Film > The Avengers
Segui la storia  |       
Autore: LaMicheCoria    15/10/2013    1 recensioni
«Non so come funzioni il sistema di notizie nell’Ade, Capitano, ma si dà il caso che io mi sia spezzato la schiena pur di venire a tirarti fuori da questo piattume greco e tu…»
«Io sono morto, Tony. I morti devono rimanere coi morti. Noi non apparteniamo alla vita. Noi apparteniamo all’Ade. Non abbiamo più passato, non c’è concesso futuro. Possediamo solo il presente. E il presente è nell’Ade. Insieme ai morti. Noi non apparteniamo alla vita. I morti devono rimanere coi morti. Io sono morto, Tony.»

Per ordine di Giove, Atropo recide il Filo della Vita di Steve Rogers. Un sacrificio necessario per riportare l'Equilibrio nell'esistenza dei mortali, perchè è giunto il momento che il Destino di Capitan America finalmente si compia.
Ma forse non tutto è così semplice e se Temi, la Giustizia Divina, non interviene più nelle vicende degli uomini, sarà il Caso a far sì che l'inganno -Se esiste, venga svelato.
Per riportare indietro il loro compagno i Vendicatori si spingeranno fino alla bocca dell'Ade -E anche oltre.
[Steve/Tony] [Clint/Coulson] [Bruce/Natasha] [Thor/Jane - Amora/Thor] [ CONCLUSA ]
Genere: Avventura, Azione, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio, Steve Rogers/Captain America, Thor, Tony Stark/Iron Man
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Cause Nobody Wants To Be The Last One There :.'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
cmd7

