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Autore: LaGraziaViolenta    03/11/2013    11 recensioni
Stufi dei soliti cliché di Harry Potter? Annoiati marci dalle fantastiche avventure sentimental-sessuali di tre generazioni di Serpeverde? Vi sentite smarriti e frustrati di fronte a dei Grifondoro codardi e dei Corvonero dal QI in singola cifra?
Serena Latini è quello che fa per voi. Le avventure di una sfigata Tassorosso alle prese con incantesimi, fanfiction, pony, cucina inglese e delle sue relazioni coi figli dei personaggi che tanto abbiamo apprezzato.
Zuccherosità, storielle amorose e di amicizia, figure da quattro soldi e battute demenziali attendono una povera Tassorosso made in Italy.
Genere: Comico, Demenziale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albus Severus Potter, Nuovo personaggio, Scorpius Malfoy, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Nuova generazione
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Dove Serena Latini vive un Emomento semiserio ed entra in Modalità Casalinga Disperata.
 
 
 
Non avrei mai creduto Jeanie e Chelsea capaci di nascondermi una cosa del genere. Quando riuscii a tornare nel mio scompartimento e a riprendermi dallo shock quanto bastava per spiegare cos’era successo, Jeanie con aria saccente mi aveva fatto un breve resoconto della seconda guerra magica. Alla domanda “come mai queste cose non me le hai dette prima?” Jeanie aveva risposto “se ci tenevi potevi informarti da sola”.
Non aveva tutti i torti. Ma ero ugualmente irritata, e piuttosto che dirle cose che non pensavo davvero preferii tacere. Morale della favola, non dissi più una parola per tutto il viaggio.
Non potendomi sotterrare e scomparire dalla faccia della terra, o quantomeno tornare in Italia, rimediai con l’elezione della Sala Comune di Tassorosso a mia tomba per tutta la durata del sesto anno. I miei propositi erano fermissimi: non avrei più messo piede fuori da lì. Mi vergognavo troppo della mia ignoranza.
Quella sera mi infilai sotto le coperte preparandomi a una notte insonne di tormenti infernali e sensi di colpa. A voler dare credito alle mie compagne di stanza, dopo dieci minuti russavo.
La mattina dopo mi trovai costretta a prendere una decisione. Mi attendevano due ore di Pozioni coi Serpeverde. Avevo due possibilità: frequentare la lezione, morire di vergogna, andare in depressione e candidarmi per diventare la best friend forever di Mirtilla Malcontenta, oppure marinare. Scelsi di prendermi una giornata di ferie.
Quando le mie compagne uscirono dalla stanza, il sole entrava dalle finestre e faceva brillare la neve di un bianco abbacinante. La mia risposta a quello spettacolo della natura fu girarmi e abbracciare il cuscino.
E quindi Albus era il figlio di un personaggio famoso. Peggio ancora, questo personaggio famoso era una specie di supereroe del mondo magico. Vero, non facevano più i supereroi figaccioni come una volta. Batman era un gran bel pezzo d’uomo, era ricco e aveva pure un maggiordomo. Se il signor Potter era quell’uomo di mezza età con la pancetta che avevo visto in stazione, be’, il buongusto inglese doveva avere dei seri problemi. O forse era la realtà ad essere crudele. In ogni caso il supereroe era lui ed era il padre di Albus.
E io ora cosa avrei dovuto fare? Io e Albus eravamo amici? Forse. Eravamo fidanzati? Ma anche no. Non sapevo nemmeno cosa eravamo, figurarsi sapere come mi dovevo comportare.
Riflettei. A questo tipo di domande la risposta in genere era “come al solito”.
Facile a dirsi. Scopri che il figlio di un eroe ti ha fatto il filo fino al giorno prima e lo devi considerare normale. Tutto ok, fai finta di niente. Era come finire sotto un tir e cercare di immaginarsi su una spiaggia delle Bahamas. Solo un malato di mente ci sarebbe potuto riuscire.
Decisi di prendere in analisi le varie possibilità.
