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Autore: Sylphs    22/10/2013    9 recensioni
I Lawrence, antica, ricchissima e corrotta famiglia svedese, si sono macchiati di innumerevoli peccati, il peggiore dei quali è stato l'imprigionamento del figlio quartogenito Raphael, trasformato in un mostro da un patto stretto dal padre e per questo nascosto al mondo. Quindici anni dopo che ha ucciso il genitore e il terzo fratello, fa ritorno alla dimora di famiglia per vendicarsi definitivamente e pretendere di essere riconosciuto e, a questo scopo, rapisce la fidanzata dell'unico fratello rimasto in vita, Jesper, ricattandolo con la vita di lei. Ma Jesper, alleatosi con la cognata Christine, ha bisogno della ragazza per motivi ben più oscuri di un semplice matrimonio, motivi legati al passato, ed è deciso a riprendersela, mentre lei e Raphael si scoprono più complici di quanto credessero e una bambina coraggiosa decide di indagare.
Sequel della mia storia "Follia d'amore e d'oscurità", ispirata al celebre romanzo "Il Fantasma dell'Opera" di Gaston Leroux.
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amore di sangue'
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Capitolo 13
 
 
 
 
 
 
Harriet vorticava in un cielo di un bianco abbagliante e spiegava al vento un immenso paio di ali piumate, argentee e scintillanti sotto la luce dorata del sole. I capelli si agitavano furiosamente tutto intorno e le braccia nude erano allargate a comprimere il vuoto abissale che si dilatava sotto di lei, un vuoto pressoché privo di terreno solido. Rideva, gettando indietro il capo, e lasciava che le correnti ascensionali la catapultassero in mille direzioni diverse, battendo con vigore le grandi propaggini che le spuntavano dalle scapole.
“Provate a prendermi!” esclamò, ignorando il bagliore troppo intenso del sole che le ustionava la testa. Niente avrebbe rovinato il suo volo: “Provate, se vi riesce!”
Un gorgo nero e pulsante guadagnava terreno dietro di lei, inquinava la purezza incontaminata del cielo e lo tingeva di tonalità malate, violacee come lividi, pulsanti di malvagità. Il sole la seguiva per salvarsi, seguitando a colpirla sulla fronte con i suoi raggi spietati, e lei volava sempre più disperatamente nel bianco che restava, con quella bassa risata sguaiata che le scaturiva dai polmoni: “Siete finiti!” gridò con odio: “Finiti!”
Ma il buco nero era come un’enorme calamita che attirava ogni cosa nel proprio raggio d’azione e ben presto si sentì trarre indietro da una forza spaventosa, malefica, da un’energia che le aveva arpionato le ali e le tirava a sé. Urlò, dibattendosi inutilmente, e in un impeto di disperazione impugnò alto nell’aria uno spazzolino da denti con le setole imbrattate di capelli, diventato tagliente come una lama, e se le mozzò di netto, in una pioggia di scuro sangue viscoso. Cadde, gridando a squarciagola, e la pressione atmosferica le si scaricò sulla testa con tale violenza che se la sentì esplodere.
 
La sua bocca era secca come il deserto, il nero catrame promanato dalla nube
le pulsava nelle vene e le contaminava, irrorava linfa venefica nel suo cervello martoriato. Gemette, un suono basso e rasposo, battendo le palpebre nel buio totale di una stanza asfittica: “No…mi ha preso…l’oscurità…”
Nero e ombre a circondarla, un’arsione insopportabile ai polmoni e un mal di gola che le faceva pulsare la trachea ogni volta che inspirava respiri rauchi. Si lasciò sfuggire un colpo di tosse, la mente in agonia, e una sagoma scura entrò nel suo campo visivo, pronunciando parole che non riusciva ad intendere.
“Forse posso risalire…” mormorò mentre le tenebre la avvolgevano e la portavano via con loro, nei meandri dell’incoscienza.
 
Camminava in un ampio corridoio intarsiato simile ai tanti di Lawrence Borg e lo strascico del suo lungo abito da sposa la seguiva strisciando, sorretto da sua madre e sua sorella Hannah, entrambe silenziose e impassibili, ognuna con un abito da sera di diverso colore. La sua mano era abbandonata in quella di Jesper, bello e altero nel suo completo nero ed elegante.
“Dove siamo?” chiese in un soffio mentre seguitavano ad avanzare vicini nella tenuta da sposo e sposa, in un silenzio tombale. Lui le sorrise con calore, le baciò il palmo della mano e si chinò a bisbigliarle all’orecchio, con il tono languido ed intimo di un amante: “Non verrò a salvarti!”
 
Fruscii. Spostamenti. E ancora tenebre, sempre tenebre.