Manhattan cantò un rintocco di mezzanotte e Clint sollevò gli occhi dalla freccia che teneva tra le mani.
Aveva disposto le cocche ordinatamente davanti a sé, tutte le cuspidi perfettamente allineate, tutti gli impennaggi rigidamente affiancati, due linee simmetricamente parallele a racchiudere i fusti in un rettangolo preciso. Non aveva fatto altro dacché la camera ardente era stata chiusa al pubblico, a fine giornata.
Lo S.H.I.E.L.D. aveva messo a disposizione degli Agenti di guardia una brandina, lenzuola, cuscini e viveri, perfino un thermos di caffè e uno di acqua calda, accompagnato da bustine di thé o integratori di vitamine. Barton, però, non aveva toccato nulla: aveva rifiutato cena e bevande e materasso, aveva afferrato in silenzio alcune coperte ed era tornato nel proprio rifugio sulle scale. Aveva poi accartocciato le lenzuola e le aveva pigiate fino a ridurle in cerchi concentrici, bitorzoluti, con una zona concava e morbida proprio nel centro, dove potersi comodamente accovacciare col petto appoggiato sulle ginocchia, la schiena curva in avanti, la testa incassata nelle spalle. A fargli compagnia, quel lavoro tanto meticoloso quanto monotono per occupare le ore che lo separavano dall’alba e dall’ultimo giorno di veglia.
Ormai il tempo era scaduto.
Ancora ventiquattro ore e il corpo di Steve Rogers avrebbe lasciato la Stark Tower per un eterno, onorato riposo nel cimitero di Arlington. Un sonno senza sogni cinto di corone funebri e cuscini di velluto e lettere di bronzo e una lapide di marmo. Stark sarebbe tornato senza nulla tra le mani se non il rimpianto ed il fallimento e con dita tremanti da vecchio avrebbe afferrato i fianchi del pulpito, vi si sarebbe aggrappato come ad un’ancora di salvezza e Il Signore è il mio Pastore avrebbe biascicato, ubriaco fino al midollo di dolore, perdita, lacrime Non manco di nulla e Amazing Grace avrebbe cantato la folla How sweet the sound ed ogni voce sarebbe sfumata nel sospiro affranto del giorno, nella pioggia incolore, l’orizzonte bagnato d’una soffocata tonalità tra il bronzo ed il seppia. Un’ultima eco di gospel in mille occhi e in mille bocche aperte nella sofferenza d’un solo canto, forte, potente, disperato, picchi di meravigliosa angoscia in un frammento d’America alla forsennata ricerca dell’alba.
Tutto si sarebbe spento e la luce sarebbe scomparsa con un guizzo nero.
Tutto sarebbe tornato buio come quando era cominciato e i fari del Madison Square Garden s’erano abbassati a bruciare il corpo scomposto del Capitano, parzialmente celato dalla schiena curva di Tony Stark, dalle sue mani strette alla divisa gelida.
Clint scosse la testa, passando i polpastrelli a sfiorare uno per uno gli impennaggi metallici delle frecce.
Che quella sottospecie di missione non avrebbe portato a niente, lo sapeva chiunque. Avevano cercato di ingannarsi, ognuno a proprio modo, ma alla fine il fallimento li avevi colti proprio all’apice della menzogna. Non ci sarebbe stata nessuna divinità, nessun risveglio miracolato, e Barton sollevò l’ultima freccia, storse la bocca, serrò le palpebre e la scagliò con un rude movimento del braccio. Si prese la testa tra le mani, le dita premute tanto violentemente sul cranio da vedere scoppi cremisi dietro gli occhi chiusi.
La fronte doleva, le tempie pulsavano e avrebbe volentieri vomitato l’anima se allo S.H.I.E.L.D. non avesse imparato a sopportare la tensione senza fare mostra di succhi gastrici e compagnia bella. La nausea gli montò serpentina lungo la mandibola, s’avvoltolò alla mascella, macchiò la punta della lingua, s’incastrò fra i denti e lì rimase, acciambellata come un gatto pasciuto e sornione.
Dannazione pensò, chiudendosi ancora di più nelle spalle –Un gesto che non compiva più dai tempi del Circo, quando fuori ruggivano i tuoni e sbattevano i tendoni e l’intorno era paura, l’intorno era terrore Dannazione.
«Faresti meglio a mangiare qualcosa.»
Barton alzò la testa di scatto e il mondo gli rimbalzò dentro la cassa cranica un paio di volte prima di risistemarsi, equilibrarsi negli occhi gentili di Coulson, inginocchiato accanto a lui. Clint sbatté le palpebre, confuso, allibito, perché se davvero non l’aveva sentito arrivare, allora era davvero, ma davvero messo male.
«Ecco» continuò Phil nel porgergli un pacchettino di plastica tubolare «Prendile.»
Occhio di Falco non potè nascondere un accenno di divertimento una volta che ebbe i dolcetti in mano.
«Frosted Donuts» recitò, il sopracciglio destro inarcato «Settantacinque centesimi.» schioccò la lingua contro il palato e si voltò verso il proprio superiore. Lo fissò in silenzio, tamburellando le dita sulle ciambelline al cioccolato e non smise fino a quando Coulson, ridendo, non affondò la mano nella tasca del completo, rivelando l’esistenza di una seconda confezioncina di dolciumi.
«Powdered Donuts!» esultò Clint «Unwarp a smile in the morning!»
«Non sono riuscito a decidere(1)» commentò Phil a mo’ di scusa –Barton, però, era già troppo occupato a scartare le ciambelle zuccherate per prestargli attenzione.
«Notizie dalla mandria di topi?»
«Nessuna, signore. Spariti come sono comparsi.»
Prese un soffice morso, masticò a lungo la consistenza appiccicaticcia e decisamente poco salutare dello snack, ingoiò con un tremito contento dello stomaco ed emise un verso soddisfatto, la tensione meno visibile a livello delle spalle, meno tangibile nella piega dura della bocca. Il problema, considerò Occhio di Falco mentre afferrava un altro dolcetto, E’ che sa esattamente come prendermi.
Destabilizzante, per molti versi. Un sicuro punto debole per chiunque l’avesse scoperto, senza ombra dubbio.
Forse non lo faceva neanche apposta, Coulson, di conoscere ogni piega del suo carattere e del suo essere, da come passasse le notti in un bozzolo di coltri più simili ad un nido che ad un letto, a come avesse chiamato Belthronding(2) il primo arco mai tenuto in mano, quando era ancora giovane, dormiva con una copia de Il Signore Degli Anelli sotto il cuscino della cuccetta e Portland era un orizzonte inghirlandato di gloria e promesse.
Riusciva a comprenderlo, lo capiva dai silenzi e dai gesti, e lo guardava con l’espressione di chi sa tutto, ma vorrebbe scavare a fondo, sempre più a fondo, per non avere più segreti ed essere una cosa sola, un unico pensiero con l’altra persona.
Perché questo, soprattutto, aveva distinto Coulson da qualsiasi altro Ufficiale Sovrintendente Clint avesse mai avuto a che fare. Phil lo considerava una persona, un essere umano e non un fenomeno da baraccone.
L’Agente Mariner aveva tentato l’approccio simpatico, convinto che l’atteggiamento da clown buontempone lo avrebbe aiutato ad inserirsi in maniera meno traumatica nel mondo di Nick Fury. Una settimana dopo Barton gli aveva fatto gentilmente trovare una parrucca arcobaleno ed un naso rosso sulla scrivania, invitandolo ad indossarli per la lezione di autodifesa del pomeriggio, così da risultare molto più credibile.
L’Agente Ti-Farò-Una-Offerta-Che-Non-Potrai-Rifiutare Everett aveva deciso di essere la brutta copia del Padrino e come tale si era comportato nei cinque giorni seguenti all’allontanamento di Mariner. Alla mattina del sesto giorno, i suoi colleghi l’avevano visto correre via dalla propria stanza urlando, dopo essersi ritrovato una testa di cavallo nel letto. Clint aveva avuto un bel daffare per spiegare che trafugata da una giostra in disuso a Coney Island, ma ogni giustificazione era stata inutile con quella testa rognosa di Sitwell…Fino a che non era venuto Coulson a dargli il cambio.
Coulson che aveva scartabellato svogliatamente il dossier ed era scoppiato a ridere e aveva riso, riso così tanto e così a lungo da doversi asciugare le lacrime, assicurandogli che in tanti anni di onorato servizio non aveva mai assistito ad una scena più splendida dell’urlante Agente Everett in boxer giallo canarino e paraocchi di satin nero e che per questo gli avrebbe volentieri offerto una cena, tempo di avvertire Fury e gli avrebbe fatto assaggiare la miglior aragosta della Costa, perché gli piaceva l’aragosta, no? No? Allora una Caesar Salad sarebbe andata benissimo comunque.
Coulson che gli incerottava le dita dopo dieci ore consecutive al poligono di tiro, Coulson che gli stava accanto la sera della notizia della morte dei genitori di Dick Grayson, Coulson che gli aveva fatto capire come in quel mondo di spie ci fosse posto anche per lui, Coulson che solo per lui e lui soltanto aveva varcato in nudità eroica il sacrosanto Rubicone del Le relazioni tra colleghi non possono e non devono essere in alcun modo incoraggiate, sciogliendo le cinghie del parabraccio, sfiorando con labbra ingemmate di sangue rappreso lividi e bubboni violacei, sostenendogli la nuca e la schiena mentre scivolavano entrambi sul materasso bitorzoluto di un dimenticato Motel nel Mississippi.
Coulson che continuava a fissarlo e aveva il braccio vicino, oh così vicino al proprio, che Clint poteva avvertirne il tessuto ridacchiargli ruvido contro la pelle: la bocca era schiusa, in procinto di dire qualcosa, ma senza il coraggio di dar voce alle domande, né alle possibili risposte; tra le sopracciglia era andata formandosi una ruga arzigogolata, profonda, un tocco d’età sulla fronte altrimenti piana e tranquilla, le dita aggrappate ai cordoni stropicciati delle lenzuola affastellate.
«Non so nemmeno se sei tu.» esalò Barton, girando di scatto la testa per non doverlo più guardare in faccia.
Sotto di lui Steve Rogers dormiva il suo sonno senza battiti, circondato da un profusione mai vista di fiori e coccarde e biglietti e action figures e disegni e sciarpe e non li avrebbe mai visti, mai, non li avrebbe mai toccati, sfiorati, sorriso dei tratti deliziosamente rozzi che la mano amorevole di un bambino aveva usato per colorargli la divisa, teso le dita a stringere la spalla d’un vecchio amico di guerra dagli occhi cisposi bagnati di lacrime grigie di polvere da sparo e cenere. Non si sarebbe alzato, non l’avrebbe fatto mai, perché il terzo giorno era iniziato e Tony sarebbe caduto, affogato in un lutto di petrolio, parimenti nero, parimenti vischioso, parimenti velenoso: gli sarebbe penetrato nelle vene, a fondo, ancora più a fondo, sempre più a fondo, e in una mano avrebbe tenuto un file che mai avrebbe avuto la forza di chiudere e nell’altra una bottiglia di liquore che mai sarebbe stato in grado di aprire. Perso a dibattersi in un limbo di vuoto e solitudine e l’unica persona che avrebbe potuto salvarlo sarebbe stata metri e metri sottoterra, gli occhi divenuti erba, il cuore radici.
«Fury ha fatto entrare solo me, all’obitorio» continuò Clint, consapevole di come quelle sensazioni che presagiva per Stark le avesse provate tutte sulla propria pelle «Nessun altro.» uno sbuffo «Ti ho preso a pugni. Ti ho preso a pugni, poi è arrivata Natasha. E mi ha tirato uno schiaffo.» si massaggiò istintivamente la guancia destra, un finto sorriso ad arricciare l’angolo destro della bocca «Poi non ricordo. Non ricordo nemmeno il funerale. C’erano delle persone e c’ero io. Ero in mezzo a loro e Nat mi teneva la mano. Non ricordo neanche che tempo fosse, né se le sue dita fossero calde o fredde, se stesse piovendo o se ci fosse tanto sole da abbacinarmi...»
«Clint, ascolta…»
«Su chi ho pianto, signore?» sibilò Occhio di Falco, rivoltandosi contro di lui «Per chi ho affrontato le missioni più suicide?» digrignò i denti, inspirò forte «Per chi ho smesso di pensare? Per un Life Model Decoy? È per questo che Fury ha voluto che vedessi il suo cadavere? Per sapere se l’Agente Attis aveva fatto un buon lavoro? Ingannare me era la prova più sicura.» si coprì gli occhi con la mano «Se invece quello non era un Life Model Decoy…Allora con chi sto parlando, adesso?» lo osservò di sbieco, tra le dita appena aperte «Lei chi è? Una motivazione? Al caro Nick non va più bene che il suo pupillo pennuto continui sulla via dell’autodistruzione e ha pensato bene di dargli una ragione per uscire dal tunnel? Un bel robottino fedele, perfetto in ogni dettaglio? Se volevo un action figures, sarei andato in un Comic Store…!»
«Non posso convincerti che non sono un Life Model Decoy, lo so.» c’era freddezza, nelle parole di Coulson, nei tratti del volto improvvisamente rigidi, nello sguardo completamente incolore «I modelli di Attis sono…Perfetti. La scansione del cervello non ha falla alcuna. Io so di essere l’originale…»
«…Ma lo direbbe qualsiasi Life Model Decoy di nuova generazione.» continuò Clint, per lui.
Phil annuì. Stette in silenzio.
Lo fissò.
«Tu vedi tutto, Barton. Quel che è reale e quel che non lo è. Cosa vedi, quando guardi me?»
L’arciere si ritrasse, allibito, a quella domanda. Sbarrò gli occhi e rimase alcuni secondi a fissare il proprio superiore come se fosse impazzito da un secondo all’altro.
Cosa vedeva? Cosa vedeva?
«Vedo…» tentennò «Che non ha dormito almeno tre giorni e ha cercato di coprire le occhiaie con del correttore. Ma si fidi, quello non è il suo colore: fa a pugni con la carnagione.» smozzicò un sorriso incerto «Vedo che, ovunque sia stato per tutto quest’anno, ha preso un bel po’ di sole: le è rimasto il segno delle lenti.» segnò sul proprio volto una linea immaginaria che dall’arcata sopraccigliare tondeggiava attorno agli occhi per chiudersi alla radice del naso.
«Wakanda» specificò Phil con una risata soffocata, divertita e Clint gli fu quasi grato per essere avvicinato un poco di più, per poterlo osservare meglio, per poterlo di nuovo guardare e constatare che era sempre lui, solo più vecchio di un anno, solo addolorato di una morte di più.
«Wakanda? Bel posto dove passare le vacanze. Le fabbricano ancora le palline di neve o i portachiavi a forma di pantere?»
«Non credo abbiano mai iniziato.»
«Ecco perché le Agenzie Di Viaggio non lo consigliano mai come meta turistica…»
Coulson sorrise e Barton sfiorò a punta di dita la fossetta incuneata sulla guancia sinistra.
«Vedo che ha appena deglutito per il nervosismo.»
Scese lentamente a disegnare la linea della clavicola, il profilo del colletto bianco, soffermandosi sul nodo scuro della cravatta.
«Vedo che le si sono dilatate le pupille»
Scivolò ancora di più verso il basso e segnò uno per uno i bottoni della giacca, appoggiò il palmo aperto all’altezza del cuore.
«Vedo che le si sono dilatati anche i vasi sanguigni.»
Un’inequivocabile striatura rossastra era andata ad incidere gli zigomi di Coulson che, cosa piuttosto ridicola, stava ancora cercando di mantenere un certo contegno. Ma l’iride era stata completamente inghiottita dal nero ingigantirsi della pupilla, il respiro era accelerato, il fiato fischiava tra i denti contratti, il battito cardiaco rimbombava d’eco e scalpiccii galoppanti dentro la cassa toracica.
Clint fece leva sulla mano premuta sul petto di Phil per spingersi verso e su di lui. Soffiò piano sulla sua bocca, cinse di respiro la bocca resa arida dalla vicinanza, perché, Dio, Attis poteva fare tutto, anche l’impossibile, ma non avrebbe mai e poi mai potuto sapere di certe reazioni a stimoli tanto collaudati da loro due. Non poteva saperlo.
«Vedo…Che ha le labbra piuttosto secche, signore.»
Non poteva, vero?

