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Autore: Hoel    11/10/2013    3 recensioni
E adesso [...] posso sentire i sussurri del tabarro, le sue maliziose confessioni e le immagini nitide di un passato inalterato dalla convenienza, dalle amarezze, dalle nostalgie e dai reciprochi rancori. [...] Perché il tabarro, nella sua dualità quasi femminile, avvolge e protegge chi vi si rifugia, ma allo stesso tempo nasconde e svela in un teatrale svolazzo le nefandezze che ipocritamente non si vogliono vedere, che non devono essere viste. [...]
***
Un viaggio a ritroso nel passato, per non dimenticare, per non tacere e, ovviamente, per potervi un poco spettegolare.
[MadaHashiMada; altre coppie seguiranno ...]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Hashirama Senju, Izuna Uchiha , Madara Uchiha, Tobirama Senju, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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Rieccoci qua col nuovo capitolo.

Gala”, dal titolo, deriva dal greco e significa “latte”. Come mai? Leggerlo per scoprirlo ...

La storia adesso incomincia a entrare nel vivo, ora che i due bischeri – Hashirama e Madara – sono nati, le vicende dei personaggi prenderanno a legarsi tra di loro. Incrociamo le dita ...

Ah, mi ero dimenticata di dire nei capitoli precedenti, che per “Najtine la Fata” non intendo che il personaggio ha le orecchie a punta, bacchetta magica e le ali, no la “fata” era una curandera, una sorta di strega bianca e questo termine si trova nella tradizione popolare medievale.

Un sentito ringraziamento per i miei lettori e recensori, in particolare Ame Tsuki e Sagitta72.

Vi auguro buona lettura,

 

H.

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Capitolo Quarto: Gala

 

 

 

Sfamare Menma è problematico. Non è rimasto quasi più niente da mangiare, la dispensa del nostro rifugio patisce come noi la fame, noi, due uomini, inadatti per natura a nutrire un neonato. Nell'inerzia dell'attesa, pensieri cupi affollano la mia mente, i quali m'inducono a pensare che se non salteremo in aria, moriremo d'inedia. O forse sto già crepando di fame, poiché, per quanto la desideri, la mia bocca non si apre dinanzi al cucchiaio di pappa d'avena offertomi (come l'avrà reperito?) dal Benefattore. Storco il viso, nauseato. Mio cugino ne approfitta per riporre il cucchiaio, rimestarlo in quella sbobba di fortuna, io nel frattanto nascondo quanto dettatomi dal tabarro, lui mi porge ancora quell'insopportabile pappetta molle. Ostinato filantropo, gran vizio della sua famiglia paterna.

"Devi mangiare", mi comanda. "Sembri un cadavere." Parla proprio lui, i cui zigomi resi prominenti da una quaresima fuori stagione gli ingrandiscono gli occhi, quegli occhi così belli che, alle feste e serate mondane, ammaliavano le donne lì presenti. Pallido, ora, estremamente pallido, sporco di polvere raggrumatasi nel sudore, come lerci e fiaccati si appoggiano i suoi ricci sulla fronte aggrottata. Conosco quello sguardo. Mi costringerà a mangiare, anche a costo di forzarmi le mascelle. E mi chiedo: se lui appare così, io quale mostruoso aspetto sto sfoggiando?

"Tu, invece, sei l'ottava meraviglia del moooh-gulp!", ecco mi ha gabbato per l'ennesima volta, infilandomi traditore il cucchiaio in bocca e il sapore di quella robaccia mi paralizza la lingua. Fa schifo, è fredda e viscida, l'ingoio a fatica, lo stomaco si ribella, disgustato, grugnisce il suo disappunto, vuole ricacciarla via. Ma si adegua, sconfitto. E' pur sempre cibo e la fame torna a rodermi le viscere.

Il Benefattore mi cede la scodella, appoggiandomela sul grembo e mi sottrae Menma, destatosi e già frignante e desideroso anch'egli di nutrimento. Mi detesto per l'arrendevolezza delle mie mani, che non piangono la perdita di quel dolce peso, l'unico loro interesse consiste nell'afferrare la ciotola e il cucchiaio, ingozzandomi senza riprender fiato tra una cucchiaiata e l'altra. Stupido stomaco avido e traditore, accetteresti di nutrirti perfino di topi se te li offrissero!

"Tieni", mi allunga il cugino un biscotto leggermente infiappito. "Gli darà un po' di gusto ..." E mentre io gli divoro in un battibaleno pure quello, egli estrae un cornetto di mucca traforato, riempiendolo di latte. Menma, affamato, si serve di esso senza alcun rimorso, suggendo energico, i pugni chiusi e le nari dilatate quanto gli occhi bicromi.

"Lo hai bollito?", gli chiedo, leggermente preoccupato delle doti di balia del mio parente.

L'occhiata lanciatami è spietata. "Ovvio", dice, provocandomi un feroce rossore per il mio scetticismo. Avendo ereditato un carattere sostanzialmente estroverso, amabile e talvolta eccessivamente esuberante e disponibile verso il prossimo (un po' come lo zio materno di Menma), tutti tendono a dipingerlo come uno stolto, un pagliaccio, per poi tremare dinanzi ai suoi scatti di collera o quando quella sua giovialità si sostituisce ad un'inflessibile serietà. Ignorano che lui si atteggia così per meglio manipolarli, come il toreador che gioca col toro prima di infliggergli l'estocade finale.

Questo nei confronti degli altri eper quel che mi concerne, il Benefattore non sa portarmi rancore troppo a lungo. "Mi prendi per un babbeo?", sorride, seguitando ad allattare Menma col cornetto, magro sostituto del seno materno. Ecco che termina il latte, il piccino piange, ne esige ancora, è finito, mio cugino lo appoggia sulla sua spalla, Menma piange disperato e rutta e piange e invoca quel latte che non riceverà. Vorrei dargli un po' della mia pappa d'avena, me è ancora troppo piccolo per digerirla.

Mio cugino, cullando il piccino, tenta di sopprimere con le parole quella frignante protesta. "Temo che a breve dovremo abbandonare questo rifugio. A Konohagakure hanno bombardato il bombardabile. Non siamo più al sicuro, bisogna procedere verso casa!", si alza, barcolla, la vista gli si offusca, costringendolo a coprirsi gli occhi con le dita fusiformi ereditate dal padre. 

Lo afferro, prima che sbatta contro il muro o, cadendo riverso sul pavimento, schiacci il piccolo Menma col suo peso. "Ah, sì?", ringhio, frustrato dall'apprensione. "E dove speri di andare così ridotto? Hai mangiato, almeno? O meglio, quando è stata l'ultima volta che l'hai fatto?", bercio fuori di me, grattando dalla scodella gli ultimi rimasugli della sbobba e ficcandoglieli ferocemente in gola. Il Benefattore non replica, si limita a sorbire la pappa in silenzio.

Talvolta la sua generosità m'irrita a tal punto che vorrei strangolarlo, però desisto, poiché anch'io ho peccato di simile eccesso e così non posso scagliare la prima pietra.

Cala la notte. Abbiamo procrastinato per qualche ora la nostra partenza. Siamo sfiniti, il sonno nuoce alle nostre ossa ammaccate dal pavimento duro e per fortuna che c'è il tabarro, che amorevolmente ci copre, riscaldandoci quel tanto per non rabbrividire nel sonno.

Un vagito. Di fame. Che posso fare?

"Non ho niente, tesoro", sussurro a Menma, il cui pianto aumenta di volume ad ogni secondo che passa. "Non ho niente da darti" e vi giuro che più le lacrime gli rigano le guance smorte e sporche, più la mia anima s'accartoccia, sopraffatto dall'impotenza. Per non svegliare mio cugino, il quale dorme rannicchiato come un gatto pur di cedermi quanta più stoffa possibile del tabarro, mi metto in piedi col nipotino in braccio e prendo a ballucchiare un piccolo valzer consolatorio per l'esausto piccino. Ottenuta finalmente la sua attenzione, oso spingermi oltre, azzardando un'arietta dal Faust di Gounod (la musica, eh!), la stessa che la mia bisnonna cantava a mo' di ninnananna per i suoi figli, nipoti, pronipoti e a suo tempo per i figli del padrone ...

 

 

C'era una volta a Tulé un re, fedele

fino alla tomba, e a lui fu donato,

cara memoria della sua bella,

un bel calice d'oro cesellato ...

 

 

"... Eh, no!", s'interruppe Kiyora, chinandosi per terra onde raccogliere la bianca cuffietta di pizzo che Hashirama, in piena crisi di ribellione vestiaria, aveva afferrato dalla sua testa e scaraventata giù dalla culla. Sbattutala contro la coscia, la giovane la rinfilò a fatica al suo legittimo proprietario, il quale storse il capo neanche avesse voluto svitarselo dal collo. "Benedetto fanciullo, vuoi gelarti le orecchie?", gli chiese, sistemandogli il delicato nodino sotto il mento e, dichiarandosi soddisfatta, lo sollevò dalla culla e lo avvolse nella morbida coperta di lana addolcita da decorazioni in merletto, cullandolo. "Eppoi, mica vuoi presentarti tutto sciatto, vero? Che dirà il cappellano?"