Una persona era china su di lei, ombra immensa tratteggiata nell’oscurità della stanza, e le aveva alzato la testa con cautela. Le fitte le tagliavano la fronte in due, il bruciore penetrava in ogni terminazione nervosa. Voleva dormire, tornare a Lawrence Borg, dire a Jesper che….
“Non posso sposarlo” biascicò: “Ho cambiato idea”.
La figura emise un grugnito e le sollevò il capo ancora di più, con mani agili e gelide come la morte. In quella presa c’era qualcosa di malsano che le feriva la carne pari agli artigli di una bestia mostruosa, la stessa bestia che l’aveva fatta prigioniera.
“Non…toccarmi” ansimò alla bestia, incapace, tuttavia, di sottrarsi. Lui non le diede ascolto e le premette contro le labbra riarse un bordo duro e sbeccato: “Bevi” ordinò una voce raschiante, troppo bassa e formidabile per appartenere ad un uomo. Lacrime roventi le colarono sulle guance ma ubbidì, assetata come mai era stata in vita sua, prosciugando in un attimo l’acqua limpida e fresca. Il suo corpo bruciava, un calore mortale le pulsava sotto la pelle.
La bestia le appoggiò sulla fronte una pezzuola bagnata e le palpebre cedettero al dolore, trascinandola nell’oblio.
 
Sedeva su una poltroncina di velluto nel bel mezzo dell’ampio, fastoso salone da ballo in cui si era tenuta la festa di Halloween, mentre era in corso una sorta di cena celebrativa, con un calice di vino in mano e addosso l’abito blu da Persefone che aveva realmente indossato quella notte. Intorno a lei, gli ospiti bevevano e cantavano a squarciagola, tutti vestiti da fantasmi, mostri o zombie, ormai ubriachi fradici. La luce delle lampade e del lampadario spandeva bagliori dorati sulle facce rosse dei convitati, e in piedi sopra una sedia Jesper e Christine, camuffati rispettivamente da vampiro e da diavolessa, dirigevano il coro scalcinato agitando una forchetta.
Rise, mandando giù un sorso di vino diluito. Si aspettava di avvertirne il sapore dolce e ricco sulla lingua, invece non aveva gusto, le scivolava giù per la gola senza lasciarsi indietro alcuna sensazione di piacere. Allontanò il calice con un gesto stizzito e strinse più vigorosamente i braccioli della poltroncina, scrutando con occhi torvi il caos circostante: avevano preso a cantare con più forza, sbattendo i pugni contro i tavoli e battendo le posate sui bicchieri e i piatti vuoti, ed erano grotteschi, con gli occhi strabuzzati e iniettati di sangue, le guance paonazze, i ventri gonfi, le venuzze in rilievo. Jesper e Christine agitavano le forchette con foga isterica, facevano loro cenno di aumentare il volume tergendosi la fronte zuppa di sudore. Non cantavano più, urlavano. Il frastuono le faceva scoppiare la testa.
“BASTA!” strillò, scattando in piedi con le dita convulsamente serrate sul suo ricco costume. Tremava per la sofferenza e l’esasperazione: “Smettetela!”
Loro si limitarono a ridere. Il suo fidanzato e sua cognata descrissero all’unisono cerchi e spirali impazzite con la posata e il canto raggiunse un livello umanamente impossibile, echeggiò altissimo sul soffitto affrescato. Si tappò le orecchie, stringendosi la testa così forte che dalle tempie prese a colare sangue denso: “Basta, basta, basta…”
Le gole frementi dei convitati si squarciarono, la pelle sembrò liquefarsi sotto la potenza di quelle note dissonanti e i corpi si afflosciarono a terra come macabre marionette senza fili, mentre dalla bocca spalancata di ognuno emergevano le membra viscide e contorte di veri mostri, esseri striscianti con baluginanti occhi rossi e zampette da insetto, e il canto si trasformava in un orrendo verso stridulo, tanto forte da frantumare l’aria. Urlò, arretrando e inciampando sulla propria sedia, e le creature scaturite dal corpo di Jesper e Christine, ancora più distorte delle altre, le vennero incontro muovendo le zampe come prima muovevano le forchette, chiudendo le mandibole schioccanti su di lei e ficcandole in gola a forza una grinzosa massa sanguinolenta che gliela occluse e gliela riempì di bile, impedendole di respirare.
 
“Nooo…”
Gridava e piangeva contemporaneamente, dibattendosi nelle coperte umide di sudore, scalciandole lontano da sé, e si vomitava addosso getti di liquido amaro, la gola ostruita dalla sensazione di avere davvero ingoiato quella mostruosità: “No!” gemette tra un conato e l’altro: “No, via!”
Qualcuno tentava di rimetterle addosso le coperte, ma le trasmettevano un orribile senso di soffocamento e continuava a scostarle, urlando a squarciagola, folle di panico al pensiero che Jesper e Christine l’avessero contaminata per sempre, che infilandole in bocca quella roba l’avessero guastata: “NO, NON VOGLIO, NON VOGLIO!”