 

***

 

Nel Lago d’Averno(3) si specchiavano il sole e l’incontrastata bellezza circostante: filari di tralci e foglie verdi, campi arati, un sentiero di ghiaino che ne percorreva ad anello l’intero perimetro ed infine il profilo declinante dei bassi colli. Pareva difficile pensare a quel luogo come l’entrata dell’Ade, a quel verde smeraldo come il preludio a viali di lava fumante, a quel cielo come principio di cenere e lapilli. Odisseo così aveva detto e Tony non aveva più motivo di credere il contrario.
Il magnate scostò una fronda dal proprio cammino e rimase fermo sul ciglio dell’altura sporgente, una mano a stringere il ramo, l’altro braccio abbandonato lungo il fianco. Si chiese quanti, tra gli abitanti, conoscessero i segreti dell’Ade, chi, fra loro, ne fosse custode, se ai bambini che si rincorrevano nei giardini venisse insegnato a tenersi lontano dal boschetto incappucciato di foglie nerastre, via dalla fenditura purulenta della roccia immensa, selvaggia, che dominava vista e non vista all’insieme la distesa d’acqua.
L’aria sapeva di leggende dimenticate, un retrogusto rancido nel vento, terra brulla sotto le suole bagnate di fertile fango.
«Sono quasi arrivati» Odisseo gli si affiancò, antico e millenario alla luce radente del sole «Ascolta il battito d’ali degli uccelli. E’ la presenza di Orfeo che lo rende tanto armonico da far piangere il cuore.»
Tony annuì, ma non disse nulla.
Non c’era nessuno oltre a loro, solo un carretto di panini sgangherato sulla stradicciola sottostante, uno sconquassato aggeggio di lamiere imbastite un po’ alla buona e che spandeva all’intorno una musichetta allegra e sciocca, da come Stark poteva capire seguendo il testo italiano.
Ho settant’anni, mi chiamo Pio e oggi vado al mare gracchiava l’autoradio ed era tutto così ridicolo, tutto così in contrasto con quanto il magnate avvertiva rodergli il cuore che urlare sarebbe stato il minimo.
«Stai ancora pensando a quanto detto dallo spirito di tua madre, Uomo di Ferro?» lo interrogò l’eroe omerico, la testa piegata nella sua direzione.
«Le profezie dei morti sono davvero infallibili?»
«Lo sono.»
«Allora sì.»
Non parlò oltre, Tony, e lasciò ricadere il ramo in un gran frusciare di foglie.
Scese dal punto d’osservazione per un sentiero smangiato dal sottobosco, non curandosi della presenza o meno di Odisseo al proprio fianco. Se anche l’eroe aveva deciso di non seguirlo fino al pianoro antistante al lago –Lì, dove c’era uno slargo abbastanza ampio per far atterrare il Quinjet in tutta sicurezza-, sapeva che sarebbe riapparso dall’etere non appena Natasha e Bruce li avessero raggiunti col loro prezioso carico.
Oltre la curva udiva ancora la stonata canzonetta Ho settant’anni, mi chiamo Pio, c’è mi chi mi chiama vecchio e Stark superò lo scassato furgoncino senza degnarlo di uno sguardo, l’asfalto bollente sotto le scarpe, lo scafandro in formato valigetta che batteva inquieto contro la coscia Sarà forse un regalo di Dio non vedersi gli anni nello specchio.
Non dovette aspettare molto prima che il Quinjet desse mostra di sé, brontolando e sbuffando astioso nell’aria vulcanica risalente dal Lago. I pannelli retroriflettori, considerò il magnate ammiccando soddisfatto ad un’ape di passaggio, funzionavano a dovere: persino il Blackbird di Xavier, che pure era un upgrade del Blackbird RS-150 dello S.H.I.E.L.D., avrebbe sfigurato al confronto, come un carretto bestiame accanto ad una Maserati.
L’erba sfoggiò contorcimenti del verde più brillante nel mentre che il jet scendeva invisibilmente di quota, lo sfiatatoio che rovesciava sul terreno vomiti di vento e rigurgiti di terra divelta. Tony si staccò dalla staccionata su cui s’era appoggiato nell’attesa e allargò le braccia quando il ponte s’aprì in uno stappo d’aria compressa, coricandosi piano al suolo. Nessuno dei tre occupanti corse a salutare come il gesto avrebbe voluto intendere e Stark roteò infastidito gli occhi al cielo, prima di puntarli contro l’allampanato individuo che procedeva, impettito e borioso, dietro Bruce e Natasha.
«Vi avevo chiesto di portarmi Orfeo, non Sherlock Holmes.» li salutò, dando una pacca amichevole sulla spalla di Banner.
Questi aggiustò le lenti cascate sul naso e aggrottò la fronte.
«Come?»
«Colpa di Clint e della sua mania per i programmi della BBC, Dottore(4).» intervenne Vedova Nera.
Al che, Tony sorrise, deliziato e malizioso, salvo poi passare indice e pollice premuti tra loro lungo la linea delle labbra, a mo’ di chiudere una zip –L’occhiata di Natasha avrebbe gelato l’Antartico.
Orfeo sollevò il mento e inarcò il sopracciglio; l’espressione si sciolse quando Odisseo gli si palesò davanti, il capo chino, il pugno chiuso contro il cuore.
«Onomaklutòn.»
«Figlio di Laerte…! Polytropon!» esclamò il Cantore, la voce colma di rispetto e finanche un accenno di gioia «I gabbiani d’Itaca piangono la tua prigionia, perché più non viaggi? Perché più non prosegui il cammino, amico mio?»
L’eroe omerico raddrizzò le spalle, sul volto un’espressione di serena amarezza.
«Ho visto ogni cosa, mi sono inoltrato in ogni bosco e sentiero che Gea ha creato per saziare la mia eterna curiosità. Ora l’unica strada che potrei mai seguire è quella che mi porterebbe nella casa degli astri.»
«E mescolarti così ai mortali che hanno insozzato con sudicio piè il bel volto di Selene?»
«Per tua informazione si chiama allunaggio» s’intromise il magnate, infastidito «Ed eviterei di toccare l’argomento con una conterranea di Gagarin.» indicò Natasha col pollice, beccandosi un altro sguardo omicida e una promessa non poi così velata di futuri scorticamenti senza anestesia. «Ora, per cortesia, potremmo proseguire? È già il terzo giorno, non abbiamo più tempo.»
«L’Uomo di Ferro ha ragione.» annuì Odisseo «Venite, Enea attende. E… Cantore, mi è lecito chiedere per quale motivo non hai con te il tuo strumento, struggimento ligneo di belve e mortali?»
Orfeo strinse stizzito la sciarpa attorno alla gola, torcendo il collo a squadrare eloquente la figura improvvisamente cupa di Bruce. Le labbra seriche disegnarono un ghigno mellifluo sulla bocca sottile, gli occhi lampeggiarono di liquida irriverenza.
«Il caro Dottore ha così deciso, per il meglio di sé e della sua…» irrigidirsi schifato della mascella «Impudica compagna.»
«Uh. Caro Dottore» commentò Tony «Qualcuno qui si è preso una cotta per te, Banner.»
Il Dottore incassò la testa nelle spalle, un riflesso verdastro dietro gli occhiali squadrati; la custodia in pelle nera che portava sulla schiena ebbe un sobbalzo.
«E pensa che prima si rivolgeva a me come “Uomo Belva”.»
«Già ai nomignoli? Che romanticheria, così d’un tratto…!»
«Stark, io non metterei troppo il dito nella piaga» lo avvertì Natasha, superandolo ad ampie, decise, decisamente furiose falcate «L’Altro è molto suscettibile.»
Il magnate era convinto che Orfeo e Odisseo li avrebbero condotti  dentro una grotta, su per una rupe scoscesa, in mezzo alle sabbie mobili, a dondolare dalle liane, persino. Lo stupore fu quindi giustificato quando li vide dirigersi verso il cigolante chiosco a quattro ruote.
«D’accordo, forse ho un certo languorino e non disdegnerei un doppio cheeseburger, però…»
«Oh, ma non tace mai?» sbottò il Cantore «Laerziade, non un mortale stiamo conducendo alla dimora dell’Ade, ma il figlio illegittimo d’Eco!»
«Giuro su Dio, una volta finita la quest gli spacco il naso con un pugno.» rimbrottò Tony, ignorando il ghigno divertito di Natasha e i fallimentari tentativi di Bruce per trattenere una risata ben poco compassionevole.
Ricordo del tempo che è passato cianciava l’autoradio, scatarrando smoccoli e versi tranciati a metà da disturbi intermittenti Solo guardando gli altri. Il proprietario del catorcio era chino a prendere qualcosa da sotto il bancone e di lui si vedeva soltanto qualche sparuto ciuffo di capelli neri, una giacca marrone sporco e una sciarpa verde polvere ammonticchiata, raggrumata tra le scapole; l’odore delle cipolle era tanto forte da dare la nausea e quello della porchetta non era da meno; l’olio friggeva e rimbalzava, il pane caldo sfrigolava contento dietro i vetri protettivi, appannati di condensa. “Pius Patiens” recitava il nome sulla parte superiore del camioncino, aperto in obliquo in modo da fungere anche da parasole, e le due parole erano inscritte su di una striscia di pergamena retta da una coppia di colombe.
«Cosa volete ordinare?» giunse loro la domanda del proprietario, ancora nascosto dietro le piastre.