Opzione numero uno. Potevo ignorare Albus. Evitarlo, declinare qualsiasi sua offerta, non rispondergli se mi parlava, rinunciare ai M.A.G.O. in Pozioni ed Erbologia. Nonché alla Sachertorte, ricetta originale austriaca. Affondai i denti nel cuscino. La lingua si appiccicò alla federa insapore. Cribbio, sarebbe stata durissima.
Opzione numero due. Potevo cercare di essere amichevole. Il problema era che non mi veniva naturale. Se fossi diventata tutto all’improvviso socievole come Pinkie Pie di sicuro chiunque avrebbe pensato che ero un’ipocrita. Finché piaci a un ragazzino sedicenne un po’ sfigato non te ne frega niente, quando invece piaci al figlio del Superman locale sei carina e coccolosa. Mi sarei fatta schifo da sola.
Fine delle opzioni. Dovevo decidere tra una vita di rinunce e il farmi schifo. Che magnifica prospettiva.
Nel pomeriggio entrò nel dormitorio una ragazzina per dirmi che una ragazza rotondetta era fuori dalla Sala Comune e voleva vedermi. Immaginai che fosse un modo carino per riferirsi a Chelsea. Le chiesi di dirle che non mi sentivo bene e che preferivo restare a letto.
Non l’avrebbe bevuta. Pazienza. Dopotutto era anche colpa sua se ora mi ritrovavo a dover scegliere.
Quando la ragazzina uscì mi tirai su a sedere. Sentii una fitta di dolore alla schiena. A voler essere onesti no, non era colpa di Chelsea, per quanto fosse dura ammetterlo. E neanche di Jeanie. Ero io ad essere male informata. Non c’erano scuse. Pensai a cosa avrebbe detto Jeanie se mi avesse vista così: stavo fuggendo dai problemi, non mi stavo comportando in modo razionale. Lei non avrebbe reagito così.
«Hai ragione, Jeanie Joy, hai ragione. Come sempre.» Mi ributtai sul letto.
Mi feci più seghe mentali quel giorno che Mirtilla Malcontenta in tutti gli anni della sua morte. Forse potevo fare a gara con Rose Weasley, dopotutto non eravamo tanto diverse.
Purtroppo le seghe mentali non riempivano lo stomaco. Andare in Sala Grande però equivaleva a buttarsi in una fossa di leoni famelici e di corvi affamati di carogne. Con in più il rischio di incontrare serpi velenose. Decisi di sfruttare la mia scorta per le emergenze di cibo mandato dall’Italia: feci fuori un sacchetto di patatine da trecento grammi e metà scatola di merendine Pan di Stelle. Probabilmente, se mi fossi guardata allo specchio, la differenza tra me e una casalinga disperata sarebbe stata minima. Mi mancavano solo i bigodini.
A un certo punto mi ritrovai a fissare la merendina. Ripensai ad Halloween. Alla mia magnifica figuraccia con Rose Weasley. Tutte cose accadute perché io non sapevo.
«Al diavolo» borbottai. Ributtai la merendina nella scatola. Dov’erano a Hogwarts i trafficanti di Whiskey Incendiario illegale quando servivano? Ah, già, se c’erano si trovavano a Serpeverde. Di certo non nell’altissima, purissima, levissima, ignorantissima e sfigatissima Tassorosso.
Il mattino dopo ero decisa a saltare un’altra volta le lezioni. Le rotelle del mio cervello erano troppo arrugginite, e dato che tutte le mie lezioni del martedì erano coi Corvonero non era il caso di fare pubblico sfoggio delle mie doti.
Qualcuno bussò.
Non risposi.
Bussarono ancora.
«Sono in coma» mugugnai. «Siete pregati di lasciare un messaggio dopo il bip, grazie.»
Silenzio.
Attesi.
Ancora silenzio.
«Biiip
La porta si aprì. Entrò una mia compagna di stanza.
«Serena?»
Ero stravaccata sul letto, ancora abbracciata al cuscino. Non mi diedi neanche la pena di tirarmi su. Mannaggia a lei, e io che speravo di deprimermi tutta la mattina in santa pace. «Che c’è, Daisy?»
«Non so come dirtelo… È che…» Daisy si morse un’unghia. «Ehm… Credo… Che tu sia nei guai.»
