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Autore: ___Ace    02/11/2013    4 recensioni
“Non è serata, Evidenziatore, torna un’altra volta”.
Osservai quell’energumeno che avevo avuto la sfortuna di incontrare: i capelli in disordine e un orrendo paio di occhiali con le lenti spesse era appoggiato sulla fronte, tenendo quei ciuffi rosso vermiglio alzati verso l’alto; la maglia sporca di nero, pantaloni neri, scarponi neri. Praticamente avevo davanti a me l’Uomo Nero in persona.
Avrebbe potuto spaventare i mocciosi qui intorno.
*
Ecco, lui sembrava infiammato. Costantemente. Sembrava sempre avere qualcosa da dire, da fare o da vedere; non stava mai fermo e si muoveva in continuazione; a volte sembrava calmarsi ed essere colto da un’improvvisa quiete e sonnolenza, ma si riprendeva subito dopo; adorava i fuochi d’artificio e il fuoco lo affascinava. Diceva che era caldo, e quindi apprezzato dalle persone, ma allo stesso tempo temuto perché poteva bruciare e fare del male. Questi aspetti contrastanti gli piacevano immensamente, tanto da suscitare anche la mia curiosità e facendo si che, ogni volta che passava, mi ritrovassi chino sul bancone ad ascoltare le sue stramberie per nulla annoiato.
Ace era certamente così: bello, scoppiettante e caldo. Era il fuoco.
*
Kidd/Law. Ace/Marco. Penguin/Killer. Accenni Zoro/Nami.
Genere: Fluff, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eustass Kidd, Marco, Portuguese D. Ace, Trafalgar Law, Un po' tutti | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 5.
Un letto sfatto e un tacito accordo

Sospirai beato, rigirandomi nel letto con un mugolio soddisfatto, grato del calore che fornivano le lenzuola felpate e il piumone di mezza stagione. Anche se era solo ottobre faceva già abbastanza freddo fuori e il tempo preannunciava un inverno gelido e nevoso.
Affondai il viso nel cuscino morbido e ignorai la sveglia, sperando di ritornare a dormire ancora un po’. Anche il dormiveglia non mi sarebbe dispiaciuto. Senza riflettere aprii gli occhi e sbattei più volte le palpebre per abituarmi alla luce fioca presente nella stanza, fissando lo sguardo sul comodino accanto al letto. Era tutto insolitamente silenzioso e dalle altre stanze non giungevano rumori molesti come pentole che sbattevano o le note di una radio accesa. Regnava la calma nell’appartamento che condividevo con i ragazzi, il che era strano, ma ipotizzai che forse erano solo tutti stanchi e troppo sbronzi per svegliarsi e girare per casa.
Decisi così che avrei passato la mattinata a poltrire, approfittando di quella splendida occasione per dormire fino a tardi, cosa che mi concedevo di rado, addormentandomi spesso ad improponibili ore della notte sulla scrivania con un volume di anatomia e una lampada a vegliare su di me.
Quando mi risvegliai, rendendomi conto di essermi riaddormentato senza accorgermene, potevo distinguere meglio le fattezze della camera da letto dato che, molto probabilmente, il sole era già alto nel cielo.
Guardandomi meglio intorno corrugai la fronte, chiedendomi quando avevo fatto tingere il soffitto di grigio. Forse era solo un gioco di luce. Il problema era che io non avevo nemmeno un piumone a scacchi rossi e neri, tantomeno il mio comodino consisteva in un’enorme cassapanca in legno d’ebano.
Mi stropicciai gli occhi con una mano per cercare di vederci meglio. Magari stavo ancora sognando e mi ero immaginato tutto ma, quando ormai mi ero deciso ad alzarmi e verificare tutto sotto un attento studio, qualcosa si mosse sotto alle coltri e mi fece immobilizzare sul posto.
Ma cosa diavolo…?
Quando un corpo rotolò verso di me e un peso che non avrebbe dovuto esserci fece pressione sulla mia schiena, schiacciandomi bellamente la faccia sul materasso mi sentii mancare il respiro.