«Io dello Shawar---» esordì Stark, ma Orfeo, più veloce e sdegnoso, lo precedette.
«Una focaccia di miele ed erbe.»
L’assurda canzonetta si zittì.
La zazzera nera s’alzò, comparve la fronte prominente, due sopracciglia folte a sormontare occhi sottili, allungati, un naso aquilino ad ombreggiare la curva del labbro inferiore, aperto per modulare una sorpresa palesemente fasulla.
«Onomaklutòn» quindi spostò lo sguardo sulla figura di Odisseo e a Tony non sfuggì il lampo di disprezzo «Polymetis.(5)»
«Dunque giammai mi salverò dal tuo odio?» un sorriso scaltro si cicatrizzò sulla bocca inclinata dell’eroe omerico.
«Se non fosse stato per te, polymèkanos(5), Ilio dalle bianche mura sarebbe ancora in piedi e la dolce Creusa, sposa adorata del mio cuore stanco, ancora in vita.»
«Se non fosse stato per te, Elissa non avrebbe il petto trafitto del tuo amorevole dono, Pius Aeneas.»
«Cosa?!» domandò Stark, sgomento «Il nostro terzo eroe è un paninaro
«Io ho solo fatto ciò che gli Dei chiedevano da me, sozzo cane di Itaca!» sibilò Enea, curvandosi al di sopra delle pietanze ormai bruciate.
«Parli sicuro, giacché senza ordini come mai potresti muoverti, lurido troiano, anima invereconda?» replicò Odisseo, l’indice teso al volto contratto dell’avversario.
«Ora basta!» Orfeo si mise in mezzo «Tacete! Il figlio di Calliope lo ordina!»
Occorse ben più di un’ora prima che gli spiriti s’acquietassero ed erano già sul sentiero che costeggiava il Lago, quando finalmente Enea si decise ad interrompere l’ostinato mutismo.
«Mia Madre, Venere Citerèa, mandò a me due colombe ed un messaggio: elle avrebbe trattenuto Mercurio, affinché il mortale di Ferro potesse incontrare il soldato defunto e dargli avvertimenti.» scostò un ramo, procedendo spedito verso la roccia che s’impennava feroce davanti ai loro occhi «Nulla che sia amore sfugge mia Madre, né lei fugge Amore.»
«Meno chiacchiere e più scarpinate.» lo spronò Tony, che aveva già indossato l’armatura e velocizzato il passo, onde eviyare gli occhi di Natasha piantati tra le scapole o il convulso cercare di Bruce di guardare da un’altra parte.
Orfeo e Odisseo chiudevano la fila, il primo che dall’aggraziato incedere sembrava intento ad una soave, tranquilla passeggiata, il secondo che lo affiancava, molto più attento, molto più all’erta, già pronto all’attacco se il caso l’avesse richiesto.
Enea s’issò sul fianco del sentiero e stette ritto a rimirare la fenditura della parete che li affiancava, sdrucciolosa, malamente intagliata, con costoloni frananti e mille volte mille bocche aperte ad emettere un rumore senza suono e mai richiuse. Brancicava un bosco, accanto all’entrata maggiore, e si estendeva cupo senza che se ne riuscisse a vedere la fine, selva sconfinata a chiudere in claustrofobiche ombre tutte le convalli. Il suolo esalava soffioni rancidi e sbuffi velenosi.
«A voi presento la soglia, l’antica dimora della Sibilla» il figlio di Venere accennò col mento ai filari scuri incappucciati di nebbia gorgogliante «Là, tra cortecce e spine, si nasconde un ramo d’oro, dono bramato da Proserpina. Privi di esso, l’accesso all’Averno ci è negato, non ne si può trovare la strada.(7)»
Ma il magnate l’ascoltava a metà. Gli tremavano le ginocchia, la fatica della camminata e delle notti insonni, del dolore, della perdita, del lutto e della speranza squilibrata gli pesavano sulla schiena, obbligandolo a sbilanciarsi in avanti, senza più presa, senza più coscienza.
I vapori sulfurei gli facevano girare la testa, annebbiando la vista e il buon senso.
Ringhiava il sole tra le fronde, gli saettava un ruggito di dolore tre le tempie, scoppiava il cuore tra le costole; un lampo bianco-oro più forte degli altri costrinse Tony ad appoggiare una mano sul tronco d’albero più vicino. Gonfiò il petto, riempì i polmoni d’un respiro ristoratore, ma nella gola passarono solo effluvi sibillini e s’incrostarono ai bronchi mille voci di rocce e antri dimenticati.
Stark chinò la fronte e s’accorse di non indossare più l’armatura: era a piedi nudi, immerso fino alle caviglie da foglie, un mare, un oceano, una vastità di foglie dai molteplici, innumerevoli colori, un caleidoscopio di forme e dimensioni, fin dove l’occhio poteva arrivare. La superficie di esse, poi, non portava segni del tempo, né morsi di bruchi o altri insetti. Vi era stato scritto qualcosa, sopra, frasi, parole, numeri e l’inchiostro non era inchiostro, pareva più sangue o l’essenza stessa della terra.
«Cosa diavolo…?» il magnate si piegò a raccogliere una foglia, su cui il suo sguardo era caduto con una casualità che definire predestinata sarebbe stato concedersi un ingiustificabile eufemismo.
La strinse fra le dita –Anch’esse prive della protezione data dalle manopole- e corrugò la fronte.
Stamford recitava la grafia infiocchettata di volute e linee e curve.
Tony ne afferrò un’altra, più lontana almeno di quattro passi dalla prima.
Legge.
Quarantadue, una terza.
Registrazione. La quarta.
Nova. La quinta.
«Odisseo» lo chiamò, l’ultima foglia ancora appoggiata sul palmo «Che sta…?»
Alzò gli occhi e il fogliame gli si riverserò addosso, turbinò di una danza senza freni, estatica, orgiastica, frantumò il tessuto della realtà e a nulla servì il tentativo di ripararsi con le mani alzate. Il mondo si disfece nel ciclone di lettere e scritte e ammonimenti, scomparvero i colori, franò l’orizzonte, si rovesciò l’umana concezione del tempo. A palpebre socchiuse Tony cercò di intravedere qualcosa oltre l’infrangersi di fronde, ma non scorgeva altro che vento e foglie, foglie e vento, ovunque, dappertutto, sopra e sotto, dentro la bocca, tra le mani, infilate a forza nei polmoni.
Tossì e dalla bocca uscirono densi fumi odorosi, riccioli, anelli, condense, esalazioni d’incenso. Lo stomaco si torse, si contrasse, vomitò saliva, parole, urla, preghiera, si rivoltarono gli occhi nelle orbite, cadde carponi, crollò a terra, le foglie gli invasero le narici, gli tapparono la gola, pianse lacrime nere di sangue ed eventi futuri scioltisi nell’incomprensione presente.
Poi, come tutto era cominciato, finì.
O meglio, si sospese.
Un respiro di quiete e il fogliame ricadde, s’adagiò sul sentiero e lì rimase. Muto e immobile.
Sputando fango e bestemmie, Stark arrancò, sfiatò fino a mettersi a quattro zampe, serrò le palpebre. Riuscì a fatica a rimettersi in piedi e quando ebbe abbastanza fortuna da mantenersi in equilibrio, lo colse un capogiro e dovette di nuovo appoggiarsi sulle ginocchia per non cadere.
L’albero su cui si era sostenuto prima era scomparso, così come erano scomparsi Natasha, Bruce, Odisseo, Orfeo ed Enea: era solo, nel centro esatto di una navata infinita, affiancata da pilastri d’appoggio per volte e vele e croci. Panche di legno sfilavano sul pavimento in marmo bianco e nero e ognuna di esse era decorata con un mazzo d’organza trapuntata d’argento, impalpabile come bruma; dal soffitto a botte pendevano candelabri a foggia di steli, tralci d’oro ad abbracciare il busto levigato delle candele, lo stoppino un coito bruciante, l’atmosfera un ansimo corale di fiammelle vermiglie. Dall’abside un Cristo in mandorla lo guardava fisso, gli occhi pacificatori, eterni, le dita benedicenti, un sorriso di pacata gioia sul volto barbato; illuminato dal fulgore divino della corona a raggiera, l’altare splendeva bianco, arabescato di fiori, le cui composizioni tenui, così deliziose e semplici, richiamavano il cuscinetto matrimoniale brulicante di luci accanto alla Bibbia già aperta. Le fedi matrimoniali, appoggiate sulla stoffa morbida, intessuta di perle e ricami a chiacchierino, erano teneramente unite da un piccolo fiocco candido.
Il matrimonio di Capitan America chiocciò una vocetta femminile, fuori campo, Dicono che la sposa sarà bellissima.
Il cuore bombardò aritmico il costato e Tony deglutì, un passo all’indietro, lo sguardo del Cristo conficcato nell’orbita, l’incredulità che ingoiava respiro, fiato e polmoni, costringendo il petto al vuoto più assoluto. Biglietti ed inviti nuziali cinguettarono e svolazzarono, gettandosi dai fusti scanalati delle colonne e spettegolando di torte e cerimonie e abiti e persone importanti e chi avrebbe preso il bouquet e Stark si vide circondato, premuto, graffiato, trafitto da quegli odiosi cartoncini color panna, stretto alla gola dai cascanti motivi del Monotype Corsiva. Artigliò il collare di vezzi e rampicanti che gli aveva cinto improvvisamente la carotide, si divincolò, lo strappò con violenza, diede le spalle alla navata centrale e corse, crollò sugli ampi battenti, spinse.
