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Autore: Queen of Superficial    23/10/2013    4 recensioni
«La maglia dei Kasabian, le camere da letto comunicanti con il tubo dei pompieri, la terra sotto i nostri piedi che sembrava assecondare i nostri passi ogni volta che ci muovevamo per incontrarci. Vicini, eterni, imbattibili.
Poi, la vita.
La vita spesso ha un modo suo di rivelarti le cose. Non te le dispiega davanti come un elenco, una certezza, non te le sottolinea in rosso tre volte per fartele identificare come importanti. No. Le insinua. Silenziosamente. Inesorabilmente. Piccole biglie che si incollano l'una all'altra per creare un disegno, filtrare una luce. Ti rendono edotto di quale sia la realtà, e ti dicono che non importa se quelle che hai vissuto fossero solo illusioni, purché siano state belle.»

Sequel di "Niente virgolette nel titolo". Perché? Lo sa Dio.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Christopher Wolstenholme, Dominic Howard, Kate Hudson, Matthew Bellamy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PARTE I:
La donna che si svegliava a intuito


Quella specie di disagio che si prova quando si cerca di immaginare la vita quotidiana dei grandi spiriti...
Verso le due del pomeriggio, che cosa poteva mai fare Socrate?”


Jimmy aveva insistito per guidare.
La campagna inglese ci sfilava ai lati, intatta e inviolabile all'avanzamento del progresso. Avevamo valicato un numero imprecisato di strade statali, sentieri sterrati, viali di alberi dai nomi complessi, e finalmente, all'orizzonte davanti a noi, spuntava il principio del Curvone.

Il Curvone era l'infida, famosissima e quasi sempre mortale curva a gomito che conduceva al viale d'ingresso della proprietà Apatow. La magna domus, la chiamavamo noi.
Io e Andrea O’Malley sostavamo inquiete nel sedile posteriore. Di fianco a Jimmy, Gregory Fleur alzava e abbassava ritmicamente il monocolo per guardare ora un giglio a bordo strada, ora una pittoresca pecora che si stagliava solitaria contro l'infinito.
“Jimbo, attento al Curvone.”
Jimmy sbuffò, e un ciuffo di capelli neri svolazzò oltre il margine degli occhiali da vista. Ne aveva le palle piene dell'Inghilterra, del Curvone, del sincero interesse antropologico di Fleur nei confronti della vita dei campi, degli psicodrammi, di dover intervenire a evitare il sistematico tracollo di Matthew Bellamy e soprattutto del cambio della Jeep di Bliss che faceva quel che voleva lui, spesso senza neanche avvisare.
Ad ogni modo, imboccò la curva, in maniera esperta ma precipitosa: Fleur, per evitare di sedersi in braccio a Jimmy, posò istintivamente una mano sul primo posto che trovò per contrastare la forza centripeta.
Jimmy arrossì violentemente, e Gregory rimosse con eleganza la mano dal cavallo dei suoi pantaloni: “Così impari a prendere le curve in modo indecente, James.”
Io e Andrea, premute contro il finestrino dal precedente sbalzo, ci ridemmo vicendevolmente in faccia a bassa voce.
“Ripetimi un'altra volta per quale motivo stiamo andando a Villa Apatow, Eldariael.”
Jimmy mi aveva chiamato Eldariael un'altra sola volta in vita sua, in corrispondenza alla facciata che diedi nello spigolo del muro di casa Sullivan quando gli scivolai dalle mani mentre mi faceva fare un'audace capriola. Avevo sei anni, e lui quindici.
“Angelica.”, risposi, tranquilla, mentre un enorme cancello automatico in ferro battuto si apriva cigolando davanti a noi.

 

I’m gonna lace up my boots, throw on some leather and cruise
down the street that I love, in my fishnet gloves.


Ci aveva aperto la porta un maggiordomo dall'aria vetusta.
Fummo immediatamente condotti al piano superiore, nella stanza da letto. Sul letto, alloggiava una figura dormiente forse morta da diverse ore, con i lunghi capelli castani ai lati del corpo e un'antiquata camicia da notte bianca. Sugli occhi, due fettine di cetriolo.
“Il fatto che tu non abbia mai posseduto un cellulare mi crea non poche difficoltà a trovarti, quando ho bisogno di te.”, dissi, a braccia conserte davanti alla salma.
Jimmy e Fleur si sistemarono in un angolo, occhieggiandosi interdetti; Andrea, invece, si era appoggiata disinvolta a una delle colonne del baldacchino, e fissava ora me, ora il corpo.
“Comunque sia, abbiamo bisogno delle tue vaste conoscenze sulla natura umana. Mercoledì prossimo uscirà un articolo sul Sun in cui Kate Hudson spiegherà la ragione della sua separazione da Matt. La ragione sono io: siamo partiti senza dire nulla a nessuno, per una breve sortita in Nuova Zelanda.”
“Non si fanno le brevi sortite, in Nuova Zelanda, Ria.”, intervenne, inutilmente, Andrea.
“Sì, ma è precisamente quello che abbiamo fatto. Siamo spariti nel nulla per due giorni. Ora, Matt ha perso l'affido del bambino: la decisione definitiva chiaramente spetta al tribunale, ma la madre di Kate è ben ammanigliata con i servizi sociali, quindi se dovesse decidere di negare a Matt la possibilità di vedere suo figlio, la darebbero quasi certamente vinta a lei.”
Silenzio.
“Ma...”, si introdusse timidamente Jimmy, “ Non sarebbe il caso di svegliarla, prima?”
“E' sveglia.”, rispose, prosaica, Ann.
Jimmy guardò Fleur, confuso.
“Come fai a dirlo?”, mi chiese.
“Si sveglia a intuito.”
“Che vuol dire che si sveglia a intuito?”
“Vuol dire”, rispose la salma, sfilandosi tranquilla una fettina di cetriolo dalla palpebra per scoprire un occhio vispo e perfettamente vigilie, “che mi sono svegliata nel preciso istante in cui avete varcato il vialetto di casa mia. Io le sento, queste cose. Non metto mai la sveglia. Prima di andare a letto, penso che devo svegliarmi presto e dunque mi sveglio. E' chiaro ora?”
“Nishe”, la ripresi, “così lo spaventi.”
Nishe si chiamava, in realtà, Angelica Apatow. Figlia unica e univoca della donna ombra più potente del Regno Unito, che noi chiamavamo, semplicemente, “La Venerabile”. Sul caminetto della sua stanza svettava, tra tutte, una foto di Nishe bambina tra sua madre e Sua Maestà la Regina d'Inghilterra.
Cosa facesse di preciso la Venerabile, nessuno lo sapeva. Come del resto nessuno sapeva cosa facesse esattamente Nishe: i dati certi erano che si era laureata in Lettere Moderne e che si dilettava con la grafologia e lo spiritismo.
Si alzò lentamente dal letto, rimuovendo anche l'altra fettina.
“La Venerabile è a Londra, in questo momento. Dovremo rivolgerci a lei, se vogliamo influenzare il tribunale.”
“Sì ma è solo un'eventualità. Magari la cosa si risolve parlando.”
Nishe spostò i suoi profondi ed enigmatici occhi neri su di me.
“Chi ci mandate, a parlare con Kate?”
“Un amico.”
“Lei lo conosce?”
“No.”
“Idea originale. Così originale che potreste addirittura avere qualche possibilità di successo. Mi puzza di Splinter lontano un miglio.”
“Infatti l'idea è sua, diciamo.”
“E diciamolo.”
Inquadrò i due soggetti in fondo alla stanza.
“Fleur”, disse, “caro amico. Che piacere rivederti.”
Fleur le rivolse un sorriso affettuoso.
“E questo”, disse alzandosi, rivolta a me, “dev'essere il famoso...”
“E' lui.”
Lo guardò negli occhi, intensamente, e Jimmy si ritrasse impercettibilmente.
“Ho sentito tanto parlare di te, Reverendo. Io e Ria intratteniamo un fruttuoso carteggio da molti anni.”
“...”
“Nishe, mi serve il contatto di tua madre.”
“Non essere sciocca.”, mi redarguì lei, raggiungendo a balzelloni una cabina armadio. Ne riemerse esattamente due minuti dopo, vestita e con una valigia in mano.
“Sono pronta. Andiamo.”
Ci guardammo, interdetti, e ci decidemmo a seguirla oltre la porta.

 

Vedi, cara, è difficile spiegare;
è difficle capire, se non hai capito già.

 

Il ragionamento contorto che aveva portato alla formulazione delle due parole “Angelica Apatow” era, in realtà, molto semplice.
“Ci serviva discrezione, e lei è la discrezione. Ci serviva ingegno, e lei è l’ingegno.”, sussurrai a Jimmy che mi scortava nel corridoio di casa Apatow, diretti tutti all’uscita con Nishe in testa al gruppo.
“Chi è, esattamente?”, mi chiese lui. Notai in quell’istante che non aveva messo l’eyeliner e che la maglia a maniche lunghe gli copriva tutti i tatuaggi fatti salvi quelli sulle mani e sul collo.
“Perché hai coperto i tatuaggi?”
“Fleur mi mette a disagio.”
“Fleur una volta aveva un piercing. Al sopracciglio.”
Jimmy mi guardò reprimendo una risata.
“Ed ha un tatuaggio.”
“Dove?”
“Non si dice.”
“Cos’è?”
“Non si dice.”
Ci sorridemmo con tenerezza.
“Angelica è una vecchia fan dei Muse. Ci conoscemmo ad un concerto, come con Andrea, solo che lei non è il tipo di persona che sfoggia maglie delle band e fa le file per i parterre. Lei è un po’…”
“Prosaica. Altera. Altolocata. Snob.”, aggiunse Andrea, affiancando Jimmy dall’altra parte.
Il corridoio non era abbastanza largo per tutti e tre; quando iniziarono a parlare tra loro, mi feci un po’ indietro per permettergli di camminare affiancati e arrivai così fino al portico, rimuginando sul da farsi e sulle idee folli che mi erano venute, con una sigaretta spenta in bocca che prontamente accesi, non appena l’aria fredda dell’esterno mi colpì il viso.
“Smettila.”
Sobbalzai, alzando lo sguardo su Andrea.
“Di fare cosa?”, chiesi, sinceramente sorpresa.
“Di darmi contentini. Di farmi camminare accanto a lui, di defilarti quando io e lui ci troviamo a parlare, di svanire all’improvviso ogni volta che abbiamo l’occasione di passare due minuti da soli: niente di tutto questo rimedierà a quello che hai fatto.”
“Che ho fatto?”
“Lo hai abbandonato per andartene in Nuova Zelanda con il tuo ex.”
Abbassai la sigaretta e andai a fuoco.
“Andrea, ascoltami bene: mi dispiace che tu sia combattuta tra il volermi odiare perché ti fa comodo credere che io te l’abbia portato via e la consapevolezza che, in fin dei conti, forse la verità è che non eravate fatti per stare insieme: mi dispiace sinceramente, con tutto il cuore, ma cosa vuoi? Va’ a prendertela con lui, perché, nel caso non te ne fossi accorta, è un uomo ormai, e quest’uomo ha deciso spontaneamente che preferiva stare con me, non l’ho trascinato, non gli ho lanciato incantesimi e non gli ho dato una botta in testa e messo una fede al dito!”
Ci guardammo alcuni secondi, poi Andrea scoppiò a ridere, e io anche.
“Scusa.”, disse.
“No, scusami tu. Sono stata crudele.”
“Un po’.”
“Cos’è questo gallinaio?”, soggiunse Nishe, indossando un paio di occhiali da sole più grandi della sua faccia.
“Abbiamo avuto un breve confronto sui ruoli presenti.”, risposi.
“Mi sembra che abbiate più che altro un problema a gestire i ruoli passati.”, si mise tra noi e puntò il dito ora ad una, ora all’altra, “Qui non si parla più del tuo ex-cugino e del tuo ex-amante. Qui si parla del tuo compagno, e del tuo amico. Mi sono spiegata?”
Annuimmo, interdette.
“Bene. L’unico modo di influenzare il futuro è avere ben chiaro il presente.”, aggiunse, voltandosi di nuovo verso il cortile d’ingresso, “Reverendo? Le chiavi della vettura, se non ti dispiace!”
“Cosa ci devi fare con le chiavi della vettura, Nishe?”
Nishe si coprì la bocca con il manico di un ventaglio alquanto impegnativo per una giovane donna. “Reverendo, non il mio nome di battaglia in pubblico!” – quindi, si voltò di nuovo verso di me, “Carino. Molto alto, ben piazzato. Ha qualche amico che puoi presentarmi, dove l’hai preso?”
Jimmy le rivolse uno sguardo tra l’allibito e il divertito, e io le risposi: “Quando arriviamo a casa te ne presento due.”
“Due? Santa pace. Queste chiavi, allora?”
Feci segno a Jimmy di lasciarla guidare, e ci accomodammo tutti in vettura.
“Bene, dove si va?”, disse, sgommando. Ci aggrappammo tutti alle maniglie, preoccupati.
“Ehm, Morgue Place.”
“Oh! Direttamente nel covo delle streghe! Meraviglioso. Avverti Juniper, per arrivare ci vogliono circa 120 minuti: ce ne metterò 40.”
Ebbi appena il tempo di afferrare la mano di Fleur, poi la jeep sparì in un cirrocumulo di polvere, con noi all’interno.