Ero sempre stato un tipo calmo e capace di tenere la situazione sotto controllo, ma in quel momento qualcosa era sfuggito ai miei calcoli per la prima volta, lasciandomi interdetto.
Ma dove cazzo sono finito?
Un leggero russare arrivò alle mie orecchie, così sbuffai e alzai gli occhi al cielo, incapace di fare altro, stupito e ancora stordito dalla bizzarra ed inaspettata piega che aveva preso la giornata.
Andiamo, quanto dovevo aver bevuto la scorsa notte? Talmente tanto da ritrovarmi a casa del primo sconosciuto che mi aveva fatto il filo? Mio Dio, come ero caduto in basso. Pazienza, dovevo solo alzarmi lentamente e senza movimenti bruschi, raccogliere la mia roba e svignarmela il prima possibile per evitare situazioni imbarazzanti e spiegazioni che avrei preferito non dover dare. In un altro momento me ne sarei altamente fregato e avrei indossato la solita maschera da menefreghista, ma non ero dell’umore adatto. Sentivo che qualcosa non andava e avevo la netta sensazione che, se avessi scoperto la faccia di colui che mi dormiva addosso, mi sarei autopunito duramente.
Con tutta la calma e la gentilezza di cui ero capace feci forza sulle braccia, come faceva Ace quando decideva di mettersi a dieta e fare flessioni a caso, sollevandomi un centimetro alla volta e scrollandomi più piano che potevo di dosso quello che non poteva definirsi peso piuma.
Lo sentii sbadigliare e spostarsi di sua spontanea volontà, brontolando qualcosa di incomprensibile per poi beccarmi un calcio su un fianco, rischiando anche di finire fuori dal bordo del letto che scoprii essere da una piazza e mezza.
Mi passai una mano sul volto e poi fra i capelli, tirando leggermente le ciocche e digrignando i denti, dandomi mentalmente dello stupido per essermi cacciato in un guaio come quello.
Devo essermi lasciato andare parecchio per non ricordare nemmeno cosa é successo dopo la rissa.
L’unico ricordo che mi sembrava chiaro e non troppo sfocato era di aver accettato la proposta di uno dei ragazzi a bere ininterrottamente e gratis. Probabilmente Brook doveva essere stato entusiasta dell’esibizione e del successo ottenuto e aveva deciso di offrire lui per tutti. Si, mi ero dato alla pazza gioia per quel motivo, ne ero quasi certo.
E poi che ho fatto? Ho bevuto come un dannato, ma oltre a questo? Ah, la testa mi gira e ho le gambe bloccate da quelle di questo balordo che se non la smette di agitarsi gli amputo un braccio.
Mi voltai verso l’essere umano che mi respirava affianco per fulminarlo con una delle mie occhiate micidiali che, se avesse potuto vedere, l’avrebbero fatto dormire per sempre, ma dovetti cambiare un’altra volta le mie intenzioni non appena notai degli orribili ed inquietanti ciuffi rossi spuntare da sotto al lenzuolo.
No, maledizione! Non può essere…
Allungai una mano tremante e scostai un poco le coperte per vedere in faccia la realtà che, con forza e brutalità, si stava facendo strada dentro di me.
Dio, ti prego, prendimi adesso.
Invocai la morte appena mi resi conto effettivamente in che razza di casino mi ero cacciato.
Quella testaccia rossa di Eustass Kidd dormiva profondamente e senza la minima traccia di turbamento in volto, sfoggiando invece una perfetta espressione rilassata e soddisfatta.
Non riuscii a trattenermi dal lanciare un imprecazione colorita, sussultando e scattando a sedere, urtando involontariamente la massa informe accanto a me e facendola piombare con un sonoro tonfo a terra.
Se prima avevo pensato di darmela a gambe, ora desideravo ardentemente sparire, specie dopo averlo sentito proferire le prime bestemmie rivolte a qualunque entità in ascolto.
Fissai con orrore una mano spuntare oltre il bordo di quella sottospecie di branda da quattro soldi e aggrapparsi con forza ai primi stracci di stoffa che le capitarono a tiro, arrivando poi a sollevare il busto, le spalle, una faccia incazzata e una chioma fulva indomabile.