Uscì.
Il sole lo abbagliò, la nenia delle onde lo cullò, la sabbia mormorava bollente tra le dita dei piedi nudi. Il magnate abbassò il braccio con cui si era protetto gli occhi e s’accorse di essere sulla spiaggia privata che aveva comprato qualche anno prima, non ricordava neanche bene per quale motivo –Non sapeva perché fosse così sicuro di trovarsi sulla propria spiaggia privata: non esisteva nulla che lo provasse. Solo l’orizzonte ingioiellato di spuma e il distendersi sospirante dei flutti sulla battigia crocchiolante di sassolini.
Si girò, convinto di trovarsi alle spalle l’entrata della chiesa, ma dietro esisteva solo altra sabbia, altro bianco, altro sole e altre cielo. Non case, non persone, non montagne o colline di sorta. Non c’erano nemmeno le nuvole.
Voltò la testa, allora, e lo stupore lo colse nel trovarsi di fronte ad un’arcata straripante petali porpora e oro, intervallati bocciolo dopo bocciolo da coccarde bianche, rosse e blu, le due code rettangolari a motivi alternati di stelle e strisce. Una stuoia a listelli cremisi era stata srotolata sulla spiaggia soffice e sedie dallo schienale tondeggiante, più o meno una ventina, erano state disposte carinamente all’intorno.
Spirava una brezza ridente e Pepper mosse passi sussurranti sulla schiuma biancastra: la mano destra sollevava la gonna turchese all’altezza dei fianchi, perché l’acqua non vi giocherellasse troppo, né le rovinasse l’orlo con uno spruzzo irriverente. I capelli erano raccolti in una treccia, chiusa alla nuca in uno chignon; gli spilloni balbettavano bisbigli tintinnanti di gocce opalescenti, ciocche biondo-rosso sfuggivano volutamente dall’acconciatura per accarezzarle il collo flessuoso e le spalle nude. L’abito, di ricercata sartoria, non aveva spalline, ma un rettangolo di stoffa alta quattro dita a sostenere il corpetto, passante poco sotto la clavicola. Le scarpe col tacco era abbandonate poco distante, sandali raffinati adagiati in mezzo a insignificanti dune di sabbia: Tony vide se stesso, sorridente, inguainato in uno smoking nero, raccoglierle e porgerle alla loro legittima proprietaria, dopo averla raggiunta al limitare ridacchiante delle onde.
E’ triste, signorina Potts?
Lei sporse appena le labbra, quindi sorrise.
No. Sono solo molto, molto contenta per voi due.
Disse altro, ma le sue parole vennero ridotte a brandelli da un bubbolio irato di tuono. Stark gettò lo sguardo oltre le due figure sulla battigia, ora immobili come statue di sale, e il panico lo travolse allo stessa maniera della saetta che si piantò ed esplose in acqua, scarnificando creste e flutti, giganteggiando sul mare, innalzando onde mastodontiche. Il volto di Thor tracimò distorto nel ventre convesso del cavallone, Goliath(8) barrì un lamento funebre, ricadde all’indietro, si disintegrarono i marosi contro la sabbia, un fascio di fulmini lampeggiò roboante e il risucchio d’aria della denotazione lo investì e il magnate si tappò le orecchie con le mani, premette tanto forte da sentir scricchiolare le tempie, il cranio comprimersi, il cervello strizzarsi, rinsecchirsi mentre perdeva umori e ricordi. Serrò le palpebre, s’accucciò al riparo dell’arcata, in posizione fetale, aprì la bocca ed urlò e il vento gli rubò anche la voce, lo travolse e ripeté il grido dieci cento mille volte e quando piombò di nuovo il silenzio, si ritrovò in uno spiazzo circolare, illuminato da un barlume effimero, tremulo, proveniente da chissà dove; l’ambiente non aveva confini di sorta, né punti da usare per orientarsi.
Unico oggetto era un tripode di bronzo, sormontato da una lastra circolare. Su di essa un ramo d’alloro, a raccogliere i richiami della luce e frangerli all’intorno in una nenia continua di bisbigli e barbagli.
In assenza di idee buone o anche passabili, Tony s’avvicinò al tripode e afferrò il rametto tra due dita. Una stilla rosso-arancio comparve allora sulla cima dell’alloro: filamenti di luci s’allungarono dal centro pulsante e la loro intensità aumentava e diminuiva, preda d’inspiegabili cali di tensione, come un programma che cercasse di sintonizzarsi sulla giusta frequenza.
Stark era sul punto di rimettere il ramo al suo posto, quando notò un particolare decisamente strano ed inquietante: accompagnata da un tintinnare di voci e brusii d’attesa, una curva scarlatta e blu si staccò dalla stilla, rimbalzò al suolo, assunse forma umana, s’ingrandì, avanzò oltre il tripode e si piazzò al centro dello slargo, elevato a palco immaginario; la piccola sfera si sollevò dall’alloro, mutandosi in riflettore. A Tony non ci volle molto per riconoscere nella visione ora più definita il costume di Spiderman, l’aracnide stilizzato al centro del petto, la ragnatela che da esso si stendeva sulle spalle e lungo lo sterno.
«Spiderman…?» tentò il magnate, confuso e anche vagamente terrorizzato dallo spettacolo cui stava assistendo.
L’eroe non parve averlo sentito e si portò le mani guantate al retro della testa, nel punto della nuca dove la maschera si univa al resto del costume; fece passare le dita oltre l’orlo divisorio e si tolse il cappuccio di spandex colorato, mostrandosi al mondo per quel che era davvero: un ragazzo di poco più di vent’anni, coi capelli castani mossi e un viso giovane dagli occhi tristi. Disse qualcosa ad una folla inesistente e pur non sentendolo, perché privo di voce, Stark ne colse l’atteggiamento ostinato, tenace, a tratti persino provocatorio.
L’immagine si contrasse ed implose, frantumandosi in brandelli e cristalli e perle e Tony, col cuore ancora gonfio, retrocedette d’un passo per poterle vedere tutte, osservarne ogni piega, ascoltare ogni sussurro. Vide un boato di fiamme ed una statua commemorativa, vide volti alieni, squadrati, verdastri, rugosi, e poi il Tesseract, Teschio Rosso e liste di supereroi e mani tese e un electron-scambler e Devil e trenta denari d’argento.
«Cos’era? Cosa ho visto?»
«Il futuro» mormorò una voce fumosa «Foglie.»
«Perché?»
«Il futuro è scritto nelle foglie.»
Dita e tentacoli di nebbia spuntarono da sotto il tripode, s’attorcigliarono e s’avvoltolarono tra loro, crebbero, allampanate, si riversarono sulla piattaforma dove prima riposava il ramo d’alloro, sollevando schizzi pallidi e soffi di polvere cinerea. Comparve quindi una donna, una ragazzina dal volto di pietra e lo sguardo languido, le pupille dilatate da mistici effluvi; i capelli rosso-bruni, raccolti sulla nuca in morbide onde, le ricadevano in una melodia di ninnoli e fermagli sulle spalle, la sinistra nuda, la destra coperta da un panneggio zafferano che le cingeva trasversalmente il petto florido, abbellito da un fiocco a tre lobi e sopra l’incavo dei seni da una rosa di granato; la vita era stretta da un fazzoletto porpora, così come sopra al gomito era chiusa una mantella blu scuro, intiepidita di riflessi viola. Si sedette sulla piattaforma con movimento aggraziato e la veste nascose in un rigonfio luminescente di pieghe le gambe snelle, le caviglie ben modellate, i piedi calzati in sandali di preziosi.
«Chi sei?» chiese Stark ed ella rise e divenne più vecchia d’un anno.
«Deifobe di Glauco» rispose e unghiate rugose le comparvero ai lati delle palpebre «Amphrysia mi chiamò il Mantovano» il collo tremolò di pelle cadente «Sacerdotessa d’Apollo, Sibilla di Cuma.»
«Sono ubriaco, vero?»
«Chiedilo alle foglie.» mormorò lei e le dita torte di corteccia sollevarono con un sol gesto, con un sol ordine stracci di fogliame e verdeggiare di fronde.
Tony le scacciò con un gesto irato.
«Ascoltami, signorina---»
«Il futuro è scritto nelle foglie.» ripetè Deifobe, gracchiante «Perché non vuoi leggerlo?»
Inspirando con violenza, il magnate afferrò stizzito una manciata di foglie e s’accontentò di gettare l’occhio sull’unica  rimasta.
«Non ne vale la pena» mormorò, quindi alzò la testa e scosse il capo «Non vuol dire nulla.»
«E’ una conseguenza.» lo corresse la Sibilla, più gobba e rachitica.
«Di cosa?»
«Di una scelta.»
«Di una---» il magnate impietrì, gelando al ricordo di quanto gli aveva detto sua madre sul ciglio dell’Erebo.
Non dovevi venire figlio mio. Oh! Una decisione ti ha portato qui…
«Non ha senso» ripetè «Non ha proprio senso.»
