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Autore: SunlitDays    09/11/2013    6 recensioni
Annabeth Chase si era messa comoda sulla sedia al centro dell'aula, nella prima fila, ed era impegnata nel posizionare ordinatamente un quaderno con varie matite colorate sul banco. Gli fece segno con la mano di sedersi al suo fianco. Percy si sedette con un un piccolo salto all'indietro sulla cattedra del professore di latino.
Lei alzò gli occhi al cielo.
Lui sorrise scioccamente.
E così cominciò quella che da lì a poco sarebbe diventata una scontrosa amicizia tra due individui completamente opposti.
Genere: Angst, Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Grover Underwood, Percy Jackson, Poseidone, Sally Jackson
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Spoiler!
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Capitolo Secondo

“Non avrebbe potuto prendere un taxi?”

“Andiamo, tesoro, non fare il difficile. Sarebbe stato scortese non offrirgli di venirlo a prenderlo all’aeroporto.”

“Ma mamma!” esclamò Percy petulante. “Sono le sette di mattina. Abbiamo dovuto noleggiare un’auto. E io non ho avuto la mia dose di pancakes giornaliera. È ingiusto!”

Sally sorrise con un’esasperazione affettuosa. “Sei identico a tuo padre quando metti il broncio. Oh! Eccolo che arriva!”

“Io non metto il broncio” replicò lui, ma sua madre si era già incamminata verso Poseidone, documentarista extraordinaire e incurabile fannullone. Con passi strascicati e le mani intasca, Percy si avvicinò a loro preparando nella sua testa possibili risposte, tipo: ‘mi dispiace, paparino, ma non posso proprio portartela, la valigia. Mi fa così male la spalla.’

“... sempre splendida” stava dicendo il cascamorto, e sua madre arrossì fino alla punta dei suoi capelli castani.

“Non essere sciocco” replicò Sally, con un gesto della mano e un sorriso che gli ricordò Silena Beauregard ai tempi in cui faceva il filo a Beckendorff.

Poseidone si voltò verso di lui e sorrise raggiante. “Perseus!” esclamò.

“Percy” si limitò a replicare lui.

“Ah, capisco,” disse Poseidone con un sorriso affascinante e la tipica posa che assumeva nei suoi documentari quando voleva trasmettere al pubblico che sì, lui di pesci ne capiva, e non era un gran fico? “Sei ancora nella fase ‘ho bisogno di trovare me stesso’.”

Percy alzò un sopracciglio. “Ancora?” domandò retorico, perché, davvero, cosa mai ne poteva sapere Poseidone delle sue fasi?

“Sally, Percy,” enfatizzò l’altro. “Voglio presentarvi il piccolo Tyson: mio figlio.” E con un gesto teatrale indicò a un ragazzone di farsi avanti. Gli mise il braccio sulla spalla e sorrise loro come aspettandosi un applauso.

Ci furono un paio di secondi di imbarazzante silenzio.

“Oh!” esclamò Sally, sempre la diplomatica dei due. “Piacere di conoscerti, Tyson.”

“Ciao, signora Jackson” rispose il ragazzone. Il termine ‘ragazzone’ era proprio azzeccato. Tyson era un tipo alto quanto Percy (che negli ultimi anni era cresciuto non poco, grazie tante) e grosso il doppio. Aveva folti capelli neri e due spazzolini da denti al posto delle sopracciglia. Solo il suo viso paffutello e la sua espressione di ingenua meraviglia tradiva la sua età. Non doveva avere più di otto anni.

Tyson si voltò verso di lui e rise come se Percy avesse detto una battuta. “Tu sei il mio fratellone!” esclamò con voce squillante e fanciullesca, la quale aveva un effetto strano abbinata al suo aspetto.

“Fratellastro” si sentì in dovere di replicare Percy, ma Tyson lo stringeva così forte che dubitò gli fosse uscito un suono coerente.

“Tyson non vedeva l’ora di conoscerti, Percy. Durante tutto il viaggio non ha fatto che farmi domande su di te. Sono certo che andrete d’accordo. Magari potrai portarlo in giro e fargli conoscere le meraviglie di New York, eh?” disse Poseidone, mentre metteva un braccio sulle spalle di sua madre e la dirigeva verso l’uscita.

“Seee” strascicò Percy, perché aveva colto il messaggio: toglietevi dai piedi mentre io e tua madre rivanghiamo i bei tempi andati.

Tyson, nel frattempo, si mise in spalla un borsone con la facilità di un wrestler e si mise al seguito di Percy parlando senza prendere fiato: “papà ha detto…”, “papà ha fatto…” Ma Percy lo ascoltava con un orecchio solo, tutta la sua concentrazione era sui suoi genitori, che pareva si stessero divertendo un mondo.

