Manhattan cantò un rintocco di mezzanotte e Clint
sollevò gli occhi dalla freccia che teneva tra le mani.
Aveva disposto le cocche ordinatamente davanti a sé,
tutte le cuspidi perfettamente allineate, tutti gli impennaggi rigidamente
affiancati, due linee simmetricamente parallele a racchiudere i fusti in un
rettangolo preciso. Non aveva fatto altro dacché la camera ardente era stata
chiusa al pubblico, a fine giornata.
Lo S.H.I.E.L.D. aveva messo a disposizione degli
Agenti di guardia una brandina, lenzuola, cuscini e viveri, perfino un thermos
di caffè e uno di acqua calda, accompagnato da bustine di thé o integratori di
vitamine. Barton, però, non aveva toccato nulla: aveva rifiutato cena e bevande
e materasso, aveva afferrato in silenzio alcune coperte ed era tornato nel
proprio rifugio sulle scale. Aveva poi accartocciato le lenzuola e le aveva
pigiate fino a ridurle in cerchi concentrici, bitorzoluti, con una zona concava
e morbida proprio nel centro, dove potersi comodamente accovacciare col petto
appoggiato sulle ginocchia, la schiena curva in avanti, la testa incassata
nelle spalle. A fargli compagnia, quel lavoro tanto meticoloso quanto monotono
per occupare le ore che lo separavano dall’alba e dall’ultimo giorno di veglia.
Ormai il tempo era scaduto.
Ancora ventiquattro ore e il corpo di Steve Rogers
avrebbe lasciato la Stark Tower per un eterno, onorato riposo nel cimitero di
Arlington. Un sonno senza sogni cinto di corone funebri e cuscini di velluto e
lettere di bronzo e una lapide di marmo. Stark sarebbe tornato senza nulla tra
le mani se non il rimpianto ed il fallimento e con dita tremanti da vecchio
avrebbe afferrato i fianchi del pulpito, vi si sarebbe aggrappato come ad
un’ancora di salvezza e Il Signore è il
mio Pastore avrebbe biascicato, ubriaco fino al midollo di dolore, perdita,
lacrime Non manco di nulla e Amazing Grace avrebbe cantato la folla How sweet the sound ed ogni voce sarebbe
sfumata nel sospiro affranto del giorno, nella pioggia incolore, l’orizzonte
bagnato d’una soffocata tonalità tra il bronzo ed il seppia. Un’ultima eco di
gospel in mille occhi e in mille bocche aperte nella sofferenza d’un solo
canto, forte, potente, disperato, picchi di meravigliosa angoscia in un
frammento d’America alla forsennata ricerca dell’alba.
Tutto si sarebbe spento e la luce sarebbe scomparsa
con un guizzo nero.
Tutto sarebbe tornato buio come quando era
cominciato e i fari del Madison Square Garden s’erano abbassati a bruciare il
corpo scomposto del Capitano, parzialmente celato dalla schiena curva di Tony
Stark, dalle sue mani strette alla divisa gelida.
Clint scosse la testa, passando i polpastrelli a
sfiorare uno per uno gli impennaggi metallici delle frecce.
Che quella sottospecie di missione non avrebbe
portato a niente, lo sapeva chiunque. Avevano cercato di ingannarsi, ognuno a
proprio modo, ma alla fine il fallimento li avevi colti proprio all’apice della
menzogna. Non ci sarebbe stata nessuna divinità, nessun risveglio miracolato, e
Barton sollevò l’ultima freccia, storse la bocca, serrò le palpebre e la
scagliò con un rude movimento del braccio. Si prese la testa tra le mani, le
dita premute tanto violentemente sul cranio da vedere scoppi cremisi dietro gli
occhi chiusi.
La fronte doleva, le tempie pulsavano e avrebbe
volentieri vomitato l’anima se allo S.H.I.E.L.D. non avesse imparato a
sopportare la tensione senza fare mostra di succhi gastrici e compagnia bella.
La nausea gli montò serpentina lungo la mandibola, s’avvoltolò alla mascella,
macchiò la punta della lingua, s’incastrò fra i denti e lì rimase,
acciambellata come un gatto pasciuto e sornione.
Dannazione pensò, chiudendosi ancora di più
nelle spalle –Un gesto che non compiva più dai tempi del Circo, quando fuori
ruggivano i tuoni e sbattevano i tendoni e l’intorno era paura, l’intorno era
terrore Dannazione.
«Faresti meglio a mangiare
qualcosa.»
Barton alzò la testa di scatto e il mondo gli
rimbalzò dentro la cassa cranica un paio di volte prima di risistemarsi,
equilibrarsi negli occhi gentili di Coulson, inginocchiato accanto a lui. Clint
sbatté le palpebre, confuso, allibito, perché se davvero non l’aveva sentito
arrivare, allora era davvero, ma davvero messo male.
«Ecco» continuò Phil nel porgergli un pacchettino di
plastica tubolare «Prendile.»
Occhio di Falco non potè nascondere un accenno di
divertimento una volta che ebbe i dolcetti in mano.
«Frosted
Donuts» recitò, il sopracciglio destro inarcato «Settantacinque centesimi.»
schioccò la lingua contro il palato e si voltò verso il proprio superiore. Lo
fissò in silenzio, tamburellando le dita sulle ciambelline al cioccolato e non
smise fino a quando Coulson, ridendo, non affondò la mano nella tasca del
completo, rivelando l’esistenza di una seconda confezioncina di dolciumi.
«Powdered Donuts!» esultò Clint «Unwarp a smile in the morning!»
«Non sono riuscito a decidere(1)» commentò
Phil a mo’ di scusa –Barton, però, era già troppo occupato a scartare le
ciambelle zuccherate per prestargli attenzione.
«Notizie dalla mandria di topi?»
«Nessuna, signore. Spariti come sono comparsi.»
Prese un soffice morso, masticò a lungo la
consistenza appiccicaticcia e decisamente poco salutare dello snack, ingoiò con
un tremito contento dello stomaco ed emise un verso soddisfatto, la tensione
meno visibile a livello delle spalle, meno tangibile nella piega dura della
bocca. Il problema, considerò Occhio
di Falco mentre afferrava un altro dolcetto, E’ che sa esattamente come
prendermi.
Destabilizzante, per molti versi. Un sicuro punto
debole per chiunque l’avesse scoperto, senza ombra dubbio.
Forse non lo faceva neanche apposta, Coulson, di
conoscere ogni piega del suo carattere e del suo essere, da come passasse le
notti in un bozzolo di coltri più simili ad un nido che ad un letto, a come
avesse chiamato Belthronding(2) il primo arco mai tenuto in mano,
quando era ancora giovane, dormiva con una copia de Il Signore Degli Anelli
sotto il cuscino della cuccetta e Portland era un orizzonte inghirlandato di
gloria e promesse.
Riusciva a comprenderlo, lo capiva dai silenzi e dai
gesti, e lo guardava con l’espressione di chi sa tutto, ma vorrebbe scavare a
fondo, sempre più a fondo, per non avere più segreti ed essere una cosa sola,
un unico pensiero con l’altra persona.
Perché questo, soprattutto, aveva distinto Coulson
da qualsiasi altro Ufficiale Sovrintendente Clint avesse mai avuto a che fare. Phil
lo considerava una persona, un essere
umano e non un fenomeno da baraccone.
L’Agente Mariner aveva tentato l’approccio
simpatico, convinto che l’atteggiamento da clown buontempone lo avrebbe aiutato
ad inserirsi in maniera meno traumatica nel mondo di Nick Fury. Una settimana
dopo Barton gli aveva fatto gentilmente trovare una parrucca arcobaleno ed un naso
rosso sulla scrivania, invitandolo ad indossarli per la lezione di autodifesa
del pomeriggio, così da risultare molto più credibile.
L’Agente
Ti-Farò-Una-Offerta-Che-Non-Potrai-Rifiutare Everett aveva deciso di essere la
brutta copia del Padrino e come tale si era comportato nei cinque giorni
seguenti all’allontanamento di Mariner. Alla mattina del sesto giorno, i suoi
colleghi l’avevano visto correre via dalla propria stanza urlando, dopo essersi
ritrovato una testa di cavallo nel letto. Clint aveva avuto un bel daffare per
spiegare che trafugata da una giostra in disuso a Coney Island, ma ogni
giustificazione era stata inutile con quella testa rognosa di Sitwell…Fino a
che non era venuto Coulson a dargli il cambio.
Coulson che aveva scartabellato svogliatamente il
dossier ed era scoppiato a ridere e aveva riso, riso così tanto e così a lungo
da doversi asciugare le lacrime, assicurandogli che in tanti anni di onorato
servizio non aveva mai assistito ad una scena più splendida dell’urlante Agente
Everett in boxer giallo canarino e paraocchi di satin nero e che per questo gli
avrebbe volentieri offerto una cena, tempo di avvertire Fury e gli avrebbe
fatto assaggiare la miglior aragosta della Costa, perché gli piaceva
l’aragosta, no? No? Allora una Caesar Salad sarebbe andata benissimo comunque.
Coulson che gli incerottava le dita dopo dieci ore
consecutive al poligono di tiro, Coulson che gli stava accanto la sera della
notizia della morte dei genitori di Dick Grayson, Coulson che gli aveva fatto
capire come in quel mondo di spie ci fosse posto anche per lui, Coulson che
solo per lui e lui soltanto aveva varcato in nudità eroica il sacrosanto
Rubicone del Le relazioni tra colleghi
non possono e non devono essere in alcun modo incoraggiate, sciogliendo le
cinghie del parabraccio, sfiorando con labbra ingemmate di sangue rappreso
lividi e bubboni violacei, sostenendogli la nuca e la schiena mentre
scivolavano entrambi sul materasso bitorzoluto di un dimenticato Motel nel
Mississippi.