Intanto, di Deifobe non era rimasta che una megera dal volto grifagno, col naso adunco e palpebre cispose. Modulò una risata garrula, da vecchio avvoltoio, la voce lasciva e sbavante tra le gengive prive di denti: la bellezza che aveva visto la sua nascita aveva lasciato il posto ad una bruttezza imponente, il possente orrore di una cuffietta di stracci lerci sul cranio calvo, seni enfi, cadenti, acciambellati in una veste blu, impolverata, ridicola nel patetico impreziosirsi con un filare d’oro lungo il petto. I piedi grossi, artritici, dalle unghie larghe e coperte di fango, spuntavano da sotto un manto grossolano, giallo con riflessi arancio, e le braccia erano nude, un reticolato ripugnante di vene, inguardabili e turgide.
«Il futuro ha senso solo nel presente.»
«Ora è il presente!» protestò Tony.
«No.» replicò la Sibilla, ghignando «Ora è passato
Singhiozzò un singulto divertito e le vestiti si sollevarono e le si rovesciarono addosso e la coprirono e scomparvero. Sottili sbarre antracite si chiusero, clang, all’apice di una gabbia: dentro di essa pigolò una cicala cigolante. Stark si chinò fino ad avere gli occhi all’altezza dell’insettino e questi saltellò via contento, fuggendo a grandi balzi.
Siete guerrieri, con armi e ideali e cose per cui combattere rimbalzò la voce effimera di Deifobe, persa nel disfarsi del carapace in mille frammenti di bronzo Cose per cui morire.(9)
Tony la rincorse, seguì l’eco fino a che un cono di luce gli esplose davanti ed egli avvertì il cuore bloccarsi in gola.
Appoggiato mollemente al tronco di un albero, un giovinetto lo squadrava divertito. Era nudo, dalle membra ancora acerbe, i riccioli biondi tenuti alti sulla fronte da una fascia candida; la linea del corpo fanciullesco era morbida, flessuosa, il piede alzato ad incontrare il tallone destro in una soave armonia di forma e proporzioni, la gamba sinistra deliziosamente rilassata, abbandonata ad un aggraziato languore. Tra le dita della mano destra teneva un lungo stilo, sottile, e vi giocherellava nel tentativo di trafiggere una lucertola verde smeraldo.
«La vostra è presunzione» lo canzonò il ragazzino, conficcando la cuspide nella carne dell’animale «La presunzione che vi fa credere di essere sempre i buoni e di lottare contro i cattivi.» la lucertola ebbe un spasmo, tremò tutta e rimase inerte, appesa alla corteccia come una farfalla inquadrata nel vetro.
Il giovinetto abbandonò la freccia con indolenza e mosse un passo in avanti –Per contro, Tony ne fece uno indietro. Il cono di luce divenne liquido e s’arrotolò attorno alla gola dell’altro, divenne un mantello, rovesciato sul braccio teso in avanti in un gesto imperioso. Il corpo esplose in uno sfolgorare di splendore inaudito, i muscoli divennero pieni, perfetti, la fascia si slegò e i riccioli palpitarono liberi attorno al collo. Boccoli biondo-oro s’avvoltolarono a crocchia, alti sulla nuca, trattenuti e raccolti da un nastro dai riflessi brucianti come il sole.(1)
«In una guerra non ci sono i buoni e i cattivi.» gridò e nella mano destra gli apparve un arco, già la sinistra stava tirando la corda e la freccia incoccata «Ci sono soltanto forze nemiche.»
Scagliò il dardo e Tony lo sentì distintamente trapassargli il Reattore Arc, infilarsi nei tessuti, uscire schioccando dalla schiena, disintegrando midollo e vertebre. La nuca si ribaltò all’indietro, il mondo ebbe uno scossone in avanti, deflagrò la nausea e la pioggia gli bagnò il viso Raccontate le storie delle sue imprese pregava una voce Ai vostri figli esplosero mattoni e crani e bambini Ai vostri nipoti macerie e fumo E Steve Rogers saliva, sputo, rancore della madre come fiele per l’assassino Capitan America, non morirà mai.
Tony Non sai come gestirli, vero? Tony L’angoscia, il dolore. La perdita…Tony, mi senti? Quindi hai cercato di fare la cosa che ti riesce meglio…Un affare. Tony, per l’amor di Dio! Hai cercato di fare uno scambio che facesse sparire tutto Tony! Svegliati! Ma non puoi Tony!
«Io verrò a prendervi…!» gridò e il volto di Natasha s’allontanò bruscamente dal proprio campo visivo.
Tony esalò un respiro gonfio, un singhiozzo rotto, e si portò una mano al volto. Gli girava ancora la testa, aveva nausea, voleva solo vomitare. Sentiva la bocca asciutta, una debolezza mai provata in tutto il corpo, brividi a mordergli le ossa ed i muscoli, gli occhi mettevano a fuoco un istante e già quello dopo ogni cosa  era coperta da una patina molliccia, di bitume biancastro. Tremava e non riusciva a smettere, aveva freddo eppure era di nuovo coperto, indossava di nuovo l’armatura, nessuna freccia l’aveva colpito.
Era nel bosco, sì, ma non era solo, c’era Natasha sopra di lui e Bruce che gli abbassava professionalmente la palpebra inferiore.
«Che…Che è successo?» domandò, roco, scostandosi dal tocco di Banner e storcendo la bocca per il fastidio.
«Sei svenuto» rispose Vedova Nera, pragmatica «Sei crollato a peso morto sull’erba e hai cominciato ad agitarti e a tenderti.»
«Come un attacco epilettico» spiegò Bruce, levandosi in piedi e dandosi alcune pacche sulle ginocchia per
togliere ogni residuo di terra. «Ma parlavi.»
Stark corrugò la fronte.
«E cosa dicevo?»
Il dottore fece spallucce.
«Qualcosa a proposito di una guerra. Di Giuda e dei Trenta Denari. Chiedevi una soluzione, sciorinavi una sequela di nomi, parti e motivazioni. Hai parlato di Steve…Hai parlato con Steve» si corresse «Una cosa che avresti dovuto dirgli, ma ormai non potevi più.»
«Io---»
«Hai vaticinato.»
Il magnate inarcò un sopracciglio e fissò Odisseo di sbieco, gli occhi assottigliati.
«Non ho vaticinato.» replicò «Sono una persona educata, non faccio queste cose.»
Orfeo, rimasto fino a quel momento a fissarlo seduto su un sasso, allargò le braccia e sputò un insulto esasperato in madrelingua. Enea, al suo fianco, sistemò la sciarpa sulle spalle e assunse un’espressione schifata, di palese disgusto.
«Hai vaticinato. Significa che hai predetto il futuro» chiarì Odisseo, paziente «Questa era la sede di Deifobe, la---»
«---La Sibilla Cumana.» completò Tony, ingegnandosi per stare alzato senza dare di stomaco.
«L’hai incontrata?» Enea si tese verso di lui, ansante, impaziente «L’hai vista?»
«Non intendo parlarne, paninaro
«Non immaginavo tu ne fossi in grado.» al suo sguardo perplesso, il sovrano di Itaca roteò il polso «Predire il futuro, intendo.»
«Sono un inventore.» il magnate si chinò a riprendere il casco dell’armatura, che gli altri dovevano avergli levato perché non andasse a comprimere la gola «Posso vedere come sarà il mondo e posso vedere di cosa il mondo avrà bisogno perché quel futuro meriti di essere vissuto. Vedo quello di cui avremo bisogno e invento quello che ci porterà là.»(11)
«E cosa hai visto, Uomo di Ferro?»
Tony ficcò gli occhi nel proprio riflesso e questi gli restituì un’immagine affranta, un uomo dai capelli lunghi, incolti, sporchi, borse livide e cadenti giù, lunghe, pesanti, fino agli zigomi, sclera arrossata di pianto, mascella serrata e denti digrignati, arrabbiati, distrutti; la pelle era esangue, chiazzata sulle guance e attorno alla bocca da macchie violacee, le tempie bianche di freddo, rigagnolate di sudore, le labbra spruzzate di blu cianotico tanto erano feroci i singhiozzi, violente le lacrime che scorrevano agli angoli delle palpebre serrate. Modulava urla angosciose di scuse, grida inudibili e il sangue scrosciava attorno a lui, sipario ormai chiuso di tragedia. Il livello della marea scarlatta salì e salì, cancellò ogni cosa, disfece ogni membra, divenne condensa, si solidificò, tornò ad essere semplice lega di titanio e oro cromati.
«Non ho visto nulla.» tagliò corto.
La guerra cantò metallica la profezia di un cicala La guerra s’unirono al coro il cigno dagli acuti gorgheggi e l’ululato indistinto del lupo La guerra gracchiò il corvo, mentre il falco, sopra di lui, scendeva elegante e La guerra strideva ad ogni cerchio La guerra sibilò infine un serpente verde e marrone, scivolando via in un singulto di squame luminescenti.
«Andiamo.» Stark re-indossò il casco e il clangore rassicurante della chiusura ermetica coprì amorevole il sospiro che gli era sfuggito dalle labbra «J.A.R.V.I.S., sei attivo?»
«Per lei sempre, signore.»
«Molto bene. Allora diamoci al giardinaggio.»
La guerra ammise a se stesso e non seppe dire se la voce fosse la propria, o quella della Sibilla o del Dio che l’aveva trafitto So che ci saremo. So cosa vuol dire. So cosa succederà. So esattamente chi sarà da una parte e chi dall’altra. So come la penserò io. I dati s’affaccendarono dentro lo schermo della calotta, ma Tony non li vedeva, o meglio, vedeva oltre, vedeva un volto, vedeva sangue So come la penserai tu. Vedeva un foro all’addome. So che ci saremo.
Sentiva distintamente il morso della proiettile bruciargli la carne.