 

The water is warm, but it’s sending me shivers.
A baby is born, crying out for attention.
Memories fade, like through a fogged mirror;
decisions to decisions are made and not bought,
but I thought it won’t hurt a lot.
I guess not.

 

Nel viaggio in macchina, mi addormentai sulla spalla di Jimmy come una bambina. Sognai che Andrea era in cima a un promontorio, circondata da una bassa nebbia bianca, e parlava e parlava senza che suono alcuno uscisse dalla sua bocca: io mi sforzavo di leggerle le labbra, ma riuscivo a captare una parola su tre. La parola in questione era: “stronza”. Allora mi risolsi a cercare di leggere almeno i suoi pensieri, e, con mia grande sorpresa, quelli li sentivo chiaramente. Era un mio ricordo, visto dai miei occhi: una sera fresca di Huntington Beach datata forse diecimila anni prima. Zia Barbara che si affaccia alla porta finestra. “Jim, puoi venire un attimo?”
Jimmy che si stacca da me: nel momento in cui si allontana, sento la presa del suo braccio intorno alle spalle che molla. Lui non può avere più di ventitré anni, non ha ancora le manette tatuate intorno al collo. La sua mano dalle unghie smaltate di nero mi fa segno di aspettarlo un secondo. E’ magro come un chiodo, come non lo è stato mai più, praticamente rachitico. Devo ricordarmi di dirglielo, pensai, sognando. Zia Barbara mi getta uno sguardo materno a cui rispondo con un sorriso, prima di chinarmi sulla ringhiera del terrazzo e tornare ad appoggiare il mento sulle mani giunte. Sento i miei capelli lunghi che mi corrono giù per le braccia a seguito di quel movimento, e il sole sparisce nell’oceano nell’esatto istante in cui io gli rivolgo gli occhi. Dopo un po’, un rumore di risate e ghiaia smossa mi fa abbassare lo sguardo: “Riiiiiiiiiiiiiayyyyyy”, urla qualcuno. Scoppio a ridere. “Breeeeyyyyyaaaaan” rispondo, calcando un accento che nessuno dei due ha. Synyster mi sorride, in bermuda e scarpe da ginnastica. Suo padre lo segue a stretto raggio, con una cassa di birra tra le mani, e dice qualcosa che fa ridere tutti. C’è chiaramente gente nel patio: la voce di mia cugina Katie annuncia un barbecue. Una ragazzina dai capelli rossi di poco più grande di me sfreccia di corsa di fianco a Brian Haner Sr., facendogli quasi perdere l’equilibrio. “Scusa, zio Brian!”, urla, mentre le sue gambe magre nei pantaloncini corti saltano lo steccato dirette da qualche parte, forse al Deli giù per la strada. “Dove vai? Ehy! Scheggia! Dove vai?”, urla Synyster. Splinter, “scheggia”, si volta e sorride, con i capelli nel vento. Ma è solo un secondo. Di nuovo, la mano smaltata mi afferra la pancia e Jimmy mi stringe in un abbraccio.
“Che succede?”, gli chiedo, alzando gli occhi.
“Niente, scarafaggio.”, risponde lui, ma riesco chiaramente a vedere qualcosa nel suo sguardo che prima non c’era: un misto di preoccupazione e sorpresa. Impensieriti, guardiamo giù. Synyster alza una mano, e Jimmy gli risponde con una risata e una parola che a casa, in Italia, non sentivo mai. “Jimmy, hai detto una parolaccia!”: sento la mia voce di bambina che lo redarguisce, severa. Jimmy abbassa gli occhi su di me e mi sorride, divertito, finto colpevole. “Hai ragione. Scusa, tesoro.”
Nishe prese una buca e io mi svegliai di soprassalto, spaventata, aggrappandomi alla gamba di Jimmy, nel presente, come se dovessi riavermi da un salto spazio-temporale.
“Tutto bene?”, mi chiese lui, scrutandomi.
Sorrisi. “Sì. Sì, sognavo Huntington Beach.”
Ci guardammo negli occhi, con dolcezza. Lui distolse lo sguardo. Io aggrottai le sopracciglia, rivolgendomi al finestrino: la campagna aveva appena lasciato il posto alla periferia di Londra. Come avevo fatto a non capirlo? Jimmy era in assoluto la persona che conoscevo meglio sulla Terra: come mi era potuto sfuggire un mastodontico dettaglio di questa portata?
Mi si dipinse addosso un sorriso con una punta di amaro alla fine.
“Ann”, dissi, “Sei mai stata ad Huntington Beach?”
“No, veramente no.”, rispose Andrea.
“Dovresti venirci a trovare, una volta.”
“Lo farò sicuramente.”
Jimmy, tra di noi, si irrigidì leggermente.

 

PARTE II:
Prego?

Oh, these times are hard
and they are making us crazy
don’t give up on me, baby.

 

“Buonasera, bentornati, siamo veramente combinati a merda!”
Lasciai andare la borsa sul pavimento. M. Shadows, senza lenti specchiate, mi apriva le braccia nel mio salotto: coprii la breve distanza che ci separava con tutta la calma che la situazione mi consentiva, e lo strinsi forte a me.
“Jimmy mi nasconde qualcosa.”, gli sussurrai in un orecchio mentre lo abbracciavo, senza punto interrogativo alla fine.
L’eco di una risata appena accennata, di un sorriso soffiato, mi raggiunse all’altro orecchio: quando ci staccammo, stava ancora sorridendo.
“Siamo una famiglia, Ria. Siamo qui per risolvere tutto quello che c’è da risolvere, insieme.”
Occhieggiai mia sorella acciambellata in poltrona.
“Ciao, tesoruccio.”, le dissi.
“A tua sorella.”, mi rispose, affettuosa.
“Stai avendo problemi di leadership con Splinter, Matt?”
Shadows sorrise. “Certo che no, ha messo in chiaro appena ho varcato la porta che qui è lei il capo.”
“Qui e altrove, Matthew Charles.”, rettificò lei, girando il vino nel calice con una smorfia saggia, quindi alzò gli occhi su Jimmy mentre tutti i convenuti stavano prendendo posto sui divani per il briefing.
“Cugino, vieni qui sulla poltrona a fare il tuo dovere di cuscino.”
“Una rima siciliana ardita, Vivienne.”, si complimentò Fleur, assestandosi di fianco a Shadows. Splinter gli rivolse uno sguardo definitivo, e mi fu chiaro che aveva deciso di trarre Jimmy dall’impaccio di dover stare tra me e Andrea O’Malley. Jimmy si sedette con lei in braccio, e datosi che le rare volte che li avevo visti in questo modo risalivano a circa dieci anni prima faticai a reprimere una risata, che trovò ciononostante eco in quella acuta e bizzarra di Synyster, alle mie spalle.
“Angelica Nishe Apatow, tutti. Tutti, Angelica Nishe Apatow.”, fece gli onori di casa Splinter, prima di prendere la parola per esporre a tutti il suo piano d’azione circa lo scandaloso articolo che doveva essere stracciato prima di poter raggiungere la stampa.
Non mi divertiva molto l’idea di dover passare due ore seduta su un divano, dopo il rocambolesco viaggio che ci aveva riportati indietro nella civiltà dalla vetusta e stravagante casa degli Apatow: mi alzai con un gesto aggraziato, posando brevemente una mano sulla coscia di Synyster per annunciare la mia dipartita, e questi incrociò il mio sguardo, pensieroso. Dopodiché, entrambi incrociammo quello di Bliss, arroccata sul bracciolo del divano adiacente a braccia conserte, cupa come un’erinni. Sbuffai sonoramente, e salpai verso la cucina ignorando il vociare sommesso che cercava di informarsi sulla mia destinazione, alle mie spalle.
In cucina, cercai un tagliere, del sedano, un coltello e congedai Chichi per il resto della serata con il suo mazzo di chiavi e un piccolo extra: non se lo fece ripetere due volte.
“Chiquitita, lo sabes dov’è il pomodoro, sì?”
Aveva capito che la mia intenzione era fare un tentativo di Bloody Mary. Sorrisi al suo intuito impagabile, ed annuii.
Una sagoma ben nota mi fece ombra mettendosi tra la porta e la lampada che stavo usando, senza che veramente servisse, per farmi luce sui gambi di sedano che stavo tagliando.
“Ho sempre creduto che l’amore fosse fondato sulla telepatia, in fondo.”, dissi, senza voltarmi.
“Che hai?”, mi chiese Jimmy, senza muoversi.
“Dubbi.”, risposi, sforzandomi di non suonare troppo secca.
“Su di me?”
Posai sonoramente il coltello sul piano di marmo, e mi girai verso di lui.
“No”, dissi, “No, non su di te. Su mio cugino.”
Sorrise, saggio.
“Credi che le due cose debbano per forza essere scisse? Hai bisogno di chiamarmi un qualche modo, così, non so, per sapere che ruolo ho nella tua vita?”
Gli misi un pezzettino di sedano tra le labbra, e lo osservai masticarlo un po’ schifato, senza riuscire a reprimere un sorriso.
“Io che ruolo ho nella tua?”, chiesi, a bruciapelo.
Mi guardò serio. “Tu sei l’amore della mia.”, disse, semplicemente.
“Oh, ragazzi, così me la rendi impossibile. Maledetto Reverendo!”
Sorrise. “Mi dici cosa c’è che non va?”
“Non va che quando ti ho chiesto, in camera da letto, se avresti preferito rimanere come prima, con me, tu non mi hai risposto. E ora so perché.”
Lo scrutai, alla ricerca di una reazione. I suoi occhi azzurri, buoni e antichi come sempre, la curva della sua mascella, le sue labbra e il piercing che le illuminava, sotto.
“Sai quella canzone di merda che ti ha dedicato il tuo ex coglione?”
Ripresi ad affettare il sedano.
“Se dici ‘il tuo ex coglione’ mi fai pensare che il coglione attuale saresti tu.”
“E’ evidente. Attuale ed ultimo, per quanto mi riguarda.”, rispose, divertito.
Non esisteva persona al mondo in cui io fossi stata in grado di ridere come ridevo con lui.
“Comunque”, continuò, “Neutron Star Collision fa veramente cagare.”
“A me piace.”
“Sì, ma non è questo il punto. E’ la parte sulle bugie. Io non ho mai sottovalutato la tua intelligenza, Ria. A volte, posso aver pensato che poteva accadere che tu vedessi solo quel che volevi vedere, e posso aver pensato che non c’era motivo, se quel che vedevi ti faceva stare bene, di togliertelo.”
“Da quanto lo sapevi?”
Mi guardò, serio e cauto.
“Da un po’.”
“Se me lo avessi detto prima è possibile che non ci sarebbe stato alcun Matthew Bellamy, lo sai?”
“Stavo per dirtelo.”
“Quando?”
“Quando mi hai chiamato per dirmi che ti eri innamorata, per la prima volta, davvero. Che eri felice, che vedevi le stelle, che sentivi le campane, che lui era quello giusto.”
Tacqui, mentre le lacrime combattevano per uscire. E’ possibile che il tuo mondo ti crolli in testa, calcinaccio dopo calcinaccio, nel momento in cui ti senti più strutturata, più sicura, più tranquilla, più adulta, più in grado di gestire qualunque cosa il destino ti metta sulla strada? Possibile che questa Ria piangesse tanto, una maledetta continuazione, e intorno le cose perseveravano ad accadere più intensamente di quanto avessero mai fatto? Possibile che quegli anni fragili, passati a sbandare senza essere certi né di dove si era né di dove si stava andando, fossero, in ultima analisi, gli anni in cui si pensava e si agiva più lucidamente?
“Loro lo sapevano?”
“Loro non c’entrano, è stata un’idea mia di non dirtelo.”
“Non ti ho chiesto se c’entrano, ti ho chiesto se lo sapevano.”
Mi guardò come si guarda una bomba che sta per esplodere quando non si è artificieri: cioè, con preoccupazione. La preoccupazione cruda e semplice, quella prima che arrivi il panico.
“Sì, lo sapevano.”
Inghiottii una manciata di lacrime.
“Splinter lo sapeva?”, dissi, a mezza voce.
Non rispose.
“Mia s”, il pianto mi ruppe la voce, “Mia sorella lo sapeva?”
Mi prese una mano, con cautela, e io mi nascosi tra le sue braccia. Sentii il suo petto rilassarsi mentre mi stringeva forte.
“A quale parte di te sono aggrappata, adesso?”, dissi, “Alla persona che mi ha sempre amata, difesa, protetta, consigliata, ascoltata e consolata, quello che mi ha spinto sull’altalena, che mi ha letto i libri di Lemony Snicket, che mi ha spaventato i fidanzati e insegnato a guidare, che mi ha aperto la prima birra, che ha risposto al telefono ad ogni ora del giorno e della notte, che mi ha fatta ridere ogni volta che volevo sprofondare, che mi ha accontentata sempre anche quando non me lo meritavo, che mi ha tenuta stretta per farmi addormentare e che è rimasto sveglio con me quando non ci riusciva, che mi ha insegnato che ‘casa’ è dove le porte non sono mai chiuse, che mi ha regalato le rose, disegnato i tatuaggi, insegnato a rialzarmi, accarezzato la testa stretta tra le sue braccia ogni volta che ho avuto paura, che ha sopportato tutti i miei lati scomodi, che mi ha insegnato che credere è il contrario di morire e che va bene essere un po’ matti, che la sera della mia laurea mi ha chiesto di sposarlo senza chiedermelo, che ha fatto l’amore con me, che qualche volta ha immaginato dei bambini che avessero la sua inventiva e la mia fantasia?”
Respirai forte. “Oppure sono aggrappata alla persona che mi ha mentito, ingannato e nascosto l’unica cosa che avrebbe di certo dato alla mia vita tutto un altro ritmo e colore? Perché io non conosco un James che possa mentirmi. Non conosco un James che possa nascondermi qualcosa, o giudicare al posto mio quanto una cosa possa essere importante e quando debba essere detta. Non conosco un James che non abbia cieca fiducia in Ria che, alla fine, magari dopo aver anche pestato qualche merda, sa sempre cosa fare.”
Lo lasciai andare, e mi sforzai di ignorare l’espressione ferita che gli aveva rapito i lineamenti.
“Tutti questi anni.”, dissi, combattendo ancora con le lacrime che già scorrevano sulle mie guance, “Tutti questi interminabili, folli anni, io sono rimasta in piedi solo per un motivo: perché avevo te. Perché c’eri tu. Perché mi bastava chiamarti, parlarti un secondo, e dove neanche Bliss ce la faceva, tu riuscivi a riportarmi alla mente la Ria che tu amavi. La Ria che io volevo essere, che mi sarei battuta per essere: quella che volevi tu, che meritavi tu. Ma quella Ria non c’è: non c’è mai stata. Perché, se sei capace di mentire a me, sei capace di inventarti una Ria che non esiste. Non una Ria che vedevi, ma una che volevi vedere.”
Mi avvicinai a lui e gli poggiai un bacio umido e carico di sentimenti sulle labbra.
“Io non ti ho amato come un cugino, James. Non ti ho amato come un fratello, e non ti ho amato come un fidanzato. Io ti ho amato e basta. Per tutta la dannata vita. Ho rimesso in discussione tutto, almeno una volta, perfino i miei sentimenti per Splinter, o per Bliss, o per mio padre: ma i miei sentimenti per te, mai. Neanche una volta, mai. Mai neanche per sbaglio ho provato a immaginare una vita senza di te.”
Jimmy non disse niente, perché era un uomo intelligente e sapeva meglio di chiunque altro che in certi casi non c’è proprio niente da dire. Guardai i pezzettini di sedano, la lampada, il tagliere, la finestra, i pezzi della mia anima che se ne andavano insieme alle rondini.
“Dimmi cosa vuoi che io ti dica, e lo farò.”
Mi voltai verso di lui, inespressiva.
“Dimmi che mi ami.”
“Io ti amo, Ria. Non posso vivere senza di te. Non voglio vivere senza di te.”
Mentre lo diceva, tutto d’un fiato come una preghiera, gli si ruppe la voce. Gli si ruppe sulla ‘a’ di ‘ti amo’, e io non avevo mai sentito quella voce incrinarsi prima di allora, quale che fosse il motivo per cui, forse, avrebbe dovuto cedere.
“Posso abbracciarti?”
“Non hai mai chiesto il permesso di abbracciarmi e non devi certo iniziare adesso.”, gli risposi d’un fiato, infilandomi io di nuovo tra le sue braccia.
Le mie lacrime gli bagnarono la maglia.
“Andrà tutto bene. Te lo prometto.”
“Non puoi saperlo, JJ. Non siamo infallibili.”
JJ era il mio modo di chiamarlo ‘amore’, e lui lo sapeva, infatti sorrise, impercettibilmente, sui miei capelli.