Non appena quegli occhi spiritati incrociarono i miei e capirono la situazione iniziò il delirio che avrei tanto voluto evitare più di ogni altra cosa al mondo. Ma ciò non era possibile, per cui tanto valeva che mi rimboccassi le maniche e che mi buttassi a capofitto in quella bufera per divertirmi e uscirne vincitore, come sempre.
«Cosa cazzo ci fai a casa mia, razza di imbecille?» urlò quel brutto muso da schiaffi davanti a me, alzandosi in piedi e lanciando per aria uno dei cuscini, sollevando una nuvola di piume.
Grazie al Cielo indossava i boxer.
Sfoggiai il mio ghigno più fastidioso, incrociando le braccia al petto e osservandolo mentre faceva una classica scenata da malato di mente, ergendosi minaccioso sotto il mio sguardo.
«Me lo sono chiesto anche io, Eustass-ya, anche se le circostanze parlano chiaro» dissi calmo, adocchiando le condizioni precarie del letto e alcuni vestiti lanciati a caso addosso ai ripiani presenti nella stanza. Per quanto avessi cercato di non pensarci, non appena mi ero reso conto di non trovarmi a casa mia, dove avrei dovuto essere, avevo capito che svegliarsi in un letto che non era il mio, ma quello di uno sconosciuto, in questo caso della fottuta testa rossa, voleva dire solo una cosa.
«Non mi verrai a dire che io e te abbiamo fatto sesso!» fece sconvolto senza tanti giri di parole, allargando le braccia in modo teatrale e lasciandole ricadere lungo i fianchi quando gli diedi la risposta che temevamo entrambi di sentire.
«Per quanto mi faccia schifo pensarlo, si». Non perdere l’autocontrollo e mantenere un certo distacco erano le soluzioni migliori.
Il silenzio che seguì fu parecchio imbarazzante e il fatto di non sentire le sue patetiche e prevedibili frasi da pazzo non mi diede quella dose di sicurezza di cui avevo bisogno. Insomma, se lui sclerava e dava di matto potevo benissimo gestirlo e trovare una soluzione, ma se si comportava diversamente, come una persona razionale, allora non avevo idea di come reagire di conseguenza.
Mi era bastata un’occhiata per capire con che tipo avevo a che fare e per spere come agire nei suoi confronti, come rispondere e come atteggiarmi. Lui e la tranquillità non andavano d’accordo, era ovvio. Preferiva le maniere forti, ma in quel momento sembrava deciso ad andarsene avanti e indietro per la stanza, passandosi convulsamente le mani fra i capelli, scompigliandoli ulteriormente. Il tutto davanti al mio sguardo sorpreso, mentre me ne stavo ancora seduto e al caldo.
All’improvviso decise di aprire bocca, sbottando infastidito.
«Non mi ricordo niente» ammise, sedendosi ai piedi del letto e dandomi le spalle, sbuffando come una locomotiva.
«Nemmeno io» sospirai, «E per fortuna, aggiungerei, probabilmente resterei traumatizzato dalla tua performance».
Si voltò per dedicarmi uno sguardo omicida e infastidito oltre ogni limite.
«Vedi di sparire al più presto dalla mia vista» sibilò acido, indicandomi la porta.
Sorrisi sornione, «Con piacere». Così dicendo mi liberai delle lenzuola e, senza curarmi del fatto di essere osservato, mi alzai e mi stiracchiai con tutta calma come un gatto, allungando le braccia verso l’alto e inarcando la schiena. Sapevo che mi stava studiando, ma mettere a disagio le persone faceva parte del mio carattere.
Raccolsi i pantaloni da terra e li infilai, cercando con lo sguardo la mia felpa e trovandola adagiata malamente su una sedia poco distante.
Mentre la raddrizzavo notai con la coda dell’occhio che quell’idiota non si era mosso dalla sua postazione e osservava la scena con una smorfia divertita che si allargava sempre di più sul suo viso. Il che mi fece scattare come una molla perché l’unico che poteva permettersi di ridere a costo degli altri ero io, perciò non gli avrei permesso di continuare a ghignare a mie spese.