“È finita!” gridò la voce cupa e raschiante di prima, mentre le mani fredde la circondavano per tenerla ferma: “Calmati, è finita adesso!”
“No…” singhiozzò, tremando per lo shock e abbandonandosi pian piano alla stretta tenace di quelle braccia. Le sembrava di percepire dentro di sé il gusto acre e insopportabile del putrido liquame in cui aveva rischiato di annegare, e al tempo stesso si sentiva minacciata, in pericolo. Stava male, così tanto male, sentiva di dover morire a breve: “Non infettatemi” farneticò: “Qualunque cosa ma non infettatemi!”
Venne riadagiata sul letto, coperta, quindi un panno le pulì la bocca dal vomito. Continuava a sussultare sul materasso.
“Bevi” intimò la voce raschiante con lo stesso tono della volta prima. Docile, ingollò la bevanda che le era stata accostata alle labbra e stavolta avvertì un sapore diverso, un po’ aspro, che l’avvolse in una cortina di pesante torpore e la sprofondò nel sonno, un sonno privo di sogni, nero e profondo.
Quando si svegliò per la quarta volta, il terrore acuto e l’agonia della febbre erano svaniti e la sua mente era lucida. Le sembrava di aver vagato tra le ombre per eoni, smarrita in visioni grottesche, e di esserne emersa a costo di mille fatiche e prove, esausta ma salva.
Ho avuto la febbre. Ingoiare tutto quel putridume e quella sporcizia deve avermi quasi avvelenata.
Fu il suo primo pensiero.
Sono fuori pericolo.
Malgrado il netto miglioramento, faticava ancora un poco a rimettere a fuoco la situazione, tuttavia ricordava. Ricordava tutto. Il rapimento da parte del misterioso individuo che sospettava essere un completo folle, il suo tentativo di fuga, la corsa nei meandri dei sotterranei con i passi del suo aguzzino che la inseguivano, il frenetico arrancare nel liquame che l’aveva avvolta come una coperta, trascinandola in profondità…e le braccia che all’ultimo momento la riportavano in superficie. Gli ultimi momenti erano più confusi, più che altro le sembravano il principio del delirio, poiché una sola immagine le era rimasta impressa nelle retine, ed era un’immagine così orrenda, così mostruosa che solo cercare di dipingerla nella mente le provocò un brivido gelido e tagliente come una lama passata dolcemente sulla sua spina dorsale. No, doveva essere stata di sicuro un’allucinazione. Una creatura tanto terribile era senza alcun dubbio il frutto dei suoi peggiori incubi.
Quanto all’altra creatura…quella che la teneva prigioniera…
Deve essere stato lui a salvarmi e a riportarmi qui.
Riconosceva la forma del letto su cui era adagiata, così come il tessuto morbido e ricamato delle coperte che una mano ignota le aveva messo addosso. Era tornata in “cella”. Ma, e questo la sorprese, anche se il suo carceriere aveva stabilito la regola secondo la quale avrebbero vissuto nelle tenebre, c’era una singola candela accesa sopra al tavolino da notte, che illuminava con il suo tenue bagliore soltanto il letto e parte del divanetto foderato di velluto color vino contro cui era inciampata la prima volta che aveva tentato di riconquistare la libertà. Il resto della camera era impregnato di buio. Danzando sulle pareti di pietra, le ombre proiettate dalla fiammella creavano macabri giochi di luci. Studiò per qualche istante quella piccola fonte di luce ormai prossima a consumarsi, sbalordita, e si accorse che accanto ad essa giaceva un vassoio con sopra un bicchiere d’acqua e una ciotola di quello che sembrava brodo di pollo tiepido. Un pasto da ammalato.
Il pensiero di dovere la vita al suo aguzzino la ripugnò. Aveva sempre saputo di avere scarsissime possibilità di fuggire, eppure, quando era riuscita a metterlo temporaneamente fuori gioco, aveva sperato che…ma aveva peccato di ingenuità, come al solito. Non bastava volere una cosa perché questa si avverasse. E quell’uomo, sempre che questo fosse, era molto più forte e scaltro di lei. L’aveva addirittura salvata. Ma non l’avrebbe certo ringraziato per la buona azione. Se aveva rischiato di morire era stato solo per colpa sua. E aveva finito di mostrare gratitudine a coloro che la rovinavano. Se credeva che gli sarebbe stata riconoscente, era ancora più pazzo di quanto pensasse.