Qualcun altro era apparso sulla soglia della cucina, e se ne stava silenzioso e vigile, indeciso sul da farsi: le voci in salotto erano cessate chissà da quanto tempo. Ria sapeva.

È la vita che va, è la vita che va, è una piccola morte che viene,
esercizi di stile dentro le vene.

“Se pensi che dovremmo stare lontani per un po’, io capirei.”
Accolsi la sua osservazione in silenzio, senza dare cenno di voler uscire dal caldo porto sicuro che erano sempre state, per me, le sue braccia.
“Anche quando ti trovavi a 8.800 km da me a pestare una batteria e rischiare malattie veneree in qualche sperduta arena dei continenti, non siamo stati lontani un secondo, e non ho senz’altro intenzione di inaugurare adesso questa abitudine. Vedi che cosa ci fotte, James?”, dissi, staccandomi da lui, “Il pensiero che noi dobbiamo per forza agire come gli altri. Ragionare come gli altri ragionerebbero in determinati casi della vita. Ma non esiste un libro delle regole, esistono delle esigenze, e le mie non sono mai state le esigenze degli altri: ecco perché non eri sorpreso quando mi sei venuto a riprendere in Nuova Zelanda, ecco perché i miei professori non hanno battuto ciglio quando ho depositato una folle tesi sperimentale sulle virgolette. Ecco perché tutti, qui dentro, ogni tanto venite da Ria: per avere un punto di vista diverso su qualcosa, perché il diverso, lo stravagante, l’inaspettato è quasi sempre una chiave di volta, anzi, la chiave di volta per risolvere un problema. Io non voglio starti lontana, non ho bisogno che tu infili la porta per sapere se sentirò la tua mancanza dentro il mio letto che poi è diventato il nostro; non ho bisogno che tu sparisca, portandoti via i tuoi amici che sono comunque anche i miei e, soprattutto, non ho bisogno che in un momento della mia vita come questo tu mi porti via Matt Shadows.”, dissi.
“Perdonami.”, rispose, sorridendo.
“Perdònati. Poi, ti perdono io.”
Mi guardò, ironico, perché gli avevo fregato la battuta.
“Tutta la Nuova Zelanda è paese.”, ribattei, ieratica. Poi mi voltai verso la porta, dove, notai, si erano assiepati al gran completo tutti quanti.
“Cosa volete? Sto facendo i bloody Mary. Andate via. Sciò.”
Sollevati, sciamarono via un po’ alla volta. Solo Bliss, sorridente, rimase.
“Perché non gli hai chiesto se lo sapessi io?”
Aggrottai le sopracciglia.
“Ma avete seguito tutta la conversazione?”
“Perché non gli hai chiesto se lo sapessi io?”, ripetè.
“Perché se l’avessi saputo, me l’avresti detto.”
Mi sorrise, e io sorrisi a lei.
“Scusami, per Synyster.”
“Esci!”, le urlai, divertita, e andai a chiuderle la porta a chiave alle spalle mentre guizzava via. Mi voltai verso Jimmy.
“Come va?”, mi chiese, rigirandosi tra le mani un pezzetto di sedano.
“Uno schifo, grazie.”, risposi, riappropriandomi del coltello e del tagliere.
“Non devi aiutare per forza Bellamy, sai?”
Alzai gli occhi al cielo.
“La smetti di fare il geloso?”
“Non sto facendo il geloso.”
“Tu fai sempre il geloso, Jimmy. Lo hai sempre fatto.”
Rise. “Hai ragione, ma non in questo caso. In questo caso, l’unica cosa che mi interessa, è che tu non ti faccia carico di pesi che non riesci a sopportare.”
Poggiai di nuovo il coltello.
“Sai cosa facciamo?”, dissi.
“No, cosa facciamo?”
“Facciamo l’amore in cucina.”
Si strozzò con il sedano, e mi rivolse uno sguardo sbalordito.
“Ma sono tutti in salotto!”
“E che sentano. Sentono le conversazioni, si sentano anche il resto.”
Scoppiò a ridere.
“Tu sei fuori di testa.”
“Ho imparato dal migliore.”
Si chinò a baciarmi, dolce, curioso e protettivo.
“E’ vero.”, disse, spingendomi lentamente verso il tavolo.

 

You’re in my mind all of the time,
I know that’s not enough:
but if the sky can crack,
there must be some way back to love,
and only love.

 

Uscii con un vassoio in mano, aprendo la porta con un piede: Jimmy si infilò la maglia e mi seguì a ruota, sorridendo.
“Levatemi una curiosità, come si fanno i Bloody Mary? Perché a giudicare dai rumori che si sentivano dalla cucina ho notato che il procedimento che segui tu, Ria, ha una o due sostanziali differenze da quello che solitamente seguo io.”, ci accolse Synyster, con un sorriso sornione.
“Uso un ingrediente particolare.”, risposi, con un occhiolino.
Fleur prese il bicchiere in mano con aria rassegnata. “… E speriamo che Jimmy non c’entri nulla in termini organici, con questo famigerato ingrediente.”, disse, prima di dare un sorso.
Jimmy piombò a sedere con una risata accanto a Bliss.
“Allora”, soggiunse la mia migliore amica, “Le dici che sapevi già da tempo di non essere suo cugino, e lei te la dà. Qual è il segreto, Jimmy? Condividilo con noi poveri mortali.”
“Ma non meniamo il can per l’aia.”, disse bruscamente Nishe, manifestando la sua presenza.
“Chi, nel ventunesimo secolo, dice ‘non meniamo il can per l’aia’?”, mi sussurò Bliss, facendomi soffocare con il drink.
“Siamo addivenuti ad una conclusione: domani mattina Shadows busserà alla porta della signora Bellamy, e…”
“E le dirà ‘Signora, da un anno si vede con me. Ria era un diversivo.’”, concluse Bliss.
Scoppiai di nuovo a ridere.
“Juniper.”, la redarguì Nishe.
“Secondo me è un’idea del cazzo, l’ho già detto: non lo ascolterà.”
“Ciò non toglie che ci proveremo!”, disse Splinter, sputacchiando signorilmente filamenti di sedano a un lato della poltrona.
“E se falliamo?”, chiesi. Un’atmosfera di seria tensione si posò tra noi.
“E se falliamo”, mi rispose mia sorella, “dovremo passare al piano B.”
“Abbiamo un piano B?”, domandò Jimmy.
“Sì, ma riguarda noi ragazze. E la madre di Angelica.”
“Riguarda voi ragazze quindi noi siamo esclusi? Vi dobbiamo aspettare sul divano bevendo birra e guardando programmi televisivi trash?”, domandò Synyster. Lo ignorammo.
“Splinter, mi fai paura quando usi quel tono perentorio.”, sussurrò Ann.
“Cioè ventiquattro ore al giorno.”, aggiunse Bliss.
Il carattere fondamentale di qualunque discussione (leggasi: monologo) affrontato da mia sorella, è che essa è solitamente abituata a discutere (leggasi: monologare) con una scelta platea di assistenti maltrattati e vessati da chiunque sia anche solo 0.24 cm più in alto di loro nella scala dirigenziale: dunque, dopo un po’ gli argomenti, ribaditi quattro volte perché Splinter è allenata a spiegare le cose a una pletora di minus habens che di solito delle sue dettagliate spiegazioni se ne fanno una ricca pippa e sbagliano tutto comunque, acquisiscono la ridondanza della Divina Commedia verso il dodicesimo canto del Purgatorio, quando inizi ad avere la netta sensazione che Dante, terminate le idee, abbia iniziato a collocare parole a casaccio a rima incatenata per riempire le restanti pagine. E Beatrice non gliel’aveva comunque data.
Shadows sorrideva fisso come la Gioconda mentre gli veniva illustrata per la sesta volta la cadenza della conversazione che era necessario tenere con la signora Hudson affinchè ella acconsentisse ad appendere l’ascia di guerra al chiodo: un’impercettibile movimento del suddetto, conosciuto in famiglia come “allarme scazzo”, mi costrinse a intervenire.
“Splinter, in realtà noi ci stiamo mandando Matt Shadows perché qualunque donna, appena lo vede, subisce nell’ordine tre cali: calo dell’autostima, calo della pressione, calo delle mutande. Che c’è da spiegare?”
Mia sorella mi rivolse un’occhiata al fulmicotone socchiudendo la palpebra destra.
“Ria, visto che sto parlando con Matt, sei dispensata dall’assistere, se vuoi.”
“Noi lo stesso?”, domandò prontamente Bliss, già per tre quarti in piedi.
“Sì, voi lo stesso.”, mia sorella, gelida.
“Sia lodato il Padreterno.”