«Che c’è Eustass-ya, non riesci a staccarmi gli occhi di dosso?» chiesi malizioso, con l’intenzione di farlo arrabbiare e perdere le staffe, così da poterlo beffeggiare ancora un po’ prima di andarmene.
Ignorando totalmente i miei commenti scosse la testa con finta esasperazione, decidendosi poi ad alzarsi e, con mia sorpresa, avvicinarsi e strapparmi con decisione la maglia dalle mani, lasciandola ricadere dove l’avevo recuperata poco prima.
Tornò serio e ci fronteggiammo per qualche istante, durante il quale non gli risparmiai un’occhiata furente di sfida.
Entrambi sostenemmo una gara di sguardi, scavando a fondo per cercare di capire le reciproche intenzioni e sperando di ricordare qualcosa, un minimo particolare magari, della notte trascorsa.
Non so cosa di preciso fece scattare entrambi, ma ad un certo punto ci lanciammo uno sulle labbra dell’altro in una lotta per la supremazia fatta di morsi e baci roventi.
Non era il momento di essere responsabili, per niente, e più tardi, quando ci avrei ripensato seriamente, avrei dato la colpa all’alcool ingerito ancora in circolo per avere una spiegazione plausibile e abbastanza credibile che giustificasse le mie azioni.
Non so se mi sconvolgesse di più il fatto di trovarmi di nuovo sdraiato a letto con quel bastardo esaltato o di dover ammettere che quei baci e quelle carezze così rudi e fatte per mettere in chiaro chi dei due comandava erano il mix migliore che avessi mai provato sulla pelle.
Mi sentii tirare i capelli e in risposta gli morsi una spalla, deciso a non farmi sopraffare e a fargli capire che non l’avrei lasciato vincere, non quella partita.
«Non provarci nemmeno, Trafalgar. A questo gioco comando io» sussurrò ghignando, ma potei benissimo percepire la sua determinazione e la promessa che quelle poche parole celavano. Non avrebbe ceduto e non ero intenzionato a farlo nemmeno io.
Sarebbe stata una battaglia alla pari.
Ormai ricordavo sempre più con chiarezza la dinamica di quell’insolito sabato sera. Avevamo bevuto tutti quanti, tanto che Kidd non ce la faceva nemmeno a salire in moto e a mantenersi in equilibrio, così avevo finito per accompagnarlo a casa a piedi, camminando in modo precario sulle mie gambe mentre lui si teneva appoggiato alla moto che spingeva con fatica tra una risata e l’altra. A quanto pareva gli alcolici e la birra avevano favorito l’intesa tra di noi e la simpatia reciproca, la stessa simpatia che era scomparsa non appena ci eravamo guardati negli occhi quella mattina, riscoprendo quel sentimento di fastidio nel ritrovarci nello stesso posto allo stesso momento. E per giunta sotto le stesse lenzuola.
Sentimento che persisteva, anche se stavamo disfacendo il letto più di quanto non avessimo già fatto poche ore prima.
Ricordavo vagamente che Ace, uno dei meno brilli, aveva portato a casa il suo piccolo fratellino, Bepo e Penguin, dando un passaggio anche all’amico del rosso con il nome da omicida, Killer. Per quel motivo mi ero ritrovato da solo, senza un mezzo di trasporto e ubriaco marcio assieme a quel demente, arrivando a seguirlo fino a casa sua, senza nemmeno aspettare di arrivare alla porta d’ingresso prima di baciarlo senza un valido motivo, cogliendolo alla sprovvista e venendo ricambiato subito dopo.
Perché me lo ricordavo perfettamente, era tutto nitido. Avevo iniziato io quel delirio, ero stato io a baciarlo. Ogni azione era partita da me e sperai vivamente che avesse dimenticato quel particolare e che avesse prestato più attenzione a quello che era successo dopo, dentro casa, dal corridoio fino alla sua stanza. Ricordavo anche quello.
«Alzati» ordinò ad un tratto, interrompendo la scia di morsi che mi stava lasciando sul collo e scendendo dal letto, strattonandomi per un braccio.