Francamente, Hashirama del cappellano se ne infischiava altamente, soprattutto se incontrarlo significava agghindarsi peggio di una bambolina di porcellana e coi suoi occhioni grandi, marroni, dalle ciglia lunghe quasi femminee, hé, ad una bella pupetta ci poteva assomigliare.

"Allora, che ne dite? Non l'ho preparato bene? I Sinjori saranno contenti, spero", volle Kiyora l'opinione di sua madre Najtine e di Haruka, intenta a trattenere uno sgusciante Madara, insofferente a quel suo tenerlo per la vita alla stregua d'un gatto. "Hai visto com'è ben vestito il tuo fratello di latte, tesoro mio? Oggi lo battezziamo, sai? La Sinjora m'ha poi promesso di donarti una vesticciola simile, quando verrà il tuo turno!", parlò lei dolcemente al figlio, portandosi assieme ad Hashirama alla medesima altezza. Smettendola di contorcersi come un fachiro, il piccino osservò attento il volto del Sinjorino, allungando una manina bavosa verso il nastro, tirandolo a sé in modo da rubargli la cuffietta.

Il piccolo Senju poteva, su suo capriccio, denudarsi di tutte le cuffiette di questa terra, ma guai se qualcun altro osava mettersi in mezzo, guastandogli il divertimento! Non appena i suoi morbidi capelli castano scuro vennero a contatto con l'aria leggermente più fredda, egli s'imporporò sdegnato, cacciò un belluino grido di battaglia e schiaffeggiò in una rapida zampata il naso di Madara, che rimase a bocca aperta per la sorpresa, prima di sciogliersi anch'egli in un pianto stizzito. E avrebbe pure ottenuto la sua giusta vendetta se sua madre, dopo avergli sottratto la cuffietta, non si fosse alzata, separando i due litiganti. "Cattivi, cattivi, brutti e cattivi tutti e due!", li rimproverò Kiyora, mentre Najtine sogghignava segretamente tra sé e sé.

"Ma come, furbastro? Aspetta di essere più grande per simili giochi ...", disse al nipotino, alludendo alla strana mania di Madara di sottrarre,tirando, ad Hashirama un qualsivoglia capo d'abbigliamento, dai calzini, alle fasce-pannolino, alla copertina e se gli oltraggiati strilli di risposta del Sinjorino avessero trovato una traduzione, di sicuro sarebbero stati non dissimili ad un "E smettila, lurido maiale ladro pervertito!"

Ma a parte questo, i due non s'importunavano troppo, o meglio, tutto dipendeva dall'umore già pestifero del moro - sì, i quattro ciuffi che aveva in testa avevano ripreso il corvino della madre, solo con sfumature azzurrine invece che viola - il quale, imparato a stare seduto, tentava ora saltellando sulle chiappe ora strisciando di afferrare Hashirama, che aveva a sua volta appreso a gattonare con un mese in anticipo pur di sfuggirgli, nascondendosi sotto il tabarro di Najtine. Gli adulti, ovviamente, interpretarono la cosa come un segno di grande precocità da parte di ambedue i pargoli, in particolare quando Madara, raggiunto il nascondiglio del compagno di poppate, ne sollevava il lembo alla ricerca del fuggitivo; rapida come la morte, una manina tesa lo aspettava al varco, una manina che gli rifilava un bel ceffone, costringendolo ad abbassare stupito e umiliato il tabarro. Allora, dimostrando di essere già un testardo, il piccolo Uchiha rotolava dalla parte opposta, infilando la testa sotto il mantello e alla fata cadeva per poco il fuso dell’arcolaio non appena i suoi timpani sperimentavano l’acuto strillo di Hashirama, presto seguito da quello di Madara. Prontamente la donna scostava il tabarro dal punto in cui i due s’erano accampati, rivelandoli intenti in una strana zuffa, il moro che stava tentando di smutandare – anzi, spannolizzare – il castano, mentre questi ricambiava il favore tirando vendicativo i pochi ciuffi del suo assalitore. Solo l’allettante prospettiva della pappa riusciva a calmare le urla ferine che uscivano impunite da quelle gole nuove di zecca, desiderose d’essere collaudate quanto prima.

"Ponja ... parlando del ba-battesimo ... Quando ... quando sposerai il Paĉjo ...?", tartagliò ad un certo punto Haruka, riacciuffando Madara e ritrovandosi di conseguenza la mano sbavata in segno di protesta.

Il sorriso della giovane s'incrinò in un che di sinistro. "Il giorno in cui verrà strisciando a chiedermelo, filina mia!" Ed effettivamente, non mancava giorno che Tajima non insistesse acciocché Kiyora venisse a vivere con lui, marmocchio compreso. Dal canto suo, la mora era irremovibile: l'Uchiha aveva promesso di sposarla compiuti i sedici anni? Ottimo, allora avrebbe atteso e siccome non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, o Tajima si pigliava tutti e due con la benedizione della Chiesa o ciccia, senza contare che l'essere divenuta la nutrice del figlio del padrone le riempiva le giornate e l'ultima magagna che poteva sopportare erano le lamentevoli insistenze dell'uomo, sicché, appena lo scorgeva dalla finestra, Kiyora correva in camera sua, chiudendosi a chiave e cantando ad alta voce per non udire i battiti alla porta dell'Uchiha.

Talvolta, però, le richieste di Tajima si facevano così insistenti che neppure i rimedi della giovane potevano metterle a tacere; di conseguenza, ella balzava giù dalla sedia a dondolo e, spalancando la finestra, gridava spazientita:

“Ohé, ma la smetti di rompermi le pigne? I pargoli starebbero dormendo, sai? Santa Trinità, se mi fai scaturire il Sinjorino, la Duchessa m’impicca con le mie budella! E allora, chi si prenderà cura di Madara? Tu, razza di totano?”

Sorvolando sul “totano” nell’ultima domanda retorica, Tajima ribatté ostinato: “Certo, perché sono suo padre! E in quanto tale è ingiusto vedermelo privato!”

“Aria fritta con cipolle! Manco te ne cale di lui!”

“Baggianate!”, sbraitò l’Uchiha, che incominciava a perdere la pazienza. “M’importa moltissimo di lui, così come dovrebbe importare a te la magra figura che ci stai facendo fare alla comunità intera! La gente parla!”

“E lasciali fare, hanno la lingua apposta!”

“Io”, si batté l’uomo il petto, indicandosi “quando metto su famiglia, non voglio che nessun possa dire! Capito? Niente chiacchiere! Nessun Uchiha a Mokuton ha mai portato il titolo di “bastardo” e mio figlio non farà eccezione!”

“Ma sentilo, sentilo, il gran pater familias!”, roteò Kiyora gli occhi in maniera beffarda. “E a me non pensi, hundino? Non pensi alla vergogna che potrei provare giù in paese, sentendomi dare della baldracca? Della concubina? Io vengo solo se mi sposi, intensi?”

“Non si può fino ai tuoi sedici anni!”

“E allora, aspetta! Che fretta c’è?”

“Ma nel frattempo torna a casa, vivaddio!”

“Sono già a casa, pirla, a casa mia, di mia madre!”

“Manchi ai bambini …”

“Forse ad Haruka, ma agli altri due masnadieri no di certo …”

“Benedetta knabina, quando ti impunti così avrei voglia di strangolarti!”

“Ecco, bravo!”, berciò Kiyora, afferrando Madara dalla sua culla e mostrandoglielo ancora insonnolito dalla finestra. “Strangolami davanti a tuo figlio! Avanti, strangolami, ch’è la volta buona che t’impiccano e hai finito di scocciarmi!”

Najtine, filando imperterrita malgrado le grida belluine e la raffica d’insulti scaraventati a destra e a manca, li giudicò entrambi due cretini.

Quanto a Madara, egli visse abbastanza serenamente questo braccio di ferro tra i suoi genitori; a onor del vero, gli importava ben poco. Aveva questioni più pressanti cui badare: contendersi ad Hashirama il seno di sua madre. Il piccolo Senju, quando si trattava di poppare, non era un rivale da sottovalutare: complice il periodo di schifosi surrogati e un inverno assai rigido, il piccino aveva sviluppato una fame pressoché mostruosa e siccome lo stesso Madarain fatto di appetito non era secondo a nessuno, la povera Kiyora, appena terminato con uno, doveva issare lo strillante altro per allattarlo e così via suggendo. Lentamente, la mora stava incominciando a svezzare Hashirama e le richieste di poppare presero a diminuire; nondimeno, le prime settimane furono orribili.

