettativa, impaziente di riabbracciare il suo bambino.
Rimase
quindi sorda agli inviti di rimanere compostamente seduta al suo posto e di
ricevere imperturbabile la giovane balia, ringraziandola affettata per il suo
servizio: non appena Hashirama, guidato per mano dalla mora, entrò nella sala,
sua madre gli corse incontro, inginocchiandosi davanti a lui. Lo abbracciò
forte, accarezzandogli il capo e cospargendogli il volto di baci, ignara di quanto
quelle effussioni d’incondizionato affetto stessero mettendo in imbarazzo il
marito e la cognata, suscitando invece un sorriso benevolo nel suocero. Anise
studiò a lungo il figlio, scorrendo i polpastrelli sulle guance piene e la
pelle morbida e olivastra, accarrezzando i capelli castani e riprendendo a
stringerlo al petto, ricacciando indietro lascrime sia di gioia che di
disappunto, poichè non le era sfuggita la rigidità del corpo del primogenito né
le sue occhiate confuse. “Ah, mon enfant ...”, sospirò.
Gli
occhi di Hashirama, infatti, non tradivano alcun segno di riconoscimento della
madre uterina; di conseguenza, sentirsi così maneggiato lo metteva a disagio,
incerto se ricambiare o meno l’abbraccio di quell’elegante sconosciuta dai
capelli biondissimi, quasi argento, e dalle iridi carminio. A onor del vero, lo
intimoriva un poco l’intensità di quello sguardo talmente pieno d’amore e
tristezza, che si sentì consumare da esso. Si voltò quindi verso Kiyora,
accennando a sciogliersi da quella dolce gabbia di carne e stoffa e di
raggiungere la sua nutrice, nascondendosi dietro la sua ampia gonna domenicale.
Ma
Kiyora, intuito il desiderio del piccino, indietreggiò di un passo, facendogli
cenno di no col capo, che non stava bene: da adesso in poi lui non sarebbe più
stato il suo bebo, un bimbo qualsiasi, un suo pari, da vestire spartanamente
pratico e lasciar gironzolare come un selvaggio per i campi; Hashirama
ritornava ad essere un Senju, l’erede di Mokuton, il suo futuro venticiquesimo
duca e tutti avrebbero dovuto rivolgersi a lui ossequiosamente, dandogli del
“lei”, del “padroncino”, del “Sinjorino”. Cessava di appartenere al loro mondo,
catturato per sempre da quello di provenienza, per loro inarrivabile, proibito.
Allora,
compreso come quel legame con la balia fosse ormai destinato a dissolversi,
Hashirama si riconcentrò sulla Duchessa sua madre, abbracciandola a sua volta e
permettondole di essere da lei sollevato e tenuto in braccio. Nello stesso
istante, il Maljunulo Sinjoro raggiunse la mora, ringraziandola da parte di
tutta la famiglia, traendola poi in disparte, fuori dalla sala, onde conferire
con lei sul compenso e altre questioni.
Kiyora
non salutò Hashirama, non gli lanciò neppure un’ultima occhiata, per quanto gli
occhi del piccino fossero rimasti attaccati a lei, sperando fino all’ultimo che
la giovane, in un impeto di affetto, lo strappasse dalle braccia della
Duchessa, ritornando assieme nella casetta di mattoni di Najtine, sulle sponde
del fiume Naka. Ne rimase deluso, sgranando però gli occhioni non appena si
accorse di un braccino sporgere dalla cesta: rigiratosi a fatica nel suo
costringente interno, Madara aveva steso il braccio in direzione di Hashirama,
aprendo e schiudendo la manina, come se volesse afferrare e trascinare a sé il fratello di latte, che
imitò ben presto il gesto, allungando il collo oltre la spalla materna quando
Anise, voltandosi, gli impedì di accommiatarsi appropriatamente dall’Uchiha.
Quella
notte la culla parve a Madara terribilmente grande, vuota, fredda.
“Hai
accettato?”, udì la sua nonna adottiva confabulare con la madre, le quali lo
credevano addormentato e comunque troppo acerbo per comprendere i loro
discorsi, Kiyora soprattutto.
“Jes”,
le confermò la giovane, sistemandosi lo scialle sulle spalle. “Incomincierò
dalla prossima settimana.”
“Tuo
marito non ne sarà molto contento”, puntualizzò Najtine, preparando il telaio.