«Non avrai intenzione di sbattermi addosso al muro spero, perché non te lo permetterò» affermai categorico, avvisandolo per tempo che non avrei fatto la parte della bambola nelle sue mani di nuovo. Poteva dimenticarselo. Quella notte era stata solo un’eccezione.
Ghignò prima di darmi le spalle, trascinandomi dietro di sé, «Te lo ricordi allora».
«Togliti quell’espressione compiaciuta dalla faccia, Eustass-ya. Non si ripeterà».
«Tu dici?».
 
* * *

Psichiatria: mosaico di nozioni articolate che si arricchisce continuamente di nuove tessere, recitai mentalmente.
La biblioteca dell’università era sempre stato un luogo perfetto per studiare, soprattutto il mercoledì pomeriggio, quando era praticamente deserta dato che quasi nessuno si fermava dopo i corsi a ripassare qualche materia per recuperare degli esami o semplicemente per portarsi avanti col programma. Per quanto mi riguardava era piacevole quel silenzio e quella tranquillità gratuita, senza gente che ti correva intorno litigando per il telecomando e senza sentire i pugni continui che sbattevano sulla porta del bagno per incitare chi era dentro a muoversi e uscire. Era esattamente ciò che succedeva in appartamento e non potevo lamentarmi: se volevo fare economia e non spendere troppo, arrivando all’università in poco tempo la mattina e vivere in modo indipendente dovevo sopportare in silenzio e accettare la confusione che creavano i miei tre coinquilini.
Il peggiore era Penguin. Sembrava che nelle sue vene scorresse un fiume di energia rinnovabile, facendo si che il diretto interessato avesse sempre voglia di fare qualcosa di eccitante, come correre per la casa con i pattini; imparare il karate seguendo lezioni su internet e sferrare colpi ai soprammobili presenti nel salotto; ascoltare musica alle tre del mattino e cucinare ogni giorno ricette di altri paesi, rischiando di far venire una gastroenterite a tutti.
Quello era uno dei motivi principali per cui spesso saltavo il pranzo o la cena, mangiando solo qualcosa a colazione e un frutto durante il giorno con alcune eccezioni quando uscivamo a prendere una pizza in compagnia.
Si, avevo un leggero disordine alimentare, ma potevo gestirlo e fino ad allora non avevo avuto problemi gravi. Potevo resistere benissimo in quelle condizioni.
Mi spaventava a volte, non era sempre stato così iperattivo, al contrario. Era, come dire, un tipo responsabile. Adorava i bambini, piaceva agli adulti e per questo era sempre lui quello che manteneva le relazioni con i vicini e andava alle riunioni di condominio ma, da quando era cambiato, dovevamo fare a turno. Insomma, non avevo ben capito cosa gli fosse accaduto, lui diceva solo che nella vita non voleva essere colto impreparato, ma da un anno sembrava deciso ad essere aggressivo e pronto all’azione in qualsiasi istante.
Bepo era il più tranquillo forse. Aveva un’indole calma e accondiscendente e ci sosteneva sempre nelle nostre imprese o nei nostri progetti, aiutando chi aveva bisogno e dimostrandosi sempre cordiale e gentile. Anche lui aveva preso a seguire Penguin nella sua assurda idea di fare karate, dimostrandosi molto disciplinato e portato per lo sport, tanto che aveva preso a seguire un corso serio e utile in una delle palestre di Sabaody, poco fuori dal centro della città.
Per quanto riguardava Ace non sapevo bene come descriverlo. Era come un fratello maggiore per tutti: pacifico, protettivo, affezionato ai suoi amici e frequentava l’ultimo anno all’università. Insegnava kick boxing nel tempo libero e la cosa lo appassionava molto e gli dava soddisfazione. Durante le feste, invece, si improvvisava piromane, procurandosi una numerosa scorta di fuochi d’artificio che, la maggior parte delle volte, esplodevano prima di venire accesi, ma non mancavano mai di fare scintille e luci colorate.
Ci chiedevamo spesso dove li trovasse o chi glieli vendesse, ma era sempre stato zitto su questo punto e dava a tutti risposte vaghe e ambigue per mantenere un velo di mistero in tutto ciò. Ci avevamo fatto l’abitudine ormai, bastava solo che non si facesse troppo male rischiando di perdere una mano, un braccio o sfigurarsi la faccia. In quel caso avrebbe avuto tre medici in casa ad occuparsi di lui.