Coulson che continuava a fissarlo e aveva il braccio
vicino, oh così vicino al proprio, che Clint poteva avvertirne il tessuto
ridacchiargli ruvido contro la pelle: la bocca era schiusa, in procinto di dire
qualcosa, ma senza il coraggio di dar voce alle domande, né alle possibili risposte;
tra le sopracciglia era andata formandosi una ruga arzigogolata, profonda, un
tocco d’età sulla fronte altrimenti piana e tranquilla, le dita aggrappate ai
cordoni stropicciati delle lenzuola affastellate.
«Non so nemmeno se sei tu.» esalò Barton, girando di
scatto la testa per non doverlo più guardare in faccia.
Sotto di lui Steve Rogers dormiva il suo sonno senza
battiti, circondato da un profusione mai vista di fiori e coccarde e biglietti
e action figures e disegni e sciarpe e non li avrebbe mai visti, mai, non li
avrebbe mai toccati, sfiorati, sorriso dei tratti deliziosamente rozzi che la
mano amorevole di un bambino aveva usato per colorargli la divisa, teso le dita
a stringere la spalla d’un vecchio amico di guerra dagli occhi cisposi bagnati
di lacrime grigie di polvere da sparo e cenere. Non si sarebbe alzato, non
l’avrebbe fatto mai, perché il terzo giorno era iniziato e Tony sarebbe caduto,
affogato in un lutto di petrolio, parimenti nero, parimenti vischioso,
parimenti velenoso: gli sarebbe penetrato nelle vene, a fondo, ancora più a
fondo, sempre più a fondo, e in una mano avrebbe tenuto un file che mai avrebbe
avuto la forza di chiudere e nell’altra una bottiglia di liquore che mai
sarebbe stato in grado di aprire. Perso a dibattersi in un limbo di vuoto e
solitudine e l’unica persona che avrebbe potuto salvarlo sarebbe stata metri e
metri sottoterra, gli occhi divenuti erba, il cuore radici.
«Fury ha fatto entrare solo me, all’obitorio»
continuò Clint, consapevole di come quelle sensazioni che presagiva per Stark
le avesse provate tutte sulla propria pelle «Nessun altro.» uno sbuffo «Ti ho
preso a pugni. Ti ho preso a pugni, poi è arrivata Natasha. E mi ha tirato uno
schiaffo.» si massaggiò istintivamente la guancia destra, un finto sorriso ad
arricciare l’angolo destro della bocca «Poi non ricordo. Non ricordo nemmeno il
funerale. C’erano delle persone e c’ero io. Ero in mezzo a loro e Nat mi teneva
la mano. Non ricordo neanche che tempo fosse, né se le sue dita fossero calde o
fredde, se stesse piovendo o se ci fosse tanto sole da abbacinarmi...»
«Clint, ascolta…»
«Su chi ho pianto, signore?» sibilò Occhio di Falco, rivoltandosi contro di lui «Per
chi ho affrontato le missioni più suicide?» digrignò i denti, inspirò forte
«Per chi ho smesso di pensare? Per un Life Model Decoy? È per questo che Fury
ha voluto che vedessi il suo cadavere? Per sapere se l’Agente Attis aveva fatto
un buon lavoro? Ingannare me era la
prova più sicura.» si coprì gli occhi con la mano «Se invece quello non era un
Life Model Decoy…Allora con chi sto parlando, adesso?» lo osservò di sbieco,
tra le dita appena aperte «Lei chi è? Una motivazione? Al caro Nick non va più
bene che il suo pupillo pennuto continui sulla via dell’autodistruzione e ha pensato
bene di dargli una ragione per uscire dal tunnel? Un bel robottino fedele,
perfetto in ogni dettaglio? Se volevo un action figures, sarei andato in un
Comic Store…!»
«Non posso convincerti che non sono un Life Model
Decoy, lo so.» c’era freddezza, nelle parole di Coulson, nei tratti del volto
improvvisamente rigidi, nello sguardo completamente incolore «I modelli di
Attis sono…Perfetti. La scansione del cervello non ha falla alcuna. Io so di essere l’originale…»
«…Ma lo direbbe qualsiasi Life Model Decoy di nuova
generazione.» continuò Clint, per lui.
Phil annuì. Stette in silenzio.
Lo fissò.
«Tu vedi tutto, Barton. Quel che è reale e quel che
non lo è. Cosa vedi, quando guardi me?»
L’arciere si ritrasse, allibito, a quella domanda.
Sbarrò gli occhi e rimase alcuni secondi a fissare il proprio superiore come se
fosse impazzito da un secondo all’altro.
Cosa vedeva? Cosa
vedeva?
«Vedo…» tentennò «Che non ha dormito almeno tre
giorni e ha cercato di coprire le occhiaie con del correttore. Ma si fidi,
quello non è il suo colore: fa a pugni con la carnagione.» smozzicò un sorriso
incerto «Vedo che, ovunque sia stato per tutto quest’anno, ha preso un bel po’
di sole: le è rimasto il segno delle lenti.» segnò sul proprio volto una linea
immaginaria che dall’arcata sopraccigliare tondeggiava attorno agli occhi per
chiudersi alla radice del naso.
«Wakanda» specificò Phil con una risata soffocata,
divertita e Clint gli fu quasi grato per essere avvicinato un poco di più, per
poterlo osservare meglio, per poterlo di nuovo guardare e constatare che era
sempre lui, solo più vecchio di un anno, solo addolorato di una morte di più.
«Wakanda? Bel posto dove passare le vacanze. Le
fabbricano ancora le palline di neve o i portachiavi a forma di pantere?»
«Non credo abbiano mai iniziato.»
«Ecco perché le Agenzie Di Viaggio non lo
consigliano mai come meta turistica…»
Coulson sorrise e Barton sfiorò a punta di dita la
fossetta incuneata sulla guancia sinistra.
«Vedo che ha appena deglutito per il nervosismo.»
Scese lentamente a disegnare la linea della
clavicola, il profilo del colletto bianco, soffermandosi sul nodo scuro della
cravatta.
«Vedo che le si sono dilatate le pupille»
Scivolò ancora di più verso il basso e segnò uno per
uno i bottoni della giacca, appoggiò il palmo aperto all’altezza del cuore.
«Vedo che le si sono dilatati anche i vasi
sanguigni.»
Un’inequivocabile striatura rossastra era andata ad
incidere gli zigomi di Coulson che, cosa piuttosto ridicola, stava ancora
cercando di mantenere un certo contegno. Ma l’iride era stata completamente
inghiottita dal nero ingigantirsi della pupilla, il respiro era accelerato, il
fiato fischiava tra i denti contratti, il battito cardiaco rimbombava d’eco e
scalpiccii galoppanti dentro la cassa toracica.
Clint fece leva sulla mano premuta sul petto di Phil
per spingersi verso e su di lui. Soffiò piano sulla sua bocca, cinse di respiro
la bocca resa arida dalla vicinanza, perché, Dio, Attis poteva fare tutto,
anche l’impossibile, ma non avrebbe mai e poi mai potuto sapere di certe
reazioni a stimoli tanto collaudati da loro due. Non poteva saperlo.
«Vedo…Che ha le labbra piuttosto secche, signore.»
Non poteva, vero?
***
Nel Lago d’Averno(3) si specchiavano il
sole e l’incontrastata bellezza circostante: filari di tralci e foglie verdi,
campi arati, un sentiero di ghiaino che ne percorreva ad anello l’intero
perimetro ed infine il profilo declinante dei bassi colli. Pareva difficile
pensare a quel luogo come l’entrata dell’Ade, a quel verde smeraldo come il
preludio a viali di lava fumante, a quel cielo come principio di cenere e
lapilli. Odisseo così aveva detto e Tony non aveva più motivo di credere il
contrario.
Il magnate scostò una fronda dal proprio cammino e
rimase fermo sul ciglio dell’altura sporgente, una mano a stringere il ramo, l’altro
braccio abbandonato lungo il fianco. Si chiese quanti, tra gli abitanti,
conoscessero i segreti dell’Ade, chi, fra loro, ne fosse custode, se ai bambini
che si rincorrevano nei giardini venisse insegnato a tenersi lontano dal boschetto
incappucciato di foglie nerastre, via dalla fenditura purulenta della roccia
immensa, selvaggia, che dominava vista e non vista all’insieme la distesa
d’acqua.
L’aria sapeva di leggende dimenticate, un retrogusto
rancido nel vento, terra brulla sotto le suole bagnate di fertile fango.
«Sono quasi arrivati» Odisseo gli si affiancò,
antico e millenario alla luce radente del sole «Ascolta il battito d’ali degli
uccelli. E’ la presenza di Orfeo che lo rende tanto armonico da far piangere il
cuore.»
Tony annuì, ma non disse nulla.
Non c’era nessuno oltre a loro, solo un carretto di
panini sgangherato sulla stradicciola sottostante, uno sconquassato aggeggio di
lamiere imbastite un po’ alla buona e che spandeva all’intorno una musichetta
allegra e sciocca, da come Stark poteva capire seguendo il testo italiano.