“Potrebbe finire come la povera Natsumi ...”
La
mora rise sarcasticamente. “Come se me ne importasse! Settanta ryo al mese,
voglio ben vedere se ci sputa sopra! Io no di certo! Eppoi, non corro alcun
rischio: lavorerò nelle cucine, non come cameriera, ergo il padrone non mi
ronzerà attorno!”
La
fata mormorò il suo assenso. Che altro poteva fare, altrimenti? Aveva perduto
Kiyora in quella terribile notte di fine giugno, che gliene veniva a litigare
con lei?
“Porterai
Madara con te?”
“Non
oso lasciarlo solo con quei bifolchi”, mormorò cupamente la sua pupilla. “Lo
odiano. Mi odiano. Chissà a quali malagrazie potrebbero sottoporlo, mentre io
lavoro al Castello! Inoltre, sono convinta che lì avrà modo di costruirsi un
destino diverso dai suoi antenati, le occasioni non gli mancheranno! Sono stata
la nutrice del loro erede, i padroni se ne ricorderanno, quando prenderanno mio
figlio a loro servizio. E a Dio piacendo, se la Sinjora Duchessa si dovesse
decidere a sfornarne altri, non mi dispiacerebbe proprio allattare pure quelli
... Nessuno dei miei figli si piegherà a zappare i campi, mangiando polvere
come i serpenti!”
Il
cigolante rumore del pettine del talaio s’interruppe. “Attenta, filina”,
l’avvertì Najtine. “Non permettere che il fuoco dell’ambizione ti consumi,
potresti rimanerne scottata: i servi che si mettono sullo stesso piano dei
padroni, raramente finiscono bene ...”
“Trovi
iniquo il mio desiderio di volere un destino migliore per Madara?”
“No,
ma deve essere lui ad ambire ad esso. Costringendolo, te lo alienerai e l’amore
interessato che finora gli avrai dato sarà ricambiato con l’odio della
recriminazione.”
Kiyora
sospirò, massaggiandosi la tempia.
“Mi
accontenterei anche solo di saperlo un uomo libero, slegato da ogni obbligo
servile. Senza padrone, tranne che di se stesso. E’ troppo domandare?”
“Il
tempo ti darà la risposta che cerchi. Per stanotte, dormi e non ci pensare.”
La
voce di Kiyora tremò, semi-soffocata dalle mani dietro cui la mora aveva
nascosto il suo volto stanco. “Voglio bene a mio figlio, sai?”, singhiozzò.
"Gli voglio bene ..."
“Nessuno
lo ha mai messo in dubbio, filina”, la consolò Najtine, abbandonando il lavoro
al telaio e, raggiuntala, avvolgendola col suo centenario tabarro.
Finalmente,
in onor della sua dama,
egli vi
bevve per l'ultima volta;
tra le sue
dita tremò quella coppa,
ed egli,
dolcemente, rese l'anima.
Fu
così che Madara si trasferì al Castello di Mori.
L’idea
proveniva da Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro, il quale ancora ben si sovveniva
del brutale e umiliante licenziamento di Kiyora da parte della figlia e, desiderando
portare la faccenda ad un giusto equilibrio, aveva elaborato quel compromesso:
la mora avrebbe lavorato nelle cucine o meglio, nella terza cucina, quella
riservata alla preparazione dei dolci, acciocché potesse mantenere il figlio e nascondersi
dagli occhi vendicativi di Tōka, le cui
urla ancora riverberavano sia nel Castello che nella loro dimora cittadina a
Konohagakure. Suo padre dovette battere il pugno sul tavolo, alzare la voce e
minacciarla di spedirla in convento se ancora s’azzardava a remargli contro – Butsuma sarà il Duca, però io sono ancora il
padrone di questa casa e soprattutto sono suo padre! Un’altra parola,
signorina, e ne paga le conseguenze! -
per poter giungere evemtualmente ad una parvenza di tranquillità
all’interno dell’aristocratica famiglia. In ogni modo, la sua soluzione si
dimostrò valida, rasserenando l’anziano signore e concedendogli di giocare
finalmente al nonno.