Del resto, quando Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro si presentò alla porta di casa di Najtine, suo nipote versava in condizioni davvero critiche, strappando un’esclamazione di preoccupato stupore perfino a quella scettica per natura di Kiyora. Infatti, in seguito alla morte della sua balia, se ne chiamò presto un’altra, sennonché Hashirama si rifiutava di nutrirsi da lei, neanche avesse intuito tramite un arcano ragionamento d’infante che la persona che fino a quel momento l’aveva allattato fosse deceduta, per di più di morte violenta. Non volle rimpiazzi, anzi, non volle proprio mangiare, per la disperazione di sua madre la Duchessa Anise che vegliava in lacrime sul figlio, rimpiangendo quel latte che i suoi seni oramai non potevano più offrirgli. Si temette dunque per la sorte di Hashirama, dimagrito in un battibaleno da un morbido frugoletto ad un fragile scheletrino: non solo declinò la poppa della seconda balia, bensì della terza, della quarta, etc.; prese a vomitare il latte ingurgitato per disperazione; piangeva e strillava giorno e notte come un ossesso e si rigirava esagitato nella culla che pareva epilettico.

A suo modo, Hashirama stava onorando il lutto per la scomparsa della sua nutrice, visto che neppure un cane aveva presenziato al suo funerale.

Fu forse per questo motivo che, nel momento in cui l’anziano Duca comunicò ai figli e alla nuora di voler affidare il nipote per un anno – secondo le usanze dell’epoca – alla figlia della Fata, nessuno osò sollevare delle obiezioni, neppure Tōka Senju, la quale si limitò ad annuire tristemente.

“Ve lo riporterò bello come il sole!”, aveva promesso loro Kiyora, quando Sua Grazia e la Duchessa vennero a portarle il bambino, il quale dormicchiava respirando appena appena. “Avete la mia parola.” I due Senju sorrisero a fior di labbra a mo’ di ringraziamento e non per scortesia, bensì in quanto entrambi provati da quell’atroce esperienza, assistere al deperimento di un bébé fino a quell’istante considerato uno splendore di salute. Rassicurati i sinjori con questa ottimista promessa e congedatasi da loro, Kiyora cedette allora il suo figliolo a Najtine e riempì il vuoto del suo abbraccio con il Sinjorino, il quale strabuzzò gli occhi, allarmato da quell’inatteso scambio. Prese quindi a tirare su col naso, a sforzare la trachea già di suo abbondantemente sfruttata, ma ecco! Oh, il miracolo della natura! Quali segrete paroline gli aveva sussurrato la ragazza, mentre prendeva posto sulla sedia a dondolo? Parole certamente di conforto, come consolanti erano quei ghirigori tracciati col polpastrello sul visino scavato, gli occhioni sporgenti e le manine ossute, che Hashirama schiuse e riaprì nel tentativo di afferrare il dito della mora. Con l’altra mano, lei si slacciava la blusa e la tetta turgida ebbe appena il tempo di fare capolino, che il piccolo Senju s’attaccò al capezzolo, suggendo vorace, gli occhi chiusi in apprezzamento e le dita intente in strani esercizi motori. Non si separò neppure quando Madara, frignando incollerito, gli diede tramite una serie di singhiozzi-gridolini del porco egoista, specificando in questo arcano e indecifrabile linguaggio infantile che quella era la sua tetta e che sloggiasse immediatamente. Hashirama, ineffabile, fece orecchie da mercante, gli rispose solamente a pasto terminato attraverso un soddisfatto ruttino e fu forse questa piccola provocazione che istigò in mio nonno il vindice pallino di smutandare ad ogni occasione il suo fratello di latte, il quale, omettendo i primi problemucci d’adattamento, riprese a mangiare con regolarità, riacquistando peso e cessando i suoi estenuanti isterismi con sommo sollievo di sua madre la Duchessa, la quale malgrado le fosse stato consigliato di sfruttare il periodo di convalescenza per rilassarsi, non passava giorno che non trovasse un modo per venirlo a trovare, magari adducendo qualche flebile scusa o portando calzini, cuffie, vestitini nuovi anche per Madara o sapone o coperte o altro denaro per pagare ogni spesa aggiuntiva. E spesso, sedendosi accanto a Kiyora, Anise si fermava assorta a contemplare il figlio che poppava come un matto, mentre un’espressione d’infinita malinconia le si dipingeva in volto e il fievole e sempre più saltuario dolore ai propri seni le ricordava maligno quell’arcano rimpianto, di non aver mai allattato personalmente la sua creatura sia per motivi estetici che di etichetta. Alla fine della visita, la Duchessa si raccomandava sempre con voce roca, dopo aver baciato e ri-baciato la testolina castana del suo bébé, di trattarlo bene e di avvertirla al minimo problema.

“Non avrei mai immaginato che l’allattamento fosse per i ricchi un qualcosa di sconveniente!”, confidò una sera Kiyora a Najtine, intanto che cambiava le fasce ai due marmocchi. 

“Non a caso nelle loro vene, quelle dei nobili in particolare, scorre ghiaccio al posto del sangue!”, replicò la fata, aiutandola a finire il lavoro e a sistemare nella semplice culla Hashirama e Madara, entrambi troppo stanchi e satolli di latte per protestare l’eccessiva vicinanza, in poche parole dormire nella stessa culla, preferendo invece rimandare a più tardi la loro diatriba lattea, addormentandosi quasi subito, Hashirama coi pugnetti portati all’altezza della testolina come le icone bizantine, Madara col suo immancabile pollice in bocca.

Una piccola tregua che durò all’incirca quattro ore quando, in sincronia perfetta, i due ulularono nel cuore della notte la loro fame lupesca.

 

 

 

... Nessun tesoro tanto gli piaceva!

Se ne serviva nei giorni solenni,

e ogni volta ch'egli vi beveva,

i suoi occhi di lacrime eran pieni ...

 

 

 

Il 29 giugno dello stesso anno, giorno dei Santi Pietro e Paolo, il sovrano di Hi, Re Sorato XIOotsusuki, impalmava una bella straniera, figlia di un imperatore, Sua Eccellenza la Principessa Kaguya. La peculiarità di codesto imeneo risiedeva nelle origini della regale sposa, la quale non proveniva, come le previe regine, né da Tsuchi, né da Kuminari, né da Mizu, né da Kaze, né da qualsiasi altra città libera o granducato o principato confinante con Hi. Sua Eccellenza Kaguya veniva da una nazione lontana (così lontana che solo chi aveva studiato geografia o viaggiato poteva figurarsela mentalmente) e aveva conosciuto Sua Maestà quando questi era ancora un Principe Ereditariosballottato di qua e di là per il globo terrestre su istruzione di suo padre, il defunto Re Soma VIII.

Il matrimonio reale, celebrato con uno sfarzo senza pari, galvanizzò l'intero regno, da nord a sud, da est ad ovest e le casse dello Stato ingrassarono per la folla di sudditi dalle province o di visitatori, che si prestò a rimanere pigiata negli angusti marciapiedi o appollaiata alle finestre pur di vedere la sposa arrivare nel Duomo di Nostra Signora dei Miracoli a Konohagakure o viceversa, la coppia reale uscire da esso sulla carrozza scoperta e salutare i festanti sudditi con un artificioso svolazzo di mano di repertorio. L'euforia generale sconvolse talmente la psiche dei konohagakuriani e hiliani in generale, che ogni screzio politico venne accantonato; perfino gli oppositori più accaniti della monarchia - i famigerati repubblicani che avrebbero dato la mano destra per veder la testa dei reali rotolare nello sterco di vacca - ebbene pure loro si sciolsero in un esaltato: "Dio salvi il Re! Dio salvi la Regina!"

Insomma, ci si riscoprì d'un tratto patriottici, perfino i più scettici.

A Mokuton l'effetto esaltante delle nozze reali venne prontamente assorbito dall'incrinabile imperturbabilità dei suoi abitanti i quali, un giorno di ferie e qualche bicchiere di vino gratis a parte, non si ritrovarono  né più ricchi né più privilegiati di prima, anzi, con la scusa che i padroni avevano dovuto lasciare la tenuta per presenziare alla funzione nel duomo, l'Amministratore ne aveva approfittato per godersela un poco, angheriandoli ulteriormente con le sue prepotenze e se il mio prozio simpatizzò con la classe lavoratrice, fino a pagare con la propria vita tale empatia, lo si deve a suo padre, il bisnonno Tajima, che, eletto a portavoce di tutti i mezzadri, si rivolse all'ultima autorità rimasta a Mokuton, quando i Senju erano assenti: il parroco. Col vecchio medico quale testimone (saranno stati analfabeti, ma mica fessi, eh!) il bisnonno e i suoi compari obbligarono il parroco a compilare il primo cahier de doléances mai esistito a Mokuton, un dettagliato resoconto di tutte le malefatte dell'Amministratore, alcune dimostrate, altre solo ipotizzate. In un appassionato quanto indignato appello al Duca, vi si denunciavano dopo anni di silenzio le birbonate e prepotenze cui i mezzadri erano sottoposti, le ladrerie compiute alle sue spalle e lo si invitava a prendere quanto prima dei seri provvedimenti. Ovviamente, questo quadernino non giunse mai nella scrivania né del Maljunulo Sinjoro né di Butsuma Senju, giacché il parroco, temendo ripercussioni da parte dell'Amministratore, lo nascose ai piedi della quattrocentesca statua di Santa Lucia e lì sarebbe rimasto per tre lustri, fino ad un suo casuale ritrovamento che avrebbe portato al giusto licenziamento dell'Amministratore prima, ad una tremenda tragedia nella famiglia Senju poi, segnando per sempre il destino delle due famiglie e dei loro componenti.

