Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: rosie__posie    06/11/2013    6 recensioni
Sherlock e John si conoscono e si innamorano in Paradiso. Il primo è un'anima non ancora nata, il secondo è l'anima di un soldato rimasto ucciso in guerra. Sul tetto del Bart's, scesi sulla Terra, Sherlock non è capace di salvare la vita a John, che muore e torna nuovamente in Paradiso. Ma John non accetta di rimanere separato da Sherlock e fa un patto con Jim, il Diavolo: riceverà 5 vite in cui reincarnarsi. Se alla fine di queste vite non riuscirà a ritrovare Sherlock, la sua anima diventerà di proprietà di Jim. Per l'eternità.
Note: reincarnation!AU, da teen!lock a retirement!lock, wing!lock – Crossover con Sherlock Holmes Gioco di ombre, Dr House, Elementary
Due occhi grandi, incantevoli, d’una sfumatura indefinita che correva dal grigio medio all'azzurro più chiaro, quasi di ghiaccio. Erano occhi pieni di vita, quelli, come non ne aveva mai visti. Brillavano come due piccoli, grandi soli attorno ai quali ruota ogni cosa. Sul volto di quel ragazzino era dipinto un broncio delizioso. John stentava a crederci: aveva tra le mani un'anima.
Genere: Angst, Fluff, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty , John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes , Victor Trevor
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Angolo dell’autrice:  consiglio di leggere questo capitolo ascoltando a tutto volume la splendida Ain’t no mountain high enough di Marvin Gaye sulle cui note danzeranno Sherlock e John…
 

 
 
NESSUNA MONTAGNA È COSI' ALTA DA IMPEDIRMI DI VENIRE DA TE
 
 
Un cavallo imbizzarrito che galoppa a briglie sciolte. Il Concorde che, con i freni in avaria, travolge ogni cosa al suo passaggio sino a uscire fuori pista. Un siluro sparato alla massima potenza contro il suo bersaglio. E vertigini. Tante, tantissime vertigini.
 
Fu così che si sentì John Watson quando il principato Siger lo sparò a tutta velocità verso il suo nuovo bersaglio. Atterrò con così tanta furia che i piedi non gli stettero dietro: inciampò e ruzzolò contro qualcosa di freddo e duro.
 
"Dannazione" imprecò. Aveva ormai perso il conto di quante volte aveva rischiato di cadere, quel giorno. Si aggrappò con forza alla cosa contro cui era andato a sbattere, tirandosi su piano. Era un tavolo. Si guardò intorno, chiedendosi se il signor Holmes lo avesse spedito davvero nella giusta destinazione. E il suo giudizio fu: impossibile da determinare.
 
Il luogo in cui si trovava era qualcosa che stava all'incrocio tra la Bat-caverna e il retrobottega di un rigattiere.
 
La luce era scarsa. Il soffitto era basso. Le pareti erano grezze, non intonacate. Dappertutto regnava il caos più totale. Ovunque voltasse il capo, John notava di tutto e di più: becher pieni di liquidi strani e colorati, libri dei più svariati argomenti (come una monografia sulla flora tipica delle Bermuda o un saggio di dubbia utilità su come uccidere il proprio consorte in 41 modi diversi e farla franca), una mazza da baseball e persino alcuni piattini da coltura sui quali troneggiavano dei poveri rospi senza vita e che emettevano un odore nauseabondo.
 
Dopo una seconda occhiata, il ragazzo si rese conto che il tavolo era in realtà una scrivania: riconobbe una tastiera per computer (del computer invece nessuna traccia), un barattolo di vetro simile a quelli per caramelle che si trovavano nelle botteghe d'un tempo (che al posto delle caramelle ospitava invece un numero impressionante di api vive impegnate pigramente a ronzare) e persino un violino un po’ ammaccato completo di mentoniera.
 
Infine, sotto una pila di quadernoni ancora inutilizzati, John intravide un familiare pezzettino di carta nera. Allungò tentennante una mano per scostare i quaderni ed eccolo lì: l'aquilone a forma di ape.
 
"A quanto pare, sei davvero finito nel posto giusto, John Watson" disse a se stesso con un fil di voce. Il luogo giusto, forse, ma del suo proprietario non v'era traccia evidente. Sospirò. Un attimo dopo, i suoi occhi scorsero una sedia appoggiata malamente a una parete. Sulla seduta era appoggiata un teiera sbeccata e impolverata. La prese e l'accomodò in qualche modo sulla scrivania, quindi si sedette mantenendo una postura alquanto rigida.
 