Hashirama
era un amore di bambino: passate le prime settimane di malinconia per il
distacco dalla nutrice, aveva ben presto obliato l’anno trascorso tra i
mezzadri, adattandosi con l’elasticità ingenua degli infanti alla sua nuova vita nel signorile
palazzo della sua famiglia, giostrandosi tra le continue attenzioni
dell’anziano Duca, di sua madre, delle zie e delle cugine. Crescendo, si
delineava un carattere molto vivace eppure dolce, rasserenante, gentile. Non si
esibiva in nessun capriccio e se ogni tanto metteva su un signor broncio, ecco
che la sua espressione alterata si scioglieva in un sorriso radioso tutto fossette,
che faceva innamorare chiunque gli stesse accanto. L’unica pecca in questo
bonbon di creatura si trovava nella sua facile tendenza alla depressione,
ereditata, come asserito da Najtine, dalla madre durante la sua gestazione.
Hashirama si intristiva per un nonnulla, dimostrandosi estremamente sensibile
ai commenti negativi e ai rimbrotti. I cugini lo dileggiavano spesso e
volentieri per la sua reclutanza a tirare la coda al gatto o a spennare i
canarini o con la fionda a distruggere le bambole delle cugine, appellandolo
“mollaccione”, “signorinella”, “frignone”. Allora, il piccolo Senju si
rannicchiava sotto il tavolo, dietro il vaso di selci o della palma nana, oppure
in un angolino nascosto e, portate le ginocchia al petto, si ubriacava della
sua medesima tristezza fintanto che il nonno, scovando sempre e comunque il suo
nascondiglio, lo issava in braccio e, accomodatolo sulle ginocchia, lo invitava
a confidargli i suoi crucci, leggendogli poi le favole dei fratelli Grimm o
poesie e filastrocche, nel frattempo che gli accarezzava il capo e sorrideva
alla vista del visino di Hashirama che si distendeva gradualmente,
addormentandosi poi, la testa appoggiata sulla spalla del vecchio.
Sua
Grazia il Maljunulo Sinjoro a parte, Hashirama crebbe tra le donne nel gineceo
di casa, un mondo segreto e ovattato distante anni luce dalla schietta e
cameratesca competitività che avvertiva ogniqualvolta si relazionava coi cugini
e, nelle rare occasioni in cui s’imbatteva in lui, col padre. Lo preferiva al
mondo dei “veri uomini”, gli era più caro e vicino questo locus amenus pieno di
calda luce, dai colori pastello e morbido come le mani bianchissime della
Duchessa Anise, il cui ventre, notò Hashirama un giorno, incominciava ad
arrotondarsi, come se la sua Maman si stesse gradualmente trasformando in
un’orca assassina. Ne parlò entusiasta col nonno, il quale gli sorrise a mo’ di
conferma, spiegandogli che Anise gli stava preparando un dono molto speciale,
un fratellino o una sorellina con cui giocare e a cui badare, in quanto
primogenito.
“E
quando sarete grandi abbastanza, potrete scorazzare quanto vorrete a Mokuton,
dove altro non sussiste che il cielo, l’acqua e la terra. Non come a Konohagakure,
dove sono le case a farla da padrone!”, gli raccontava e Hashirama lo ascoltava
rapito, fantasticando su queste terre il cui nome ricorreva spesso nelle
conversazioni in famiglia e che la sua mente infantile dipingeva come la
gemella della Camelot arturiana, piena di avventure, magie, misteri. Ogni
giorno insisteva sulla data della partenza, tampinando tutti i suoi famigliari
finché, alzando lo sguardo dal suo ricamo, sua zia Tōka sbuffò snervata all’ennesimo
strattone alla gonna: “Quando nascerà il bambino!”
“Ancora?
Sono mesi che me lo dite!”, protestò il castano.
“Ci
vuole tempo, tesoro, ci vuole tempo ... Bisogna attendere ...”
“Ma
io non posso aspettare!”, frignò Hashirama, scappando via alla ricerca del
nonno. “Quando nascerà il bambino?”, gli chiese ansioso, arrampicandosi sulle
sue ginocchia e costringendo l’anziano Duca a riporre il giornale e la pipa che
stava fumando.
“A
settembre.”
“Eh?
Ma per allora l’estate sarà finita! Come gioco, io?”
“Vero,
però l’estate successiva il suo fratellino o sorellina sarà abbastanza grande per
viaggiare. E’ lunga, da qua a Mokuton!”
Un
anno ancora. Beh, poteva farsi forza e attendere.
Il
viaggio non ebbe mai luogo.