Ho settant’anni, mi
chiamo Pio e oggi vado al mare
gracchiava l’autoradio ed era tutto così ridicolo, tutto così in contrasto con
quanto il magnate avvertiva rodergli il cuore che urlare sarebbe stato il
minimo.
«Stai ancora pensando a quanto detto dallo spirito
di tua madre, Uomo di Ferro?» lo interrogò l’eroe omerico, la testa piegata
nella sua direzione.
«Le profezie dei morti sono davvero infallibili?»
«Lo sono.»
«Allora sì.»
Non parlò oltre, Tony, e lasciò ricadere il ramo in
un gran frusciare di foglie.
Scese dal punto d’osservazione per un sentiero
smangiato dal sottobosco, non curandosi della presenza o meno di Odisseo al
proprio fianco. Se anche l’eroe aveva deciso di non seguirlo fino al pianoro
antistante al lago –Lì, dove c’era uno slargo abbastanza ampio per far
atterrare il Quinjet in tutta sicurezza-, sapeva che sarebbe riapparso
dall’etere non appena Natasha e Bruce li avessero raggiunti col loro prezioso
carico.
Oltre la curva udiva ancora la stonata canzonetta Ho settant’anni, mi chiamo Pio, c’è mi chi
mi chiama vecchio e Stark superò lo scassato furgoncino senza degnarlo di
uno sguardo, l’asfalto bollente sotto le scarpe, lo scafandro in formato
valigetta che batteva inquieto contro la coscia Sarà forse un regalo di Dio non vedersi gli anni nello specchio.
Non dovette aspettare molto prima che il Quinjet
desse mostra di sé, brontolando e sbuffando astioso nell’aria vulcanica
risalente dal Lago. I pannelli retroriflettori, considerò il magnate ammiccando
soddisfatto ad un’ape di passaggio, funzionavano a dovere: persino il Blackbird
di Xavier, che pure era un upgrade del Blackbird RS-150 dello S.H.I.E.L.D.,
avrebbe sfigurato al confronto, come un carretto bestiame accanto ad una
Maserati.
L’erba sfoggiò contorcimenti del verde più brillante
nel mentre che il jet scendeva invisibilmente di quota, lo sfiatatoio che
rovesciava sul terreno vomiti di vento e rigurgiti di terra divelta. Tony si
staccò dalla staccionata su cui s’era appoggiato nell’attesa e allargò le
braccia quando il ponte s’aprì in uno stappo d’aria compressa, coricandosi
piano al suolo. Nessuno dei tre occupanti corse a salutare come il gesto
avrebbe voluto intendere e Stark roteò infastidito gli occhi al cielo, prima di
puntarli contro l’allampanato individuo che procedeva, impettito e borioso,
dietro Bruce e Natasha.
«Vi avevo chiesto di portarmi Orfeo, non Sherlock
Holmes.» li salutò, dando una pacca amichevole sulla spalla di Banner.
Questi aggiustò le lenti cascate sul naso e aggrottò
la fronte.
«Come?»
«Colpa di Clint e della sua mania per i programmi
della BBC, Dottore(4).» intervenne Vedova Nera.
Al che, Tony sorrise, deliziato e malizioso, salvo
poi passare indice e pollice premuti tra loro lungo la linea delle labbra, a
mo’ di chiudere una zip –L’occhiata di Natasha avrebbe gelato l’Antartico.
Orfeo sollevò il mento e inarcò il sopracciglio;
l’espressione si sciolse quando Odisseo gli si palesò davanti, il capo chino,
il pugno chiuso contro il cuore.
«Onomaklutòn.»
«Figlio di Laerte…! Polytropon!» esclamò il Cantore,
la voce colma di rispetto e finanche un accenno di gioia «I gabbiani d’Itaca
piangono la tua prigionia, perché più non viaggi? Perché più non prosegui il
cammino, amico mio?»
L’eroe omerico raddrizzò le spalle, sul volto un’espressione
di serena amarezza.
«Ho visto ogni cosa, mi sono inoltrato in ogni bosco
e sentiero che Gea ha creato per saziare la mia eterna curiosità. Ora l’unica
strada che potrei mai seguire è quella che mi porterebbe nella casa degli
astri.»
«E mescolarti così ai mortali che hanno insozzato
con sudicio piè il bel volto di Selene?»
«Per tua informazione si chiama allunaggio» s’intromise il magnate, infastidito «Ed eviterei di
toccare l’argomento con una conterranea di Gagarin.» indicò Natasha col
pollice, beccandosi un altro sguardo omicida e una promessa non poi così velata
di futuri scorticamenti senza anestesia. «Ora, per cortesia, potremmo
proseguire? È già il terzo giorno, non abbiamo più tempo.»
«L’Uomo di Ferro ha ragione.» annuì Odisseo «Venite,
Enea attende. E… Cantore, mi è lecito chiedere per quale motivo non hai con te
il tuo strumento, struggimento ligneo di belve e mortali?»
Orfeo strinse stizzito la sciarpa attorno alla gola,
torcendo il collo a squadrare eloquente la figura improvvisamente cupa di
Bruce. Le labbra seriche disegnarono un ghigno mellifluo sulla bocca sottile,
gli occhi lampeggiarono di liquida irriverenza.
«Il caro Dottore ha così deciso, per il meglio di sé
e della sua…» irrigidirsi schifato della mascella «Impudica compagna.»
«Uh. Caro
Dottore» commentò Tony «Qualcuno qui si è preso una cotta per te, Banner.»
Il Dottore incassò la testa nelle spalle, un
riflesso verdastro dietro gli occhiali squadrati; la custodia in pelle nera che
portava sulla schiena ebbe un sobbalzo.
«E pensa che prima si rivolgeva a me come “Uomo
Belva”.»
«Già ai nomignoli? Che romanticheria, così d’un
tratto…!»
«Stark, io non metterei troppo il dito nella piaga»
lo avvertì Natasha, superandolo ad ampie, decise, decisamente furiose falcate «L’Altro è molto suscettibile.»
Il magnate era convinto che Orfeo e Odisseo li
avrebbero condotti dentro una grotta, su
per una rupe scoscesa, in mezzo alle sabbie mobili, a dondolare dalle liane,
persino. Lo stupore fu quindi giustificato quando li vide dirigersi verso il cigolante
chiosco a quattro ruote.
«D’accordo, forse ho un certo languorino e non
disdegnerei un doppio cheeseburger, però…»
«Oh, ma non tace mai?» sbottò il Cantore «Laerziade,
non un mortale stiamo conducendo alla dimora dell’Ade, ma il figlio illegittimo
d’Eco!»
«Giuro su Dio, una volta finita la quest gli spacco il naso con un pugno.»
rimbrottò Tony, ignorando il ghigno divertito di Natasha e i fallimentari
tentativi di Bruce per trattenere una risata ben poco compassionevole.
Ricordo del tempo
che è passato
cianciava l’autoradio, scatarrando smoccoli e versi tranciati a metà da
disturbi intermittenti Solo guardando gli
altri. Il proprietario del catorcio era chino a prendere qualcosa da sotto
il bancone e di lui si vedeva soltanto qualche sparuto ciuffo di capelli neri,
una giacca marrone sporco e una sciarpa verde polvere ammonticchiata,
raggrumata tra le scapole; l’odore delle cipolle era tanto forte da dare la
nausea e quello della porchetta non era da meno; l’olio friggeva e rimbalzava,
il pane caldo sfrigolava contento dietro i vetri protettivi, appannati di
condensa. “Pius Patiens” recitava il
nome sulla parte superiore del camioncino, aperto in obliquo in modo da fungere
anche da parasole, e le due parole erano inscritte su di una striscia di pergamena
retta da una coppia di colombe.
«Cosa volete ordinare?» giunse loro la domanda del
proprietario, ancora nascosto dietro le piastre.
«Io dello Shawar---» esordì Stark, ma Orfeo, più
veloce e sdegnoso, lo precedette.
«Una focaccia di miele ed erbe.»
L’assurda canzonetta si zittì.
La zazzera nera s’alzò, comparve la fronte
prominente, due sopracciglia folte a sormontare occhi sottili, allungati, un
naso aquilino ad ombreggiare la curva del labbro inferiore, aperto per modulare
una sorpresa palesemente fasulla.
«Onomaklutòn» quindi spostò lo sguardo sulla figura
di Odisseo e a Tony non sfuggì il lampo di disprezzo «Polymetis.(5)»
«Dunque giammai mi salverò dal tuo odio?» un sorriso
scaltro si cicatrizzò sulla bocca inclinata dell’eroe omerico.
«Se non fosse stato per te, polymèkanos(5), Ilio dalle bianche mura sarebbe ancora
in piedi e la dolce Creusa, sposa adorata del mio cuore stanco, ancora in
vita.»
«Se non fosse stato per te, Elissa non avrebbe il
petto trafitto del tuo amorevole dono, Pius
Aeneas.»
«Cosa?!» domandò Stark, sgomento «Il nostro terzo
eroe è un paninaro?»
«Io ho solo fatto ciò che gli Dei chiedevano da me,
sozzo cane di Itaca!» sibilò Enea, curvandosi al di sopra delle pietanze ormai
bruciate.
«Parli sicuro, giacché senza ordini come mai potresti
muoverti, lurido troiano, anima invereconda?» replicò Odisseo, l’indice teso al
volto contratto dell’avversario.
«Ora basta!» Orfeo si mise in mezzo «Tacete! Il
figlio di Calliope lo ordina!»