«Ma davvero?» feci, sarcastica. Questa era bella. Guai! Cosa poteva esserci di peggio rispetto a come stavo?
«Paciock è fuori dalla Sala Comune e vuole parlarti.»
Spalacai gli occhi. Immediatamente mi puntellai sulle braccia per tirarmi su, ma una fitta di dolore alla schiena mi fece lanciare un gemito. La mano posata sul cuscino scivolò. Gridai. Persi l’equilibro e un secondo dopo un dolore lancinante mi si propagò dal sedere ai reni. Quando il dolore si attenuò riaprii gli occhi e mi resi conto di essere a terra, immobile. Gemetti ancora. Stesi la mano e mi aggrappai al bordo del letto.
Daisy tossicchiò, in imbarazzo. «Ehm, sì. Fai con comodo, ha detto che ti aspetta.»
Quindici minuti dopo ero vestita e pettinata, e sperai anche presentabile. Ma far aspettare un professore quindici minuti era qualcosa di estremamente maleducato. Se mia madre avesse saputo una cosa del genere mi avrebbe linciata. Mi avviai verso l’uscita della Sala Comune come una condannata al patibolo. Ora sì che sentivo lo stomaco contorcersi per la tensione.
Sbucai in corridoio. Paciock si ergeva a braccia incrociate nella sua notevole altezza. Notevole per me, almeno, che gli arrivavo alle spalle. Mi sentivo già colpevole.
«Latini» fece. «Allora sei tornata dalle vacanze di Natale. Ti davamo per dispersa.»
Avvampai. «Nossignore.»
Il professore mi fissò per qualche secondo. «Nel mio ufficio.»
Mentre percorrevamo i corridoi incrociammo qualche Serpeverde. Mi vergognai profondamente. Se seguivo il professore a testa bassa era evidente che stavo per essere punita. Sentii una risatina. Avvampai di nuovo. Pubblico martirio. Impossibile essere più umiliati di così. Perché sempre a me?
Non appena il professor Paciock aprì la porta del suo ufficio un forte odore di letame mi pizzicò le narici e istintivamente mi ritrassi. Mi costrinsi a non storcere il naso: l’ultima cosa che volevo era che il professore pensasse che per me il suo ufficio puzzava.
«Oh, non di nuovo» fece Paciock in tono lamentoso.
Sbirciai dentro la stanza. Sembrava un normale ufficio, con cattedra, sedie e piante sparse qua e là. Niente attrezzi per torturare gli studenti. Peccato per quell’odore nauseabondo.
«Povera pianta, deve avere qualcosa che non va, non capisco cosa la disturbi…» Paciock mormorò un incantesimo e la puzza sparì. In piedi sulla soglia, le mani strette al tessuto della gonna, osservai il professore sollevare un vaso con una pianta coperta da grosse bolle.
«Accomodati» disse Paciock. Si rigirò la pianta tra le mani e corrugò la fronte.
Esitai ancora, poi presi un respiro profondo ed entrai. Mi avvicinai alla cattedra. Mi sentivo rigida e impacciata. Aveva detto di accomodarmi, significava che mi dovevo anche sedere?
Finalmente Paciock posò la pianta sulla cattedra e mi guardò. «Siediti, Latini.»
Mi si bloccò il fiato. Scostai la sedia e obbedii.
«Allora.» Paciock si sedette alla cattedra. Unì le mani e si sporse verso di me. «Sono due giorni che non ti presenti a lezione. Assenze ingiustificate, visto che non sei malata. È una cosa grave, te ne rendi conto?»
Lo sguardo serio del professore mi mise in soggezione. Abbassai gli occhi e fissai la punta delle scarpe.
«Per quale motivo l’hai fatto? Non è da te, Latini. Cose del genere ce le possiamo aspettare da altri studenti, non da te. Dovremo scrivere a casa per questo.»
Non mi sembrava il caso di ricordare al professore che i miei genitori non capivano una mazza d’inglese. Non che sperassi di farla franca, sapevo come sarebbe andata: non avrei retto al senso di colpa e avrei tradotto per loro anche la lettera di rimprovero.