Una
mattina di metà giugno, mentre giocava coi suoi soldatini di piombo, Hashirama
sobbalzò quando le sue giovanissime orecchie entrarono in contatto col primo
vero grido della sua vita: Kanako, la cameriera personale della Duchessa, si
diresse urlando da suo padre Butsuma, spiegandogli concitatamente come sua
moglie fosse caduta in deliquio per terra, inzuppando il tappeto di sangue. Si
chiamò il medico e il piccolo Senju, che naturalmente era corso a curiosare, fu
trasportato via a viva forza dalla zia nella sua cameretta, dove rimase
segregato in compagnia di una fantesca finché questa, appisolatasi, non gli
concesse una ghiotta occasione per sgattaiolare via e scoprire quale male
stesse affliggendo la sua Maman. Nascondendosi dietro le tende, Hashirama
assistette all’uscita del dottore dalla camera di Anise, un’espressione grave
dipinta in volto.
“La
creatura era una bambina”, annunciò cupamente. “Troppo fragile e deforme per
sopravvivere all’intera gestazione. Quanto a Sua Grazia la Duchessa, le sue
condizioni sono stabili, non corre alcun pericolo di vita. Solo, potrebbero
esserci delle complicazioni ... spirituali, ecco.”
Il
Duca accolse stoicamente la notizia, non muovendosi neanche quando Kanako uscì
dalla stanza, recando seco in un pasciuto fagotto il corpicino senza vita della
figlia.
“Dio,
è orribile!”, commentarono schifati i servi nella cucina, attorniando il feto
che la cameriera aveva appoggiato sul tavolo, in attesa che si decidesse il da
farsi.
“Mostruosa!”
“Non
ha neppure le gambe!”
“E
le mani? Hai visto? Sembrano due moncherini!”
“Guarda
la schiena ... E gli occhi?! Un rospo!”
“Come
ha potuto la Sinjora portare in grembo un simile obbrobrio?”
“Sangue
marcio, mia cara, sangue marcio! Così imparano a sposarsi tra di loro, i porci
incestuosi!”
Dall’ombra
del suo osservatorio Hashirama assisteva a tali discorsi, la lenta e
inesorabile fine del suo infantile idillio.
A
Mokuton, similmente nell’ombra delle cucine cresceva Madara Uchiha, una piccola
peste dalla lingua assai lunga, la quale traeva un birbonesco gusto a far
impazzire sua madre, celandosi in ogni angolo oscuro del vasto labirinto e
sparendovi in essi per ore e ore, dall’alba al tramonto. I cuochi, gli
sguatteri e le cameriere gli davano man forte e Kiyora imprecava come un
marinaio quando, concentrandosi su di una pietanza, perdeva di vista il figlio,
che immediatamente ne approfittava per continuare le sue esplorazioni. Ogni cosa
lo incuriosiva, scatenandone un intelletto non comune per la sua età, che lo
portava a tartassare il Majstro Takagi, il guardiacaccia, il quale di tanto in
tanto si presentava nelle cucine per cedere della selvaggina o fare rapporto
all’Amministratore. Attendendolo quatto quatto, Madara gli saltava addosso,
aggrappandosi alla sua schiena e, se voleva liberarsi del suo insignificante
peso, gli intimava di raccontargli questo, quello, tutto. L’uomo rideva,
sconquassandogli il petto col suo timbro possente da basso, afferrandolo per il
coppino come un gatto e, rimettendolo coi piedi per terra, prendeva posto
accanto al camminetto, dove il piccolo Uchiha tosto lo raggiungeva,
accocolandosi per terra, sorreggendosi il viso con le mani. Beveva i racconti,
talvolta esagerati e talvolta pragmatici, del guardiacaccia, immagazzinando i
suoi aneddotti, consigli ed esperienze personali, di amici e di parenti e se
fosse stato per Madara, non avrebbe mai cessato di ascoltare le sue storie,
anche all’infinito, pur di non ritornare alla realtà, quella vacca schifosa e
traditrice che lo attendeva fuori dai cancelli del Castello di Mori.
Non
gli piaceva ritornare a casa, in quello
squallido casolare dove abitavano i suoi parenti, dove egli sapeva di essere a
malapena tollerato. Il padre Tajima lo trattava alla stregua di una bestia, nel
senso che tra il cane e il quartogenito non sussisteva alcuna equa
distribuzione d’affetto, un pat-pat sulla testa e tant’era. Se avesse potuto,
il moro sarebbe scappato da Majstro Takagi, supplicandolo di adottarlo. Oppure
di sposare la sua Ponja, in modo da divenire una famiglia con tutti i crismi. Magari
un giorno gli avrebbe insegnato a sparare ai bracconieri e a preparare le
tagliole.