 

PARTE III:
La Mini dei fantasmi del passato

Mi fiondai in terrazzo a fumare una sigaretta: Angelica è sensibile al fumo passivo, e per dovere di ospitalità ci ritroviamo in un’astinenza forzata che non aiuta, specie quando cerchi di ragionare febbrilmente per salvare il posteriore di Matthew Bellamy.
A proposito di Matthew Bellamy.
“Dov’è Matt?”, domandai all’aria.
“Ancora sul divano, ha lo svenimento in loading 98%: a breve sentiremo il tonfo a terra.”, rispose l’aria, nella persona di Bliss.
“L’altro.”, rettificai asciutta.
Un colpetto solo parzialmente accidentale alla spalla, e mi accorsi di Jimmy di fianco a me.
“Non ti avevo visto.”
“E’ difficile non vedermi, ci vuole buona volontà.”
“Devo telefonargli, se non ti dispiace.”
Jimmy sbuffò e sorrise, rivolgendomi uno sguardo indulgente che mi fece ribollire il sangue in un attacco di nervosismo: “Non so se sono più retoriche le tue domande o le mie risposte, scarafaggio.”
Ogni donna ha una parola magica, nella vita, che la riporta immediatamente alla ragione da qualunque baratro di irritazione: solitamente, “shopping”. Per me, invece, “scarafaggio”.
Composi un numero col criterio dell’enalotto, per scoprire se ancora lo ricordavo a memoria.
“Pronto.”
“Tu non dici mai pronto.”
“Tu non dici mai ‘tu non dici mai pronto’.”
Matthew Bellamy, senza dubbio.
“Dove sei?”, io, preoccupata.
“A casa di Dominic.”, lui, indecifrabile.
“Perché non vieni qui?”, io, confortante.
“Non siete già 140? Sono arrivati i Californiani?”, lui, pratico.
“Sì, sono tutti qui.”, io, informativa.
“Tutti chi?”, lui, fiscale.
“Tutti. Bliss, Fleur, Shadows, Synyster, Andrea O’Malley, Nishe, Splinter.”, io, enumerativa.
“Jimmy è lì?”, lui, indagatore.
“Chiaramente.”, io, sospettosa.
“Mm…”, lui, monosillabico.
“…”, io, afona.
“Perché non vieni qui?”, lui, coraggioso.
“…”, io, come sopra.
“O vengo io lì… insomma, ti vengo a prendere, ci beviamo una cosa. Ho bisogno… Credo di aver bisogno di te. Della tua testa.”, lui, dolce.
“Ti richiamo.”, io, inquieta.
Bussare con due dita sulla spalla di qualcuno lo mette sempre in allarme: Jimmy, infatti, si girò carico di sottintesi. Fece segno a Synyster di attendere un attimo, e mi scortò verso l’angolo più lontano del terrazzo.
“Matt vuole vedermi.”, buttai lì, vaga.
“Ok, cosa fa, viene qui?”, chiese lui, che come al solito stava già avanti due o tre passaggi e sapeva benissimo dove io volessi andare a parare.
“Vuole vedermi da sola.”, rettificai con cautela.
Jimmy sospirò, e guardò un punto imprecisato al di sopra della mia testa.
“Non faccio i salti di gioia, ma grazie per avermelo detto.”, disse infine, riportando gli occhi addosso a me.
“Non te l’ho detto, Jimmy, te l’ho chiesto.”, chiarii immediatamente io, prima che qualcun altro potesse darmi dell’incosciente, dell’insensibile, dell’egoista o qualunque altro epiteto fossero riusciti ad affibbiarmi in meno di una settimana.
Sospirò di nuovo.
“Basta che poi non devo venirti a prendere, non so, in Mongolia, va bene.”
Gli sorrisi con dolcezza, e lo informai che non mi piaceva la Mongolia, poi abbassai gli occhi e li rialzai oltre la sua spalla: la mano di Synyster, proverbiale, era già sul suo braccio.
Jimmy stava per allontanarsi di nuovo insieme all’amico, quando disse: “Piccola?”
“JJ.”, io, col sorriso ancora in faccia.
“Se hai bisogno chiama.”
“Ma certo.”
Finii la sigaretta in solitudine tautologica, prima di comporre di nuovo il numero del Problema e accingermi a comunicargli la lieta nuova: “A che ora passi?”
“Mi è appena arrivato un sms del tuo fidanzato dal testo ‘Ti spezzo le gambe’, ne deduco che non è troppo contento.”, rispose lui, quasi divertito.
“Hai cambiato idea?”, chiesi.
“Non ho paura di lui, Ria.”, soffiò Matt sulla difensiva.
Avrei voluto rispondergli che non lo riconoscevo più, ma mi limitai a un mugolio vago.
“A che ora?”, ripetei.
“Tra un’ora. Ce la fai, tra un’ora?”
Ce l’avrei fatta. Un’altra sigaretta, forse.
“Posso farti una domanda scema?”
Mi voltai meccanicamente verso Bliss, cercando di comunicare telepaticamente. Spostammo gli occhi sulla Londra scura che si faceva un vanto di dispiegarsi dal nostro terrazzo in poi: qualche nuvola rossa ancora fluttuava in cielo, rallegrata di 
quando in quando da un pipistrello rincoglionito.

“Perché stai con James e non con Bellamy?”
“Per lo stesso motivo per cui Beckham non gioca nel Celtic. Il Celtic non l’ha mai chiamato.”
“Forse pensavano di non poterselo permettere.”
“O forse hanno fatto in modo di non poterselo permettere perseverando in atteggiamenti del cazzo che, alle lunghe, logorerebbero anche la pazienza del Dalai Lama.”
Bliss tornò indietro alla vecchia Bliss, quella con cui ero cresciuta e che era stata in grado di farmi da mentore avvalendosi arrogante di quell’anno di differenza tra noi che, a volte, costituiva davvero un divario di esperienza che lei si sforzava di colmare a parole per facilitarmi il compito di vivere.
“Lo so che sei ferita, Ria.”, mi informò, a bruciapelo, girandosi la sigaretta tra le mani e osservandone la brace, come se essa contenesse qualche risposta che non era in grado di tradurre.
“Lo siamo tutti.”, ribattei generica, ma lei non se la sarebbe bevuta nemmeno in cent’anni. Neanche se l’avessi colpita in testa con il vaso di gerbere che tanto continuavano ad appassire, qualunque cosa facessimo per tenerle in vita.
Cambiò registro, ma non argomento. Intelligentemente.
“Quando eri piccola avevi una cotta per Jimmy, di questo sono certa.”
Sbuffai una lieve risata nell’aria.
“Mi stai chiedendo perché sto con Jimmy?”
“Non te lo stai chiedendo anche tu?”
“Ah, sì. Me lo sono chiesta in cucina, e mi sono data una risposta soddisfacente.”
“Insegnamela, allora.”
Raccolsi le idee, e poi le sparai a caso.
“E’ l’unica persona a cui non fa né caldo né freddo il fatto che io bestemmi più di lui. Che mi ha vista arrabbiata per tutti i motivi del mondo, in ogni condizione psicologica e fisica, che mi ha sentita urlare per le questioni più immotivate e infantili, che ha subito infinite litanie di capricci da parte mia: non ne ha mai fatto parola a nessuno. Mi ha sopportato, paziente. Lui che non è paziente, anzi: è un impulsivo, uno che sparisce all’improvviso per settimane senza che nessuno sappia dove va e cosa fa, un masochista nel senso più sottile del termine, privo di qualunque senso della misura, che non si cura di sé stesso perché è occupato a curarsi degli altri, sentimentalmente autolesionista, emotivamente instabile e completamente sfasato. Peraltro, è matto. Lui dice che io sono matta, ma il realtà il matto è lui e lo sa. Tutte le cose che ti ho elencato, i difetti di Jimmy, non una volta, neanche per sbaglio, hanno colpito me. Ogni qualità scomoda radicata così profondamente in lui da renderlo incauto, a volte, anche verso il suo amatissimo migliore amico, non mi ha mai sfiorata di striscio. Ha fatto lo sforzo immane di ritagliarmi uno spazio in lui in cui tutto sia pulito e sano. Mai una volta ha perso le staffe con me, e ti garantisco che gliene ho dato motivo. Il massimo che abbia fatto è stato irrigidirsi al mio tocco e scostarmi, l’altro giorno, in salotto. Quindi.”
Bliss si prese un attimo per soppesare quanto le avevo detto.
“Quindi mi stai dicendo che tu lo ami perché lui ti ama.”
“No, ti sto dicendo che è il mio eroe da una vita. Tu mi hai chiesto perché sto con lui, non cosa provo per lui.”
“Non è la stessa cosa?”
“No.”
“Cosa provi per lui?”
“Sono innamorata di lui. Mi piace il modo in cui mi sta addosso, mi piace che sia geloso, mi piace vederlo quando mi sveglio e mi piace sotto le mani. Mi piace che mi chiami ‘piccola’, mi piace che mi svegli baciandomi il collo, che non mi chieda dove sono andata, che non mi dica dove vada, che lasci le maglie in giro perché possa metterle io e che venga ad abbracciarmi un po’ quando lavoro ai testi e si metta a leggere qualcosa di quello che sto scrivendo. Sono abituata all’amore come a una cosa narcisista, come era con Matt: io ero adorante, e lui adorava che io lo adorassi. Ma mai una volta si è soffermato a chiedermi quale fosse il mio film preferito, o cosa veramente amassi fare nella vita. Però vedeva un sacco di dettagli.”
“Hai mai notato che noi tendiamo a parlare un sacco? Ma, veramente un sacco?”
Risi.

 

Wear your heart on your cheek,
but never on your sleeve
unless you wanna taste defeat.