Occorse ben più di un’ora prima che gli spiriti
s’acquietassero ed erano già sul sentiero che costeggiava il Lago, quando
finalmente Enea si decise ad interrompere l’ostinato mutismo.
«Mia Madre, Venere Citerèa, mandò a me due colombe
ed un messaggio: elle avrebbe trattenuto Mercurio, affinché il mortale di Ferro
potesse incontrare il soldato defunto e dargli avvertimenti.» scostò un ramo,
procedendo spedito verso la roccia che s’impennava feroce davanti ai loro occhi
«Nulla che sia amore sfugge mia Madre, né lei fugge Amore.»
«Meno chiacchiere e più scarpinate.» lo spronò Tony,
che aveva già indossato l’armatura e velocizzato il passo, onde eviyare gli
occhi di Natasha piantati tra le scapole o il convulso cercare di Bruce di
guardare da un’altra parte.
Orfeo e Odisseo chiudevano la fila, il primo che
dall’aggraziato incedere sembrava intento ad una soave, tranquilla passeggiata,
il secondo che lo affiancava, molto più attento, molto più all’erta, già pronto
all’attacco se il caso l’avesse richiesto.
Enea s’issò sul fianco del sentiero e stette ritto a
rimirare la fenditura della parete che li affiancava, sdrucciolosa, malamente
intagliata, con costoloni frananti e mille volte mille bocche aperte ad
emettere un rumore senza suono e mai richiuse. Brancicava un bosco, accanto
all’entrata maggiore, e si estendeva cupo senza che se ne riuscisse a vedere la
fine, selva sconfinata a chiudere in claustrofobiche ombre tutte le convalli.
Il suolo esalava soffioni rancidi e sbuffi velenosi.
«A voi presento la soglia, l’antica dimora della
Sibilla» il figlio di Venere accennò col mento ai filari scuri incappucciati di
nebbia gorgogliante «Là, tra cortecce e spine, si nasconde un ramo d’oro, dono
bramato da Proserpina. Privi di esso, l’accesso all’Averno ci è negato, non ne
si può trovare la strada.(7)»
Ma il magnate l’ascoltava a metà. Gli tremavano le
ginocchia, la fatica della camminata e delle notti insonni, del dolore, della
perdita, del lutto e della speranza squilibrata gli pesavano sulla schiena,
obbligandolo a sbilanciarsi in avanti, senza più presa, senza più coscienza.
I vapori sulfurei gli facevano girare la testa,
annebbiando la vista e il buon senso.
Ringhiava il sole tra le fronde, gli saettava un
ruggito di dolore tre le tempie, scoppiava il cuore tra le costole; un lampo
bianco-oro più forte degli altri costrinse Tony ad appoggiare una mano sul
tronco d’albero più vicino. Gonfiò il petto, riempì i polmoni d’un respiro
ristoratore, ma nella gola passarono solo effluvi sibillini e s’incrostarono ai
bronchi mille voci di rocce e antri dimenticati.
Stark chinò la fronte e s’accorse di non indossare
più l’armatura: era a piedi nudi, immerso fino alle caviglie da foglie, un
mare, un oceano, una vastità di foglie dai molteplici, innumerevoli colori, un
caleidoscopio di forme e dimensioni, fin dove l’occhio poteva arrivare. La
superficie di esse, poi, non portava segni del tempo, né morsi di bruchi o
altri insetti. Vi era stato scritto qualcosa, sopra, frasi, parole, numeri e
l’inchiostro non era inchiostro, pareva più sangue o l’essenza stessa della
terra.
«Cosa diavolo…?» il magnate si piegò a raccogliere
una foglia, su cui il suo sguardo era caduto con una casualità che definire
predestinata sarebbe stato concedersi un ingiustificabile eufemismo.
La strinse fra le dita –Anch’esse prive della
protezione data dalle manopole- e corrugò la fronte.
Stamford recitava la grafia infiocchettata
di volute e linee e curve.
Tony ne afferrò un’altra, più lontana almeno di
quattro passi dalla prima.
Legge.
Quarantadue, una terza.
Registrazione. La quarta.
Nova. La quinta.
«Odisseo» lo chiamò, l’ultima foglia ancora
appoggiata sul palmo «Che sta…?»
Alzò gli occhi e il fogliame gli si riverserò
addosso, turbinò di una danza senza freni, estatica, orgiastica, frantumò il
tessuto della realtà e a nulla servì il tentativo di ripararsi con le mani
alzate. Il mondo si disfece nel ciclone di lettere e scritte e ammonimenti,
scomparvero i colori, franò l’orizzonte, si rovesciò l’umana concezione del
tempo. A palpebre socchiuse Tony cercò di intravedere qualcosa oltre l’infrangersi
di fronde, ma non scorgeva altro che vento e foglie, foglie e vento, ovunque,
dappertutto, sopra e sotto, dentro la bocca, tra le mani, infilate a forza nei
polmoni.
Tossì e dalla bocca uscirono densi fumi odorosi,
riccioli, anelli, condense, esalazioni d’incenso. Lo stomaco si torse, si
contrasse, vomitò saliva, parole, urla, preghiera, si rivoltarono gli occhi
nelle orbite, cadde carponi, crollò a terra, le foglie gli invasero le narici,
gli tapparono la gola, pianse lacrime nere di sangue ed eventi futuri scioltisi
nell’incomprensione presente.
Poi, come tutto era cominciato, finì.
O meglio, si sospese.
Un respiro di quiete e il fogliame ricadde, s’adagiò
sul sentiero e lì rimase. Muto e immobile.
Sputando fango e bestemmie, Stark arrancò, sfiatò
fino a mettersi a quattro zampe, serrò le palpebre. Riuscì a fatica a
rimettersi in piedi e quando ebbe abbastanza fortuna da mantenersi in
equilibrio, lo colse un capogiro e dovette di nuovo appoggiarsi sulle ginocchia
per non cadere.
L’albero su cui si era sostenuto prima era
scomparso, così come erano scomparsi Natasha, Bruce, Odisseo, Orfeo ed Enea: era
solo, nel centro esatto di una navata infinita, affiancata da pilastri
d’appoggio per volte e vele e croci. Panche di legno sfilavano sul pavimento in
marmo bianco e nero e ognuna di esse era decorata con un mazzo d’organza
trapuntata d’argento, impalpabile come bruma; dal soffitto a botte pendevano
candelabri a foggia di steli, tralci d’oro ad abbracciare il busto levigato
delle candele, lo stoppino un coito bruciante, l’atmosfera un ansimo corale di
fiammelle vermiglie. Dall’abside un Cristo in mandorla lo guardava fisso, gli
occhi pacificatori, eterni, le dita benedicenti, un sorriso di pacata gioia sul
volto barbato; illuminato dal fulgore divino della corona a raggiera, l’altare
splendeva bianco, arabescato di fiori, le cui composizioni tenui, così
deliziose e semplici, richiamavano il cuscinetto matrimoniale brulicante di
luci accanto alla Bibbia già aperta. Le fedi matrimoniali, appoggiate sulla
stoffa morbida, intessuta di perle e ricami a chiacchierino, erano teneramente
unite da un piccolo fiocco candido.
Il matrimonio di
Capitan America
chiocciò una vocetta femminile, fuori campo, Dicono che la sposa sarà
bellissima.
Il cuore bombardò aritmico il costato e Tony deglutì,
un passo all’indietro, lo sguardo del Cristo conficcato nell’orbita,
l’incredulità che ingoiava respiro, fiato e polmoni, costringendo il petto al
vuoto più assoluto. Biglietti ed inviti nuziali cinguettarono e svolazzarono,
gettandosi dai fusti scanalati delle colonne e spettegolando di torte e
cerimonie e abiti e persone importanti e chi avrebbe preso il bouquet e Stark
si vide circondato, premuto, graffiato, trafitto da quegli odiosi cartoncini
color panna, stretto alla gola dai cascanti motivi del Monotype Corsiva. Artigliò il collare di vezzi e rampicanti che gli
aveva cinto improvvisamente la carotide, si divincolò, lo strappò con violenza,
diede le spalle alla navata centrale e corse, crollò sugli ampi battenti,
spinse.
Uscì.
Il sole lo abbagliò, la nenia delle onde lo cullò,
la sabbia mormorava bollente tra le dita dei piedi nudi. Il magnate abbassò il
braccio con cui si era protetto gli occhi e s’accorse di essere sulla spiaggia
privata che aveva comprato qualche anno prima, non ricordava neanche bene per
quale motivo –Non sapeva perché fosse così sicuro
di trovarsi sulla propria spiaggia privata: non esisteva nulla che lo provasse.
Solo l’orizzonte ingioiellato di spuma e il distendersi sospirante dei flutti
sulla battigia crocchiolante di sassolini.
Si girò, convinto di trovarsi alle spalle l’entrata
della chiesa, ma dietro esisteva solo altra sabbia, altro bianco, altro sole e
altre cielo. Non case, non persone, non montagne o colline di sorta. Non
c’erano nemmeno le nuvole.
Voltò la testa, allora, e lo stupore lo colse nel
trovarsi di fronte ad un’arcata straripante petali porpora e oro, intervallati
bocciolo dopo bocciolo da coccarde bianche, rosse e blu, le due code
rettangolari a motivi alternati di stelle e strisce. Una stuoia a listelli
cremisi era stata srotolata sulla spiaggia soffice e sedie dallo schienale
tondeggiante, più o meno una ventina, erano state disposte carinamente
all’intorno.