"Lui era venuto a punirci per i peccati compiuti dai nostri antenati", avrebbe confessato Kawarama a suo fratello Tobirama in seguito all'orribile sciagura. "Dobbiamo rassegnarci a raccogliere quanto seminato."

Intanto però, l'Amministratore (vi sarete resi conto che non voglio neppure dargli un nome) si accertò di fargliela pagare a quei disgraziati che lo avevano denunciato; il parroco, del resto, non ci mise molto a confidargli i loro nomi. La conseguente rappresaglianon tardò a venire: l'Amministratore e i suoi sottoposti, cui era stato erroneamente riferito che i mezzadri stavano organizzando una sommossa ai danni del padrone, irruppero di notte nelle case dei recriminanti e, strappatili a viva forza dal letto, li menarono a sangue davanti ai loro atterriti famigliari, ficcando poi la loro testa nel buco sul retro casa che fungeva da pitale. Lo stesso fato lo avrebbe subìto anche Tajima Uchiha, sennonché le oche nel cortile, accortesi dei visitatori notturni, similmente alle loro ave del Campidoglio presero a starnazzare impazzite, svegliando tutti gli abitanti del casolare, i quali, affacciandosi alla finestra, intuirono il motivo di quella visita sgradita e di fatti, vestito il parente alla bell'e meglio, lo fecero uscire di soppiatto dalla cucina. Correndo trafelato nei campi bui come l'inchiostro, l'uomo si diresse verso il solo posto che avrebbe potuto dargli asilo: la casa di Najtine la Fata.

"Mi danno la caccia, nascondimi!", esclamò egli senza fiato alla moglie, che gli venne ad aprire dopo che questi ebbe per poco sfondato la porta a furia di disperati colpi. (Pur seguitando a non vivere assieme, Tajima e Kiyora avevano nel frattempo convolato a nozze).

Senza neanche dargli il tempo di deglutire la saliva, la giovane lo tirò dentro casa, spingendolo in camera sua. "Qui!", disse, indicandogli la capiente cassapanca. "Nasconditi qui! Non muoverti, non respirare! A loro ci penso io!", lo istruì, per quanto lei per prima non sapeva come accidenti comportarsi, proprio in quella notte le doveva succedere un tale teatrino, l'unica notte in cui Najtine non c'era!

Ma il suo tabarro sì, neanche la fata l'avesse sospettato, e di fatti Kiyora se lo mise addosso a mo' di sostegno e protezione, sedendosi sopra il mobile, Madara e Hashirama stretti al collo. Molti anni dopo, poiché il mondo è un Uroboro, una scena simile si sarebbe ripetuta: sua nipote, mia zia, avrebbe atteso col figlio in braccio i "difensori dell'ordine" alla ricerca di suo padre e di suo zio, che lei aveva precedentemente nascosto in casa. Soltanto perché i capi di questa marmaglia erano amici di vecchia data di suo marito e avevano colto l'occasione per pareggiare dei conti comunque sbilanciati (il padre del Benefattore s'era giusto difeso e basta), mia zia sarebbe scampata ad una caterva di colpi allo stomaco, salvando così il nonno e il prozio.

Similmente, anche Kiyora la fece scampare a Tajima per intercessione di un Senju, sfruttando per una volta il suo speciale status a Mokuton. Le servì un enorme coraggio, però. Un'audacia accompagnata dal tremore delle gambe e dal cuore che le batteva a mille nel petto, mentre udiva i cani dell'Amministratore abbaiare verso la sua abitazione, ben presto seguito da un deciso rumore di passi.

"Aprite questa porta, streghe!", gridarono da fuori.

Kiyora non si schiodò dal suo posto.

"Aprite o giuro su Dio che appena dentro vi torco il collo, puttane!"

La mora strinse di più a sé Madara e Hashirama, i quali neppure fiatavano, intuendo secondo i loro ragionamenti d'infante che qualcosa di brutto stava accadendo e che non era il caso di fare storie.

Un calcio, due calci, tre calci. La porta crollò, sfondata, frantumandosi in un bedlam di schegge e tavole irregolari al primo contatto col pavimento. Entrarono come un fiume in piena, invadendo e violando la sacralità domestica coi loro stivali sporchi di fango, d'orina e sangue, rovistando dappertutto, distruggendo, dissacrando. In mezzo a questo blasfemo bailamme, la giovane nutrice era rimasta immobile come il sole, i due pargoletti oramai un tutt'uno con lei e col tabarro.

"Avanti, parla! Dove hai nascosto il tuo uomo?", si rivolse brusco l'Amministratore a Kiyora, dopo un'oretta buona d'infruttuose ricerche.

"In questa casa gli unici maschi che vi abitano sono questi due bambini."

"Non fare la furba, troia. Sappiamo che tuo marito è venuto qui a nascondersi! Dove lo hai ficcato?"

"Non è insultandomi che mi persuadi a dirtelo! Eppoi, io non so niente, non ho visto niente, a che pro mentirti?"

"Piuttosto, perché non eri a letto? Perché sei seduta qui?"

"Stavo allattando ..."

"Mi pare che questo qui sia un po' grandicello per poppare ..."

"Non il mio, però!"

"Suvvia, carina, poche storie: quella cassapanca è l'unico posto in cui non abbiamo controllato. Alzati: se davvero tuo marito non è in questa casa, non hai nulla di cui temere!"

"E appunto perché questa è casa mia, che mi alzo come e quando ho voglia e adesso non ne ho!"

"Non scherzare con me! Alzati o ..." e le puntò con freddezza assassina la volata del fucile dritto al cuore.

Kiyora impallidì fino al grigiastro, incominciando poi a gridare isterica: "Cornuto! Avresti davvero i coglioni di sparare ad una donna disarmata, per di più con dei bambini in braccio?", ululò, ingobbendosi e torcendosi con busto e spalle per proteggere i piccini, adesso piangenti e terrorizzati. Gli uomini dell'Amministratore si mossero a disagio sul loro posto: decisamente il loro superiore stava sorpassando ogni limite, specie se ancora non aveva intuito la vera identità di quella donna.

"E sai quanto me ne frega; una puttana e dei bastardi in meno, come se il mondo vi potesse mai rimpiangere!"

"Puttana sarà tua madre e bastardi sarete te e i tuoi fratelli! Lo sai chi sono io? Sai chi è lui, figlio di scrofa?", strillò ella esasperata dal terrore, indicando appena Hashirama, riconoscibile dai ciuffi castani che spuntavano dal tabarro. "Io sono la balia del figlio del padrone! Il figlio primogenito del Duca! Se gli dovesse mai succedere qualcosa, quant'è vero Iddio, Butsuma Senju ti farà squartare vivo e getterà le tue viscere merdose ai maiali!"

Una dolorosa stretta ai capelli la interruppe, piegandole dolorosamente il collo all'indietro. "Me ne sbatto dei Senju, di quegli ingrati rotti in culo, mangiapane a ufo, parassiti! Pensi che ti salverai il deretano nascondendoti dietro di loro? Che siano onnipotenti? Oh no, un giorno dimostrerò quanto essi siano fatti di carne e sangue e quel giorno gliela farò pagare non cara, no, carissima, salatissima, li farò disperare, li umilierò e tu sarai la prossima, tu e il tuo bastardo e quel cacasotto di tuo marito! Ah sì, e la strega che chiami madre!"

"Se non sarai tu a morire per primo, chi augura la morte ad una persona, accorcia la sua e l’allunga a quell’altra!", sentenziò serena la padrona di casa, comparendo alle loro spalle.

Calò immediatamente un pesante silenzio.

"Che blateri mai, strega?", la derise l'Amministratore, seppur un poco titubante.

"La pura verità", replicò serafica la fata, avanzando verso il gruppetto, che indietreggiò, impaurito. "E adesso, andatevene via o vi getto il malocchio!" e in tutta onestà, gli uomini lì presenti non avevano alcunché da obiettare, anzi, stavano giusto per esaudire il desiderio della donna, sennonché l'Amministratore li ordinò di restare.

"Che! Avete paura di questa befana?"

"Chi insulta senza un valido motivo dimostra di non possedere troppo cervello!"

Per tutta risposta alla massima di Najtine, l'uomo le elargì un possente manrovescio, gettandola a terra. "Taci, baldracca, e dimostra di averne un poco anche tu!"

Di nuovo calò il silenzio, stavolta mortale.

"Solo un maiale colpirebbe una donna", mormorò infine la fata ieraticamente, rialzandosi. All'improvviso, Najtine gli batté le mani davanti agli occhi, a qualche centimetro dal suo naso. "E allora vai! Vai a rotolarti coi tuoi simili, porco!", gli ordinò, indicandogli la porta.