 

Avevo sulle labbra ancora un retrogusto di dopobarba e avvertimenti quando mi presentai al portone di casa mia, per trovare Matt appoggiato a una Mini che fumava una sigaretta guardando nella mia direzione.
Mi sforzai di sorridere, ma tutto quello che mi veniva in mente era un mucchio di cocci rotti con in cima una margherita: Fleur, il cui dopobarba orientale ancora sostava sulla mia guancia, mi aveva perentoriamente consigliato (ordinato) di provare a considerare la mia relazione con Matt senza la variabile dell’amore che c’era stato, se volevo essergli di qualche aiuto.
Amore, amore, amore. Sui letti, sui divani, sui tetti, tra le lenzuola disfatte di un albergo del Sud America, una volta, una rosa.
“Ehi”, mi uscì di bocca troppo dolce.
“Ehi”, mi rispose lui, indugiando gli occhi dentro i miei.
Il silenzio carico di immagini che appartiene a chi un tempo si è amato seriamente non mi aveva mai entusiasmato, per cui entrai in macchina afferrata da una leggera inquietudine: mi seguì immediatamente, faticando a sfilarsi il giubbotto. Poi mi guardò: “Cos’è successo, bambina?”
Inspirai un po’ d’aria fredda stringendomi nel cardigan e presi una sigaretta dal pacchetto sul cruscotto: Matt allungò una mano per accendermela, e glielo lasciai fare solo per soffermarmi un attimo ancora sulle sue dita.
“Jimmy mi ha detto che sapeva da tempo di non essere mio cugino.”
Avremmo dovuto essere lì per parlare dei suoi, di problemi.
Matt non rispose, limitandosi a esalare un respiro prolungato appoggiandosi le mani sulle gambe.
“Non me l’ha esattamente detto, in realtà. Sarebbe più corretto dire che non l’ha negato: ci sono arrivata da sola questo pomeriggio, non so dirti perché il mio eccelso ragionamento abbia scelto proprio oggi per manifestarsi in tutta la sua inattaccabile sensatezza.”
Tirai a lungo dalla Marlboro leggera.
“Così gliel’ho detto mentre affettavo il sedano, in cucina. Un paio d’ore fa al più, penso. Gli ho anche detto parole molto dure, delle quali mi pento solo parzialmente: tra le altre, che non conoscevo un James che mi ingannasse e mentisse.”
Quando mi voltai, mi resi conto che mi stava guardando: aveva la sopracciglia alzate e un broncio lievemente canzonatorio.
“E poi?”, mi incoraggiò.
Mi strinsi nelle spalle e distolsi lo sguardo.
“E poi niente, abbiamo fatto sesso sul tavolo della cucina.”
“Ma Dio, Ria, così la gente la mandi al manicomio! È come tirare un cazzotto a qualcuno e poi offrigli una caramella! Sei impossibile. Povero Jimmy.”
Sobbalzai e gli rivolsi la migliore tra le mie occhiate sorprese.
“Povera Kate!”, dissi poi.
Uno sbuffo di risata gli uscì dalle labbra: “Sì, anche.”
Calò un silenzio pesante.
“Ti ha più parlato?”
“No.”
“Restiamo qui tutta la sera?”
Si riscosse un po’.
“Dove vuoi andare?”
“A ubriacarmi.”
Mise in moto con baldanza mentre un gatto ci sfrecciava davanti al paraurti soffiando rumorosamente.
“Aspetta.”, dissi.
Spense il motore.
“No, accendi.”
Accese il motore.
“Parti.”
Partì.
“Perché non hai fatto una piega quando ti ho detto che Jimmy mi aveva rivelato di sapere di non essere mio cugino già da tempo?”, esalai in tono indagatore.
“Un po’ perché ormai non mi stupisco più di niente, quando si tratta di noi.”
Disse proprio così, noi, come se noi fosse un concetto afferibile a un gruppo di persone unite dai propri neuroni disfunzionali, o forse all’umanità tutta, o forse a una forma di cortesia che il voi non evidenzia.
“E poi perché un po’ ci si poteva anche arrivare, dai.”
Disse proprio così, dai, come se avessi sbagliato a collocare Addis Abeba sulla cartina dell’Africa o non sapessi quale presidente americano c’è sulla banconota da cento dollari.
“Come dai?”, io, sconvolta.
Lui, esegetico: “Ma sì, da come ti guardava, da come ti stringeva, dal modo in cui saltava una continuazione ogni volta che qualcuno ti causava una lieve oscillazione nervosa, dalla rabbia cieca che provava nei miei confronti, dall’ossessione di proteggerti… Non era un cugino, all’epoca. I cugini sono più tranquilli e capoccioni. E non possiamo, alla luce dei fatti, nemmeno definirlo un fidanzato adesso.”
Io, incerta: “E come lo definiamo?”
Matt dovette pensarci su un secondo: “Credo che la soluzione migliore sia considerarlo un Jimmy.”
“Un Jimmy.”, ripetei, in un’atona e meditabonda incredulità.
Intanto, era finita Abbey Road.

 

Non si può basare una vita su un personaggio.
Al limite, si può basare un personaggio su una vita.
(Stefania, davanti a un’omelette a Dublino)

 

Avevo un tovagliolo in testa, ma la cosa non sembrava disturbare nessuno: né gli avventori del locale in cui Matt mi aveva condotta per mano salutando tutti, inclusi tavoli e sedie, né Matt stesso, il quale soffiava aria in un bicchiere con una cannuccia nel naso.
“Non so niente.”, lo informai, buttando giù d’un fiato il quinto bicchierino di tequila.
Mi rivolse uno sguardo anonimo, e poi disse: “Cosa avete intenzione di fare con Kate?”
Cercai di concentrarmi sul Matt che vedevo più nitido tra i tre che mi si paravano davanti, e dissi: “Cerchiamo innanzitutto di provare l’approccio non bellico, e mandiamo Shadows a parlarci. Può darsi che se la trombi, ti devo avvertire. Se Shadows fallisce, abbiamo un intricato piano per stracciare l’articolo prima che vada in stampa. Se anche quello fallisce, non ci resta che rivolgerci alla Venerabile.”
Mi guardò confuso: “Chi è la Venerabile?”
“La Venerabile è Dio.”, lo istruii, guardando nel bicchiere di Weiss.
“Ti ricordi la sera della weiss?”, dissi poi, nostalgica, “Ti ricordi quanto ballammo?”
“Mi ricordo quanto eri bella.”
Feci un gesto come per scacciare una mosca.
“Pensi che Kate sia stata una scelta migliore di me, alla luce dei fatti?”
La luce dei fatti. E quella degli alcolici.
“Non ho fatto una scelta, Ria, tu hai fatto una scelta. Ho pensato qualche volta che forse Jimmy lo amavi già da tanto prima di ammetterlo a te stessa, quindi se la cosa ti fa stare meglio in realtà secondo la mia teoria con quello che mi hai raccontato stasera avete mentito a vicenda.”
Cercai di capire se era grammaticalmente corretto avete mentito a vicenda. Lasciai perdere.
“Certo che amavo Jimmy, ma era l’amore dell’esperienza. Quello coltivato, come… come… le cipolle.”
“Le cipolle.”, ripetè Matt.
“Sì, le cipolle. Invece per te era un amore di un altro tipo. Quello illogico, spontaneo, folle, strappa budella.”
Diedi un sorso alla birra.
“Io ero pazza di te. Drogata di te. E tu ti drogavi a tua volta di quello che io provavo per te. Secondo me tu non amavi me, ma amavi il modo in cui io ti vedevo e ti facevo sentire.”
“Ok, Sigmund. Ma che ce ne facciamo di tutti questi ragionamenti adesso?”
Sventolai una mano e feci segno al cameriere di portare della tequila.
“Niente.”, dissi, combattiva, “Niente perché la verità è che ci amavamo e basta. E che ci amiamo ancora.”
“Mi ami ancora?”
Mi passai una mano in faccia, troppo ubriaca per pensare alle conseguenze di quel momento di sincerità etilica.
“Non credo che riuscirò mai davvero a smettere.”
“Jimmy lo sa?”
“Jimmy sa tutto. E’ l’oracolo di Delfi. L’oracolo di Huntington Beach. Riesce perfino a far partire quel maledetto condizionatore.”
“Il condizionatore?”
“Sì, quel condizionatore che funziona come la smorfia napoletana. Che appaiono i numeri a caso sul display del telecomando. Quanto odio quel condizionatore. In sintesi, va tutto bene finchè non esce scritto 83, o’ maletiempo.”
“Anche io credo di amarti ancora.”
“E’ evidente.”, dissi, rivolgendogli un’occhiata saggia.

 

Una volta mollata l’anima,
tutto segue con assoluta certezza
anche nel pieno del caos.
(Henry Miller)

 

Barcollavamo verso casa o, più precisamente, casa barcollava verso di noi. Non sapevo più che ore fossero, né quanto avessimo camminato: sapevo solo con sufficiente certezza che sul telefono di Matt c’era una mia foto in atteggiamenti lascivi con la statua di Sherlock Holmes a Baker Street.
Avevamo lasciato la macchina al locale, visto che né lui né io eravamo in condizione di guidare.
“Vieni a dormire su.”, dissi, sentendo chiaramente una tagliola da boscaiolo che mi teneva la testa in una morsa metallica.
“E dove?”, domandò lui, accasciandosi su un marciapiede e contestualmente facendo cadere il pacchetto di sigarette in un tombino: ne sfilai a fatica due dal mio, e gliene porsi una.
“C’è la poltrona. Ann va a dormire a casa sua, di solito.”, riflettei ad alta voce.
C’erano tre stanze da letto, e un divano letto nel soppalco.
“O puoi dormire con Fleur, tipo.”
Mi rivolse uno sguardo intontito. Dormire con Fleur, tipo, non era proprio un’idea.
“Mi chiamo un taxi. Aiutami ad alzarmi in piedi.”
Mentre protestavo rinnovando l’offerta di ospitalità, lo tirai su per un braccio, ma in nessun modo riuscivo a sostenerlo, né lui a reggersi da sé: fummo travolti da un attacco di risate contagiose e irrefrenabili, crollando infine una sull’altro sull’asfalto.
Squillò il suo telefono.
Non riuscivo a smettere di ridere.
“Dom? Dom, vienimi a prendere, sono da Ria… No, la macchina… AHAHAHAH vieni.”
Mi tirai a sedere con non poche difficoltà, e lo guardai combattere per fare lo stesso.
“Mi sei mancato da morire.”, confessai, sorridendo.
Sorrise a sua volta, e allungò una mano che sbandò un paio di volte lungo il percorso per accarezzarmi il viso.
“Anche tu mi sei mancata, bambina.”
Afferrai la sua mano sulla mia guancia, dolcemente, e ne baciai il palmo.
“Vedrai, ci riprenderemo Bing. E anche Kate. Tu ami Kate.”
Sospirò, ritirando la mano, e guardò davanti a sé.
“E’ divertente. È carina. È intelligente. È interessante e ride moltissimo.”
“E non è una bambina.”, conclusi, delicata.
Scosse la testa. “Non è questo.”
“Oh, tu credi che non lo sia: ma è anche questo.”, lo corressi, sempre dolce.
“Fa sempre comodo pensare che siano le incompatibilità, il destino, le strade e i fattori esterni che fanno naufragare le relazioni, Ria, ma la verità è che sono le persone, a far finire le storie. Le scelte che le persone fanno. E tra noi, quello che ha fatto la scelta sono io. Anche se mi ci è voluto del tempo per ammetterlo, e per te forse sarebbe meglio pensare che sei stata tu ad andartene, quando il solo rivolgerle la parola, il solo darle quelle attenzioni, già costituiva una scelta da parte mia.”
Lo guardai, per nulla amareggiata per la sottile, involontaria spietatezza che nascondevano quelle parole.
“Sei la più grande primadonna che io conosca, dopo il mio vecchio amico Brian. Sei sempre tu a fare le scelte. Gli altri, volenti o nolenti, ci si attengono. Ecco perché Kate che dimostra di avere un cervello proprio ti fa sentire così sottosopra, sai?”
Mi omaggiò di una lievissima risata amara.
“Sono stato male quando ci siamo lasciati.”
“Anche io. Però mi sono laureata. Ho fatto i conti con una cosa che, come hai detto tu, già forse sapevo da tempo senza ammetterla a me stessa. Con quella domanda che non avevo il coraggio di porre a mio padre, con quella verità che non ero pronta ad affrontare, insomma, quello che vuoi. Avevo bisogno di lui, e lui c’era. Come sempre.”
“Sono geloso di lui.”
“Comunque, geloso dal punto di vista etimologico del termine è una parola stupidissima proprio.”
“Com’è a letto?”
“Vuoi davvero saperlo?”
“Sì.”
“Bravo.”
“Più bravo di me?”
“Sei proprio ubriaco, Matt.”
La macchina di Dominic lampeggiò due volte nella nostra direzione per annunciarsi, quindi si accostò poco lontano da noi e lui ne scese in pigiama; mi alzai con l’intenzione di salutarlo, e andò a finire che lo abbracciai.
“Ciao, tesoro.”, mi disse. Odiavo essere chiamata ‘tesoro’, ma solitamente era una cosa che faceva più che altro Chris.
“Stai bene?”, mi chiese poi, prendendomi il viso tra le mani, “ce la fai a salire a casa?”
Gli rivolsi una risata di rassicurazione, e gli diedi un bacio su una guancia: “Sto bene, sì. Dammi un secondo per salutare Matt.”
Mi voltai verso l’ex quello-giusto, che si era alzato e mi fissava da una posizione grossomodo eretta con un sorriso calmo.
“Sono stata bene, stasera.” gli dissi, banalmente, stringendolo forte a me: cercammo di metterci viso a viso senza dover sciogliere l’abbraccio, che forse era peraltro l’unica cosa che ci consentiva di tenerci in piedi.
“Dovremmo farlo più spesso.”, mi rispose, torcendo il collo all’indietro per guardarmi negli occhi.
“Potremmo destare sospetti.”
“Ci basta respirare, per destare sospetti. Mandami un messaggio, domani mattina.”
“Affermativo, Charlie.”
Un bacio a labbra chiuse, amichevole, innocente, e poi li sentii armeggiare con le portiere della macchina mentre infilavo le chiavi nel portone: una solida lacrima di frustrazione mi colpì la mano.