A concludere il quadretto c’ero io e, per quanto mi trovassi bene in loro compagnia, cercavo sempre di non intralciarli e lasciare che svolgessero le loro attività senza intoppi, stando spesso all’università per studiare, senza disturbare o venire disturbato.
Andava bene, ci trovavamo spesso d’accordo e in sintonia, ognuno era libero di andare e venire quando voleva e a qualsiasi ora e se c’erano problemi eravamo pronti a darci reciprocamente un aiuto. Dalla nostra parte avevamo un’amicizia che durava da molti anni ormai: Bepo, Penguin ed io ci conoscevamo da quando eravamo piccoli e Ace si era unito a noi solo da un pezzo ormai, legando subito con tutti e conquistando anche la mia solita diffidenza per gli sconosciuti, sopportando senza fastidi il mio cinismo e il senso dell’umorismo sarcastico che sfoggiavo di solito. Non si sentiva a disagio tra di noi e la mia solita freddezza non lo disturbava. Si sentiva un po’ inquieto quando ero infastidito.
Non arrabbiato, figuriamoci. Arrabbiarsi significava perdere il controllo e a me non succedeva mai. Per il resto andava tutto bene.
Chiusi il libro di medicina e finii di annotare gli ultimi appunti, ammucchiando le mie scartoffie, penne e matite e mettendo tutto nello zaino notando che l’orologio appeso alla parete segnava le sei passate. Non era tanto tardi, forse potevo arrivare a casa con gli ultimi raggi di luce, prima che il sole tramontasse all’orizzonte.
Salutai un paio di studenti del quarto anno che stavano ultimando un progetto e uscii dall’edificio, chiudendomi il cappotto e alzando il bavero, pronto per tornare a casa. Feci per calcarmi il cappello in testa, ma ricordai che l’avevo perso durante il fine settimana. Dovevo ritrovarlo al più presto o non sarei più riuscito a dormire la notte.
Era stata una giornata tranquilla, come al solito. Niente intoppi o contrattempi; il sole era insolitamente alto e rendeva l’aria autunnale meno gelida rispetto agli ultimi giorni; lungo la strada alcuni venditori ambulanti offrivano cibi e specialità calde e le persone si affrettavano per le strade a tornare a casa da lavoro.
Era un giorno stupido il mercoledì. Noioso ed inutile.
L’appartamento in cui abitavo non distava molto dalla facoltà, perciò ogni giorno facevo una passeggiata all’aperto, senza bisogno di usare l’auto. Meno la sfoggiavo, meglio era e a nessuno passava per la mente l’idea di rubarmela.
Ero piuttosto geloso delle mie cose e difficilmente le prestavo agli altri.
Svoltai a sinistra seguendo il marciapiede e raggiungendo il mio quartiere dove quattro stabili e un paio di casette si fronteggiavano, affiancati da un modesto parco e da una serie di negozi di alimentari e cianfrusaglie.
Attraversai la strada e raggiunsi l’edificio di tre piani che ospitava il mio appartamento, preparandomi ad una doccia calda e rilassante, una cena a base di cibo da asporto per poi stravaccarmi su una poltrona a leggere qualcosa.
Era una bella immagine e, mentre vagliavo i possibili libri da sfogliare salendo le scale, il telefono iniziò a vibrare nella tasca posteriore dei jeans.
«Pronto?» risposi, senza controllare il display e tenendo il cellulare tra l’orecchio e la spalla mentre cercavo di infilare la chiave nella toppa. Era una delle regole principali della convivenza con gli altri: chiudere sempre la porta a chiave, anche se in casa c’era qualcuno. Per farla breve, Bepo aveva una specie di fobia degli estranei e malintenzionati.
«Ho trovato il tuo dannato cappello» fece una voce scocciata dall’altro capo.
Un piccolo sorriso fece capolino sul mio viso, nascosto dal collo alto del giubbotto, mentre sospiravo sollevato alla buona notizia ricevuta.