Madara
percepiva di essere un estraneo in seno agli Uchiha, ma non gliene importò.
Similmente,
non gli importava che gli altri bambini del villaggio, invidiosi dei suoi lindi
abiti seminuovi e della ciccia del bambino sano e nutrito sulle sue ossa, lo
isolassero dai loro giochi, ostracizzandolo; che all'insaputa dei genitori i
suoi fratellastri Setsuna e Saya assieme ai suoi cugini gli tirassero i
capelli, gli strappassero di dosso i vestiti e lo strascinassero nella melma,
urinandoli in faccia e chiamandolo "bastardo" tra un pizzicotto e
l'altro. Non gliene calava un'emerita cippa di queste vere e proprie sevizie:
lui sapeva di essere superiore a loro e la prova stava nella vita che conduceva
al Castello, nel dedalo delle immense cucine sotterranee, dove lui regnava
incontrastato in quel mondo dai mille odori e dal vociare incessante, piccolo
monarca assoluto del continuo viavai di servi e contadini che portavano i
viveri da catalogare, riporre nelle dispense e cucinare. Lì era vezzeggiato,
coccolato, poteva fare e dire ciò che gli saltava in testa e nessuno lo avrebbe
mai punito: l'aver condiviso il medesimo latte col Sinjorino gli conferiva una
sacra aura d'intoccabile agli occhi ancora superstiziosi delle fantesche, le
quali se lo contendevano per lavarlo, giocare con lui, sfamarlo. Madara
ingurgitava giornalmentelatte, biscotti, carne, pesce, verdure mista, frutta in
quantità tale, che i suoi parenti non avrebbero visto neppure in un anno.
All'inizio, aveva desiderato condividere siffatte ghiottonerie, ma poi aveva
riconsiderato queste sue filantropie alla luce della poca bontà e riconoscenza
ricevuta in cambio, giungendo alla conclusione che non si meritassero un bel
niente da lui. Sicché, fu generoso solo con Yakumi, il fratellino nato due anni
dopo, che Madara avrebbe sempre tenuto in braccio quando la madre impastava i
dolci, spezzettando piccoli bocconcini di cibi vari per aiutarlo nella
masticazione, una volta cresciutigli i denti. Divenne il maestro del piccino, iniziandolo ai
segreti delle cucine e raccontandogli le storie di Majstro Takagi, aiutando in
questo modo sua madre a badare al marmocchio durante i suoi turni al forno, in
particolare quando Kiyora si scoprì incinta per la terza volta.
Eppure,
per quanto considerasse Yakumi un suo
vero parente e nutrisse per lui un grande affetto, il fratellino non poteva
alleviare la tremenda solitudine che giorno dopo giorno cresceva nel cuore del
piccolo Uchiha. Il Re si scopriva sempre più solo, incapace di relazionarsi con
qualcuno della sua età, un coetaneo con cui giocare e condividere i biscotti e
le confidenze. Di conseguenza, trascorreva giornate intere ad analizzare ogni
minimo dettaglio delle cucine, dagli scaffali al girarrosto, dalle ragnatele
nelle cantine agli animali morti appesi e in attesa di essere cucinati.
Rovistava perfino nella spazzatura, studiando accorto la testa decapitata di
un'oca, forzandole aperto il becco per appurare se avesse o meno la lingua. E
quando, con una zampata, Kiyora gli sottraeva il giocattolo di fortuna, ecco
che Madara riemergeva dalla fuligginosa penombra delle cucine per rimanere
accecato dalla schietta luce esterna, ritagliandosi un piccolo angolo
dell'immenso parco-giardino che circondava il Castello. Afferrato un sassolino,
tracciava sulla terra con la punta di un bastone la tabella per il gioco della
Campanella, tirando la pietruzza e saltando come un ranocchio e piegandosi come
una gru per recuperarlo e riprendere il gioco.