Il professor Paciock picchiettò l’indice contro la cattedra. «Latini, guardami in faccia mentre ti parlo.»
Feci forza su me stessa e mi costrinsi ad alzare la testa. Lo sguardo indagatore del professore mi fece arrossire.
«Non sei una cattiva studentessa.» La voce di Paciock si era addolcita. «Non salti mai le lezioni, non disturbi, ti impegni sempre, sei onesta e leale. Sei una vera Tassorosso, e non credo di poterti fare una lode più grande.»
Mi morsi il labbro e cercai di trattenere il respiro per impedirmi di ansimare. Gli occhi mi si riempirono di lacrime.
«È per questo motivo che non mi spiego il tuo comportamento. È successo qualcosa che ti ha turbata?»
Scossi il capo. Non riuscii più a sostenere il suo sguardo e abbassai la testa. Mi vergognavo tremendamente. Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Strinsi il tessuto della gonna. Una goccia mi cadde sul dorso della mano.
«Per caso qualcuno ti ha presa di mira?»
Continuai a fissare la mia gonna e scossi ancora la testa. Tirai su col naso. Le spalle sussultavano contro la mia volontà.
«Latini, sappi che non c’è nulla di male a chiedere aiuto se ne hai bisogno. Noi professori siamo qui anche per questo. Oppure, se hai qualche preoccupazione, se ti senti più a tuo agio perché non provi a parlarne con le signorine Shields e Joy?»
Tirai di nuovo su col naso. Chiusi gli occhi e li strinsi per frenare le lacrime. Mi vergognavo, e di certo non potevo dire al professor Paciock che mi comportavo come una bambina per colpa di una figuraccia tra le tante. O che non me la sentivo di parlare con Chelsea e Jeanie.
«Mi sa che ho toccato un tasto dolente» disse Paciock.
Tacqui. Mi morsi il labbro per cercare di frenare i singhiozzi.
«Io di certo non mi devo immischiare nelle faccende tra studenti, ma capisci, Latini, che queste non devono interferire con le lezioni?»
Mi asciugai le lacrime col dorso della mano. Annuii.
«Puoi assicurarmi che non c’è niente di più serio dietro a questo tuo comportamento? Perché se c’è qualche altro motivo oltre a un litigio forse è il caso che io lo sappia.»
Capii che il professor Paciock pensava a qualcosa di molto peggio di un litigio. Non volevo che pensasse che qualche studente mi stesse infastidendo, visto che non era così.
«È che…» La voce mi si spense. La schiarii, ma rimase roca. «È che…»
«Coraggio» mi incitò Paciock.
Mi guardai i piedi. Li incrociai e li feci dondolare. «È un po’ umiliante.»
«Non è molto peggio star male e marinare le lezioni?»
Mi morsi il labbro. Forse era meglio vuotare il sacco. «È che ho scoperto da poco che… Come dire… C’è stata una guerra magica. Che è stata recente. Con storie di pregiudizi razziali, e tutto.»
Sbirciai il professore. Paciock mi guardava attentamente. «Continua.»
Improvvisamente ebbi paura di offenderlo, o di riportargli alla mente brutti ricordi. Come potevo parlarne in maniera tale da non urtare i sentimenti del professore? Mi strinsi nelle spalle. Deglutii. «Non sapevo che… Un mio amico era… Parente di una persona che, insomma, ha vissuto la guerra. È che temo che non riuscirò più a comportarmi con naturalezza. Cioè, non che ci sia qualcosa di male, ma non penso che riuscirei a sentirmi a mio agio sapendo che suo padre… Che…»
Il professore alzò le sopracciglia. «Credo di aver capito il problema» disse. Mi squadrò. Gli restituii uno sguardo imbarazzato. «Scorpius Malfoy?»
Oddio. Una vampata di calore mi bruciò il viso. Mai nominare il nome di Scorpius invano. «N-no!»
Il professore corrugò la fronte. Mi lanciò uno sguardo interrogativo. «No?»
Avevo la bocca secca. Cercai di deglutire. «A… Albus Potter.»
Paciock sgranò gli occhi. Mi sembrò davvero sorpreso. O forse addirittura sbalordito.