 

Wake up, give me a cigarette:
last night’s love affair is looking vulnerable in my bed.

 

“Sono le cinque e quarantanove.”
Nel buio totale, mi tolsi i vestiti ignorando Jimmy, voltandomi da una parte e dall’altra per, non so, percepire la presenza di una tshirt abbastanza grande da poter essere usata come pigiama, indossarla e collassare a letto.
Accese la luce all’improvviso, poi rimise il braccio dov’era prima, cioè sull’altro, conserte sul petto. Bene, non aveva la maglia, il che stava a significare che doveva essere da qualche parte in giro: ricominciai a cercare.
Senza curarmi di non indossare altro che un paio di slip, vagai per la stanza sbattendo su tutte le superfici passibili di sbattimento, qualche volta salutando l’evento con una breve risata.
“Sei ubriaca.”, disse.
“Che spirito di osservazione!”, mi complimentai, rivolgendogli uno sguardo divertito. Toh, la maglia. La presi e feci per metterla, ma con un movimento di cui non mi ero assolutamente accorta Jimmy mi si era parato davanti e mi scrutava indagatore.
“Puzzi di alcol peggio di me al Warped Tour del 2004.”
“2005.” lo corressi.
Sorrisi, e lui cedette controvoglia a fare una mezza smorfia sul medesimo genere.
All’improvviso, come colta da un pensiero, scoppiai in una leggera risata e gli buttai le braccia al collo.
“Eri preoccupato?”, gli chiesi semiseria, mettendo su un broncio comprensivo e ironico.
“Non so, prova a guardare il tuo telefono.”, rispose asciutto, perseverando a tenere le sue braccia mollemente lungo i fianchi.
“Il mio bel batterista…” osservai, guardandolo con una punta di golosità.
“Mi correggo: sei decisamente ubriaca.”
“E tu non hai intenzione di approfittare di me mentre sono decisamente ubriaca.”
“Assolutamente no.”
Braccia sempre conserte.
“Cosa devo fare per farti aprire queste braccia?”
Mi venne un’idea, e tolsi una mano dal suo collo.
Sobbalzò e scoppiò a ridere, abbassando le braccia di scatto: “Ti vuoi calmare, piccoletta?”
“A sedici anni, ho passato un periodo in cui non riuscivo a pensare ad altro che a fare sesso con te.”, soffiai velocemente, guardandolo dritto negli occhi.
“Come prego?”
“A sedici anni, ho passato…”
“Ho capito.”
Era leggermente rosso, leggermente sorpreso.
Mordendomi il labbro inferiore, mi avvicinai per sussurrargli qualcosa all’orecchio che gli fece spalancare la bocca, poi mi allontanai un po’ per contemplare il risultato: mi guardava sconvolto e divertito come non mai.
“Cos’è che volevi fare con le mie bacchette?”, disse, senza perdere quell’espressione meravigliosa.
“Oh, smettila.”, risposi imbarazzata.
“Vieni qui, perverso scarafaggio!”, e mi afferrò al volo facendomi squittire mentre franavamo sul letto tra le risate. Tentai brevemente di liberarmi, ma provateci voi a liberarvi dalla presa di un batterista di un metro e novanta.

 

PARTE IV:
Alla greca

 

And when we’re in the dark
it echoes in your heart,
and when you’re far away
it begs me to stay.
Welcome to the family jewels.

 

La mattina si era presentata avvolta dalla nebbia bassa, per cui il tasso di umidità ci costringeva a maglioni ingombranti, capelli improbabili e tazze di caffè.
Fumavo la terza sigaretta, seduta nella foschia sul terrazzo, fissando lo schermo del telefono.
Sono sveglia. Mi sono divertita da morire, ieri sera. Mi eri mancato. R.
Tormentandomi un’unghia con i denti, mi decisi a premere invio.
Are you satisfied with an average life?”
Mi voltai meccanicamente verso Jimmy: “Perché stai cantando Marina and the Diamonds?”
“Perché piace a te.”, fischiettò lui, inopinatamente allegro, “E anche a me, ma non dirlo ai ragazzi.”
“Shadows è sceso?”
“Ho sentito Shadows è Shadows?”, intervenne Bliss, uscendo con due tazze in mano: ne porse una a Jimmy, che sembrava star reggendo l’intelaiatura della porta finestra con la spalla, dal momento che non dava segno di volersi schiodare da lì.
“Ho chiesto se è già andato via. Non burlarti dei miei difetti di pronuncia.”
“Non dire sciocchezze, sai che adoro il tuo sigmatismo interdentale.”
Bliss mi si sedette da un lato e Jim, dopo poco, dall’altro: era chiaro che c’era qualcosa che entrambi morivano dalla voglia di sapere.
“Allora”, esclamò baldanzosa Bliss, “Com’è andata ieri sera? Vogliamo i dettagli.”
“I dettagli sono tequila.”, dissi sospirando, un po’ in imbarazzo, “Molta, molta tequila. È veramente distrutto, credo che ami Kate. A modo suo, beh, come tutto.”
Guardai verso Jimmy che si stava sforzando di mantenere un atteggiamento disinteressato.
“Non l’ho neanche baciato, nonostante la tequila.”
“Bene, perché Jimmy ieri sera ha preso tre pillole per la pressione.”
“Bliss!”, la redarguì lui, poggiandomi una mano sulla gamba.
“E’ vero!”, si difese la mia migliore amica.
“Sto bene.”, disse Jimmy, rassicurante. Quando si parlava del cuore di Jimmy, il mio minacciava di intasarmi l’esofago e uscirmi dagli occhi dopo aver subito parecchi incidenti lungo il percorso. Gli afferrai la mano.
“Gli ho detto di noi. Di quello che è successo ieri. Ti sembrerà folle, ma ti ha difeso. Ha detto che fare l’amore con te dopo averti detto quello che ti ho detto è come dare un cazzotto e poi una caramella. Che così mando la gente al manicomio.”
Jimmy rise, brillando nella nebbia. “Si vede che non è abituato a te come lo sono io.”
Uno a zero per James.
“Ha detto anche che era evidente che tu sapessi di non essere mio cugino, ha detto che il modo in cui ti comportavi con me e il modo in cui mi guardavi erano inequivocabili.”
“Credo che, anche se fossi stato ancora convinto di essere tuo cugino all’epoca, qualunque persona che tenga a te davvero con il cuore e con l’anima avrebbe fatto esattamente le stesse cose. Bliss le avrebbe fatte.”
“Bliss non mi ha mai guardato come se fossi la Venere di Botticelli.”
“A Bliss piacciono gli uomini. E tu per me sei sempre stata un capolavoro, anche quando eravamo parenti.”
Due a zero per James.
“Ha anche detto che, come non ti si poteva considerare un cugino all’epoca, non ti si può considerare un fidanzato ora. Ha detto che al massimo ti si può considerare un Jimmy.”
“Bene, visto che forse puoi anche trovarti un altro fidanzato, ma non puoi trovarti nessun altro Jimmy.”
Tre a zero per James.
“Ha detto che mi ama ancora.”
“Anche io, fossi in lui, ti amerei ancora.”
“Gli ho detto che, in un certo senso, anche io lo amo ancora.”
Jimmy sospirò, guardando la sua pazienza saltare dalla ringhiera e salutarci scivolando sotto un’auto parcheggiata.
“Lo so, ed è una cosa che non posso sopportare. Però, come vedi, la sopporto.”
Quarantaquattromila a zero per James.
“Se volete sapere la mia opinione, e noto che nessuno l’ha chiesta, penso che Matt in fin dei conti avesse bisogno di tutto questo.”, intervenne Bliss, mentre io mi pentivo di tutto quello che avevo appena detto.
“Che vuoi dire?”, chiesi.
“Voglio dire che non poteva continuare a vivere dal demertato, confusionario, adolescenziale cretino che è, ora che ha un figlio. Dunque, aveva bisogno di un tornado che gli rinfrescasse le idee, e questo è proprio un tornado coi fiocchi. Quello che mi chiedo è: quando lui sarà tornato in sé, e quando questa situazione si sarà auspicabilmente risolta per il meglio, voi due” indicò me e Jimmy con un gesto morbido della mano “che farete?”
Che farete in che senso? Nel senso se resteremo a Londra? Se torneremo ad Huntington Beach? Se staremo ancora insieme? Se ne usciremo illesi, uguali, rafforzati, distrutti come coppia? Se…
“Ci sposiamo.”
“Che cosa?”, fece Bliss.
“Che cosa?”, feci io.
“Che cosa?”, fece la regina, affacciandosi un attimo a una finestra di Buckingham Palace.
Jimmy era tranquillo come se ci stesse informando che usciva a comprare il giornale.
“Ci sposiamo. Se… Se mi vuoi, è chiaro.”
“Ooooook.” disse Bliss, e si alzò dalla sdraio con la tazza in mano. Senza smettere di fissare sbigottita Jimmy, la ritirai giù a sedere afferrandola per il lembo del maglione: cadde sulla sedia con un tonfo. “Tu resti qui.”
Non dissi più nulla.
“Ria, io sono sicuro di quello che provo per te. So come stiamo insieme, so come conviviamo, so che ammazzerò la mia povera madre dicendoglielo, ma sono assolutamente certo di volerti sposare, diciamo che penso anche che sia ora, e che voglio poterti proteggere sempre, e voglio che il mio cognome ti protegga con me. Voglio darti una famiglia, e voglio che tu cresca i miei figli.”
“Figli che in nessun caso si chiameranno Bingham.”, Bliss.
“In una parola, voglio che tu diventi mia moglie.”
“Gesù Cristo.”, Bliss.
“E non sono affatto bravo in queste cose, se vuoi mi inginocchio. Ti ho preso questo.”
Gli occhi mi si riempirono di lacrime e mi coprii il viso con le mani, sconvolta.
“Non me ne intendo particolarmente di questa roba, ma ho pensato che fosse il tuo genere. Che ti sarebbe piaciuto, sì, insomma.”
Spostai qualche secondo lo sguardo su Bliss che se ne stava lì a bocca aperta, divertita, e sconvolta quasi quanto me; poi, lo riportai sulla scatolina aperta che Jimmy, timido come non lo avevo mai visto, teneva in mano. Un anello d’oro bianco con un diamante quadrato al centro di altri due più piccoli così assurdo da farmi vacillare la vista. Non riuscivo a togliermi le mani dalla faccia.
“Ti prego, di’ qualcosa.”, mi incoraggiò lui, “Purché tu non abbia intenzione di dirmi di no. In quel caso, non dire niente.”
Bliss prese in mano le redini della situazione con una prontezza di spirito invidiabile.
“Cosa deve dire? Non le hai chiesto niente! Forza, chiediglielo. Mettici il punto interrogativo alla fine, così non si può equivocare.”
Jimmy, imbarazzato: “Oh, ok. Scusa. Vuoi… ehm. Vuoi sposarmi, Eldariael?”
E con questa facevano tre volte, nella sua vita, che aveva usato il mio nome completo per rivolgersi a me. Non riuscivo a parlare. Nel bel mezzo di una mattina uggiosa di Londra, sul terrazzo di Morgue Place, Jimmy mi stava davvero chiedendo di sposarlo. Tolsi le mani dalla faccia.
“Niente segreti.”, dissi, “Mai.”
“Mai.”, rispose lui, prontamente.
Gli presi le mani che reggevano la scatolina tra le mie, e sorrisi, guardandolo. Sorrise anche lui.
“Sì.”, dissi, in mezzo a due lacrime, “Sì. Certo.”
Si rilassò, e sfilò l’anello dalla scatolina.
“Dammi la mano”, disse, dolcemente. Gli tesi la sinistra e lasciai che mi mettesse l’anello al dito, poi con quella lo afferrai per il cardigan e lo tirai verso di me, per baciarlo.
“Ora sono davvero di troppo.”, disse Bliss, alzandosi.
Mi staccai dal bacio per dire: “No, quando mai, vieni qui. Bacialo anche tu. Alla greca.”
Risero tutti e due e Bliss disse, sporgendosi per dargli un bacio a schiocco sulla guancia, “Noi non siamo greci.”
“No, infatti, non siete greci, siete tutti stronzi. Non mi sembra di aver autorizzato nessuna proposta di matrimonio.”
Mi voltai a sventolare l’anello a Splinter, uscente in quel momento, che commentò con un serafico “Sì, è abbastanza adeguato.”, e si infilò tra noi, abbracciandoci tutti e tre.
“Mio Dio, ci sposiamo.”, commentai, afona.
“Non vedo l’ora di vedere la faccia di zia Barbara.”, Splinter.
“Mio Dio, zia Barbara.”
Era il caso di telefonare prima a Zacky e dirgli di presentarsi alla porta dei Sullivan e mettersi a braccia aperte dietro alla signora Barbara quando io e suo figlio l’avremmo chiamata per informarla della lieta nuova. Sperando che sarebbe stato abbastanza pronto da afferrarla al volo prima che svenisse battendo il cranio sulla credenza.