L'Amministratore appoggiò le mani ai fianchi, gettò indietro il capo e si esibì in una grassa e insolente risata. "Via, vecchia! Il Medioevo è finito da tem-  ... Oink!", si tappò la bocca con la mano incredulo del suono emesso dalla sua gola. Ché infatti, mescolandosi alle risa, un vero e proprio grugnito maialesco era eruttato dalle sue labbra, scioccando tutti, tranne i piccini, che ripresisi dallo spavento iniziale incominciarono a ridacchiare.

Oink, oink!

"Oh Gesù, Giuseppe, Maria ...", si segnò velocemente Kiyora, portandosi le ginocchia al petto, tanto l'aveva invasa  la paura della superstizione, mentre osservava l'Amministratore cadere bocconi sul pavimento, grugnendo e dimenandosi e trotterellando a quattro zampe verso la porcilaia, dove si gettò  tra gli esterrefatti suini, i quali si domandarono se dovevano contendersi anche con questo nuovo arrivato le loro ghiotte ghiande.

Oink, oink, oink!

"Vade retro, Strega!", gridarono terrorizzati i sottoposti dell'uomo, intasando l'uscita in uno scomposto mucchio, essendosi infatti gettati nella fuga esattamente nello stesso istante.

Najtine sogghignò, puntando contro loro due dita e bofonchiando gutturali parole di minaccia, che si persono nel vento notturno, soppresse dagli ululati dei fuggitivi.

"Si è ... si è davvero trasformato in un ... maiale?", le domandò la figlia sull'orlo dello sconcerto, una volta che nella casa ritornò una certa calma. "Potresti ripetere anche con lui?", avanzò ella la sua richiesta, indicando Tajima, che in quel momento stava aiutando ad uscire dalla cassapanca, dopo aver coricato Hashirama e Madara nella loro culla.

"Senti, donna, non infierire ..."

Riprendendosi il suo tabarro, la fata incrociò le braccia al petto, svelando l'arcano: "Neniu, non l'ho "trasformato". Ho solo rilassato la sua coscienza d'uomo, visto che èuna bestia nell'animo. In ogni modo, domani mattina ritornerà in sé e non si sovverrà niente di questa notte, un po' come se avesse sperimentato una forte ubriacatura. Forse preserverà una vaga sensazione di aver fatto una figuraccia e di doversoprattutto stare alla larga dalla mia casa!", disse, massaggiandosi la spalla indolenzita dal carico di affanno che il tabarro aveva accumulato dalla figlia e i piccini, passandoglielo e conseguentemente irrigidendole i muscoli. "Ciononostante, pur conoscendo le dinamiche del futuro, mi sarebbe davvero piaciuto trasformarlo sul serio in un porco, coda inclusa!", rimpianse tristemente, dirigendosi verso il caminetto e lì riprese il suo infinito lavoro all'arcolaio. In silenzio, dietro di lei, la sua pupilla riaccompagnava Tajima dalla sua famiglia. 

Najtine possedeva un'incomprensibile, per i non-adepti, chiaroveggenza e appunto per questo motivo ella aveva previsto il progressivo allontanamento spirituale di Kiyora nei suoi confronti; l'affetto sincerofinora dimostratole dalla mora da quel momentosi sarebbe mutato gradualmente in un formale rispetto, più che altro dovuto al timore di subire la medesima sorte dell'Amministratore, il quale, come da lei predetto, si chiese nelle successive settimane come accidenti fosse finito a ruzzolare nel fango e nella merda tra i maiali, nutrendosi delle loro ghiande. Kiyora, col passare del tempo, avrebbe perfino smesso di vedere Natsumi Uchiha. Ciò dispiaceva grandemente sia alla fata che al fantasma, giacché la prima aveva perduto una potenziale apprendista, la seconda una persona a cui manifestarsi.

"Cinque anni e quattro mesi", consolò ella il tabarro, che vibrava il suo disappunto, aderendo al suo corpo da dea mater. "E avrò una persona cui insegnare ciò che sento, ciò che vedo."

Sospirò, appoggiando il fuso e gettando un ciocco di legno nel caminetto.

Non sempre pagano a questo modo gli atti di misericordia.

 

 

 

... Quando, sul freddo letto, il passo estremo

della morte il re sentì arrivare,

per potere alla bocca avvicinare

la coppa, fece uno sforzo supremo ...

 

 

 

 

L'estate ingiallì nell'autunno e, prima che ci si potesse rendere conto, giunse il 23 ottobre, segnando il momento della restituzione di Hashirama alla sua vera famiglia, la quale si trovava brevemente di passaggio a Mokuton, giusto per sbrigare le ultime formalità concernenti l'amministrazione della tenuta,  per poi ripartire col bambino alla volta di Konohagakure, dove avrebbero trascorso l'inverno e il primo mese di primavera, fino a Pasqua.

Nei mesi trascorsi tra giugno e ottobre, il Sinjorino aveva dato del filo da torcere a Kiyora, specie quando, a furia di capriole e strilli frustrati, imparò a camminare e iniziò dapprima la sua fase di lallazione, in seguito a spiaccicare le prime pragmatiche paroline: "Mamma ... pappa ..." e se il suo vocabolario fosse stato più articolato, di certo avrebbe aggiunto "E pure in fretta, eh!" Poppare latte oramai non lo interessava, trovava assai più divertente impiastricciarsi le mani di morbido purè di patate e spalmarlo sulla testa di Madara (o "Dada", come Hashirama lo aveva ribattezzato, essendo il nome del nonno ancora troppo complicato per la sua linguetta inesperta) e il piccolo Uchiha, costretto ancora a gattonare, non poteva competere con la vantaggiosa posizione eretta del Senju, impedendogli così di rendergli pan per pariglia. Piangere però no, non gli voleva dare codesta soddisfazione. Sicché, in una mattina ottobrina, Madara decise, esigette, risolse, stabilì ed eseguì, di sollevarsi dalla sua animalesca andatura a quattro zampe e di ergersi come i suoi simili homo sapiens sapiens, camminando sui suoi piedini. Più facile a dirsi che a farsi: al bambino costò una fatica immane sollevare in alto il sedere e formare una sorta di triangolo tra  salsiccesche gambe e braccia tese. E quando gli parve di poter raddrizzare la schiena e compiere i primi fatidici passi, ecco che la testa, più pesante del corpo, onorò le leggi di Newton e si piantò per terra e in battibaleno il mondo si capovolse e Madara si ritrovò supino per terra, la veste di lana sporca di terra e sollevata quel tanto da mostrare al mondo le sue ancora acerbe grazie (Vorrei far notare, che all'epoca di mio nonno, i bambini piccoli vestivano come bambine, con le sottane, e non calzavano alcun genere di costrittiva mutanda, acciocché potessero urinare e defecare a loro piacimento, quando natura chiamava, sollevandosi la vesticciola). Hashirama, che aveva assistito all'esperimento in doveroso silenzio, alla vista del perplesso Uchiha spaparanzato per terra gli trotterellò accanto a mo' di sostegno o forse per tappare la zampillante fontanella tra le gambe del fratello di latte, il quale, vuoi per la paura del ruzzolone vuoi per la pienezza della vescica, si stava per l'appunto pisciando addosso e, a quanto pareva, il piccolo Senju si stava divertendo un mondo ad aprire e chiude con la manina la parabola d'urina, un po' quando si è alla Fontana delle Tette e si blocca un capezzolo per far uscire più acqua dall'altro, schizzando i malcapitati attorno a quello ostruito. "Lalla-la-mah-gah-tat-ta!", strillò Madara, agitandosi come una tartaruga finita sul dorso, chiaro invito ad Hashirama di scegliersi un altro passatempo. Togliendo la mano lercia di pipì dalle modestie del moro, il Sinjorino se la ripulì sulla gonna della sua veste di verde velluto, osservando attento e senza malizia come Madara si rotolasse prono, gattonandosene via umiliato e offeso col sedere nudo al vento e, pensando che si trattasse di un nuovo gioco, si alzò anch'egli la sottane e gli gattonò accanto in simile maniera, in quanto pure lui privo di intimo.

Una settimana dopo, Kiyora riportava Hashirama al Castello di Mori.