Il
tutto, canticchiando: "C'era una
volta a Tulé un re, fedele fino alla tomba ... ", pomeriggio dopo
pomeriggio per quasi quattro anni, finché un giorno in cui era stato
letteralmente espulso dall'improvvisa ressa creatasi nelle cucine neanche si
fossero tramutate in vespaio, gli capitò di lanciare il sassolino nell'ultima
casella. Aprendo le braccia per coordinare meglio i balzi, Madara incominciò a
saltare, prima su di un piede, poi su due, poi ancora uno ... "... e a lui fu donato, cara memoria della sua
bella ..." e due ... uno ... due ... l'ultima casella giunse, ma ...
ohibò! E il sassolino? E quel paio di scarpe di nero cuoio sotto il suo naso?
"... un bel calice d'oro cesellato!",
concluse una vocina bianca come la sua, costringendo il piccolo Uchiha a risalire
con lo sguardo la linea degli stivaletti, lungo delle calze nere e un abito
scuro alla marinara, soffermandosi sullanuda, morbida e ombrosa fossetta del
giugulo fino a giungere ad un volto pienotto incorniciato da corti capelli
castano scuro e su cui troneggiava un sorrisone speranzoso. "Piacciono
anche a te le poesie di Goethe? Grand-père me le legge spesso, prima di
coricarmi."
Un
arcano terrore invase l'anima già di suo scossa di Madara: il bambino - o nano,
chissà - davanti a lui gli si parava innanzi come una sorta di indecifrabile
creatura sovrannaturale. Non apparteneva al suo mondo, non almeno quello cui il
moro faceva riferimento. Inoltre, la parlata lineare e pulita da ogni forma di
gergo, l'atteggiamento composto di chi conosceva il proprio status, i vestiti
troppo puliti, troppo costosi e quel viso pieno della compiaciuta serenità di
chi era sempre vissuto in una felice campana di vetro misero il moro in uno
stato di impaurita soggezione, quasi il suo istinto animale - o la tara
genetica d'essere discendente d'una lunga stirpe di servi - lo stesse
avvertendo che, al primo suo passo falso, quel fanciulletto poteva rovinargli
l'esistenza. Emanava una forte aura di potere
che lui, Madara Uchiha, solo in età adulta avrebbe raggiunto, ottenuto dopo
lunghi anni di sacrifici, lacrime, sudore e sangue. Ma allora, in quel
pomeriggio di fine aprile, lui si sentì minacciato da quel bizzarro bambino che
blaterava di assurde chimere. E come ogni brava bestia sotto attacco, si mise
subito sulla difensiva.
"Non
conosco nessun Gheute, io! E tu, sei un suo amico o cosa, che ne parli con
tanta ... famigliarità? E chi è Grammper?", indietreggiò cauto il moro di
un passo, pur mantenendo il contatto visivo col suo opponente, il quale scosse
divertito il capo castano.
"No,
non Gheute. Si pronuncia Goethe, è un
cognome tedesco", lo corresse, senza però dare alcun segno dispocchiosa sufficienza.
"E comunque no, non lo conosco, non di persona almeno, perché è
morto!"
Madara
spalancò la bocca, terrorizzato: Dio santissimo e benedetta Lucia di Siracusa,
questo qui parlava coi morti! Doveva essere un fattucchiere, un eretico, un
posseduto ...
"Allora,
vuoi giocare con me?"
E
siccome il piccolo Uchiha ci teneva all’eterno destino dell’anima sua, in barba
alla corretta pronuncia di quel cognome bislacco e a delle pur allettanti offerte
ludiche, fece dietrofront e corse via alla velocità di un treno, manco avesse
satana in persona alle calcagna.
Il
diavolo no di certo, ma Hashirama Senju sicuramente e di fatti, quest'ultimo
non tardò a lanciarsi all'inseguimento del moro, ridendo come un matto e per
questo spaventando ulteriormente l'altro bambino, il quale fece voto solenne di
mortificare il suo stomaco rinunciando per una settimana ai biscotti, nel caso
qualche santo celeste avesse avuto compassione di lui, salvandolo dalle grinfie
di quell'indemoniato.
Non
ottenne nulla di tutto ciò, la sua fervente petizione rimase assolutamente
inascoltata.
To
be continued ...
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L’ultima
parte potrebbe sembrare un po’ frettolosa, ma è fatta apposta. Le dinamiche del
ritorno a Mokuton da parte di Hashirama verranno meglio spiegate nel prossimo
capitolo.
Andate
su YouTube e provate a sentire la poesia di Goethe musicata da Gounod nel “Faust”,
in questo modo avrete una colonna sonora per il capitolo! XD
Alla
prossima, ciao!