 

PARTE V:
La luce dei fatti (e degli ubriachi)

 

Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.

 

Era sera inoltrata, Jimmy era uscito con Synyster e Fleur per una birra. Shadows, sprofondato nel divano con uno straccio freddo in faccia, ogni tanto mi manifestava la sua presenza esalando un debole lamento figlio illegittimo del mal di testa che aveva deciso di arpionargli le tempie: le ultime energie utili alla conversazione le aveva sprecate per congedare le sue due infermiere, convincendole ad andare a bere la suddetta cosa con Fleur e smetterla quindi di dargli il tormento con la loro solerzia nel volerlo assistere con il solo, prevedibile risultato di fargli girare ancora peggio i coglioni.

Io ero china sul tavolino attiguo al cordless, impegnata a reggermi la testa con la mano occlusa dall’anello di fidanzamento, con davanti una bottiglia di amaro il cui livello continuava a calare mentre cercavo di decidere chi chiamare prima per dare il lieto annuncio. Mio padre, mia zia, i pompieri; quarantacinque minuti e quattro bicchieri dopo, avevo fatto un’unica telefonata, svoltasi nel seguente modo:
“Yep.”
“Ciao, Zacky, sono Ria.”
“Ria! Gesù Cristo, ti stavo chiamando! Mi spieghi cosa è successo?”
Shhhhhh!” aveva fatto Matt dal divano, esiliandomi per conseguenza in balcone.
“Ho Shadows col mal di testa” informai Zacky, chiudendomi delicatamente la portafinestra alle spalle.
“Che è successo?”, mi incalzò quello.
“Io e Jimmy ci sposiamo.”
“Santiddio. Sì, l’ho saputo. E come mai?”
E come mai?, dovetti ripetermi un paio di volte prima di rassegnarmi al fatto che era esattamente quello che Zacky aveva detto.
“Che domanda è?” sbottai, bonaria.
“Non fraintendermi.”
L’avevo già frainteso. Un lungo sospiro mi raggiunse in diretta dalla costa ovest degli Stati Uniti.
“Posso darti un consiglio?”, aggiunse quindi.
“Già che ci sei.”, replicai, seccata.
“Avverti prima qualcuno di cui non ti importa. Così, per saggiare le reazioni.”, sentenziò pensieroso il mio interlocutore.
Now your nightmare comes to life.”, citai io, più o meno letteralmente, poi lo salutai e attaccai: al mio ritorno in salotto fui accolta da una voce oltretombale.
“Che dice Vengeance?”
“Mi ha consigliato di chiamare prima qualcuno di cui non mi importa. Così, per saggiare le reazioni.”, risposi alla pezza che al momento si trovava al posto della faccia di Matt, il quale si produsse in una roca, sofferente, risata: “A chi hai pensato?”
“Alla zia Betsie.”
La zia Betsie era una zia di Jimmy, dalla parte di Joe: incredibilmente anziana, onnipresente ai pranzi di famiglia, gran simpaticona, universalmente riconosciuta come la donna più condiscendente della Terra. Se c'era una persona che preferiva non sbilanciarsi a dare opinioni, quella era zia Betsie.
“Metti il vivavoce, non voglio perdermela.”
Lo guardai in tralice, risentita, versandomi un altro bicchiere di amaro: dunque, composi il numero dell’anziana parente.
Halò?
“Zia Betsie, sono”
“Kelly?”
“No.”
“Katie?”
“No.”
“Vivienne?”
“No.”
“Sarah?”
“No.”
“Josie?”
“No.”
“Francine?”
“Sono Eldariael!”
Matt soffocò una risata. Io non lo trovavo affatto divertente.
“Certo che sei tu, tesoro mio. Che mi racconti? Come stai?”
Decisi di tagliare corto.
“Zia: io e James ci sposiamo.”, eruppi infatti, secca.
Seguì un breve ma intenso silenzio.
“Come dici?”
“Io e James ci sposiamo.”
“James chi?”
“Come James chi. James Sullivan. Tuo nipote.”
Tuo cugino James?”
“Zia, eri presente quando si è discusso del fatto che in realtà non correva alcun legame di sang”
“STAVROS?”
Aggrottai le sopracciglia.
“Chi è Stavros?”, io.
“Il mio fidanzato.”, mia zia, 74 anni.
“Il tuo?”
“Fidanzato.”
Seguì voce maschile.
“Stavros, prendimi il bicchiere mio dalla credenza, e quella bottiglia di brandy, per favore.”
“Sai cos’ha detto il medico”, rispose una voce calma ma decisa nei pressi di lei, “Finisce che ti viene un infarto.”
“Mi viene comunque.”, lo informò limpidamente zia Betsie.
“Ma che è successo?”, Stavros.
“I miei nipoti si sposano.”, zia Betsie.
“Ah! Augurissimi.”, Stavros.
“No, non hai capito, Stavros: i miei nipoti si sposano tra di loro.”, zia Betsie.
“…”, Stavros, privo di qualunque possibilità di capire.
“Ci avete pensato bene?”, disse, rivolgendosi finalmente di nuovo a me: mi giunse all’orecchio il distinto suono di un liquido versato in un bicchiere. Stavros doveva aver quantomeno intuito, se proprio non aveva capito.
“Siamo innamorati, non siamo imparentati. Dov’è il problema?”, chiesi, secca.
L’emicrania non stava impedendo a Shadows di ridere sottovoce senza requie, irritandomi.
“E' Satana, il problema. Perché soltanto Satana in persona avrebbe fomentato una così insana passione.”
Zacky mi aveva chiesto come fosse accaduto, come se, invece di fidanzarmi ufficialmente, mi avesse inavvertitamente investito un tram, e adesso zia Betsie ipotizzava l'intervento del demonio in corna e ossa. Il demonio.
“Zia, io sto telefonando per avvertire, non per chiedere il permesso.”
Mia zia tacque per qualche istante, poi disse, misteriosa: “Vedi.”
“Ho capito. Grazie. Ci sentiamo. Saluti a Stavros.”
“Eldariael…”
“Ciao.”
Attaccai, portandomi le mani in faccia fino a intercettare ombre luminescenti dietro le palpebre: quando Shadows mi poggiò una mano sulla spalla sobbalzai così forte che dovetti sforzarmi di non urlare.
“Come va la testa?”, mi costrinsi a chiedergli.
“Meglio.”, mi rispose lui indugiando con gli occhi nei miei.
“Qualcosa mi dice che la reazione di zia Barbara non si discosterà molto da questa.”
“Può anche farla James, questa manfrina.”
“Perché?”
“Perché lui è più forte di te. Più bravo di te. Perché ti ha chiesto lui di sposarlo. E perché nessuno lo contraddice mai.”
Lo guardai senza dire niente, buttando giù una generosa sorsata di amaro.
“E perché non vuole che tu faccia cose che ti fanno stare male.”
“Non mi fanno stare male”, risposi senza convinzione, ingollando altro alcol, “Mi consentono di avere una voce. Di impormi. Di ritagliarmi un posto in questa famiglia che non sia, per una volta, un incidente diplomatico, ma che sia una decisione.”
“Perché lo sposi?”
“Perché voglio.” risposi, impetuosamente, leggermente brilla.
Sorrise, abbagliandomi con i suoi numerosissimi denti.
“Risposta esatta.”, disse soltanto.

 

I felt you question the way I was brought up as a baby,
well, you don’t know a fuck about my family.

 

A volte ci vuole un metallaro di un paio di metri per darti un senso di sicurezza tale da consentirti di affrontare un paio di spinose e urgenti questioni: Shadows russava infatti sonoramente, rovesciato come una barca alla deriva nel mio letto, mentre io fissavo lo schermo del cellulare con la testa sulla sua schiena e le gambe piegate per non uscire dal materasso. Come quand’ero bambina. Se nessuna parte del corpo si trova al di là del margine del letto, allora sono al sicuro.
Ci sposiamo.
Inviai.
La risposta di mia cugina Kelly arrivò a tempo di record.
HA!!!!!!!! Lo sapevo!!!! Katie mi deve 100 dollari.
Sbuffai un sorriso insieme a un po’ di fumo di sigaretta, poi sentii la porta dell’ingresso aprirsi e delle risate rumorose salutare il ritorno dei ragazzi: trascinai la mia leggera sbronza in salotto, acclusa in una delle mie vecchie maglie enormi, quelle che usavo come pigiama, e un cardigan voluminoso e tiepido.
Mi guardarono, si zittirono, e io sorrisi.
“Che hai fatto?”, domandò Synyster.

“Un paio di telefonate.”, risposi semplicemente, prima di sorpassare il divano per andarmi a schiantare, a braccia conserte, direttamente nella spalla destra di Jimmy respirando forte. Odorava di fumo, birra e di lui. Più ubriaco di me, mi chiuse le braccia intorno: “Potevi farle fare a me, queste telefonate. Non voglio che fai cose che ti facciano stare male.”
Gli altri si dileguarono.
“Shadows mi ha detto la stessa cosa, dite la verità, vi mettete d’accordo.”
Si guardò intorno alla ricerca di Shadows e assunse un’espressione spaesata e confusa quando non lo localizzò sul divano dove lo aveva lasciato: gli presi il viso tra le mani e lo portai verso di me, sorridendogli. Improvvisamente di nuovo avviso della mia presenza, mi sorrise a sua volta.
“Ehi. Sei proprio bella.”
“Stasera sei tu che sei proprio ubriaco.”
“Non sto scherzando, scarafaggio. Sei proprio bella.”
“Me l’hai già detto.”
“No, davvero. Hai presente quando avevi, tipo, quindici, sedici anni?”
Barcollò da fermo. Risi e lo guidai sul divano, con dolcezza.
“Ma tu lo ami ancora, allora mi devi spiegare perché stai sposando me.”
“Jimmy, ho avuto una serata difficile. Anzi, ho avuto proprio una vita difficile. Ne parliamo un’altra volta, va bene, amore?”
Mi guardò spalancando gli occhi.
“Come mi hai chiamato?”
Gli restituii lo sguardo, interdetta.
“Ti ho chiamato Jimmy. Come ti devo chiamare?”
Scosse la testa.
“No, dopo.”
Feci mente locale, e sorrisi senza sapere cosa dire.
“Non l’ho fatto apposta. Mi è, non so, uscito così.”
“Non mi hai mai chiamato in quel modo prima.”
Un gatto strillò da giù alla strada, valicando il vetro rinforzato della portafinestra.
“Zia Betsie ha detto che il responsabile della nostra unione è il demonio.”
Si strinse nelle spalle, sistemandosi sul divano e contestualmente attirandomi addosso a lui: raccolsi le gambe, e lasciai che mi abbracciasse.
“Ormai ha una certa età.”
“Ha anche un fidanzato. Si chiama Stavros.”
“Ho detto che ha una certa età, non che è consapevole di averla.”
Scoppiai a ridere.
“Ho chiamato anche Zacky. Mi ha chiesto come fosse successo.”
“Tu gli hai ricordato che è un cazzone? Questa settimana è stata parecchio impegnativa, ho dimenticato di fargli la consueta telefonata per dirglielo.”
“Per dirgli cosa?”
“Che è un cazzone.”
Scoppiai a ridere di nuovo.
“Tua sorella invece non ha fatto una piega. Mi ha solo informato che l’altra aveva perso la scommessa.”
“Dunque hai chiaramente sentito Kelly.”
Lo guardai: gli aleggiava in faccia una specie di divertimento.
“Non sei preoccupato?”, gli chiesi.
“Per cosa?”
“Per come la prenderanno.”
“E come la devono prendere?”
“La zia ha informato Stavros, sconvolta, che i suoi nipoti si sarebbero sposati tra di loro.”
“Appunto. Pensa come l’avrebbero presa se fossimo stati sul serio imparentati.”
“Mi avresti voluta sposare lo stesso?”
“Senz’altro.”
“Non è una cosa da persona normale.”
“Non so se te ne sei accorta, ma io non sono mai stato particolarmente normale.”
Gli rivolsi uno sguardo basito.
“Sto scherzando.”, disse.
Gli diedi una lieve gomitata.
“Lo so.”
“Non sul fatto di non essere normale. Su quello sono serissimo. Hai il diritto di sapere che stai per sposare un pazzo.”
“Non avevo bisogno che me lo dicessi, ti conosco bene. Ed è una delle ragioni per cui ti sposo.”
“Perché mi conosci bene?”
“No, perché sei pazzo.”
Un bacio dolce, umido e intimo.
“E perché mi rendi la vita facile e meravigliosa. E leggera.”
“A proposito di leggere, dove sono le tue sigarette e come mai non stai fumando?”
“Oggi non ho fumato molto.”
Mi rivolse un’occhiata di divertito sgomento.
“E che è successo?”
“Devo abituarmi a fumare di meno e, se mi riesce, anche abituarmi all’idea di smettere. Almeno per un po’.”
Mi guardò, a metà strada verso il capire.
“Aspetta”, disse infine, teneramente, “sto cercando di metabolizzare.”
“Sì, ma, solo se lo vuoi anche tu.”, mi affrettai ad aggiungere, un po’ preoccupata.
Il mio telefono vibrò una, due, tre volte. Lo guardai male.
“Pronto?”
“Ha chiamato la zia Betsie. Dov'è James?”
Chiusi gli occhi, assaporando un secondo di silenzio.
“E' qui.”
“Mettimi in vivavoce.”
Guardai Jimmy negli occhi. Quegli ormai famosissimi occhi.
“E' nonna Willow.”, dissi. Mi restituì lo sguardo, impenetrabile, poi disse: “Nonna.”
Mia nonna raccolse i pensieri per un momento: sentimmo tintinnare il ghiaccio in un bicchiere. Male che andava, avevamo cagionato l'alcolismo di un'intera famiglia.
“Ho solo una cosa da dirvi, ragazzi: finalmente.”
La mia mano finì su quella di Jimmy, istintivamente.
“Ho tenuto il silenzio sull'adozione di mia figlia per troppo tempo. Troppo a lungo vi ho guardati crescere fianco a fianco come due fratelli pensando a quello che il mio silenzio vi stava togliendo.”
Cercai aria.
“Non dire niente, Ria: una nonna queste cose le sa e basta. E' una vita che vi guardo: ho tenuto in braccio e cambiato i pannolini a tutti e due. Una cosa soltanto: dovete dirlo a Barbara di persona.”
“Lo faremo appena torniamo da Londra.”, dissi.
“Cosa ci fate, a Londra?”
“Nonna...”
“Cosa ci fate a Londra.”
Le spiegai brevemente la situazione oscillando tra la confusione e il tono di scusa.
“Stamattina Shadows è andato a parlare con la moglie di Matt.”
“Ha risolto qualcosa?”, mi chiese mia nonna, che aveva ascoltato tutto il racconto omaggiandomi di tanto in tanto di un verso di partecipazione a labbra chiuse. Nessuna opinione, nessun vocabolo.
“Ha risolto di aver passato la serata steso sul divano con un feroce mal di testa e panni freddi in fronte.”