“Finalmente ti sei svegliata. Iniziavo a temere di non vedere mai più i tuoi occhi verdi” ghignò una voce roca e insinuante nell’oscurità, che Harriet riconobbe all’istante come quella del suo carceriere. Sussultò involontariamente, rimproverandosi con durezza subito dopo – sarebbe mai riuscita a non farsi cogliere di sorpresa da quel mostro? – e fece dardeggiare lo sguardo tutt’intorno, cercando di capire dove egli fosse. Detestava che la guardasse senza che lei potesse guardare lui, si sentiva inferiore, in svantaggio, e malgrado non potesse vederlo, malgrado non sapesse nemmeno che aspetto avesse, percepiva le sue pupille puntate addosso con dolorosa intensità, in un’occhiata che la bruciava come se a sferzarla fossero state lamine infuocate e non gli occhi di un uomo. Digrignò i denti, affondando nel contempo le unghie nei palmi delle mani.
“Già ti metti sul piede di guerra?” la canzonò R, asciutto; era fuori dal raggio di luce proiettato dalla candela, nascosto nella cortina di oscurità: “Ti ho salvato la vita. Questo dovrebbe bastare a rassicurarti sul mio conto”.
Harriet scoppiò in una risata secca come un colpo di frusta, ignorando il dolore lancinante che avvertiva alla gola: “Lei non mi ha affatto salvato la vita. Se stavo per annegare era solo perché cercavo di scappare da lei. La verità è che preferivo morire!”
No, non era così. Nonostante la sua infelice situazione, voleva vivere. Ed era…sollevata di non essere affogata in quel putridume. Sarebbe stata una fine troppo iniqua e troppo ingiusta. Ma sarebbe morta piuttosto che ammetterlo davanti a lui.
“Davvero?” le domandò, con un tono che le diede l’impressione che lui sapesse che aveva mentito: “Dalla morte non c’è ritorno, fanciulla. Non ci sono candele a rischiarare il tuo cammino né speranze a illuminare i tuoi giorni. Solo tenebre e rimpianti che non troveranno mai pace. È sul serio la morte che desideri?”
Frustrata, Harriet abbassò lo sguardo in grembo, torcendosi furiosamente le mani, e si lasciò sfuggire a fior di labbra: “Se non mi fossi mai fidanzata con Jesper questo non sarebbe successo…”
“Concordo” sibilò il suo carceriere: “Immischiarsi negli affari dei Lawrence non porta nessun vantaggio. E prima o poi tutti ne pagano il prezzo”.
Harriet fece un sorriso cinico: “Allora anche lei deve essere un Lawrence”.
Le rispose un silenzio assoluto, così denso che le parve al contrario che la stanza fosse piena di urla e di rumori assordanti, tanto le orecchie le pulsavano e il sangue le rimbombava nei timpani. Impulsivamente, si avvolse il busto con le braccia e si rese conto con un lieve trasalimento di non indossare più il pullover e i jeans ormai logori che aveva trovato nella latrina, ma al contrario un antico abito rosso che doveva risalire a parecchi decenni prima, con una generosa scollatura foderata di rose finte, il bustino decorato con perline che pendevano lievemente dai fili e una lunga, frusciante gonna di seta. Era sorprendentemente in buono stato.
“Non dicevo sul serio” disse infine, inquietata, in qualche modo, dal perdurante silenzio – possibile che volesse davvero risentire la voce di lui? – “È stato lei a mettermi questo vestito?” chiese quindi accusatoria, sollevando un lembo di stoffa scarlatta.
Stavolta, R rispose dopo pochi secondi, in tono smorto e privo di interesse: “Sì. Lasciami dire che il rosso è il tuo colore. E che ti dona molto di più di quegli stracci di cotone”.
Le guance della ragazza si imporporarono per la collera: “Lei non aveva nessun diritto!” gridò. Fu chiedere troppo alle sue corde vocali ancora doloranti; tossì furiosamente, in preda ad un bruciore di gola quasi insopportabile, con le lacrime agli occhi, ma andò avanti: “Non aveva nessun diritto di prendersi queste libertà! Non sono un animale, sono una persona!”
La sola idea che quell’essere l’avesse vista nuda le risultava intollerabile. Era stata umiliata in tutti i modi possibili, ma con questa mossa aveva violato la sua intimità, le aveva lasciato addosso un marchio indelebile e infamante. Aveva voglia di gettarsi su di lui e graffiarlo, di ucciderlo con le sue stesse mani, ma con spietata lucidità sapeva che non sarebbe servito a nulla, specialmente ora che si sentiva tanto debole, e che anzi si sarebbe ridicolizzata ancora di più agli occhi di quel bastardo.
“Preferivi morire assiderata?” ribatté R, a metà tra il piccato e il divertito: “Sei stata tu a buttarti nel canale, ragazza. Te l’ho forse chiesto io? Se ti avessi lasciato addosso i tuoi indumenti fradici il caro Jesper sarebbe andato all’altare con un cadavere. È davvero questo che volevi?”