 

***

 

“Ora sei convinto del fatto che non sono un Life Model Decoy?”
«Signore, non che io mi stia permettendo di farle la ramanzina, ma non le sembra…Inappropriato sorridere a quella maniera? È pur sempre la camera ardente di Capitan America.»
“Non lo so, signore. Forse ho bisogno di qualche prova in più. Giusto per essere sicuro e non lasciare nulla al caso”
«Ha ragione, Woo. Non si scusi.»
«Ha ricevuto belle notizie stanotte, signore? Mentre noi dormivano saporitamente?»
«Sitwell(12), una parola di più e non esiterò a farle rapporto per oltraggio ad un suo superiore.»
Invece di appuntarsi sulla faccia l’espressione più contrita del repertorio, Jasper gli rivolse un ghignetto sornione, cui Coulson rispose con un eloquente inarcarsi delle sopracciglia.
Sitwell si sistemò allora gli occhiali sul naso, si schiarì la gola e tornò ad irrigidire compitamente la schiena. Phil annuì, soddisfatto, e osservò il via vai di gente venuta a dare l’estremo saluto alla Sentinella della Libertà –Non prima, però, di aver lanciato un’occhiata veloce alle scale, lì dove sapeva essere l’Agente Barton. Accucciato e vigile, la testa incassata nelle spalle, l’arco accanto, gli avambracci posati sulle ginocchia, Coulson avrebbe potuto descrivere senza fatica od errore alcuno finanche il modo in cui la luce azzurra dei neon s’appoggiava alla piega del naso o gli baciava la curva ferrea della bocca, lasciando in ombra il collo e parte del petto.
Al solo ricordare la pelle calda di Clint contro la propria, represse un brivido. S’umettò veloce le labbra, ben sapendo che Barton stava sicuramente sorridendo, mefistofelico.
Santa pace, alle volte gli sembrava di avere a che fare con un bambino, non con un Agente fatto e finito di Livello 7. Professionalità o meno, Occhio di Falco non avrebbe mai e poi mai mancato un’occasione di metterlo in delizioso imbarazzo, come era solito dire, soprattutto quando si trovavano in un’intimità sospesa e tranquilla, e ogniqualvolta, poi, dovevano abbandonarla per tornare ai rispettivi ruoli.
Una delle sicurezze della mia esistenza considerò Phil, scostandosi appena per controllare una figura curva, gobba, tanto intabarrata in scialli e pastrani da zingara da far scorgere a stento un volto appuntito, ingrigito Come il non essere un L.M.D.
Perché Coulson ne era sicuro, sicuro come mai: lui era l’originale. Non era un Life Model Decoy. I ricordi, i pensieri gli appartenevano, non erano memorie digitalizzate, né comportamenti pre impostati. Attis non avrebbe mai potuto progettare il gesto lieve con cui aveva disegnato le fasce muscolari di Barton, dal polso fino alla spalla, lungo l’avambraccio, nell’incavo del gomito; non il calore che gli era montato nello stomaco nel mordergli la clavicola, nel baciargli lo sterno, nel perdersi a contare, contemplare le vecchie ferite e le nuove cicatrici, disegnandone il contorno, avvertendone il bianco gonfiore contro la lingua.
Non avrebbe mai potuto arrivare a tanto. E lui lo sapeva. Lo sapeva anche Clint. E tanto bastava. Non era un Life Model Decoy. Era l’originale Phil Coulson. Nulla gli era stato impiantato. La propria era vera carne, veri nervi. Vero sangue, non olio di motore. Vera pelle, non rivestimento di lamiera.
Era l’originale.
Non sarebbe mai stato altro.
«Signore…?»
«Mh?»
Peter Parker gli era appena comparso al fianco, il volto terreo e gli occhi che guizzavano da una parte all’altra della stanza, in allerta; Phil divenne vigile all’istante, uno sguardo d’intesa con Sitwell e Woo ed entrambi erano sull’attenti, Occhio di Falco, contro ogni lecito dubbio, con un braccio piegato e le dita a sfiorare attente l’impennaggio delle frecce.
Il ragazzo succhiò le labbra, a disagio.
«Ho come un presentimento…» confessò, il respiro veloce e un rivolo di sudore freddo a scurire l’attaccatura alle tempie.
“Siete ancora convinti che il free-lance di Jameson sia Spiderman?” gli aveva chiesto Clint, bocconi su di lui, le dita intrecciate sotto il mento, il corpo nudo che s’intravede a sprazzi di linee e curve nel buio ovattato.
“Hai mai notato che quando lui non è intorno, Spiderman è lì a fare la propria, buffonesca entrata?”
“Signore, secondo questa logica io potrei benissimo essere Batman. Ci ha mai visti insieme della stessa stanza?”
“Mi spiace per te, Barton, ma sappiamo esattamente chi si nasconde dietro la maschera del Pipistrello.”
“E Robin era
(13) un mio collega. Non giochiamo a chi conosce gente più in alto di chi, signore. Posso stracciarla in due mosse.”
Checché ne dicesse Clint, Coulson aveva fiducia nella teoria che legava Parker a Spiderman. Il presentimento come il giovane aveva chiamato l’agitazione di cui era preda, era la medesima percezione extrasensoriale che, secondo Fury, possedevano i ragni per non essere schiacciati sulle piastrelle del bagno.(14)
«Che tipo di presentimento?»
«Ecco, io…»
Uno strillo isterico lacerò l’aria.
Phil si voltò appena in tempo per vedere una figura allampanata e sporca crollare miserevole ai piedi del feretro, prendendo a pugni il pavimento più e più volte, smoccolando bestemmie e pianti liquidi, scivolosi di moccio e lacrime appiccicose.
 «Perché?!» ululò, bestiale «Perché?! Oh! Un così brav’uomo! Un così brav’uomo!»
«Sta’ indietro, Peter»
Le persone, invece che stringersi attorno a tanta, folle disperazione, invece di unirsi al cordoglio di quel miserando palesemente ubriaco e fuori di sé, si erano ritratte, si guardavano, si portavano la mano alla bocca, si sussurravano stupore, meraviglia, Che spettacolo increscioso! Esclamavano alcuni Oh, poverino! Gemevano i più caritatevoli, pur non osando avvicinarsi, rimirando da lontano i piagnistei e gli strilli e i colpi. L’unica ad essere rimasta al limitare del capannello, la più vicina fra tutti i presenti, era l’anziana intabarrata e grigia, tremebonda sotto i lunghissimi scialli impolverati, il fiato un fischio, un sibilo –Un ringhio, quasi?
«Adesso calmati, ragazzo» Phil s’avvicinò cauto, lento, le mani alzate, un’espressione cordiale e accondiscendente sul viso. S’inginocchiò piano accanto al ragazzo, che intanto s’era curvato su se stesso, la testa incassata nel colletto del trench grigio; a fare capolino era solo una zazzera disordinata di cappelli rossicci «So che sei sconvolto, ma…»
«No! No, lei non capisce…!» fu il latrato di risposta, strappato a forza dalla gola, un boato d’inglese marcato da un accento…Un accento che Coulson non sentiva per la prima volta, no. Ma dove…Dove…? «Senza di lui, senza Capitan America, non vale nemmeno più la pena di vivere…!» e detto questo, in un gesto teatrale al limite del grottesco, Phil si vide scacciato via in malo modo con una manata poderosa e improvvisa.
Meno di un istante per riprendersi dalla sorpresa e già l’altro s’era alzato in piedi, poco stabile sulle gambe: il braccio destro era alto sopra la testa, a sollevare un trofeo invisibile; le dita della mano sinistra, piegate come artigli ritorti, s’aggrapparono alla manica della camicia, troppa larga per un polso tanto sottile, smagrito, pallido e malarico. Era di spalle e Coulson non aveva modo di vederlo in faccia o riconoscerlo. Quando, però, il folle squarciò il tessuto a righe lungo l’avambraccio fino al gomito, rivelando un’amorfa cicatrice spessa quanto un cordone per tutto il tratto di pelle, Phil gelò.
Aprì la bocca per urlare un avvertimento, ma a soffocare il proprio grido ci pensò un sibilo, Hiiiiisssss---!, prolungato e poi squittii e zampetti e schioccare di piccole mandibole e tremare di vibrisse: la vecchia avvolta di scialli si strappò gli indumenti di dosso ed era Vermin, Vermin dalla schiena gobba, il volto triangolare e il cranio bombato, Vermin con la testa coperta d’ispida peluria grigia, gli occhietti rossi e cattivi, di brace fumante, i denti allungati, ingialliti di saliva e spazzatura, il fiato mefitico, Vermin che era saltato in mezza alla folla, richiamando a sé un esercito di roditori e la gente urlava e scappava e Vermin gettava il mondo nel caos, nel panico, saltava, ringhiava, soffiava, il tuono della pallottola, Sitwell aveva estratto la pistola, Woo strillava ordini, Fuoco di copertura Jasper, fuoco di copertura! e metteva i presenti in salvo, li costringeva fuori dall’edificio e la Stark Tower vomitava topi e ratti e roditori e fischiavano le frecce e gioiva d’ebbra vittoria il mutante ubriaco.
Coulson scacciò di dosso le bestiacce arrampicatesi sui pantaloni e sulla giacca del completo, si girò, Vermin gli balzò contro, una cocca esplosiva gli deflagrò davanti al muso e lo costrinse a retrocedere con un guaito, a grattare via la cenere dagli occhi, dal naso appuntito. Phil mise mano alla fondina, un pugno fratturò lo zigomo, le ossa s’incrinarono e gemettero, lasciandolo spaesato e tramortito.
«Ah-ah-ah!» lo redarguì  una voce sarcastica «Molto male!» esclamò in italiano e Coulson serrò il pugno.
«Bruno Chianti.» sibilò e il mutante rise, gettando indietro la testa.
La manica destra era ancora alzata a mostrare la cicatrice bianca che dal polso seguiva l’andamento sinuoso della vena fino al gomito, lì dove camicia e trench erano stati arrotolati per scoprire la pelle; l’aspetto era malandato, trasandato, la bocca uno squarcio folle in mezzo alla barba rossiccia, così lunga da coprire la carne rinsecchita delle guance incavate, il mento bombato e parte del collo sottile. C’erano macchie di vino, sulla camicia come sui pantaloni, e una bottiglia verde scura, riempita quasi all’orlo gli spuntava direttamente dal tascone sfondato del pastrano.
«Felice che si ricordi del vecchio Lambrusco, capo.» sogghignò e scostò un lembo del pastrano. I topi vi lanciarono attraverso e Phil scartò di lato, imprecò, venne preso d’assalto, s’agitò e la risata di Bruno sovrastava famelica il suono sudicio dei ratti, lo strisciare delle code, le mandibole in costante movimento. Coulson s’abbassò ad evitare un’ulteriore ondata di quegli odiosi animali, si coprì la testa col braccio: al di là del mutante, Woo cercava invano di avvicinarsi al feretro di Capitan America, Sitwell di farsi strada  a suon di colpi, e Clint doveva molto probabilmente essere occupato a liberare il campo dalla quantità indegna di topi che si stava riversando sulle scale, in uno sciamare di pelame grigio, squittii ed artigli. Vermin era davanti alla bara, le braccia spigolose a dirigere l’attacco come un bestiale direttore d’orchestra, le vertebre che spuntavano aguzze dalla schiena curva, le orecchie appiattite sul cranio, grumi di bava borbottante e rabbiosa ai lati delle gengive bianchicce, snudate, gli occhi folli, iniettati di sangue.
«Abbiamo un conto in sospeso, io e te» Bruno lo richiamò alla realtà «Una siringa, io ricordo.»
«E io un atto che mi ha impedito di renderti innocuo.» Phil afferrò la pistola, mirò, fece fuoco.
Ma nel tempo che gli occorse per quel gesto, il mutante aveva già affondato due dita nel braccio scoperto, squarciato la pelle, scavato nella carne; un movimento preciso, collaudato, e passò la mano davanti al volto: un fiotto di sangue schizzò dalla vena recisa, palpitò qualche istante, in piena sospensione dinanzi gli occhi di Lambrusco, quindi si gelò, concretizzò a formare uno scudo vermiglio su cui la pallottola finì la sua corsa, andando in frantumi.
Il fischio d’una freccia e Bruno appoggiò le mani sul vetro smerigliato di porpora: un risucchio come di ventosa ed ecco! l’aveva sposato alla propria sinistra, riparandosi dal dardo scagliato da Barton–Coulson aveva colto uno scuotersi d’ombra sopra le scale, il barbaglio della cuspide e poi la figura di Occhio di Falco di nuovo sommersa dall’orda di Vermin.
«Che dice, capo? Me la cavo ancora come una volta?» abbaiò Bruno e incassò il polso in uno stonare liquido d’ossa e legamenti: la vena cefalica partorì faticosamente, claudicando e gemendo, un coltellaccio dalla lama sgrossata, un bubbone marcescente di robaccia vischiosa, lucida, nera e marrone. L’arma scivolò fedele e ubbidiente fino al palmo del mutante, che strinse le nocche pallide attorno all’elsa scura. Chiuse a pugno la mano destra, riducendo il vetro a brandelli. Piccole particelle di sangue rotearono leziose davanti a lui, condensandosi, contraendosi, mutandosi in sferette lisce, lustre, dalla superficie perfettamente curva.
Phil s’aggrappò al calcio della pistola.
«Bona cisi~»(15) cinguettò Lambrusco e distese le dita, sparandogli contro i proiettili scarlatti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cor Mortem Ducens
#07 Pius Patiens