«Come sei stato gentile a dirmelo, Eustass-ya» sfottei. Un modo come un altro per ringraziarlo senza doverlo fare apertamente e in modo diretto. Non era nel mio stile e di certo non gli avrei dato quella soddisfazione.
«Vaffanculo. La prossima volta che ci vediamo dovrai pregarmi per riaverlo» grugnì stizzito, riattaccando subito dopo.
Alzai gli occhi al cielo ghignando, lieto del fatto di aver ritrovato una delle cose a cui tenevo di più al mondo, anche se l’idea di doverlo lasciare nelle mani di quello scapestrato fino alla fine della settimana mi lasciava un po’ a disagio. Per quanto ne sapevo avrebbe potuto decidere di farmi uno scherzo di cattivo gusto e farmelo ritrovare a pezzi. Se così fosse stato avrei ridotto in brandelli lui stesso.
Entrai in casa e chiusi la porta, lasciando le chiavi sulla mensola appesa al muro e tolsi cappotto e sciarpa prima di adagiare lo zaino a terra. Odiavo il disordine e mai avrei fatto come Penguin ed Ace, ossia lasciare le scarpe davanti all’ingresso e cartelle e abiti sparsi per il corridoio. Non abitavamo in un porcile ed ero ancora sicuro che i miei compagni non fossero maiali, non del tutto almeno, anche se stavo iniziando a riconsiderare l’ipotesi mano a mano che il tempo passava.
«Ciao Traffy!» urlò una voce alta e allegra che conoscevo troppo bene. A quanto pareva avrei dovuto dire addio alla tranquilla serata che avevo programmato dato che Rufy era venuto a farci visita per salutare il fratello e passare un po’ di tempo in sua compagnia.
Rispondendo al saluto e sorvolando sul fatto che il ragazzino stesse facendo uno spuntino seduto comodamente sul divano in soggiorno, spargendo briciole ovunque, notai un nuovo messaggio sullo schermo del telefono che adagiai sul tavolino in centro al salotto.
Vedi di riportarmi i joystick per la playstation. So che li hai presi tu, bastardo.
Ghignai e ignorai la richiesta, lasciando il povero Eustass in preda alla rabbia per non poter giocare e passare il tempo a bruciarsi quei pochi neuroni che gli rimanevano nel cervello.
Era passato più di un mese ormai da quella fottuta sera, quando avevo dormito da lui. Successivamente, senza sapere di preciso come, avevamo stabilito con un tacito accordo che una volta alla settimana ci incontravamo e passavamo qualche ora assieme. Praticamente, la maggior parte delle volte, il weekend lo passavamo a scopare e a entrambi stava bene così. Gli insulti non erano diminuiti, forse erano addirittura aumentati e peggiorati, ma la cosa non mi creava problemi. Era un gioco malsano, ma estremamente divertente.
Scrissi una risposta veloce per poi spegnere il telefono e godermi la serata senza le lamentele di quell’idiota.
Cercali su eBay. Potrei guadagnare qualche soldo se li vendessi, Eustass-ya.

 


Angolo Autrice.
Eccolo in orario perfetto, come vi avevo promesso. E, per la prima volta, ho deciso di dedicarlo a qualcuno. Quindi Grazie FlameOfLife, questo è per te.
Basta smancerie, adesso vi chiedo un attimo per spiegarvi una cosa. Allora, qui si passa per uno spazio temporale. Law si risveglia a casa di Kidd dopo una soddisfacente serata e i due iniziano una relazione malsana. E’ troppo presto per chiamarla così, quindi sono, in poche parole, diventati amici di letto. Da quel risveglio è passato più o meno un mese, quindi da inizio ottobre siamo alla prima metà di novembre, e la cosa va ancora avanti e continuerà ad essere così.
Per adesso.
Spero di essermi spiegata bene e che il capitolo sia piaciuto ^^ niente canzoni questa volta, non ci saranno sempre.
Ora vi lascio miei seguaci, andate in pace e buona serata! Oh, e un Grazie a tutti, nessuno escluso!

See ya,
Ace.
 

  
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