Iniziò nuovamente a tamburellarsi entrambe le ginocchia con le dita. A destinazione ci era arrivato, in qualche modo. Adesso, che cosa avrebbe dovuto fare? Che cosa prevedeva la sua missione?
 
"Afghanistan o Iraq?" echeggiò una voce nell’aria.
 
John fece un balzo sulla sedia. "Chi sei? Dove sei?" Uno sbuffo. "Quassù! Alza gli occhi: le stanze hanno anche un'altezza!"
 
Il soldato ubbidì e finalmente lo vide. Se ne stava appollaiato su una trave di legno, aggrappato per i piedi e a testa in giù. I riccioli scuri ricadevano scomposti in avanti. Una mano scostò il ciuffo ribelle in modo da riuscire a vedere meglio il suo interlocutore. In quella posa, Sherlock Holmes ricordava un piccolo pipistrello.
 
"Allora, Afghanistan o Iraq?" ripeté la giovane anima con aria annoiata, prima di spiccare il volo. Atterrò davanti a John in equilibrio perfetto, come il più abile dei giocolieri.
 
Il giovane dai capelli biondi bofonchiò un incerto Iraq, mentre si spalmava contro lo schienale della sedia, lievemente scosso.
 
"Da quant'è che sei qui?" continuò Sherlock, iniziando a scartabellare tra gli oggetti gettati alla rinfusa sulla scrivania. “In Paradiso, intendo.” "Io... Non lo so esattamente" rispose l'altro, decidendosi finalmente di alzarsi. "Da quando ci siamo visti la prima volta, più o meno." "Allora sono tre settimane, un giorno e tredici ore" disse il ragazzino, pescando un orologio da taschino con gli ingranaggi a vista dalla tasca posteriore dei pantaloni.
 
“Come mai sei venuto a cercarmi?" continuò poi, annusando la rana dentro il piattino di coltura e annuendo soddisfatto. "Chi ti dice che sia venuto a cercarti?" rilanciò John, fingendo un'aria disinteressata. Il sopracciglio inarcato dell'altro suggeriva che non credeva nemmeno a una sillaba di quanto appena udito. "Vuoi dirmi che ti sei imbattuto per caso in questo posto che si trova a ventuno leghe celesti sotto i Cancelli e a duecento gradi a ovest del Tunnel?” "Ecco... No" ammise il soldato, sprofondando nell'imbarazzo.
 
"Dunque hai detto una bugia" gli fece notare la giovane anima con supponenza. Il viso di John si rabbuiò. "Oh, no... Vuol dire che adesso finirò negli Inferi?" bisbigliò allarmato. I suoi occhi scivolarono in preda al terrore verso i suoi piedi, dove temette che da un secondo con l'altro dovesse aprirsi una voragine che lo avrebbe trascinato nelle Tenebre, esattamente com'era accaduto a Sebastian. Le labbra di Sherlock si incresparono in un ghigno. "Non finisci negli Inferi per una bugia!"
 
John soffiò sollevato alla notizia. "Meno male, per un attimo ho creduto... Ho creduto..." Scosse la testa, le parole che gli mancavano come l'aria. "Ho visto un amico, un compagno, cadere negli Inferi" aggiunse con un sorriso triste dipinto sul viso. "E io mia madre" ribatté l’altro, senza tuttavia alcuna nota di emozione nella voce. "Oh... Ne sono desolato" disse John. Provò l'impulso di aggiungere altro o fare altro, magari sfiorargli il braccio in segno di solidarietà, ma, notando l'impassibilità del suo interlocutore nello sguardo e nelle parole, desistette immediatamente.
 
"Perché dovresti esserlo? Non la conoscevi nemmeno." Il soldato osservò confuso il ragazzino. "Sul serio: perché dovresti essere dispiaciuto per una persona che non conosci?" insistette Sherlock; lo stava osservando davvero senza capire. Nemmeno John capiva, in verità. "Non la conoscevo, infatti. Ma conosco te." Una pausa imbarazzata. "Beh, poco, ma ti conosco... E mi dispiace."
 
"Non credo tu debba dispiacertene: c'è gente che va all'Inferno e gente che va in Paradiso. Punto" sentenziò la giovane anima, continuando a frugare tra le sue cose: un attrezzo per cuocere un uovo al microonde, il mulinello di una canna da pesca...
 