Spirava una brezza ridente e Pepper mosse passi sussurranti
sulla schiuma biancastra: la mano destra sollevava la gonna turchese
all’altezza dei fianchi, perché l’acqua non vi giocherellasse troppo, né le
rovinasse l’orlo con uno spruzzo irriverente. I capelli erano raccolti in una treccia,
chiusa alla nuca in uno chignon; gli spilloni balbettavano bisbigli tintinnanti
di gocce opalescenti, ciocche biondo-rosso sfuggivano volutamente dall’acconciatura
per accarezzarle il collo flessuoso e le spalle nude. L’abito, di ricercata
sartoria, non aveva spalline, ma un rettangolo di stoffa alta quattro dita a
sostenere il corpetto, passante poco sotto la clavicola. Le scarpe col tacco
era abbandonate poco distante, sandali raffinati adagiati in mezzo a
insignificanti dune di sabbia: Tony vide se stesso, sorridente, inguainato in
uno smoking nero, raccoglierle e porgerle alla loro legittima proprietaria,
dopo averla raggiunta al limitare ridacchiante delle onde.
E’ triste,
signorina Potts?
Lei sporse appena le labbra, quindi sorrise.
No. Sono solo
molto, molto contenta per voi due.
Disse altro, ma le sue parole vennero ridotte a
brandelli da un bubbolio irato di tuono. Stark gettò lo sguardo oltre le due
figure sulla battigia, ora immobili come statue di sale, e il panico lo
travolse allo stessa maniera della saetta che si piantò ed esplose in acqua,
scarnificando creste e flutti, giganteggiando sul mare, innalzando onde
mastodontiche. Il volto di Thor tracimò distorto nel ventre convesso del
cavallone, Goliath(8) barrì un lamento funebre, ricadde
all’indietro, si disintegrarono i marosi contro la sabbia, un fascio di fulmini
lampeggiò roboante e il risucchio d’aria della denotazione lo investì e il
magnate si tappò le orecchie con le mani, premette tanto forte da sentir
scricchiolare le tempie, il cranio comprimersi, il cervello strizzarsi,
rinsecchirsi mentre perdeva umori e ricordi. Serrò le palpebre, s’accucciò al
riparo dell’arcata, in posizione fetale, aprì la bocca ed urlò e il vento gli
rubò anche la voce, lo travolse e ripeté il grido dieci cento mille volte e
quando piombò di nuovo il silenzio, si ritrovò in uno spiazzo circolare,
illuminato da un barlume effimero, tremulo, proveniente da chissà dove;
l’ambiente non aveva confini di sorta, né punti da usare per orientarsi.
Unico oggetto era un tripode di bronzo, sormontato
da una lastra circolare. Su di essa un ramo d’alloro, a raccogliere i richiami
della luce e frangerli all’intorno in una nenia continua di bisbigli e
barbagli.
In assenza di idee buone o anche passabili, Tony s’avvicinò
al tripode e afferrò il rametto tra due dita. Una stilla rosso-arancio comparve
allora sulla cima dell’alloro: filamenti di luci s’allungarono dal centro
pulsante e la loro intensità aumentava e diminuiva, preda d’inspiegabili cali
di tensione, come un programma che cercasse di sintonizzarsi sulla giusta
frequenza.
Stark era sul punto di rimettere il ramo al suo
posto, quando notò un particolare decisamente strano ed inquietante:
accompagnata da un tintinnare di voci e brusii d’attesa, una curva scarlatta e
blu si staccò dalla stilla, rimbalzò al suolo, assunse forma umana, s’ingrandì,
avanzò oltre il tripode e si piazzò al centro dello slargo, elevato a palco
immaginario; la piccola sfera si sollevò dall’alloro, mutandosi in riflettore. A
Tony non ci volle molto per riconoscere nella visione ora più definita il
costume di Spiderman, l’aracnide stilizzato al centro del petto, la ragnatela
che da esso si stendeva sulle spalle e lungo lo sterno.
«Spiderman…?» tentò il magnate, confuso e anche
vagamente terrorizzato dallo spettacolo cui stava assistendo.
L’eroe non parve averlo sentito e si portò le mani
guantate al retro della testa, nel punto della nuca dove la maschera si univa
al resto del costume; fece passare le dita oltre l’orlo divisorio e si tolse il
cappuccio di spandex colorato, mostrandosi al mondo per quel che era davvero:
un ragazzo di poco più di vent’anni, coi capelli castani mossi e un viso
giovane dagli occhi tristi. Disse qualcosa ad una folla inesistente e pur non
sentendolo, perché privo di voce, Stark ne colse l’atteggiamento ostinato,
tenace, a tratti persino provocatorio.
L’immagine si contrasse ed implose, frantumandosi in
brandelli e cristalli e perle e Tony, col cuore ancora gonfio, retrocedette
d’un passo per poterle vedere tutte, osservarne ogni piega, ascoltare ogni
sussurro. Vide un boato di fiamme ed una statua commemorativa, vide volti
alieni, squadrati, verdastri, rugosi, e poi il Tesseract, Teschio Rosso e liste
di supereroi e mani tese e un electron-scambler e Devil e trenta denari
d’argento.
«Cos’era? Cosa ho visto?»
«Il futuro» mormorò una voce fumosa «Foglie.»
«Perché?»
«Il futuro è scritto nelle foglie.»
Dita e tentacoli di nebbia spuntarono da sotto il
tripode, s’attorcigliarono e s’avvoltolarono tra loro, crebbero, allampanate,
si riversarono sulla piattaforma dove prima riposava il ramo d’alloro,
sollevando schizzi pallidi e soffi di polvere cinerea. Comparve quindi una
donna, una ragazzina dal volto di pietra e lo sguardo languido, le pupille
dilatate da mistici effluvi; i capelli rosso-bruni, raccolti sulla nuca in
morbide onde, le ricadevano in una melodia di ninnoli e fermagli sulle spalle, la
sinistra nuda, la destra coperta da un panneggio zafferano che le cingeva
trasversalmente il petto florido, abbellito da un fiocco a tre lobi e sopra
l’incavo dei seni da una rosa di granato; la vita era stretta da un fazzoletto
porpora, così come sopra al gomito era chiusa una mantella blu scuro,
intiepidita di riflessi viola. Si sedette sulla piattaforma con movimento
aggraziato e la veste nascose in un rigonfio luminescente di pieghe le gambe
snelle, le caviglie ben modellate, i piedi calzati in sandali di preziosi.
«Chi sei?» chiese Stark ed ella rise e divenne più
vecchia d’un anno.
«Deifobe di Glauco» rispose e unghiate rugose le
comparvero ai lati delle palpebre «Amphrysia mi chiamò il Mantovano» il collo
tremolò di pelle cadente «Sacerdotessa d’Apollo, Sibilla di Cuma.»
«Sono ubriaco, vero?»
«Chiedilo alle foglie.» mormorò lei e le dita torte
di corteccia sollevarono con un sol gesto, con un sol ordine stracci di
fogliame e verdeggiare di fronde.
Tony le scacciò con un gesto irato.
«Ascoltami, signorina---»
«Il futuro è scritto nelle foglie.» ripetè Deifobe,
gracchiante «Perché non vuoi leggerlo?»
Inspirando con violenza, il magnate afferrò stizzito
una manciata di foglie e s’accontentò di gettare l’occhio sull’unica rimasta.
«Non ne vale
la pena» mormorò, quindi alzò la testa e scosse il capo «Non vuol dire
nulla.»
«E’ una conseguenza.» lo corresse la Sibilla, più
gobba e rachitica.
«Di cosa?»
«Di una scelta.»
«Di una---» il magnate impietrì, gelando al ricordo
di quanto gli aveva detto sua madre sul ciglio dell’Erebo.
Non dovevi venire
figlio mio. Oh! Una decisione ti ha portato qui…
«Non ha senso» ripetè «Non ha proprio senso.»
Intanto, di Deifobe non era rimasta che una megera
dal volto grifagno, col naso adunco e palpebre cispose. Modulò una risata
garrula, da vecchio avvoltoio, la voce lasciva e sbavante tra le gengive prive
di denti: la bellezza che aveva visto la sua nascita aveva lasciato il posto ad
una bruttezza imponente, il possente orrore di una cuffietta di stracci lerci
sul cranio calvo, seni enfi, cadenti, acciambellati in una veste blu,
impolverata, ridicola nel patetico impreziosirsi con un filare d’oro lungo il
petto. I piedi grossi, artritici, dalle unghie larghe e coperte di fango,
spuntavano da sotto un manto grossolano, giallo con riflessi arancio, e le
braccia erano nude, un reticolato ripugnante di vene, inguardabili e turgide.
«Il futuro ha senso solo nel presente.»
«Ora è il
presente!» protestò Tony.
«No.» replicò la Sibilla, ghignando «Ora è passato.»
Singhiozzò un singulto divertito e le vestiti si
sollevarono e le si rovesciarono addosso e la coprirono e scomparvero. Sottili
sbarre antracite si chiusero, clang,
all’apice di una gabbia: dentro di essa pigolò una cicala cigolante. Stark si
chinò fino ad avere gli occhi all’altezza dell’insettino e questi saltellò via
contento, fuggendo a grandi balzi.
Siete guerrieri,
con armi e ideali e cose per cui combattere rimbalzò la voce effimera di Deifobe, persa nel
disfarsi del carapace in mille frammenti di bronzo Cose per cui morire.(9)
Tony la rincorse, seguì l’eco fino a che un cono di
luce gli esplose davanti ed egli avvertì il cuore bloccarsi in gola.