I due pargoli, grazie alla loro infantile intuitività, avevano compreso che qualcosa di strano stava accadendo quella mattina del 23 ottobre: la giovane balia, vestitati con l'abito della domenica, aveva destato il Sinjorino e lasciato invece Madara nella culla, che si issò sulle paffute e spellate ginocchia per meglio studiare quell'inusuale programma, giacché la sua mamma soleva sottrarli contemporaneamente a Morfeo, senza precedenze.  Spiò come Hashirama venne fatto colazionare, seppur controvoglia, e sottoposto ad una lunga toeletta: con mesta accuratezza,  Kiyora lavò e strofinò ogni centimetro della sua piccola figura; gli tagliò le unghie delle mani e dei piedi, più quattro dita di capelli arricciatisi tra di loro in un'arruffata matassa e infine lo unse di un profumato unguento alla lavanda, vestendolo infine. Per la prima volta, il piccolo Senju indossò un paio di mutande, poi le calze bianche di lana lunghe fino al ginocchio, seguite da dei pantaloncini alla zuava blu di Prussia e nascosti da una lunga blusa del medesimo colore, su cui spiccava un ampio colletto di pizzo bianchissimo. E vennero le scarpe, quel gran mistero, fino ad allora Hashirama aveva girovagato per il mondo scalzo o al massimo con indosso  degli spessi calzettoni. Senza fiatare, fissando in muta partecipazione gli occhi sempre più umidi e lucidi di Kiyora - E' il fumo, mio bebo, è il fumo del caminetto, sai? -  il bambino si lasciò pettinare e non osò scendere dal letto imbottito di paglia, dove la balia lo aveva appoggiato, dedicandosi ora a Madara, attendendo entrambi in assoluta immobilità. Il piccolo Uchiha si dovette accontentare di un trattamento più approssimativo, quel tanto da farlo apparire pulito e decente dalla cesta, in cui sua madre lo depose e che si mise in spalla, allacciandosi le cinghie alla cintola e incrociandole per sicurezza al petto.  Sistemato al Sinjorino la mantellina e un cappellino alla gavroche, Kiyora s'avviò assieme a Najtine e il carrettiere Majstro Bourbon (così soprannominato per via della sua fenomenale golosità per l'omonima crema), venutole appositamente a prendere.

Nessuno proferì parola fino all'arrivo ai cancelli del Castello.

I padroni li stavano attendendo nel salottino privato, una confortevole stanza tappezzata di caldo e avvolgente rosso cardinale, dalle cui pareti innumerevoli ritratti di Senju di ambo i sessi e vestiti secondo la moda delle epoche più disparate osservavano vacuamente annoiati i loro discendenti, in particolare la Duchessa Anise la quale, annunciata Kiyora, balzò dal canapè, gli occhi spalancati dall’aspettativa, impaziente di riabbracciare il suo bambino.

Rimase quindi sorda agli inviti di rimanere compostamente seduta al suo posto e di ricevere imperturbabile la giovane balia, ringraziandola affettata per il suo servizio: non appena Hashirama, guidato per mano dalla mora, entrò nella sala, sua madre gli corse incontro, inginocchiandosi davanti a lui. Lo abbracciò forte, accarezzandogli il capo e cospargendogli il volto di baci, ignara di quanto quelle effussioni d’incondizionato affetto stessero mettendo in imbarazzo il marito e la cognata, suscitando invece un sorriso benevolo nel suocero. Anise studiò a lungo il figlio, scorrendo i polpastrelli sulle guance piene e la pelle morbida e olivastra, accarrezzando i capelli castani e riprendendo a stringerlo al petto, ricacciando indietro lascrime sia di gioia che di disappunto, poichè non le era sfuggita la rigidità del corpo del primogenito né le sue occhiate confuse. “Ah, mon enfant ...”, sospirò.

Gli occhi di Hashirama, infatti, non tradivano alcun segno di riconoscimento della madre uterina; di conseguenza, sentirsi così maneggiato lo metteva a disagio, incerto se ricambiare o meno l’abbraccio di quell’elegante sconosciuta dai capelli biondissimi, quasi argento, e dalle iridi carminio. A onor del vero, lo intimoriva un poco l’intensità di quello sguardo talmente pieno d’amore e tristezza, che si sentì consumare da esso. Si voltò quindi verso Kiyora, accennando a sciogliersi da quella dolce gabbia di carne e stoffa e di raggiungere la sua nutrice, nascondendosi dietro la sua ampia gonna domenicale.

Ma Kiyora, intuito il desiderio del piccino, indietreggiò di un passo, facendogli cenno di no col capo, che non stava bene: da adesso in poi lui non sarebbe più stato il suo bebo, un bimbo qualsiasi, un suo pari, da vestire spartanamente pratico e lasciar gironzolare come un selvaggio per i campi; Hashirama ritornava ad essere un Senju, l’erede di Mokuton, il suo futuro venticiquesimo duca e tutti avrebbero dovuto rivolgersi a lui ossequiosamente, dandogli del “lei”, del “padroncino”, del “Sinjorino”. Cessava di appartenere al loro mondo, catturato per sempre da quello di provenienza, per loro inarrivabile, proibito.

Allora, compreso come quel legame con la balia fosse ormai destinato a dissolversi, Hashirama si riconcentrò sulla Duchessa sua madre, abbracciandola a sua volta e permettondole di essere da lei sollevato e tenuto in braccio. Nello stesso istante, il Maljunulo Sinjoro raggiunse la mora, ringraziandola da parte di tutta la famiglia, traendola poi in disparte, fuori dalla sala, onde conferire con lei sul compenso e altre questioni.

Kiyora non salutò Hashirama, non gli lanciò neppure un’ultima occhiata, per quanto gli occhi del piccino fossero rimasti attaccati a lei, sperando fino all’ultimo che la giovane, in un impeto di affetto, lo strappasse dalle braccia della Duchessa, ritornando assieme nella casetta di mattoni di Najtine, sulle sponde del fiume Naka. Ne rimase deluso, sgranando però gli occhioni non appena si accorse di un braccino sporgere dalla cesta: rigiratosi a fatica nel suo costringente interno, Madara aveva steso il braccio in direzione di Hashirama, aprendo e schiudendo la manina, come se volesse afferrare  e trascinare a sé il fratello di latte, che imitò ben presto il gesto, allungando il collo oltre la spalla materna quando Anise, voltandosi, gli impedì di accommiatarsi appropriatamente dall’Uchiha.

Quella notte la culla parve a Madara terribilmente grande, vuota, fredda.

“Hai accettato?”, udì la sua nonna adottiva confabulare con la madre, le quali lo credevano addormentato e comunque troppo acerbo per comprendere i loro discorsi, Kiyora soprattutto.

“Jes”, le confermò la giovane, sistemandosi lo scialle sulle spalle. “Incomincierò dalla prossima settimana.”

“Tuo marito non ne sarà molto contento”, puntualizzò Najtine, preparando il telaio. “Potrebbe finire come la povera Natsumi ...”

La mora rise sarcasticamente. “Come se me ne importasse! Settanta ryo al mese, voglio ben vedere se ci sputa sopra! Io no di certo! Eppoi, non corro alcun rischio: lavorerò nelle cucine, non come cameriera, ergo il padrone non mi ronzerà attorno!”

La fata mormorò il suo assenso. Che altro poteva fare, altrimenti? Aveva perduto Kiyora in quella terribile notte di fine giugno, che gliene veniva a litigare con lei?

“Porterai Madara con te?”

“Non oso lasciarlo solo con quei bifolchi”, mormorò cupamente la sua pupilla. “Lo odiano. Mi odiano. Chissà a quali malagrazie potrebbero sottoporlo, mentre io lavoro al Castello! Inoltre, sono convinta che lì avrà modo di costruirsi un destino diverso dai suoi antenati, le occasioni non gli mancheranno! Sono stata la nutrice del loro erede, i padroni se ne ricorderanno, quando prenderanno mio figlio a loro servizio. E a Dio piacendo, se la Sinjora Duchessa si dovesse decidere a sfornarne altri, non mi dispiacerebbe proprio allattare pure quelli ... Nessuno dei miei figli si piegherà a zappare i campi, mangiando polvere come i serpenti!”

Il cigolante rumore del pettine del talaio s’interruppe. “Attenta, filina”, l’avvertì Najtine. “Non permettere che il fuoco dell’ambizione ti consumi, potresti rimanerne scottata: i servi che si mettono sullo stesso piano dei padroni, raramente finiscono bene ...”

“Trovi iniquo il mio desiderio di volere un destino migliore per Madara?”

“No, ma deve essere lui ad ambire ad esso. Costringendolo, te lo alienerai e l’amore interessato che finora gli avrai dato sarà ricambiato con l’odio della recriminazione.”

Kiyora sospirò, massaggiandosi la tempia.

“Mi accontenterei anche solo di saperlo un uomo libero, slegato da ogni obbligo servile. Senza padrone, tranne che di se stesso. E’ troppo domandare?”

“Il tempo ti darà la risposta che cerchi. Per stanotte, dormi e non ci pensare.”

La voce di Kiyora tremò, semi-soffocata dalle mani dietro cui la mora aveva nascosto il suo volto stanco. “Voglio bene a mio figlio, sai?”, singhiozzò. "Gli voglio bene ..."

“Nessuno lo ha mai messo in dubbio, filina”, la consolò Najtine, abbandonando il lavoro al telaio e, raggiuntala, avvolgendola col suo centenario tabarro.

 

 

Finalmente, in onor della sua dama,

egli vi bevve per l'ultima volta;

tra le sue dita tremò quella coppa,

ed egli, dolcemente, rese l'anima.

 

 

Fu così che Madara si trasferì al Castello di Mori.