Il viaggio in macchina fu uno strazio. Poseidone insisté per guidare (come se sua madre non ne fosse capace) e flirtò con Sally per tutto il tempo. Nonostante non venisse a New York da ormai dieci anni, Percy notò che non chiese indicazioni nemmeno una volta, cosa che, per qualche motivo, lo irritò.

Per canto suo, Tyson non la smetteva di guardare fuori al finestrino e a puntare posti e cose chiedendo ‘Quellocosè? Eqquellocosè?’ con una rapidità tale da non lasciare a Percy il tempo di rispondere; semmai avesse voluto farlo, chiaro.

Forse, si chiese, l’iperattività è un tratto ereditario trasmesso da Poseidone.

Si ritrovò a osservare il ragazzo seduto al suo fianco, cercando di trovare una somiglianza con il padre che condividevano, ma non ne vide nessuna. Tyson aveva gli occhi castani un po’ troppo vicini al naso, molto diversi dai verdi a forma di mandorla che Percy aveva ereditato da Poseidone. Si chiese distrattamente dove fosse la madre.

Venti minuti dopo (“ce ne avremmo messi il doppio se avessi guidato tu, Sally tesoro, non ho dimenticato quanto tu fossi cauta alla guida, sai?”), Percy si scoprì per la prima volta in vita sua contento di essere arrivato a scuola e con un saluto frettoloso uscì dalla macchina.

Era in anticipo di mezzora. Non aveva mai visto il cortile della Goode High School deserto fino a quel momento. L’asfalto era ancora umido dalla pioggia che era caduta quella notte e il solito chiacchiericcio dei suoi compagni di scuola era assente. Il parcheggio riservato agli studenti era vuoto salvo una Toyota. Decise di sedersi sulle scale dell’ingresso dove avrebbe avuto una buona visuale del cortile. La giornata era più fredda del solito e Percy si strinse nella sua giacca, con la testa bassa e le spalle curve, sentendosi come un adolescente emo che godeva nel crogiolarsi nell’autocommiserazione.

Avrei dovuto immaginarlo, pensò, che Annabeth-Il-Tempo-È-Denaro-Chase sarebbe stata l’unica ad essere già qui. Era seduta sull’ultimo gradino, il naso a pochi centimetri dal libro che stava leggendo e i capelli coperti da un berretto degli Yankees.

“Quest’anno vanno forti gli Yankees” disse. Lei saltò, come lui si aspettava, e alzò lo sguardo di scatto. Il berretto le scivolò dalla testa e venne spazzato via dal vento. Percy lo afferrò al volo con un salto e poi andò a sedersi al suo fianco.

“Grazie” disse lei rigida senza guardarlo, e allungò la mano per riprendersi il cappello. Percy se lo infilò in testa. Gli stava stretto. “Adesso dovrò buttarlo” aggiunse lei.

“Perché?” chiese lui distrattamente, mentre cercava di allargare la cinghia.

“Perché adesso è pieno dei tuoi pidocchi.”

“Ah ah ah! Dove hai preso lezioni di umorismo? Alla Saint Annabeth School Per Ragazzine Che Non Si Sprecano Mai In Un Sorriso?”

“Di certo non alla Saint Percy School Per Ragazzi Idioti Che Non Conoscono La Definizione Di Invadenza,” replicò Annabeth, poi aggiunse: “Da’ qua. Così lo rompi.” Gli strappò il berretto dalle mani, allargò la cinghia con un paio di movimenti decisi e, per la sorpresa di Percy, glielo ficcò in testa con un gesto secco. Dopodiché tornò al suo libro come se un attimo prima non si fossero trovati a pochi centimetri di distanza.

Percy si schiarì la gola. “Allora,” disse, perché se c’era una cosa che non riusciva a sopportare erano i silenzi. “Tifi per gli Yankees, eh?”

“No.”

“No. Ok. Uhm… e allora perché hai un berretto degli Yankees?”

“È un regalo di mia madre” rispose monotona.

Percy cominciò a battere ritmicamente il piede a terra e fece per toccarsi il berretto, ma si bloccò. Non voleva spostarlo nemmeno di un millimetro. Cercò nello zaino la sua pallina di gomma — la portava sempre con sé per i momenti in cui le sue mani avevano bisogno di fare qualcosa — e cominciò a giocarci lanciandola sul muro opposto e ritorno.

Evidentemente dovette infastidirla — e questa volta Percy non l’aveva fatto apposta, giuro! — perché dopo un paio di minuti lei sbuffò e chiuse il libro con un tonfo secco.

“Hai finito gli esercizi di matematica che ti avevo detto di fare?” chiese.

“Uhm… no.” Fu la risposta ovvia di Percy.

Lei annuì, come se non si aspettasse di meglio da lui. “Bene. Allora occupa il tempo che ci rimane per farli e non scocciarmi, ok?”