Appoggiato mollemente al tronco di un albero, un
giovinetto lo squadrava divertito. Era nudo, dalle membra ancora acerbe, i
riccioli biondi tenuti alti sulla fronte da una fascia candida; la linea del
corpo fanciullesco era morbida, flessuosa, il piede alzato ad incontrare il
tallone destro in una soave armonia di forma e proporzioni, la gamba sinistra
deliziosamente rilassata, abbandonata ad un aggraziato languore. Tra le dita
della mano destra teneva un lungo stilo, sottile, e vi giocherellava nel
tentativo di trafiggere una lucertola verde smeraldo.
«La vostra è presunzione» lo canzonò il ragazzino,
conficcando la cuspide nella carne dell’animale «La presunzione che vi fa
credere di essere sempre i buoni e di lottare contro i cattivi.» la lucertola
ebbe un spasmo, tremò tutta e rimase inerte, appesa alla corteccia come una
farfalla inquadrata nel vetro.
Il giovinetto abbandonò la freccia con indolenza e
mosse un passo in avanti –Per contro, Tony ne fece uno indietro. Il cono di
luce divenne liquido e s’arrotolò attorno alla gola dell’altro, divenne un
mantello, rovesciato sul braccio teso in avanti in un gesto imperioso. Il corpo
esplose in uno sfolgorare di splendore inaudito, i muscoli divennero pieni,
perfetti, la fascia si slegò e i riccioli palpitarono liberi attorno al collo.
Boccoli biondo-oro s’avvoltolarono a crocchia, alti sulla nuca, trattenuti e
raccolti da un nastro dai riflessi brucianti come il sole.(1)
«In una guerra non ci sono i buoni e i cattivi.»
gridò e nella mano destra gli apparve un arco, già la sinistra stava tirando la
corda e la freccia incoccata «Ci sono soltanto forze nemiche.»
Scagliò il dardo e Tony lo sentì distintamente
trapassargli il Reattore Arc, infilarsi nei tessuti, uscire schioccando dalla
schiena, disintegrando midollo e vertebre. La nuca si ribaltò all’indietro, il
mondo ebbe uno scossone in avanti, deflagrò la nausea e la pioggia gli bagnò il
viso Raccontate le storie delle sue
imprese pregava una voce Ai vostri
figli esplosero mattoni e crani e bambini Ai vostri nipoti macerie e fumo E
Steve Rogers saliva, sputo, rancore della madre come fiele per l’assassino Capitan America, non morirà mai.
Tony Non sai
come gestirli, vero? Tony L’angoscia,
il dolore. La perdita…Tony, mi senti? Quindi
hai cercato di fare la cosa che ti riesce meglio…Un affare. Tony, per
l’amor di Dio! Hai cercato di fare uno
scambio che facesse sparire tutto Tony! Svegliati! Ma non puoi Tony!
«Io verrò a prendervi…!» gridò e il volto di Natasha
s’allontanò bruscamente dal proprio campo visivo.
Tony esalò un respiro gonfio, un singhiozzo rotto, e
si portò una mano al volto. Gli girava ancora la testa, aveva nausea, voleva
solo vomitare. Sentiva la bocca asciutta, una debolezza mai provata in tutto il
corpo, brividi a mordergli le ossa ed i muscoli, gli occhi mettevano a fuoco un
istante e già quello dopo ogni cosa era
coperta da una patina molliccia, di bitume biancastro. Tremava e non riusciva a
smettere, aveva freddo eppure era di nuovo coperto, indossava di nuovo
l’armatura, nessuna freccia l’aveva colpito.
Era nel bosco, sì, ma non era solo, c’era Natasha
sopra di lui e Bruce che gli abbassava professionalmente la palpebra inferiore.
«Che…Che è successo?» domandò, roco, scostandosi dal
tocco di Banner e storcendo la bocca per il fastidio.
«Sei svenuto» rispose Vedova Nera, pragmatica «Sei
crollato a peso morto sull’erba e hai cominciato ad agitarti e a tenderti.»
«Come un attacco epilettico» spiegò Bruce, levandosi
in piedi e dandosi alcune pacche sulle ginocchia per
togliere ogni residuo di terra. «Ma parlavi.»
Stark corrugò la fronte.
«E cosa dicevo?»
Il dottore fece spallucce.
«Qualcosa a proposito di una guerra. Di Giuda e dei
Trenta Denari. Chiedevi una soluzione, sciorinavi una sequela di nomi, parti e
motivazioni. Hai parlato di Steve…Hai parlato con Steve» si corresse «Una cosa che avresti dovuto dirgli, ma
ormai non potevi più.»
«Io---»
«Hai vaticinato.»
Il magnate inarcò un sopracciglio e fissò Odisseo di
sbieco, gli occhi assottigliati.
«Non ho vaticinato.» replicò «Sono una persona
educata, non faccio queste cose.»
Orfeo, rimasto fino a quel momento a fissarlo seduto
su un sasso, allargò le braccia e sputò un insulto esasperato in madrelingua.
Enea, al suo fianco, sistemò la sciarpa sulle spalle e assunse un’espressione
schifata, di palese disgusto.
«Hai vaticinato. Significa che hai predetto il
futuro» chiarì Odisseo, paziente «Questa era la sede di Deifobe, la---»
«---La Sibilla Cumana.» completò Tony, ingegnandosi
per stare alzato senza dare di stomaco.
«L’hai incontrata?» Enea si tese verso di lui,
ansante, impaziente «L’hai vista?»
«Non intendo parlarne, paninaro.»
«Non immaginavo tu ne fossi in grado.» al suo
sguardo perplesso, il sovrano di Itaca roteò il polso «Predire il futuro,
intendo.»
«Sono un inventore.» il magnate si chinò a
riprendere il casco dell’armatura, che gli altri dovevano avergli levato perché
non andasse a comprimere la gola «Posso vedere come sarà il mondo e posso
vedere di cosa il mondo avrà bisogno perché quel futuro meriti di essere vissuto.
Vedo quello di cui avremo bisogno e invento quello che ci porterà là.»(11)
«E cosa hai visto, Uomo di Ferro?»
Tony ficcò gli occhi nel proprio riflesso e questi
gli restituì un’immagine affranta, un uomo dai capelli lunghi, incolti,
sporchi, borse livide e cadenti giù, lunghe, pesanti, fino agli zigomi, sclera
arrossata di pianto, mascella serrata e denti digrignati, arrabbiati,
distrutti; la pelle era esangue, chiazzata sulle guance e attorno alla bocca da
macchie violacee, le tempie bianche di freddo, rigagnolate di sudore, le labbra
spruzzate di blu cianotico tanto erano feroci i singhiozzi, violente le lacrime
che scorrevano agli angoli delle palpebre serrate. Modulava urla angosciose di
scuse, grida inudibili e il sangue scrosciava attorno a lui, sipario ormai
chiuso di tragedia. Il livello della marea scarlatta salì e salì, cancellò ogni
cosa, disfece ogni membra, divenne condensa, si solidificò, tornò ad essere
semplice lega di titanio e oro cromati.
«Non ho visto nulla.» tagliò corto.
La guerra cantò metallica la profezia di
un cicala La guerra s’unirono al coro
il cigno dagli acuti gorgheggi e l’ululato indistinto del lupo La guerra gracchiò il corvo, mentre il
falco, sopra di lui, scendeva elegante e La
guerra strideva ad ogni cerchio La
guerra sibilò infine un serpente verde e marrone, scivolando via in un
singulto di squame luminescenti.
«Andiamo.» Stark re-indossò il casco e il clangore
rassicurante della chiusura ermetica coprì amorevole il sospiro che gli era
sfuggito dalle labbra «J.A.R.V.I.S., sei attivo?»
«Per lei
sempre, signore.»
«Molto bene. Allora diamoci al giardinaggio.»
La guerra ammise a se stesso e non seppe
dire se la voce fosse la propria, o quella della Sibilla o del Dio che l’aveva
trafitto So che ci saremo. So cosa vuol
dire. So cosa succederà. So esattamente chi sarà da una parte e chi dall’altra.
So come la penserò io. I dati s’affaccendarono dentro lo schermo della
calotta, ma Tony non li vedeva, o meglio, vedeva oltre, vedeva un volto, vedeva
sangue So come la penserai tu. Vedeva
un foro all’addome. So che ci saremo.
Sentiva distintamente il morso della proiettile
bruciargli la carne.
***
“Ora sei convinto
del fatto che non sono un Life Model Decoy?”
«Signore, non che io mi stia permettendo di farle la
ramanzina, ma non le sembra…Inappropriato sorridere a quella maniera? È pur
sempre la camera ardente di Capitan America.»
“Non lo so,
signore. Forse ho bisogno di qualche prova in più. Giusto per essere sicuro e
non lasciare nulla al caso”
«Ha ragione, Woo. Non si scusi.»
«Ha ricevuto belle notizie stanotte, signore? Mentre
noi dormivano saporitamente?»
«Sitwell(12), una parola di più e non
esiterò a farle rapporto per oltraggio ad un suo superiore.»
Invece di appuntarsi sulla faccia l’espressione più
contrita del repertorio, Jasper gli rivolse un ghignetto sornione, cui Coulson
rispose con un eloquente inarcarsi delle sopracciglia.