Harriet strinse gli occhi, furiosa; avrebbe voluto lacerare quell’abito che le accarezzava la pelle trasmettendole lo stesso sentore di morte del tocco del suo carceriere, ma era evidente che i vestiti che le appartenevano fossero stati riposti fuori dalla sua portata, e da un certo punto di vista, il discorso di lui era corretto: “Quello che volevo” ringhiò battagliera: “Era riavere la mia libertà!”
“Ahimè!” sospirò lui, con un accento di folle mortificazione: “Questa, purtroppo, è una delle poche cose che non posso offrirti”.
Il volto della ragazza si indurì: “C’è forse qualcosa che può offrirmi?”
“Ma certo” la voce di lui appariva vagamente sorpresa, come se stesse ribadendo un’ovvietà: “Non sono un mostro, ragazza, o almeno non quel tipo di mostro. Ti sto forse facendo mancare qualcosa? Hai un letto su cui dormire, una casa in cui stare – ebbene sì, un sotterraneo può essere considerato una casa, se non c’è nessun’altro posto in cui rifugiarsi! – e vestiti nuovi e puliti! Ti ho addirittura concesso una candela”.
“Quale onore!” replicò Harriet, grondando amaro sarcasmo.
Questo parve contrariarlo un poco: “Sei una piccola ingrata, ragazza” berciò, producendo un lieve, viscido fruscio che le fece supporre che si stesse muovendo nella zona buia in cui se ne stava rannicchiato: “Una piccola, diabolica ingrata e non c’è categoria che io detesti di più. Oh, ho avuto a che fare con gli ingrati, eccome! Piccole carogne che non conoscono il valore dell’ospitalità e che considerano un grazie l’onta peggiore…dico io, che cosa mai potresti volere di più, piccola ingrata? Ti ho forse incatenata alla parete?! Ti ho forse rinchiusa in una torre?!” scoppiò in una risata pervasa da una nota di allarmante follia che sembrò riecheggiare sulle pareti di pietra e rimbalzare dal soffitto al pavimento come una biglia impazzita: “No!...no!...no! Non ho fatto nulla contro di te all’infuori di tenerti qui!”
“E le sembra poco?!” la gola le doleva da morire e le membra chiedevano a gran voce riposo, ma aggrappandosi alla struttura in ferro battuto del letto Harriet riuscì a tirarsi in piedi, reggendosi a stento sulle gambe malferme e dardeggiando occhiate di fuoco all’oscurità. Forse un altro si sarebbe arreso a quei folli discorsi, ma se avesse taciuto, tremebonda, e avesse lasciato che lui proseguisse nella sua delirante arringa, forse avrebbe prolungato la sua vita, ma non avrebbe cambiato nulla nella sua situazione; e poiché era chiaro che prima o poi sarebbe dovuta morire, tanto valeva combattere, lottare almeno in quell’ultima battaglia: “Anche quando una persona viene spogliata di tutto ciò che ha, della sua dignità, dei suoi sogni, delle sue speranze, può continuare a vivere in nome della cosa più importante, ed è la libertà!” proseguì, con voce orribilmente rauca e spezzata: “La libertà di fare ciò che si vuole, almeno entro i limiti del possibile, e di esistere secondo le proprie regole! E la libertà, R, è ben più importante di un letto comodo e di un vestito nuovo!”
Come poteva non comprendere un concetto così naturale e giusto? Come poteva non capire una cosa tanto semplice?
Dalla coltre di tenebre che aveva davanti, un muro invalicabile e un confine netto tra giorno e notte, giusto e sbagliato, angeli e demoni, provenne un tetro a umido silenzio rotto soltanto dal respiro accelerato dell’uomo che la teneva prigioniera, e Harriet ansimò per qualche minuto, senza fiato, quasi inconsapevole delle poche lacrime che le erano cadute sulle guance. Moriva dalla voglia di prendere la candela dal comodino, avanzare e fare luce in quell’angolo di ombre, per conoscere il volto di R, ma al tempo stesso sentiva di non doverlo fare, che quello era l’ultimo, sottile velo che la separava dall’abisso. Fintantoché non l’avesse visto in faccia, avrebbe avuto ancora qualche speranza di uscirne viva. Perciò rimase dov’era, tremante, con la gola in fiamme e la pelle che scottava; la febbre, a quanto pare, non le era passata del tutto.
“Tu mi parli di libertà” sibilò infine R, così repentinamente da causarle un piccolo trasalimento: “Ma tu ce l’hai già la tua libertà, piccola ingrata…la libertà di essere”.
Harriet aggrottò la fronte, senza capire: “La libertà di essere?”