L’idea proveniva da Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro, il quale ancora ben si sovveniva del brutale e umiliante licenziamento di Kiyora da parte della figlia e, desiderando portare la faccenda ad un giusto equilibrio, aveva elaborato quel compromesso: la mora avrebbe lavorato nelle cucine o meglio, nella terza cucina, quella riservata alla preparazione dei dolci, acciocché potesse mantenere il figlio e nascondersi dagli occhi vendicativi  di Tōka, le cui urla ancora riverberavano sia nel Castello che nella loro dimora cittadina a Konohagakure. Suo padre dovette battere il pugno sul tavolo, alzare la voce e minacciarla di spedirla in convento se ancora s’azzardava a remargli contro – Butsuma sarà il Duca, però io sono ancora il padrone di questa casa e soprattutto sono suo padre! Un’altra parola, signorina, e ne paga le conseguenze! -  per poter giungere evemtualmente ad una parvenza di tranquillità all’interno dell’aristocratica famiglia. In ogni modo, la sua soluzione si dimostrò valida, rasserenando l’anziano signore e concedendogli di giocare finalmente al nonno.

Hashirama era un amore di bambino: passate le prime settimane di malinconia per il distacco dalla nutrice, aveva ben presto obliato l’anno trascorso tra i mezzadri, adattandosi con l’elasticità ingenua degli infanti alla sua nuova vita nel signorile palazzo della sua famiglia, giostrandosi tra le continue attenzioni dell’anziano Duca, di sua madre, delle zie e delle cugine. Crescendo, si delineava un carattere molto vivace eppure dolce, rasserenante, gentile. Non si esibiva in nessun capriccio e se ogni tanto metteva su un signor broncio, ecco che la sua espressione alterata si scioglieva in un sorriso radioso tutto fossette, che faceva innamorare chiunque gli stesse accanto. L’unica pecca in questo bonbon di creatura si trovava nella sua facile tendenza alla depressione, ereditata, come asserito da Najtine, dalla madre durante la sua gestazione. Hashirama si intristiva per un nonnulla, dimostrandosi estremamente sensibile ai commenti negativi e ai rimbrotti. I cugini lo dileggiavano spesso e volentieri per la sua reclutanza a tirare la coda al gatto o a spennare i canarini o con la fionda a distruggere le bambole delle cugine, appellandolo “mollaccione”, “signorinella”, “frignone”. Allora, il piccolo Senju si rannicchiava sotto il tavolo, dietro il vaso di selci o della palma nana, oppure in un angolino nascosto e, portate le ginocchia al petto, si ubriacava della sua medesima tristezza fintanto che il nonno, scovando sempre e comunque il suo nascondiglio, lo issava in braccio e, accomodatolo sulle ginocchia, lo invitava a confidargli i suoi crucci, leggendogli poi le favole dei fratelli Grimm o poesie e filastrocche, nel frattempo che gli accarezzava il capo e sorrideva alla vista del visino di Hashirama che si distendeva gradualmente, addormentandosi poi, la testa appoggiata sulla spalla del vecchio.

Sua Grazia il Maljunulo Sinjoro a parte, Hashirama crebbe tra le donne nel gineceo di casa, un mondo segreto e ovattato distante anni luce dalla schietta e cameratesca competitività che avvertiva ogniqualvolta si relazionava coi cugini e, nelle rare occasioni in cui s’imbatteva in lui, col padre. Lo preferiva al mondo dei “veri uomini”, gli era più caro e vicino questo locus amenus pieno di calda luce, dai colori pastello e morbido come le mani bianchissime della Duchessa Anise, il cui ventre, notò Hashirama un giorno, incominciava ad arrotondarsi, come se la sua Maman si stesse gradualmente trasformando in un’orca assassina. Ne parlò entusiasta col nonno, il quale gli sorrise a mo’ di conferma, spiegandogli che Anise gli stava preparando un dono molto speciale, un fratellino o una sorellina con cui giocare e a cui badare, in quanto primogenito.

“E quando sarete grandi abbastanza, potrete scorazzare quanto vorrete a Mokuton, dove altro non sussiste che il cielo, l’acqua e la terra. Non come a Konohagakure, dove sono le case a farla da padrone!”, gli raccontava e Hashirama lo ascoltava rapito, fantasticando su queste terre il cui nome ricorreva spesso nelle conversazioni in famiglia e che la sua mente infantile dipingeva come la gemella della Camelot arturiana, piena di avventure, magie, misteri. Ogni giorno insisteva sulla data della partenza, tampinando tutti i suoi famigliari finché, alzando lo sguardo dal suo ricamo, sua zia Tōka sbuffò snervata all’ennesimo strattone alla gonna: “Quando nascerà il bambino!”

“Ancora? Sono mesi che me lo dite!”, protestò il castano.

“Ci vuole tempo, tesoro, ci vuole tempo ... Bisogna attendere ...”

“Ma io non posso aspettare!”, frignò Hashirama, scappando via alla ricerca del nonno. “Quando nascerà il bambino?”, gli chiese ansioso, arrampicandosi sulle sue ginocchia e costringendo l’anziano Duca a riporre il giornale e la pipa che stava fumando.

“A settembre.”

“Eh? Ma per allora l’estate sarà finita! Come gioco, io?”

“Vero, però l’estate successiva il suo fratellino o sorellina sarà abbastanza grande per viaggiare. E’ lunga, da qua a Mokuton!”

Un anno ancora. Beh, poteva farsi forza e attendere.

Il viaggio non ebbe mai luogo.

Una mattina di metà giugno, mentre giocava coi suoi soldatini di piombo, Hashirama sobbalzò quando le sue giovanissime orecchie entrarono in contatto col primo vero grido della sua vita: Kanako, la cameriera personale della Duchessa, si diresse urlando da suo padre Butsuma, spiegandogli concitatamente come sua moglie fosse caduta in deliquio per terra, inzuppando il tappeto di sangue. Si chiamò il medico e il piccolo Senju, che naturalmente era corso a curiosare, fu trasportato via a viva forza dalla zia nella sua cameretta, dove rimase segregato in compagnia di una fantesca finché questa, appisolatasi, non gli concesse una ghiotta occasione per sgattaiolare via e scoprire quale male stesse affliggendo la sua Maman. Nascondendosi dietro le tende, Hashirama assistette all’uscita del dottore dalla camera di Anise, un’espressione grave dipinta in volto.

“La creatura era una bambina”, annunciò cupamente. “Troppo fragile e deforme per sopravvivere all’intera gestazione. Quanto a Sua Grazia la Duchessa, le sue condizioni sono stabili, non corre alcun pericolo di vita. Solo, potrebbero esserci delle complicazioni ... spirituali, ecco.”

Il Duca accolse stoicamente la notizia, non muovendosi neanche quando Kanako uscì dalla stanza, recando seco in un pasciuto fagotto il corpicino senza vita della figlia.

“Dio, è orribile!”, commentarono schifati i servi nella cucina, attorniando il feto che la cameriera aveva appoggiato sul tavolo, in attesa che si decidesse il da farsi.

“Mostruosa!”

“Non ha neppure le gambe!”

“E le mani? Hai visto? Sembrano due moncherini!”

“Guarda la schiena ... E gli occhi?! Un rospo!”

“Come ha potuto la Sinjora portare in grembo un simile obbrobrio?”

“Sangue marcio, mia cara, sangue marcio! Così imparano a sposarsi tra di loro, i porci incestuosi!”

Dall’ombra del suo osservatorio Hashirama assisteva a tali discorsi, la lenta e inesorabile fine del suo infantile idillio.

A Mokuton, similmente nell’ombra delle cucine cresceva Madara Uchiha, una piccola peste dalla lingua assai lunga, la quale traeva un birbonesco gusto a far impazzire sua madre, celandosi in ogni angolo oscuro del vasto labirinto e sparendovi in essi per ore e ore, dall’alba al tramonto. I cuochi, gli sguatteri e le cameriere gli davano man forte e Kiyora imprecava come un marinaio quando, concentrandosi su di una pietanza, perdeva di vista il figlio, che immediatamente ne approfittava per continuare le sue esplorazioni. Ogni cosa lo incuriosiva, scatenandone un intelletto non comune per la sua età, che lo portava a tartassare il Majstro Takagi, il guardiacaccia, il quale di tanto in tanto si presentava nelle cucine per cedere della selvaggina o fare rapporto all’Amministratore. Attendendolo quatto quatto, Madara gli saltava addosso, aggrappandosi alla sua schiena e, se voleva liberarsi del suo insignificante peso, gli intimava di raccontargli questo, quello, tutto. L’uomo rideva, sconquassandogli il petto col suo timbro possente da basso, afferrandolo per il coppino come un gatto e, rimettendolo coi piedi per terra, prendeva posto accanto al camminetto, dove il piccolo Uchiha tosto lo raggiungeva, accocolandosi per terra, sorreggendosi il viso con le mani. Beveva i racconti, talvolta esagerati e talvolta pragmatici, del guardiacaccia, immagazzinando i suoi aneddotti, consigli ed esperienze personali, di amici e di parenti e se fosse stato per Madara, non avrebbe mai cessato di ascoltare le sue storie, anche all’infinito, pur di non ritornare alla realtà, quella vacca schifosa e traditrice che lo attendeva fuori dai cancelli del Castello di Mori.