John si sentì punto sul vivo: era stato gentile con lui, ma adesso aveva solo voglia di mandarlo a quel paese. "Va bene, fai come se non avessi detto nulla" borbottò, voltandosi e facendo per andarsene. Poi si bloccò, non sapendo bene come poter uscire di lì, e d'improvviso si ricordò dell'incarico ricevuto dal principato. Sbuffò.
 
"Adesso vuoi dirmi la verità? Circa il motivo che ti ha condotto qui?" chiese il ragazzino. Il soldato si voltò piano: sorrise quando vide che teneva un rampone da montagna in una mano e un orsacchiotto nell'altra. "Mi ha mandato tuo padre. Ha pensato che potessi gradire un po' di compagnia."
 
Sherlock roteò gli occhi, irritato. "Si sbaglia. Quello che potrei gradire davvero è nascere!" gridò, allargando le braccia e inclinando il capo all'indietro. "Ma lui, no! Pensa che non sono pronto!" continuò a bofonchiare, mettendo giù l'orsetto e tirando fuori da un cesto un cappello da pirata. John si avvicinò lentamente, non senza il timore che la giovane anima, nella sua rabbia, potesse prendere qualcosa da quel cesto e tirarla al suo indirizzo.
 
"È logico, Sherlock: è tuo padre. Tutti i padri fanno così" spiegò il soldato, con dolcezza. Il ragazzino smise di colpo di rovistare e lo guardò con sorpresa. "Davvero?" John si morsicò con disagio le labbra. "Quelli sulla Terra, sì. Per un papà, rimani per sempre qualcuno da proteggere. Persino da adulto..." Il figlio del principato Siger lo guardò con occhi dilatati dall'interesse. "Se poi sei una femmina, allora rimarrai non pronta sino alla morte!" scherzò il biondo, ma quando vide un'ombra di disapprovazione oscurare gli occhi chiari di Sherlock, s'affrettò a cambiare registro. "Ovvio, tu non sei una femmina! Era solo un esempio..."
 
"Forse dovrei compilare un nuovo modulo di richiesta di nascita e presentarlo a un altro principato..." mormorò la giovane anima; poi tirò fuori dal cesto una maschera quadrata gialla da apicoltore e la contemplò con aria soddisfatta. Dopodiché, portò lo sguardo su John e tornò a essere serio in viso. "Sto andando a fare un esperimento. Verrai con me questa sera?"
 
Al soldato biondo inspiegabilmente mancò per un attimo il respiro. "Quando vuoi e dove vuoi" rispose, con un fremito d'eccitazione nella voce. "Prendi questo, allora!" ribatté Sherlock, lanciandogli il casco che l'altro prese al volo. "E cambiati vestito: direi che sia il caso di gettare quella tuta mimetica nel dimenticatoio!"
 
Allora John chiuse gli occhi e pensò con molta intensità al suo vecchio armadio e ai suoi vecchi vestiti. Jeans, camice, comodi maglioni, felpe… Ce n'erano di cose tra cui scegliere, ma chissà quali sarebbero state più adatte per il Paradiso.
 
"Jeans e camicia vanno decisamente bene" udì all'improvviso. Quando il biondo riaprì gli occhi, notò che indossava un paio di blue jeans (i suoi preferiti), una camicia a scacchi rossa e un paio di scarponcini beige. S'era cambiato d'abito e nemmeno se n'era reso conto. Ma aveva ricevuto l'approvazione del figlio del principato, perciò andava bene.
 
"Oh, okay..." farfugliò, scandagliandosi da capo a piedi. "Bene, ora possiamo andare!" e in un attimo sentì la mano di Sherlock sulla sua che lo trascinava via.
 
 
 
§§§
 
 
 
La giovane anima Sherlock aveva trascorso intere mezz'ore a mettere nero su bianco gli appunti che aveva memorizzato durante quell'intero pomeriggio trascorso a osservare il comportamento delle api.
 
A volte, le sue lunghe dita da violinista correvano rapide ed eleganti sulle pagine color avorio di quel taccuino dalla sobria copertina nera in pelle.
 
Altre, quando forse i concetti da trascrivere erano troppo complessi, strizzava gli occhi, riviveva il ricordo e, come per  incanto, le sue parole apparivano scritte sulla carta.
 
John lo osservava con stupore e ammirazione, seduto accanto a lui. Non gli era importato troppo, in tutta onestà, del loro piccolo esperimento di quel pomeriggio. Era rimasto lì, steso a pancia in giù accanto a Sherlock su quella piccola nuvoletta azzurra, a imparare termini per lui totalmente privi di significato come arnia, favo, cella e a osservare quei piccoli esserini al lavoro, soltanto perché c'era Sherlock.
 