“Esatto!” ringhiò lui: “La libertà di essere! Ed è l’unica libertà che conta! La libertà di avere un nome e di poterlo dire quando incontri qualcuno! La libertà di avere un’identità, anche la più terribile, che ti permette di andartene in giro alla luce del sole, di guardarti intorno e pensare tutto questo mi appartiene, perché io sono!! Io sono, piccola ingrata! Ma il bello di voialtri di sopra è che non lo capite…no, non lo capite affatto…” un sogghigno inquietante nel buio, un altro fruscio: “Per voi che cos’è la libertà? Solo camminare con le proprie gambette da un posto all’altro senza che nessuno gridi o ve lo impedisca, perché, ovvio, voi siete belli, e questo per voi è normale! Per me questo è un privilegio, piccola ingrata, un privilegio! Per me la libertà naturale di cui parli è semplicemente avere un nome! E per averlo sono disposto a qualsiasi cosa, qualsiasi cosa!!”
C’era una tale, angosciosa disperazione nel tono del suo carceriere che Harriet se ne sentì sopraffatta, come se un macigno pesantissimo le fosse piombato addosso e l’avesse schiacciata a terra, giù, giù, giù, ancora più in basso del sotterraneo in cui si trovava. E non era un fardello che fosse in grado di sostenere, no, nessuno ci sarebbe riuscito, le provocava anzi un senso di repulsione, la voglia di tapparsi le orecchie, accucciarsi a terra e difendersi in quel modo infantile dal significato di quelle parole. Lui era il suo aguzzino, l’individuo che l’aveva rinchiusa nelle viscere della terra e imprigionata, eppure si ritrovò a provare pietà per lui.
“Tutti possiedono la libertà di essere…” disse in un soffio.
“Questo è quello che pensi tu, piccola bella ingrata! Ma uno sgorbio, la libertà di essere, non ce l’ha. È così che mi chiamavano…sgorbio, sgorbio…finché mi hanno tolto il mio nome! E che cosa sono io adesso? Un vermiciattolo che vive sul fondo di un contenitore? Il mondo me l’ha negata, la libertà…e io la nego a te, perché è venuto il momento di pagare il prezzo, piccola ingrata” R fece una pausa, respirando con forza nelle tenebre, poi ripeté, in una macabra cantilena: “Bisogna pagare il prezzo, pagare il prezzo”.
“Tu chi sei?” sussurrò Harriet, terrea sotto la fievole luce della candela, che proiettava bagliori rossastri sulle sue iridi verdi e lucide e danzava sull’antico abito cremisi.
“Forse dovresti chiedermi…” ribatté lui: “Che cosa sono, piccola ingrata”.
Deglutendo a fatica, la giovane si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio con un gesto nervoso, quasi isterico: “E che cosa saresti?”
Si aspettava una risposta immediata, invece R lasciò trascorrere diversi istanti in silenzio. L’atmosfera era come sospesa, immobile, e Harriet aveva dimenticato la sua indignazione e perfino il dolore alla gola e alla testa, tanto era presa dal dialogo. Fino a quel momento, non aveva mai intuito fino in fondo quanto fossero forti e assoluti il tormento e la pazzia del suo carceriere, ma ora lo vedeva chiaramente. E se da una parte era inorridita dall’abisso in cui lui viveva, dall’altra quella strana sensazione che chiamava pietà, in assenza di altri termini adatti, la spingeva a insistere, a sapere.
Ma chi gioca col fuoco finisce per scottarsi..
“Non lo so” mormorò infine R, nel tono sperduto e improvvisamente disorientato del bambino lasciato nel gelo della sua solitudine, cambiando atteggiamento: “Non lo so proprio”.
Si fissarono, Harriet contemplando una nebulosa, incerta sagoma che sembrava essere fatta di vapore e luce lunare, R la ragazza abbarbicata alla struttura del letto con le guance bollenti e i lunghi riccioli appiccicati alla pelle madida di sudore. Fu lei a cedere per prima: travolta da una repentina, potente ondata di debolezza, si lasciò cadere sul materasso sollevando la vaporosa gonna scarlatta, temendo di svenire di nuovo – e non voleva, doveva rimanere lucida, il più possibile – e rilasciò un sottile gemito, afferrandosi le tempie nella speranza che così facendo avrebbe contenuto il cervello che voleva esplodere.
“Tu stai male” commentò lui, come sbalordito da una simile verità.
Harriet storse la bocca: “Indubbiamente ho avuto giorni migliori”.
La candela sul tavolino da notte tremolò e, subito dopo, si spense di colpo, come se dita invisibili si fossero chiuse sullo stoppino, soffocando la fiammella. La giovane sussultò – se era stato R, non capiva proprio come potesse esserci riuscito – e sentì dei passi che si avvicinavano, percorrendo la camera avvolta ora nella sua interezza dalle tenebre. L’improvvisa assenza di luce le aveva fatto comparire chiazze bianche davanti agli occhi e se li strofinò con le nocche: “Che cosa…”
“Sta tranquilla” la interruppe lui. Pareva aver abbandonato il piccola ingrata: “Sei la mia ospite. E devo fare in modo che tu stia bene nella mia dimora”.
Non sono tua ospite, per l’amor di Dio, sono tua prigioniera.