Non gli piaceva ritornare  a casa, in quello squallido casolare dove abitavano i suoi parenti, dove egli sapeva di essere a malapena tollerato. Il padre Tajima lo trattava alla stregua di una bestia, nel senso che tra il cane e il quartogenito non sussisteva alcuna equa distribuzione d’affetto, un pat-pat sulla testa e tant’era. Se avesse potuto, il moro sarebbe scappato da Majstro Takagi, supplicandolo di adottarlo. Oppure di sposare la sua Ponja, in modo da divenire una famiglia con tutti i crismi. Magari un giorno gli avrebbe insegnato a sparare ai bracconieri e a preparare le tagliole.

Madara percepiva di essere un estraneo in seno agli Uchiha, ma non gliene importò.

Similmente, non gli importava che gli altri bambini del villaggio, invidiosi dei suoi lindi abiti seminuovi e della ciccia del bambino sano e nutrito sulle sue ossa, lo isolassero dai loro giochi, ostracizzandolo; che all'insaputa dei genitori i suoi fratellastri Setsuna e Saya assieme ai suoi cugini gli tirassero i capelli, gli strappassero di dosso i vestiti e lo strascinassero nella melma, urinandoli in faccia e chiamandolo "bastardo" tra un pizzicotto e l'altro. Non gliene calava un'emerita cippa di queste vere e proprie sevizie: lui sapeva di essere superiore a loro e la prova stava nella vita che conduceva al Castello, nel dedalo delle immense cucine sotterranee, dove lui regnava incontrastato in quel mondo dai mille odori e dal vociare incessante, piccolo monarca assoluto del continuo viavai di servi e contadini che portavano i viveri da catalogare, riporre nelle dispense e cucinare. Lì era vezzeggiato, coccolato, poteva fare e dire ciò che gli saltava in testa e nessuno lo avrebbe mai punito: l'aver condiviso il medesimo latte col Sinjorino gli conferiva una sacra aura d'intoccabile agli occhi ancora superstiziosi delle fantesche, le quali se lo contendevano per lavarlo, giocare con lui, sfamarlo. Madara ingurgitava giornalmentelatte, biscotti, carne, pesce, verdure mista, frutta in quantità tale, che i suoi parenti non avrebbero visto neppure in un anno. All'inizio, aveva desiderato condividere siffatte ghiottonerie, ma poi aveva riconsiderato queste sue filantropie alla luce della poca bontà e riconoscenza ricevuta in cambio, giungendo alla conclusione che non si meritassero un bel niente da lui. Sicché, fu generoso solo con Yakumi, il fratellino nato due anni dopo, che Madara avrebbe sempre tenuto in braccio quando la madre impastava i dolci, spezzettando piccoli bocconcini di cibi vari per aiutarlo nella masticazione, una volta cresciutigli i denti.  Divenne il maestro del piccino, iniziandolo ai segreti delle cucine e raccontandogli le storie di Majstro Takagi, aiutando in questo modo sua madre a badare al marmocchio durante i suoi turni al forno, in particolare quando Kiyora si scoprì incinta per la terza volta.

Eppure, per quanto considerasse Yakumi  un suo vero parente e nutrisse per lui un grande affetto, il fratellino non poteva alleviare la tremenda solitudine che giorno dopo giorno cresceva nel cuore del piccolo Uchiha. Il Re si scopriva sempre più solo, incapace di relazionarsi con qualcuno della sua età, un coetaneo con cui giocare e condividere i biscotti e le confidenze. Di conseguenza, trascorreva giornate intere ad analizzare ogni minimo dettaglio delle cucine, dagli scaffali al girarrosto, dalle ragnatele nelle cantine agli animali morti appesi e in attesa di essere cucinati. Rovistava perfino nella spazzatura, studiando accorto la testa decapitata di un'oca, forzandole aperto il becco per appurare se avesse o meno la lingua. E quando, con una zampata, Kiyora gli sottraeva il giocattolo di fortuna, ecco che Madara riemergeva dalla fuligginosa penombra delle cucine per rimanere accecato dalla schietta luce esterna, ritagliandosi un piccolo angolo dell'immenso parco-giardino che circondava il Castello. Afferrato un sassolino, tracciava sulla terra con la punta di un bastone la tabella per il gioco della Campanella, tirando la pietruzza e saltando come un ranocchio e piegandosi come una gru per recuperarlo e riprendere il gioco.

Il tutto, canticchiando: "C'era una volta a Tulé un re, fedele fino alla tomba ... ", pomeriggio dopo pomeriggio per quasi quattro anni, finché un giorno in cui era stato letteralmente espulso dall'improvvisa ressa creatasi nelle cucine neanche si fossero tramutate in vespaio, gli capitò di lanciare il sassolino nell'ultima casella. Aprendo le braccia per coordinare meglio i balzi, Madara incominciò a saltare, prima su di un piede, poi su due, poi ancora uno ... "... e a lui fu donato, cara memoria della sua bella ..." e due ... uno ... due ... l'ultima casella giunse, ma ... ohibò! E il sassolino? E quel paio di scarpe di nero cuoio sotto il suo naso?

"... un bel calice d'oro cesellato!", concluse una vocina bianca come la sua, costringendo il piccolo Uchiha a risalire con lo sguardo la linea degli stivaletti, lungo delle calze nere e un abito scuro alla marinara, soffermandosi sullanuda, morbida e ombrosa fossetta del giugulo fino a giungere ad un volto pienotto incorniciato da corti capelli castano scuro e su cui troneggiava un sorrisone speranzoso. "Piacciono anche a te le poesie di Goethe? Grand-père me le legge spesso, prima di coricarmi."

Un arcano terrore invase l'anima già di suo scossa di Madara: il bambino - o nano, chissà - davanti a lui gli si parava innanzi come una sorta di indecifrabile creatura sovrannaturale. Non apparteneva al suo mondo, non almeno quello cui il moro faceva riferimento. Inoltre, la parlata lineare e pulita da ogni forma di gergo, l'atteggiamento composto di chi conosceva il proprio status, i vestiti troppo puliti, troppo costosi e quel viso pieno della compiaciuta serenità di chi era sempre vissuto in una felice campana di vetro misero il moro in uno stato di impaurita soggezione, quasi il suo istinto animale - o la tara genetica d'essere discendente d'una lunga stirpe di servi - lo stesse avvertendo che, al primo suo passo falso, quel fanciulletto poteva rovinargli l'esistenza. Emanava una forte aura di potere che lui, Madara Uchiha, solo in età adulta avrebbe raggiunto, ottenuto dopo lunghi anni di sacrifici, lacrime, sudore e sangue. Ma allora, in quel pomeriggio di fine aprile, lui si sentì minacciato da quel bizzarro bambino che blaterava di assurde chimere. E come ogni brava bestia sotto attacco, si mise subito sulla difensiva.

"Non conosco nessun Gheute, io! E tu, sei un suo amico o cosa, che ne parli con tanta ... famigliarità? E chi è Grammper?", indietreggiò cauto il moro di un passo, pur mantenendo il contatto visivo col suo opponente, il quale scosse divertito il capo castano.

"No, non Gheute. Si pronuncia Goethe, è un cognome tedesco", lo corresse, senza però dare alcun segno dispocchiosa sufficienza. "E comunque no, non lo conosco, non di persona almeno, perché è morto!"

Madara spalancò la bocca, terrorizzato: Dio santissimo e benedetta Lucia di Siracusa, questo qui parlava coi morti! Doveva essere un fattucchiere, un eretico, un posseduto ...

"Allora, vuoi giocare con me?"

E siccome il piccolo Uchiha ci teneva all’eterno destino dell’anima sua, in barba alla corretta pronuncia di quel cognome bislacco e a delle pur allettanti offerte ludiche, fece dietrofront e corse via alla velocità di un treno, manco avesse satana in persona alle calcagna.

Il diavolo no di certo, ma Hashirama Senju sicuramente e di fatti, quest'ultimo non tardò a lanciarsi all'inseguimento del moro, ridendo come un matto e per questo spaventando ulteriormente l'altro bambino, il quale fece voto solenne di mortificare il suo stomaco rinunciando per una settimana ai biscotti, nel caso qualche santo celeste avesse avuto compassione di lui, salvandolo dalle grinfie di quell'indemoniato.

Non ottenne nulla di tutto ciò, la sua fervente petizione rimase assolutamente inascoltata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

To be continued ...

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L’ultima parte potrebbe sembrare un po’ frettolosa, ma è fatta apposta. Le dinamiche del ritorno a Mokuton da parte di Hashirama verranno meglio spiegate nel prossimo capitolo.

Andate su YouTube e provate a sentire la poesia di Goethe musicata da Gounod nel “Faust”, in questo modo avrete una colonna sonora per il capitolo! XD

Alla prossima, ciao!

 

 

 

  
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