Soltanto perché gliel'aveva chiesto Sherlock.
 
Soltanto perché era rimasto affascinato da Sherlock...
 
Lo ammaliava il modo in cui i suoi occhi guizzavano rapidi da un'estremità all'altra dell'alveare; da quello in cui il suo naso, a un millimetro dal suolo, annusava e scandagliava con un talento da far invidia al più abile dei segugi; soprattutto, dal modo in cui le sue belle labbra si increspavano lievemente all'insù quando veniva a capo di qualcosa.
 
John subiva lo stesso fascino anche ora che l'anima Sherlock non lo degnava d'uno sguardo, anche ora che pareva immerso in un mondo a mille anni luce da lui e dal Paradiso: il mondo della deduzione.
 
Volse lo sguardo verso l'alto, verso il soffitto di quella che aveva segretamente ribattezzato "Sherlock-caverna": ora aveva un aspetto totalmente diverso; era soffice e dai profili dorati, che parevano quasi note musicali dipinte su un pentagramma color della notte.
 
Rimase lì a contemplarlo per un tempo indefinito, chiedendosi se non fosse stata la mente dell'anima Sherlock, uno dei suoi ricordi (o, meglio, uno dei ricordi altrui che lui aveva cercato di far propri) a produrre quella magnifica volta.
 
Se lo stava ancora domando quando udì un Toc sordo e qualcosa lo urtò. Fu una frazione di secondo e poi John si rese conto di cosa fosse accaduto: Sherlock era caduto addormentato.
 
Era caduto addormentato contro la sua spalla.
 
Le labbra del soldato si addolcirono in un sorriso e i suoi occhi scivolarono morbidi sul viso del giovane. Le ciglia lunghe e nere che ondeggiavano appena al movimento delle pupille sognanti, le gote tinte d’una lieve sfumatura di carminio, le labbra dischiuse come un fiore appena sbocciato e i riccioli disordinati e ancora sudati gli scaldavano il cuore, regalandogli una ventata di dolcezza a lui finora sconosciuta.
 
Sherlock sosteneva con fierezza d'avere "ben" diciassette anni, quattro mesi e diciotto giorni, eppure la creatura che riposava beata accanto a lui raccontava un'altra storia: quella di un bimbo appena nato.
 
E quella del migliore dei compagni di scuola. O del più fedele degli amici nella prima età adulta. Oppure, ancora, del più innamorato degli amanti. O, infine, dell'ultimo compagno nella vecchiaia.
 
L'anima Sherlock era un concentrato di vita e, paradossalmente, non era ancora nata.
 
John si sorprese a deglutire e il suo corpo a tremare appena quando la sua mente formulò il più sconsiderato dei pensieri: si domandò come sarebbe stato accarezzarlo. Scosse la testa, come se solo l'aver formulato quel pensiero lo rendesse in qualche modo impuro. Ma poi il respiro caldo di Sherlock gli accarezzò il collo e John si ritrovò a osare di più: si chiese come sarebbe stato baciarlo.
 
Un bacio piccolo, a stampo. Fraterno. Su quella fronte ampia e spaziosa. Accostare le labbra a quella pelle, soltanto per un attimo. Soltanto per capire di che consistenza fosse la fronte di un'anima.
 
Un secondo, un secondo soltanto.
 
Con labbra tremanti, John si chinò e permise loro di sfiorare con riverenza la fronte dell'anima Sherlock. Era fresca, vellutata. Simile a quella degli umani e molto, molto di più. Ci stavano bene le sue labbra, là sopra. Nemmeno fossero state plasmate apposta...
 
Fu davvero soltanto un secondo e poi di nuovo John raddrizzò la schiena. Sorrise, mentre i suoi occhi si cibavano di nuovo di quella dolce vista.
 
Forse, dopotutto, avrebbe potuto concedersi un altro secondo. E un altro bacio...
 
La fronte appariva più fresca sotto il secondo bacio. E al terzo ricordava il solletico che ti fa provare il vento sulla pelle. Un quarto bacio tentò John, ma il soldato ebbe timore che la sua sconsideratezza potesse disturbare il sonno della giovane anima e dunque vi rinunciò.
 