Ma stavolta evitò di dirlo ad alta voce. Era troppo stanca per mettersi a discutere. Invece, domandò confusa: “Per quanto tempo…sono stata…”
“…incosciente? Un giorno circa. Mi sono preso cura di te”.
L’idea di quell’individuo che si prendeva cura di lei non la rassicurò affatto, anzi. Si pentiva di aver cercato di scappare, aveva ottenuto solo di rimanere ventiquattr’ore alla sua completa mercé, priva di sensi, dandogli modo di spogliarla, rivestirla e maneggiarla come una bambola animata. Santo cielo, avrebbe avuto fine quella follia?
Percepì un corpo che raggiungeva il letto su cui si era accoccolata, che lo aggirava muovendosi con attenzione, poi due mani invisibili, ma non per questo irreali, sollevarono la tazza di brodo di cui Harriet distingueva la sagoma, reggendola con cura: “Devi mangiare qualcosa, piccola” mormorò R, ancora più inquietante in quell’inaspettata dimostrazione di premura: “Solo così le tue guance riprenderanno il loro colorito. Su, apri la bocca”.
La ragazza si appiattì contro la testiera, girando il capo di lato per sottrarsi alla fumante cucchiaiata che quella buia figura le stava avvicinando alle labbra: “No!” ansimò, terrorizzata. Si rimproverò immediatamente di aver mostrato in maniera così palese la sua paura: non aveva deciso di essere forte? Ma non sopportava che il suo aguzzino la imboccasse. No, a questo non si sarebbe piegata.
“No?” le fece eco lui, calmo. Una calma pericolosa.
“Non ho…non ho fame” balbettò pateticamente.
“Davvero?” sempre molto tranquillo.
Harriet non voleva guardare dalla sua parte, ma non poté farne a meno. Le ricordò l’Uomo Nero delle favole, avvolto com’era dal buio come da un mantello. Scorgeva solo i suoi occhi azzurri e penetranti, quasi ipnotici, e la ciotola che reggeva tra le mani, il cucchiaio rimasto a mezz’aria come la bacchetta di un direttore d’orchestra. Quell’uomo emanava gelo, un gelo terribile. Per un attimo, pensò di tendere una mano verso di lui e toccarlo per assicurarsi che fosse reale, che non fosse lei ad essere impazzita e ad aver immaginato ogni cosa, ma respinse con furia la brama inopportuna. Doveva stargli lontana, lontana, lontana. Questo gridava la sua parte razionale, irrigidendola tra le lenzuola a causa della vicinanza tra di loro.
“Tu hai paura di me” constatò R, scandendo ben bene le sillabe. C’era una sfumatura strana nella sua voce, e captandola Harriet rabbrividì, impossibilitata a scendere dal letto e scappare dalla sagoma oscura che incombeva su di lei come uno spettro: “Io…”
“Prima non l’avevi” continuò il suo carceriere: “Quando hai provato a fuggire non avevi paura di me. E io lo so il perché”.
Ora la ragazza avrebbe voluto prendergli di mano la tazza e bere il suo brodo, ma era troppo tardi: “E…qual è il perché?” lo assecondò. Non poteva fare altro.
“Il perché…” spiegò R, tranquillo: “È che prima mi comportavo come un mostro. E questo la tua mente lo riesce a gestire. Ora che mi sto comportando come un uomo…” puntò i luccicanti occhi cerulei su di lei: “Non lo accetti. Non è così, piccola ingrata?”
Il riutilizzo dell’epiteto la inquietò e spostò impulsivamente le gambe all’altro lato del letto, tentando di posare i piedi sul pavimento per stabilire un contatto tra sé e una possibile via di fuga, nel caso la tempesta che percepiva nell’aria, un crepitare di scoppi e sibili pronto ad erompere in una fiammata potentissima da un momento all’altro, esplodesse.
Cerca di farlo ragionare, cerca di far tornare quello premuroso…
“Non è questo” bisbigliò, troppo incerta, troppo prudente: “Il fatto…”
La tazza del brodo le sibilò vicino, così vicino da strapparle un violento sobbalzo e da farle avvertire la collisione sulla pelle come se fosse realmente avvenuta, e andò in frantumi contro la parete alle sue spalle con un assordante crash, schizzando minestra bollente sul cuscino e sul suolo di pietra e spargendo cocci affilatissimi che piovvero a fontana tutto intorno al letto. Gridò, facendosi schermaglia con un braccio, e sgranò gli occhi sulla figura evanescente di R, che nel più assoluto mutismo afferrò il bicchiere d’acqua, lo levò sopra la testa e poi infranse a terra anche quello, aggiungendo al disastro di frammenti altri pezzi trasparenti che formarono una letale prigione tagliente che la circondava; per pura fortuna nessuno era finito sopra al materasso. Pallidissima e boccheggiante, la ragazza conficcò le unghie sulle coperte, mentre il suo carceriere, sempre silenzioso – si poteva ostentare quella affaticata tranquillità e distruggere nel contempo tutti gli oggetti che gli capitavano sotto mano? – vibrava un calcio al divanetto, ribaltandolo con furia e scagliandolo lontano.