 

Go get your upper-class wife:
she's got all the personality
of a lemon that has been truly sucked dry.”

 

Il campanello di una bella casa di Swiss Cottage suonò due volte prima che qualcuno si decidesse ad aprire: alla porta apparve una donna bionda visibilmente provata, senza trucco, con gli occhi gonfi di pianto e il colorito cereo di chi sta combattendo con lo stress per evitare di finire sotto un cipresso.
“Signora Bellamy, sono...”
Kate rivolse a Shadows, al suo sorriso e ai suoi Ray-Ban a specchio uno sguardo impenetrabile.
“So chi è lei.”, disse.
Si scrutarono brevemente in silenzio.
Kate si spostò di lato, fissando l'ospite: “Vuole accomodarsi?”
“Grazie.”
Il salotto di casa Bellamy era un curioso incrocio di futuristico e classico, frutto evidente di due intenzioni di arredo completamente discordanti: incredibilmente, l'insieme aveva un senso. Era perfino bello, in realtà.
“Posso offrirle qualcosa da bere?”
“Un bicchiere d'acqua, se ce l'ha.”
“So perché è qui.”, disse Kate alcuni secondi dopo, armeggiando al mobile bar.
“Allora sarà il caso che beviamo qualcosa di più forte.”
Quando Shadows tornò a Morgue Place, nel primo pomeriggio, erano tutti in salotto in ansiosa attesa. Abbracciò la stanza con lo sguardo, soffermandosi un secondo in più su Jimmy e Ria, accanto alla porta finestra: la ragazza si reggeva al batterista come se, lasciandolo, dovesse precipitare senza più fermarsi. Vide il suo amico di una vita circondarla con un braccio e stringerla più forte: si chiese cosa ci volesse per meritarsi qualcuno che ti ami in quel modo, e fino a quel punto.
Splinter, seduta in poltrona, si rizzò su un ginocchio protesa verso di lui per incitarlo a parlare.
“Kate è ferita. Profondamente. Ma ha detto che se lo aspettava: si aspettava che lui si comportasse con lei, prima o poi, come si era già comportato con te, Ria.”
Questa frase produsse un effetto diapason che sembrava destinato a riverberarsi tra quelle pareti per sempre.
“Ha detto che mai come in questi giorni si è ritrovata a pensare di essere un ripiego: si sorprende di come mai tu non l'abbia pensato a tua volta, ai tempi di Dana, ma ritiene che è probabile che la tua giovane età abbia avuto un ruolo determinante nella tua avventatezza.”
Non volava una mosca.
“Ha detto proprio così: avventatezza. Ha anche detto, però, che sei una persona profondamente intelligente ed è facile capirlo perché alla fine hai scelto Jimmy: che anche lei, dovendo, avrebbe scelto Jimmy.”
“Questa mi suona come una provocazione.”
“Grazie, Bliss, ci ero arrivata.”, disse Ria, premendo le spalle contro il petto di Jimmy, che serrò la presa attorno a lei.
“Ha detto, infine, che non nutre rancore nei tuoi confronti: che ha molta stima del modo in cui Jimmy sta gestendo la questione, che non ne può più di mezzi uomini e che io avrei sicuramente capito che quando c'è di mezzo un figlio non si può giocare con i sentimenti dell'altra persona.”
Bliss sussultò, e la sua migliore amica colmò la distanza che c'era tra loro per stringerle un avambraccio e sussurrarle una cosa all'orecchio, manovra che passò inosservata a tutta la platea meno che a Jimmy.
“E' decisa a far uscire quell'articolo perché non c'è niente di male, ha detto, nel prendersi una rivincita: anche se così piccola e insulsa come una dichiarazione pubblica in cui non dirà niente di nuovo. E' un personaggio pubblico, e vuole far capire alla gente che lei non è una divorziata seriale per divertimento.”
“Ha ragione.”, disse Nishe, seduta in punta al divano.
“Certo che ha ragione, ma non possiamo lasciarle avere ragione.”, replicò Fleur dal soppalco sul quale sembrava essersi stabilito dal suo ingresso in casa.
“Perché non possiamo lasciarle avere ragione, se ha ragione?”, domandò Ann.
“Perché è anche colpa mia.”, soffiò Ria a corto di fiato, e andò a sedersi tra Nishe e Ann. Un solitario di diamanti le brillava all'anulare della mano sinistra.
“Che facciamo?”, chiese Bliss, rivolgendo un'occhiata gelidamente decisa a Splinter.
Splinter si schiarì la voce: “Faccio qualche telefonata. Ci aggiorniamo questa notte.”

 

Don't you see?
Baby, nothing comes for free.”

 

Ascoltavamo respirare mia nonna nel ricevitore, interdetti.
“Va bene”, disse infine, “Tenetemi aggiornata. Quando deciderete di avvisare persone che non siano Betsie, Kelly o Zachary avvertitemi per tempo.”
“Ma ti hanno chiamato tutti?”
“Tutti.”
“Dovevo aspettarmelo.”
I saluti con mia nonna duravano meno di zero: Jimmy mi accarezzava un braccio, guardandomi.
“Come va la sbornia?”
“Meglio. Davvero vuoi un figlio?”
Sussultai.
“Quando mi devi fare queste domande ti spiacerebbe girarci un po' intorno? Così dirette mi fanno rischiare un aneurisma.”
“Ok. Premesso che non ho mai seriamente pensato di avere figli...”
“Ma se stamattina l'hai detto tu!”, io, indignata.
“Che ho detto?”
“Hai detto voglio che tu sia la madre dei miei figli blabla
“Perché, non sono quelle le cose che si dicono di solito?”
Le cose che si dicono di solito?”, gli mollai un cazzotto su un braccio.
“Eh, le cose che si dicono di solito quando si chiede a qualcuno di sposarti: Shadows e Gates me l'hanno messa così, mentre mi istruivano a farti il discorso in quest'ultimo mese.”
“Prego?”
“Va bene: circa a metà del mese scorso, una sera, eravamo tutti su in mansarda a casa di Brian e tu stavi in piedi china su un tavolo a fare qualcosa mentre parlavi con Crystal seduta sul divano di fianco a te. Le stavi sorridendo e avevi i capelli che ti scendevano giù, morbidi, ai lati del viso: a un certo punto ti sei accorta che io ti stavo guardando, mi hai guardato e hai sorriso a me.”
“E tu mi hai fatto l'occhiolino.”
“Sì, e io ti ho fatto l'occhiolino.”
“Con un bicchiere di birra in mano.”
“Vabbè, stiamo qui a sottolineare l'ovvio.”
Mi morsi il labbro, curiosa, persa in quel ricordo anonimo.
“E poi?”
“E avevo vicino a me, da una parte e dall'altra, Brian e Matt. E niente, gliel'ho detto.”
“Cosa gli hai detto?”
“Gli ho detto che volevo chiederti di sposarmi e Brian si è affogato con la birra.”
“E Shadows?”
“Shadows ha detto maaaaaaaan, I'm really fucking drunk, I almost thought you just said you were going to pop the question.
I suoi occhi divertiti nei miei: ci ballavamo, noi, con gli occhi.
“Nel mentre Brian continuava a tossire.”
Scoppiai a ridere.
“Quando hanno capito che ero serio, non hanno fatto che darmi consigli per settimane. Su quello che ti dovevo dire, su come te lo dovevo dire, su quando, su dove... Alla fine, ho fatto di testa mia solo a metà: te l'ho detto quando e dove mi sentivo di dirtelo, ma sul come ho lasciato spazio anche un po' a loro.”
“E' stato perfetto.”, soffiai, accaldata.
“Fosse stato per me, ti avrei preso la mano e ti avrei infilato quell'anello al dito. Così. E poi ti avrei baciata. Forte. Per evitare di doverti dire qualcosa che mi sarebbe uscito artificiale e non mio, come in effetti mi è uscito, oggi.”
Mi sfilai l'anello dal dito e glielo porsi: “Va bene, rifacciamolo.”
“Cosa vuoi rifare? La proposta? Una non è stata abbastanza?”
Sorrisi. “Fammi vedere Jimmy, forza.”
Sbuffò, divertito, mi prese la mano sinistra e, guardandomi gli occhi e poi le dita, con un sorriso appena accennato, lievemente imbarazzato, forse?, mi infilò l'anello. Risollevò lo sguardo e mi attirò a sé: a un passo dalle sue labbra, indugiai e mi ritrassi leggermente, affascinata.
“Cosa c'è?”, sussurrò, accarezzandomi il viso.
Sorrisi, appoggiai le mie labbra alle sue, e in quell'istante il cellulare vibrò: mi voltai a guardare il display nel momento esatto in cui suonò il campanello di casa.
Avete presente quella sensazione di malessere imprecisa e cristallina che vi prende senza spiegazione al verificarsi di un evento comune, potenzialmente innocuo e banale, al quale solitamente non fate neanche caso, come ad esempio il suono di un campanello?
Fu precisamente questo pool di fattori che mi fece alzare dal divano, precipitare alla porta, spalancarla e cadere a terra battendo forte la testa sul parquet: addosso a me Matt Bellamy, che aveva cercato di dire qualcosa prima di franarmi tra le braccia, privo di sensi.

 

Egli si rifiutava di capire i pericoli degli altri:
quanto ai suoi, li aveva assimilati così bene
da non patirne affatto.”
(Emil Cioran su Goethe.)



 

Io
sono stanca. Nel senso di
sonoramente stanca.
Ma sono anche contenta. Nel senso di
marginalmente contenta.
E mi si è addormentato un piede. Nel senso di maledettamente addormentato.

Scusate il ritardo. Sì, mi riferisco anche a quello mentale. (Cit.)
Baci.
Q.

   
 
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