Resistette solamente pochi minuti, trascorsi i quali si disse che "magari un quarto bacio sarebbe stato troppo, ma una carezza forse no". Allora alzò la mancina per posarla su quella testolina adagiata contro la propria spalla, bloccandosi tuttavia a metà strada. Sospirò, prese coraggio e, con tutta la delicatezza di cui fu capace, la posò con leggiadria su quella chioma scura. Sorrise a se stesso prima di accarezzarla dolcemente. Ci stava proprio bene, la sua mano, in quel groviglio di riccioli.
 
 
 
§§§
 
 
 
Sherlock si svegliò balzando in piedi ed emettendo uno strano verso che a John ricordò molto quello dei suoi commilitoni che riprendevano a respirare dopo la somministrazione d’una scarica elettrica e la cosa lo destabilizzò così tanto da versare fuori dalla tazza parte del the che stava preparando.
 
"Dannazione, mi sono addormentato!" borbottò la giovane anima, scuotendo la testa e guardandosi attorno con aria accigliata. "Va... va tutto bene, Sherlock?" domandò John, la teiera a mezz'aria e l'aria ancora preoccupata. "No, non va affatto bene. Ho perso tempo a dormire..." Poi i suoi occhi notarono la matita e il suo taccuino d'appunti riposti ordinatamente sulla scrivania e un'ombra di sollievo s’adagiò sul suo viso.
 
"Non capisco perché lo hai messo qui" continuò a lagnarsi, scorrendo rapidamente le pagine del quadernino. "Oh, non volevo si sciupasse!" rispose John con un bel sorriso, aperto e sincero, mentre finiva di sistemare le tazze e i piattini. "Ho preparato il the, se hai voglia di un sorso!" aggiunse, il sorriso che si faceva via via più radioso.
 
"Lo vedo" fu il commento poco gentile dell'altro, mentre arricciava le labbra. "Solo non ne capisco il motivo..." Non lo capiva e apparentemente non apprezzava la cosa, tuttavia si avvicinò al tavolino e alle due sedie che erano apparsi dal nulla nella sua caverna. Appoggiò con fare sospettoso entrambe le mani a una di esse.
 
"Beh, tu mi hai reso partecipe di una cosa che piace a te. Ora vorrei fare altrettanto con una cosa che piace a me..." spiegò John, tuffando lo sguardo nelle tazze per evitare di incontrare gli occhi di Sherlock. Lo sentì farfugliare qualcosa di incomprensibile, poi con la coda dell'occhio lo vide accomodarsi. "Grazie" mormorò il soldato. "Non ti emozionare troppo: l'ho fatto solo perché potrebbe rivelarsi un interessante esperimento" ribatté l'altro, inarcando un sopracciglio. John si mise a ridere e, nonostante tutti gli sforzi per rimanere serio, anche Sherlock gli andò dietro.
 
"Ebbene, non mi versi il mio the?" lo incitò la giovane anima. Il biondo borbottò qualcosa di simile a Non sono la tua cameriera, ma nonostante questo non solo riempì la tazza di Sherlock ma fece addirittura apparire dei biscottini al limone. "Stai diventando bravo..." si lasciò scappare il figlio del principato.
 
E John arrossì.
 
 
 
§§§
 
 
 
"Suoni il violino..."
 
"E tu constati l'ovvio!"
 
Erano sdraiati a pancia in su, entrambi con le mani intrecciate dietro la nuca. La volta della caverna si era trasformata in un delizioso bersò di magnolie in fiore.
 
"Mi suoneresti qualcosa?"
 
"Che cosa ti piacerebbe?" Sherlock parlava tenendo gli occhi chiusi, il corpo immobile e muovendo appena le labbra. "Mi piacerebbe quello che piace a te..."
 
In un attimo, l'aria si riempì d’una musica alle sue orecchie sconosciute. Le prime note furono così stridenti che John strizzò gli occhi e si morsicò un labbro come reazione, ma in un attimo il rumore si trasformò in melodia, una dolce armonia che riusciva a entrargli dentro, facendogli provare brividi insoliti e sconosciuti. Una sonata di cui ignorava il nome e l'autore, eppure in grado come ben poche cose di smuoverlo ed emozionarlo.
 