Sitwell si sistemò allora gli occhiali sul naso, si
schiarì la gola e tornò ad irrigidire compitamente la schiena. Phil annuì,
soddisfatto, e osservò il via vai di gente venuta a dare l’estremo saluto alla
Sentinella della Libertà –Non prima, però, di aver lanciato un’occhiata veloce
alle scale, lì dove sapeva essere l’Agente Barton. Accucciato e vigile, la
testa incassata nelle spalle, l’arco accanto, gli avambracci posati sulle
ginocchia, Coulson avrebbe potuto descrivere senza fatica od errore alcuno
finanche il modo in cui la luce azzurra dei neon s’appoggiava alla piega del
naso o gli baciava la curva ferrea della bocca, lasciando in ombra il collo e
parte del petto.
Al solo ricordare la pelle calda di Clint contro la
propria, represse un brivido. S’umettò veloce le labbra, ben sapendo che Barton
stava sicuramente sorridendo, mefistofelico.
Santa pace, alle volte gli sembrava di avere a che
fare con un bambino, non con un Agente fatto e finito di Livello 7.
Professionalità o meno, Occhio di Falco non avrebbe mai e poi mai mancato
un’occasione di metterlo in delizioso
imbarazzo, come era solito dire, soprattutto quando si trovavano in
un’intimità sospesa e tranquilla, e ogniqualvolta, poi, dovevano abbandonarla
per tornare ai rispettivi ruoli.
Una delle sicurezze
della mia esistenza considerò
Phil, scostandosi appena per controllare una figura curva, gobba, tanto
intabarrata in scialli e pastrani da zingara da far scorgere a stento un volto
appuntito, ingrigito Come il non essere
un L.M.D.
Perché Coulson ne era sicuro, sicuro come mai: lui
era l’originale. Non era un Life Model Decoy. I ricordi, i pensieri gli
appartenevano, non erano memorie digitalizzate, né comportamenti pre impostati.
Attis non avrebbe mai potuto progettare il gesto lieve con cui aveva disegnato
le fasce muscolari di Barton, dal polso fino alla spalla, lungo l’avambraccio,
nell’incavo del gomito; non il calore che gli era montato nello stomaco nel
mordergli la clavicola, nel baciargli lo sterno, nel perdersi a contare,
contemplare le vecchie ferite e le nuove cicatrici, disegnandone il contorno, avvertendone
il bianco gonfiore contro la lingua.
Non avrebbe mai potuto arrivare a tanto. E lui lo
sapeva. Lo sapeva anche Clint. E tanto bastava. Non era un Life Model Decoy.
Era l’originale Phil Coulson. Nulla gli era stato impiantato. La propria era
vera carne, veri nervi. Vero sangue, non olio di motore. Vera pelle, non
rivestimento di lamiera.
Era l’originale.
Non sarebbe mai stato altro.
«Signore…?»
«Mh?»
Peter Parker gli era appena comparso al fianco, il
volto terreo e gli occhi che guizzavano da una parte all’altra della stanza, in
allerta; Phil divenne vigile all’istante, uno sguardo d’intesa con Sitwell e
Woo ed entrambi erano sull’attenti, Occhio di Falco, contro ogni lecito dubbio,
con un braccio piegato e le dita a sfiorare attente l’impennaggio delle frecce.
Il ragazzo succhiò le labbra, a disagio.
«Ho come un presentimento…»
confessò, il respiro veloce e un rivolo di sudore freddo a scurire
l’attaccatura alle tempie.
“Siete ancora
convinti che il free-lance di Jameson sia Spiderman?” gli aveva chiesto Clint,
bocconi su di lui, le dita intrecciate sotto il mento, il corpo nudo che
s’intravede a sprazzi di linee e curve nel buio ovattato.
“Hai mai notato che
quando lui non è intorno, Spiderman è lì a fare la propria, buffonesca
entrata?”
“Signore, secondo
questa logica io potrei benissimo essere Batman. Ci ha mai visti insieme della
stessa stanza?”
“Mi spiace per te,
Barton, ma sappiamo esattamente chi si nasconde dietro la maschera del
Pipistrello.”
“E Robin era(13)
un mio collega. Non giochiamo a chi conosce gente più in alto di chi, signore.
Posso stracciarla in due mosse.”
Checché ne dicesse Clint, Coulson aveva fiducia
nella teoria che legava Parker a Spiderman. Il presentimento come il giovane aveva chiamato l’agitazione di cui
era preda, era la medesima percezione extrasensoriale che, secondo Fury,
possedevano i ragni per non essere schiacciati sulle piastrelle del bagno.(14)
«Che tipo di presentimento?»
«Ecco, io…»
Uno strillo isterico lacerò l’aria.
Phil si voltò appena in tempo per vedere una figura
allampanata e sporca crollare miserevole ai piedi del feretro, prendendo a
pugni il pavimento più e più volte, smoccolando bestemmie e pianti liquidi,
scivolosi di moccio e lacrime appiccicose.
«Perché?!»
ululò, bestiale «Perché?! Oh! Un così brav’uomo! Un così brav’uomo!»
«Sta’ indietro, Peter»
Le persone, invece che stringersi attorno a tanta,
folle disperazione, invece di unirsi al cordoglio di quel miserando palesemente
ubriaco e fuori di sé, si erano ritratte, si guardavano, si portavano la mano
alla bocca, si sussurravano stupore, meraviglia, Che spettacolo increscioso! Esclamavano alcuni Oh, poverino! Gemevano i più caritatevoli, pur non osando
avvicinarsi, rimirando da lontano i piagnistei e gli strilli e i colpi. L’unica
ad essere rimasta al limitare del capannello, la più vicina fra tutti i
presenti, era l’anziana intabarrata e grigia, tremebonda sotto i lunghissimi
scialli impolverati, il fiato un fischio, un sibilo –Un ringhio, quasi?
«Adesso calmati, ragazzo» Phil s’avvicinò cauto,
lento, le mani alzate, un’espressione cordiale e accondiscendente sul viso.
S’inginocchiò piano accanto al ragazzo, che intanto s’era curvato su se stesso,
la testa incassata nel colletto del trench grigio; a fare capolino era solo una
zazzera disordinata di cappelli rossicci «So che sei sconvolto, ma…»
«No! No, lei non capisce…!» fu il latrato di
risposta, strappato a forza dalla gola, un boato d’inglese marcato da un
accento…Un accento che Coulson non sentiva per la prima volta, no. Ma
dove…Dove…? «Senza di lui, senza Capitan America, non vale nemmeno più la pena
di vivere…!» e detto questo, in un gesto teatrale al limite del grottesco, Phil
si vide scacciato via in malo modo con una manata poderosa e improvvisa.
Meno di un istante per riprendersi dalla sorpresa e
già l’altro s’era alzato in piedi, poco stabile sulle gambe: il braccio destro
era alto sopra la testa, a sollevare un trofeo invisibile; le dita della mano
sinistra, piegate come artigli ritorti, s’aggrapparono alla manica della
camicia, troppa larga per un polso tanto sottile, smagrito, pallido e malarico.
Era di spalle e Coulson non aveva modo di vederlo in faccia o riconoscerlo.
Quando, però, il folle squarciò il tessuto a righe lungo l’avambraccio fino al
gomito, rivelando un’amorfa cicatrice spessa quanto un cordone per tutto il
tratto di pelle, Phil gelò.
Aprì la bocca per urlare un avvertimento, ma a
soffocare il proprio grido ci pensò un sibilo, Hiiiiisssss---!, prolungato e poi squittii e zampetti e schioccare
di piccole mandibole e tremare di vibrisse: la vecchia avvolta di scialli si
strappò gli indumenti di dosso ed era Vermin, Vermin dalla schiena gobba, il
volto triangolare e il cranio bombato, Vermin con la testa coperta d’ispida
peluria grigia, gli occhietti rossi e cattivi, di brace fumante, i denti
allungati, ingialliti di saliva e spazzatura, il fiato mefitico, Vermin che era
saltato in mezza alla folla, richiamando a sé un esercito di roditori e la gente
urlava e scappava e Vermin gettava il mondo nel caos, nel panico, saltava,
ringhiava, soffiava, il tuono della pallottola, Sitwell aveva estratto la
pistola, Woo strillava ordini, Fuoco di
copertura Jasper, fuoco di copertura! e metteva i presenti in salvo, li
costringeva fuori dall’edificio e la Stark Tower vomitava topi e ratti e
roditori e fischiavano le frecce e gioiva d’ebbra vittoria il mutante ubriaco.
Coulson scacciò di dosso le bestiacce arrampicatesi
sui pantaloni e sulla giacca del completo, si girò, Vermin gli balzò contro,
una cocca esplosiva gli deflagrò davanti al muso e lo costrinse a retrocedere
con un guaito, a grattare via la cenere dagli occhi, dal naso appuntito. Phil
mise mano alla fondina, un pugno fratturò lo zigomo, le ossa s’incrinarono e
gemettero, lasciandolo spaesato e tramortito.
«Ah-ah-ah!» lo redarguì una voce sarcastica «Molto male!» esclamò in italiano e Coulson serrò il pugno.
«Bruno Chianti.» sibilò e il mutante rise, gettando
indietro la testa.
La manica destra era ancora alzata a mostrare la
cicatrice bianca che dal polso seguiva l’andamento sinuoso della vena fino al
gomito, lì dove camicia e trench erano stati arrotolati per scoprire la pelle;
l’aspetto era malandato, trasandato, la bocca uno squarcio folle in mezzo alla
barba rossiccia, così lunga da coprire la carne rinsecchita delle guance
incavate, il mento bombato e parte del collo sottile. C’erano macchie di vino,
sulla camicia come sui pantaloni, e una bottiglia verde scura, riempita quasi
all’orlo gli spuntava direttamente dal tascone sfondato del pastrano.