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

(1) Sia la marca delle ciambelline che il commento di Coulson vengono da : « A Funny Thing Happened on the Way to Thor's Hammer » (http://www.youtube.com/watch?v=QAMgkpQYOSQ )

 

(2)« Belthronding was an enchanted bow of black yew wood. This bow belonged to Beleg Cuthalion. Beleg might have gotten the name "Strongbow" from Belthronding. It was buried with him by Túrin and Gwindor after the accidental slaying of Beleg at the hands of Túrin, his friend.» (The Lord of The Rings Wiki)

 

(3) «Il lago d'Averno è un lago vulcanico che si trova nel comune di Pozzuoli e precisamente tra la frazione Lucrino e Cuma, in Campania. Il lago prende nome da una oscura e profonda voragine (attualmente non identificata) presente nelle sue vicinanze ed emanante vapori sulfurei, la quale, secondo la religione greca e poi romana, era un accesso all'Oltretomba, regno del dio Plutone. Per tal motivo gli inferi romani (l'Ade greco) si chiamano anche Averno. Infatti anche il poeta Virgilio nel sesto libro dell'Eneide colloca vicino a tale lago l'ingresso mistico agli Inferi, dove l'eroe Enea deve recarsi (scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris VI, 238). Il nome Avernus deriva dal greco άορνος ('senza uccelli') poiché gli uccelli che volavano sopra tale voragine morivano a causa delle sue esalazioni sulfuree.» (Wikipedia)

 

(4) L’aspetto di Orfeo è modellato su Sherlock Holmes, della serie della BBC “Sherlock”, dove il personaggio è interpretato da Benedict Cumberbatch.

 

(5)-(6) Altri epiteti di Odisseo, rispettivamente “Dal Molto Ingengno/Astuzia” e “Dalle Molte Menzogne/Molte Arti”

(7) Eneide, Libro VI

(8) «William Barrett Foster, più noto come Bill Foster, è un personaggio dei fumetti creato da Stan Lee (testi) e Don Heck (disegni) nel 1966, pubblicato dalla Marvel Comics. La sua prima apparizione è in The Avengers (prima serie) n. 32 (settembre 1966).» (Wikipedia)

(9) «Il titolo di Sibilla Cumana era detenuto dalla somma sacerdotessa dell'oracolo di Apollo (divinità solare ellenica) e di Ecate (antica dea lunare pre-ellenica), oracolo situato nella città magnogreca di Cuma. Ella svolgeva la sua attività oracolare nei pressi del Lago d'Averno, in una caverna conosciuta come l'"Antro della Sibilla" dove la sacerdotessa, ispirata dalla divinità, trascriveva in esametri i suoi vaticini su foglie di palma le quali, alla fine della predizione, erano mischiate dai venti provenienti dalle cento aperture, rendendo i vaticini "sibillini”.
Nel libro VI dell'Eneide, Virgilio, che la rappresenta "vegliarda", la chiama «Deifobe di Glauco» e «Amphrysia», appellativo originato dal fiume tessalo Amfriso, presso il quale Apollo custodì il gregge di Admeto. Lla sua figura è anche legata una leggenda: “Apollo innamorato di lei le offrì qualsiasi cosa purché ella diventasse la sua sacerdotessa, ed essa gli chiese l'immortalità. Ma si dimenticò di chiedere la giovinezza e, quindi, invecchiò sempre più finché, addirittura, il corpo divenne piccolo e consumato come quello di una cicala. Così decisero di metterla in una gabbietta nel tempio di Apollo, finché il corpo non scomparve e rimase solo la voce. Apollo comunque le diede una possibilità: se lei fosse diventata completamente sua, egli le avrebbe dato la giovinezza. Però ella, per non rinunciare alla sua castità, decise di rifiutare”»
Le immagini di riferimento sono:

Apollo e la Sibilla Cumana, del Cerrini per Deifobe giovinetta.
La Sibilla Cumana di Michelangelo, nella Cappella Sistina, per Deifobe anziana.

(10) I modelli di riferimento per la figura d’Apollo sono:

Apollo Sauroctono di (si presume) Prassitele;

Apollo del Belvedere, di Canova.

(11) Tratto da La Confessione.

(12) Jasper Sitwell e James Woo sono due agenti dello S.H.I.E.L.D. rispettivamente di Livello 5 e Livello 8.

 (13) http://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2032661&i=1

 (14) «Parker sviluppò un “sesto senso”, che lo avvertiva dei potenziali pericoli, un “senso di ragno”, se preferite. Si può solo ipotizzare che Stan Lee, frustrato dai tentativi non riusciti di uccidere dei ragni veri in bagno, avesse dedotto che gli aracnidi usino la percezione extrasensoriale per non essere schiacciati.» (La Fisica dei Supereroi, James Kakalios)

 (15) Formula dialettale, credo traducibile con un “Ciao, ci vediamo!”

 

 

 

 

Le ciance senza senso della Neme Note Di Fine Capitolo

 

E sono tornata! Sì lo so, potevo anche restare nel mio piccolo antro a coltivare bruschette, ma ehi, il richiamo della foresta della tastiera!
Ordunque! Il Blackbird è il jet degli X-Men, la canzone che ascolta Orfeo è Pio di Marcello Pieri, l’aggettivo “Patiens” riferito ad Enea lo indica come eroe sottomesso al fato e al volere degli Dei, al contrario di Odisseo che è eroe agens, il lupo, la cicala, il falco, il serpente e gli animaletti che parlano della guerra sono i simboli di Apollo, e vorrei tanto tanto tanto dirvi da dove sono prese le citazioni della Sibilla, di Apollo e dei pensieri finali di Tony Stark, così come vorrei dirvi che c'entrano la Chiesa e Bill Foster, ma ehm, sarebbe spoiler, ahimè. Anche se sono sicura che molti di voi le hanno riconosciute E già vogliono farmi la pelle
Detto questo…Io non devo più scrivere quando ho l’influenza.
Ringrazio la mia Pellissima mogliaH Alley e tutti coloro che hanno aggiunto la mia storia alle seguite/preferite/ricordate! Vi slinguazzerei tutti, dal primo all’ultimo!
Se volete, qui c’è una fantapignoserrimo trailer della fan fiction, ad opera della mia Tony di fiducia!
http://www.youtube.com/watch?v=P5trewzsL9g
BONA CISI----!

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Avengers / Vai alla pagina dell'autore: LaMicheCoria