Poi John si tirò a sedere di colpo, fissando l'amico con aria sgomenta. "Ma tu non stai suonando!" balbettò. "E tu stai di nuovo constatando..." "No, sul serio, Sherlock. Tu non stai suonando!" La giovane anima aprì un occhio e fissò il biondo, prima di richiuderlo un secondo dopo. "Lo puoi fare con il pensiero, qui in Paradiso" spiegò. Allora il soldato si voltò verso la scrivania e lo vide: al centro della caverna se ne stavano il violino e l'archetto di Sherlock, flottando e danzando nell'aria come per magia. Fu una scena bellissima, pressoché indescrivibile, in grado tuttavia di strappare una lacrima agli occhi di John.
 
"Meraviglioso..." sussurrò, in completa ammirazione. Il ragazzino si strinse nelle spalle. "Sono convinto che ci puoi riuscire anche tu" disse, sminuendo la cosa. "Oh, io non so suonare strumenti!" "Ma ci sarà pure un brano, una canzone di quando eri sulla Terra che non hai dimenticato." Il soldato ci rifletté su per qualche attimo. "Credo... credo di sì."
 
E, come per incanto, violino e archetto si adagiarono sulla scrivania, sparendo inghiottite dalla loro custodia che si richiuse con un acuto clank. Al loro posto, comparve un jukebox degno dei più famosi telefilm americani ambientati negli anni Cinquanta. La macchina si accese, illuminandosi di tutti i colori dell'arcobaleno. Giallo, verde e l’azzurro più brillanti… Il meccanismo a margherita selezionò automaticamente un disco (l'unico disponibile, in verità) spostandolo nel piatto del giradischi. E le voci suadenti di Marvin Gaye e Tammi Terrell li avvolsero con calore.
 
"Ci sono riuscito..." mormorò incredulo il biondo. "Ovvio che sì, mi pareva d'avertelo detto" fu il commento indolente del moro. "Ma allora la telepatia esiste!" John si sentì così elettrizzato da non sapere più in che cosa credere. "Non essere sciocco! È solo controllo mnemonico a distanza!" tagliò corto la giovane anima.
 
"Chiamalo come ti pare, ma è una cosa straordinaria!" Per quanto si sforzasse, John non riusciva a staccare lo sguardo dal jukebox. "Una delle mie canzoni preferite..." "Ti dirò che l'avevo dedotto!" lo canzonò Sherlock. "Quante volte ho ballato sulle sue note! Quanto mi piaceva..." La voce del soldato si affievolì in ricordi che parevano distanti anni luce. "Se solo potessi ballarla ancora..."
 
"E chi te lo vieta?" domandò l'altro sardonico. "Vedi qualcuno con cui potrei farlo?" Di tutta risposta, Sherlock guardò John e gli tese con naturalezza una mano. "Sì, io!" Il viso del biondo sbiancò. "Che cosa stai facendo?" "Ti sto invitando a ballare, ma se persisti a costringermi a sottolineare l'ovvio potrei ritirare la mia offerta" bofonchiò la giovane anima.
 
"Ma tu sei un maschio! Due maschi non ballano!" protestò il soldato a pieni polmoni. "John, se non ti sbrighi, la canzone finirà presto" disse Sherlock, ondeggiando la mano e incurante delle proteste dell'amico.
 
Il biondo tentò di nuovo di porre resistenza, ma poi ripensò alla sua mano, che solo poco prima aveva accarezzato quei morbidi capelli, alla sua bocca, che aveva accarezzato quella pelle invitante e allora farfugliò un convinto "Ma chi se ne frega!" e accettò la mano che Sherlock gli offriva.
 
 
 
Ohhh
Ain't no mountain high
Ain't no vally low
Ain't no river wide enough, baby

If you need me, call me
No matter where you are
No matter how far
Just call out my name
I'll be there in a hurry
You don't have to worry

 

Remember the day
I set you free
I told you
You could always count on me darlin'
And from that day on I made a vow
I'll be there when you want me
Some way, soooooome how

 
Ohhh
Ain't no mountain high
Ain't no vally low
Ain't no river wide enough, baby


 
Era caldo il corpo di Sherlock mentre John lo stringeva a sé.
 
Erano goffi i suoi piedi mentre cercavano di seguire i propri.
 
Erano divertenti i suoi commenti circa il testo della canzone ("Davvero qualcuno potrebbe mai fare un giuramento del genere? Promettere a un'altra persona che per lei ci sarà sempre?" "Sì, Sherlock, succede. Si chiama amore!").
 
Era deliziosa l'espressione sul suo viso che pareva dire a John che, se anche non fosse mai nato, non avrebbe più avuto così tanta importanza, se avessero potuto trascorrere il resto della loro esistenza danzando l’uno nelle braccia dell’altro.
   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: rosie__posie