«Felice che si ricordi del vecchio Lambrusco, capo.» sogghignò e scostò un
lembo del pastrano. I topi vi lanciarono attraverso e Phil scartò di lato,
imprecò, venne preso d’assalto, s’agitò e la risata di Bruno sovrastava
famelica il suono sudicio dei ratti, lo strisciare delle code, le mandibole in
costante movimento. Coulson s’abbassò ad evitare un’ulteriore ondata di quegli
odiosi animali, si coprì la testa col braccio: al di là del mutante, Woo cercava
invano di avvicinarsi al feretro di Capitan America, Sitwell di farsi
strada a suon di colpi, e Clint doveva
molto probabilmente essere occupato a liberare il campo dalla quantità indegna
di topi che si stava riversando sulle scale, in uno sciamare di pelame grigio,
squittii ed artigli. Vermin era davanti alla bara, le braccia spigolose a
dirigere l’attacco come un bestiale direttore d’orchestra, le vertebre che
spuntavano aguzze dalla schiena curva, le orecchie appiattite sul cranio, grumi
di bava borbottante e rabbiosa ai lati delle gengive bianchicce, snudate, gli
occhi folli, iniettati di sangue.
«Abbiamo un conto in sospeso, io e te» Bruno lo
richiamò alla realtà «Una siringa, io
ricordo.»
«E io un atto che mi ha impedito di renderti
innocuo.» Phil afferrò la pistola, mirò, fece fuoco.
Ma nel tempo che gli occorse per quel gesto, il
mutante aveva già affondato due dita nel braccio scoperto, squarciato la pelle,
scavato nella carne; un movimento preciso, collaudato, e passò la mano davanti
al volto: un fiotto di sangue schizzò dalla vena recisa, palpitò qualche
istante, in piena sospensione dinanzi gli occhi di Lambrusco, quindi si gelò,
concretizzò a formare uno scudo vermiglio su cui la pallottola finì la sua
corsa, andando in frantumi.
Il fischio d’una freccia e Bruno appoggiò le mani
sul vetro smerigliato di porpora: un risucchio come di ventosa ed ecco! l’aveva
sposato alla propria sinistra, riparandosi dal dardo scagliato da
Barton–Coulson aveva colto uno scuotersi d’ombra sopra le scale, il barbaglio
della cuspide e poi la figura di Occhio di Falco di nuovo sommersa dall’orda di
Vermin.
«Che dice, capo? Me la cavo ancora come una volta?»
abbaiò Bruno e incassò il polso in uno stonare liquido d’ossa e legamenti: la
vena cefalica partorì faticosamente, claudicando e gemendo, un coltellaccio
dalla lama sgrossata, un bubbone marcescente di robaccia vischiosa, lucida,
nera e marrone. L’arma scivolò fedele e ubbidiente fino al palmo del mutante,
che strinse le nocche pallide attorno all’elsa scura. Chiuse a pugno la mano
destra, riducendo il vetro a brandelli. Piccole particelle di sangue rotearono
leziose davanti a lui, condensandosi, contraendosi, mutandosi in sferette
lisce, lustre, dalla superficie perfettamente curva.
Phil s’aggrappò al calcio della pistola.
«Bona cisi~»(15)
cinguettò Lambrusco e distese le dita, sparandogli contro i proiettili
scarlatti.
Cor Mortem
Ducens
#07 Pius Patiens
Note
(1) Sia la marca
delle ciambelline che il commento di Coulson vengono da : « A Funny Thing Happened on the Way to Thor's Hammer » (http://www.youtube.com/watch?v=QAMgkpQYOSQ )
(2)« Belthronding was an
enchanted bow of black yew wood. This bow belonged to Beleg Cuthalion. Beleg
might have gotten the name "Strongbow" from Belthronding. It was
buried with him by Túrin and Gwindor after the accidental slaying of Beleg at
the hands of Túrin, his friend.» (The
Lord of The Rings Wiki)
(3) «Il lago d'Averno è un lago vulcanico che si trova nel comune di
Pozzuoli e precisamente tra la frazione Lucrino e Cuma, in Campania. Il lago
prende nome da una oscura e profonda voragine (attualmente non identificata)
presente nelle sue vicinanze ed emanante vapori sulfurei, la quale, secondo la
religione greca e poi romana, era un accesso all'Oltretomba, regno del dio
Plutone. Per tal motivo gli inferi romani (l'Ade greco) si chiamano
anche Averno. Infatti anche il poeta Virgilio nel sesto libro dell'Eneide
colloca vicino a tale lago l'ingresso mistico agli Inferi, dove l'eroe Enea
deve recarsi (scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris VI, 238). Il
nome Avernus deriva dal greco άορνος ('senza uccelli') poiché gli
uccelli che volavano sopra tale voragine morivano a causa delle sue esalazioni
sulfuree.» (Wikipedia)
(4) L’aspetto di Orfeo è modellato su Sherlock Holmes,
della serie della BBC “Sherlock”, dove il personaggio è interpretato da
Benedict Cumberbatch.
(5)-(6) Altri epiteti di Odisseo, rispettivamente “Dal
Molto Ingengno/Astuzia” e “Dalle Molte Menzogne/Molte Arti”
(7) Eneide, Libro VI
(8) «William Barrett Foster, più noto come Bill Foster, è un personaggio dei fumetti creato da Stan Lee
(testi) e Don Heck (disegni) nel 1966, pubblicato dalla Marvel Comics. La sua
prima apparizione è in The Avengers (prima serie) n. 32 (settembre
1966).» (Wikipedia)
(9) «Il titolo di Sibilla
Cumana era detenuto dalla somma sacerdotessa dell'oracolo di Apollo (divinità
solare ellenica) e di Ecate (antica dea lunare pre-ellenica), oracolo situato
nella città magnogreca di Cuma. Ella svolgeva la sua attività oracolare nei
pressi del Lago d'Averno, in una caverna conosciuta come l'"Antro della
Sibilla" dove la sacerdotessa, ispirata dalla divinità, trascriveva in
esametri i suoi vaticini su foglie di palma le quali, alla fine della
predizione, erano mischiate dai venti provenienti dalle cento aperture,
rendendo i vaticini "sibillini”.
Nel libro
VI dell'Eneide, Virgilio, che la rappresenta "vegliarda", la
chiama «Deifobe di Glauco» e «Amphrysia», appellativo originato dal fiume
tessalo Amfriso, presso il quale Apollo custodì il gregge di Admeto. Lla sua
figura è anche legata una leggenda: “Apollo innamorato di lei le offrì
qualsiasi cosa purché ella diventasse la sua sacerdotessa, ed essa gli chiese
l'immortalità. Ma si dimenticò di chiedere la giovinezza e, quindi, invecchiò
sempre più finché, addirittura, il corpo divenne piccolo e consumato come
quello di una cicala. Così decisero di metterla in una gabbietta nel tempio di
Apollo, finché il corpo non scomparve e rimase solo la voce. Apollo comunque le
diede una possibilità: se lei fosse diventata completamente sua, egli le avrebbe
dato la giovinezza. Però ella, per non rinunciare alla sua castità, decise di
rifiutare”»
Le immagini
di riferimento sono:
Apollo e la Sibilla Cumana, del Cerrini per Deifobe giovinetta.
La Sibilla Cumana di Michelangelo, nella Cappella
Sistina, per Deifobe anziana.
(10) I modelli di riferimento per la figura d’Apollo
sono:
Apollo
Sauroctono di (si presume) Prassitele;
Apollo
del Belvedere, di Canova.
(11) Tratto da La Confessione.
(12) Jasper Sitwell e
James Woo sono due agenti dello S.H.I.E.L.D. rispettivamente di Livello 5 e
Livello 8.
Le
ciance senza senso della Neme Note
Di Fine Capitolo
E sono tornata! Sì lo so, potevo
anche restare nel mio piccolo antro a coltivare bruschette, ma ehi, il richiamo
della foresta della tastiera!
Ordunque! Il Blackbird è il jet degli X-Men, la canzone che ascolta Orfeo è Pio di Marcello Pieri, l’aggettivo “Patiens”
riferito ad Enea lo indica come eroe sottomesso al fato e al volere degli Dei,
al contrario di Odisseo che è eroe agens,
il lupo, la cicala, il falco, il serpente e gli animaletti che parlano
della guerra sono i simboli di Apollo, e vorrei
tanto tanto tanto dirvi da dove sono prese le citazioni della Sibilla,
di
Apollo e dei pensieri finali di Tony Stark, così come vorrei
dirvi che c'entrano la Chiesa e Bill Foster, ma ehm, sarebbe spoiler,
ahimè.
Anche se sono sicura che molti di voi le hanno riconosciute E già vogliono
farmi la pelle
Detto questo…Io non devo più scrivere
quando ho l’influenza.
Ringrazio la mia Pellissima mogliaH Alley e tutti coloro che hanno aggiunto
la mia storia alle seguite/preferite/ricordate! Vi slinguazzerei tutti, dal
primo all’ultimo!
Se volete, qui c’è una
fantapignoserrimo trailer della fan fiction, ad opera della mia Tony di
fiducia!
http://www.youtube.com/watch?v=P5trewzsL9g
BONA CISI----!