“Smettila!” strillò Harriet d’impulso, pregando che non dirigesse la sua ira su di lei: “Smettila, ti prego, smettila!”
“Dovete pagare il prezzo” vaneggiò lui, strappando il vassoio dal comodino e lanciandolo pericolosamente vicino a lei; le passò accanto sfrecciando, scompigliandole i capelli, e la mancò per un soffio, sebbene lei non l’avesse giudicata una disattenzione, ma un intento preciso, di farle provare la paura e salvarla per miracolo. R le puntò contro un dito accusatore: “Dovete pagare il prezzo, piccola ingrata! È questo che volete, giusto? Un demone che distrugge, un demone da combattere!” ridacchiò: “Ma ve ne pentirete. Saranno guai per tutti, piccola ingrata, per tutti. Alla fine di questa storia, ogni singolo essere umano ricorderà il mio nome. Ed avrò anch’io la mia libertà di essere”.
Faticando a riprendersi dallo shock, Harriet non riuscì a trattenersi: “Tu sei pazzo…”
Evitando i frammenti di vetro, lui si appoggiò alla struttura del letto e si curvò sulla giovane finché ella non scorse il profilo di un mento aguzzo e di guance scarne che si mossero insieme al ghigno raccapricciante che gli si era aperto sul volto nascosto: “Non c’è nulla di pazzo nel voler essere, piccola” il suo fiato soffiava gelido sulla pelle bianca di lei. Soggiunse, quasi carezzevole, spostandole una ciocca di capelli lontano dal viso: “Se provi a scappare ancora dalla mia dimora, ti legherò di nuovo. E ti lascerò legata finché i tuoi morbidi polsi non si scorticheranno e la tua dolce voce diverrà rauca per le grida”.
Harriet chiuse gli occhi, rabbrividendo fin nel profondo del suo essere sotto la carezza di quel mostro.
Da qualche parte nei sotterranei risuonò un rumore. Fu smorzato, appena percettibile, ma bastò a riscuotere entrambi: R si ritrasse di scatto dalla sua prigioniera, con un sibilo formidabile che gli prorompeva dai polmoni e una luce guardinga, insana nelle iridi chiarissime che si volsero rapide a fulminare la porta della camera, e a lei parve di emergere da una voragine a seguito di una lunga apnea, di vedere la luce per la prima volta, anche se tutto ancora era impregnato di oscurità e di follia.
Qualcuno aveva parlato. Una voce umana aveva disturbato la quiete mortuaria di quei sotterranei. Le si mozzò il fiato in gola.
Oh mio Dio, forse vengono a prendermi!
R le scoccò un’occhiata velenosa: “Tenta di seguirmi e a pentirsene al posto tuo saranno coloro che ami, ragazza” berciò astioso: “La mia mano arriva ovunque, ricordalo bene. Vado ad occuparmi del nostro gentile visitatore e torno subito da te…oh, e al tuo posto non proverei a scendere dal letto” aggiunse giocosamente, indicando i cocci sparsi: “Finita questa storia non vorrei ripulire anche il tuo, di sangue. Inoltre è ancora troppo prezioso per essere versato”.
Quella minaccia le fece correre un brivido lungo la schiena, eppure il cuore, come protestando contro la paura del suo aguzzino, batteva selvaggiamente, risvegliatosi non appena quella voce era riecheggiata nel buio della sua prigionia. Non rispose nulla e lo seguì con gli occhi mentre raggiungeva la porta, muovendosi sicuro nelle tenebre.
“Riposati, piccola” le mormorò sulla soglia, con quel tono premuroso che la atterriva e la sbalordiva in pari misura.
Poi svanì tra le altre ombre.
 
Angolo autrice: Non ho molto tempo per sproloquiare dato che tra poco devo andare all’università, comunque eccomi nuovamente tornata, ve l’ho detto, sono una piaga nella mia lentezza ma questa storia, anche se va sempre più a catafascio, non la abbandono ; ) chi è il misterioso visitatore? Vi dico subito che non si tratta di Berg, nel prossimo capitolo si chiarirà il mistero…e forse ci sarà un impercettibile avvicinamento tra Harriet e Raphael! Non voglio fare le cose di fretta, lui è molto preso nei suoi piani folli e lei è ovviamente inorridita, sto procedendo con calma…è un disastro o si può salvare? Coomunque, il vostro sostegno mi aiuta un sacco, critiche/commenti sono ben accetti! Intanto un salutone a tutti quanti e un bacio <3  
   
 
  
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