Improvvisamente sentii l’esigenza di spiegarmi: «È che mi hanno detto che è grazie a suo padre che io posso frequentare Hogwarts, intendo dire grazie al padre di Albus Potter, perché una volta non si volevano persone nate da famiglie babbane a Hogwarts e quindi in un certo senso siccome sono una nata babbana è come se fossi in debito con lui, con suo padre voglio dire, ma io non saprei mai come estinguere un debito del genere, e Albus Potter comunque è sempre gentile con me e con tutti solo che io già di mio fatico ad avere amici e adesso che so questo non riesco a non pensarci e quindi ora mi sento in debito anche verso Albus Potter ma così non riuscirò ad essere davvero sua amica e allora…»
Paciock alzò la mano. «Alt. Basta. Ora prendi un bel respiro e calmati.»
Come no, ero calmissima. Come dopo una dose di adrenalina in endovena.
«Ora ascoltami bene, Latini. E guardami in faccia, perché quello che sto per dirti voglio che sia ben chiaro.»
Alzai gli occhi. Ero ancora in iperventilazione.
«Per quanto questa cosa abbia potuto tormentarti, problemi di questo genere a Hogwarts non sono considerati dei buoni motivi per saltare le lezioni. Si scriverà ai tuoi genitori per informarli della cosa, come è giusto che sia.»
«Sì.» Me lo sarei dovuta aspettare. Abbassai la testa.
«Non ho finito.»
La rialzai.
«Domani mi aspetto di sentir dire dai miei colleghi che sei stata regolarmente presente a lezione, e giovedì io stesso mi aspetto di vederti in prima fila alla lezione di Erbologia. Chiaro?»
«Sissignore.»
«Questo, parlando da professore ad alunna.»
Non capii. Perché, che cosa eravamo, due pony che viaggiavano sulla scia dell’arcobaleno?
Ripetei: «Da professore ad alunna?»
«Sì. Parlando in modo più informale, ti consiglio di non pensarci troppo.»
Mi sfregai i lati degli occhi. Come facevo a non pensarci troppo?
«Conosco personalmente il padre di Albus Potter.»
Mi bloccai con la mano a mezz’aria e fissai il professore, inebetita. Mi resi conto di avere la bocca aperta e la richiusi.
«È un uomo umile» continuò Paciock, «e sono assolutamente certo del fatto che lui non pensi che né tu né nessun altro nato babbano gli dobbiate qualcosa. Né tantomeno lo pensano i suoi figli.»
Impiegai qualche secondo ad assorbire le parole del professore. Poi d’un tratto mi sentii investire dall’imbarazzo. «Oh!» Avvampai e mi coprii la bocca con la mano. «Non intendevo dire che i Potter sono superbi, no!»
A parte James Potter. Demonio, meritava di farsi corteggiare da Mirtilla Malcontenta.
«Lo so» disse Paciock. «Su Latini, meno ansia. Mi sento di aggiungere questo anche per quanto riguarda i test e gli esami.»
Mi morsi il labbro. Annuii.
«Ora puoi andare.»
Mi alzai. Sussultai quando la sedia grattò contro il pavimento. «Be’, a-allora… Mi scusi ancora. Arrivederci.»
Mi costrinsi a non correre e uscii dall’ufficio a passo svelto. Quando richiusi la porta dell’ufficio mi sentivo come un coniglietto braccato dalle volpi. Mi appoggiai alla porta e inspirai.
Espirai.
Inspirai.
Mi avviai verso la Sala Comune di Tassorosso.
Senza una punizione.
Avrebbero solo scritto una lettera ai miei.
Purché tornassi a frequentare le lezioni.
Ero appena stata graziata.
 

Nota dell’autrice: a seguito di diverse e sensate segnalazioni, nonostante il mio proposito iniziale di fare meno modifiche possibile, vi informo che cambierò il cognome di Longbottom in Paciock, come da versione italiana. Se vedrete cambiamenti, quindi, non allarmatevi. J Grazie a tutti quelli che hanno segnalato l’incoerenza. Cosa farei senza i miei recensori! ♥
  
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