Percy la osservò a lungo in silenzio — o almeno più di quanto fosse socialmente accettabile prima di ricevere uno schiaffo — riflettendo sul mistero che era Annabeth Chase, il suo essere scostante.

“Perché questa fissa col tempo?”

“Pardon?” rispose lei distrattamente.

“Hai la fissa col tempo. Arrivi a scuola in anticipo, guardi continuamente quel tuo maledettissimo orologio da polso, stai sempre a fare cose… come dire… costruttive, non te ne stai mai con lo sguardo nel vuoto o a fare cose che… chessò! Cose stupide, cose che non hanno senso o non richiedano il bisogno di pensare. Sei sempre così tesa” disse Percy, e poi ammutolì perché dallo sguardo di Annabeth sapeva di aver varcato un qualche confine invisibile creato da lei.

La ragazza esitò. Sembrava costarle molta fatica non rispondergli in modo tagliente. “Non posso permettermi frivolezze,” disse infine, il tono lento e cauto. “Ho bisogno di studiare tanto per poter entrare nel college che ho scelto. E diventare ciò che devo diventare in futuro.”

“Ciò che devi diventare?” domandò Percy.

“Ciò che voglio diventare. Un avvocato” rispose lei, annuendo e fissando intensamente una gomma da masticare lasciata a seccare sul gradino dove erano seduti.

Percy era molto lontano dall’essere un genio, eppure era alquanto sicuro che quella risposta non rispondesse alla verità. “Ok,” disse cauto, perché quella era la prima volta che lui e Annabeth parlavano senza tentare di mangiarsi a vicenda e non voleva irritarla di nuovo. “Sono certo che ci riuscirai. Se è ciò che vuoi…”

“È ciò che voglio” affermò lei.

“Ok. Vuoi sapere qual è il mio sogno?” le domandò.

“Non particolarmente.”

“Voglio cambiare il mondo. No, no, veramente,” aggiunse, vedendo l’espressione scettica di Annabeth. “Voglio fare qualcosa di importante, qualcosa che lasci il segno. Non ho idea di cosa farò esattamente, ma so che un giorno, da qualche parte del mondo, ci sarà qualcuno che vivrà felice grazie alle mie azioni.” Alzò le spalle, improvvisamente a disagio. Annabeth lo stava fissando intensamente, le sopracciglia leggermente aggrottate fino a formare una piccola ruga al centro della fronte.

“Io… Percy—” cominciò, ma un tornado dai capelli rossi la interruppe.

“Ofh! Rachel!” esclamò Percy, perché Rachel Elizabeth Dare si era appena seduta sulle sue gambe con tutto il peso. Sfilò la mano che era rimasta incastrata tra la sua coscia e il sedere dell’amica e poi rimase con le braccia alzate, non sapendo esattamente dove fosse accettabile poggiarle.

“Dunque vediamo,” disse Rachel, assolutamente ignara, o forse semplicemente incurante, di aver interrotto un momento che avrebbe potuto rivelarsi importante per qualche ragione che Percy non sapeva spiegarsi. “‘Leone: cambiamenti in vista. Siete sotto l’influenza di Marte e quindi propensi alla rabbia. Prendetevi un attimo di pausa per pensare e rivalutare la vostra vita. Venere tornerà a farvi visita, resisterle risulterà vano. Nell’ambito lavorativo questa settimana sarà alquanto dura; un nuovo incentivo vi aiuterà ad impegnarvi di più. I vostri numeri fortunati sono: sette, quattordici, quarantasei e sessanta.”

“Uhm… Rachel,” cominciò Percy imbarazzato. Non sapeva mai come comportarsi con lei quando faceva cose tipo sederglisi in braccio. L’anno prima avevano avuto un’intensa e breve relazione, fatta di pomeriggi passati in camera della ragazza impegnati in attività che non erano i compiti, di bagni al mare di notte e spettacoli di arte di strada. Poi un giorno Rachel l’aveva portato del bagno delle femmine, gli aveva abbassato i pantaloni e poi aveva detto: “forse è meglio se restiamo amici, Percy. Mi sa che tra noi non funziona.” Inutile dire che Percy non si era mai sentito più umiliato in vita sua.

Sapeva però che lei aveva ragione. Non c’era chimica tra loro. Erano ottimi amici, insieme si divertivano un sacco, avevano molti interessi in comune, e sì, a letto non era male, ma in fin dei conti tra loro non c’era passione. Rachel si divertiva nel dire che Percy era il suo alter ego maschio. La loro era un’amicizia particolare. Mentre Grover era il suo migliore amico, il più vecchio, quello che lo conosceva meglio, Rachel era la persona che lo capiva meglio.

“Brutto idiota!” esclamò Rachel, sbattendogli il giornale con l’oroscopo sulla fronte. “Dove diavolo sei stato in questi giorni, eh? Ho una verruca sul piede, vuoi vedere?” E proseguì togliendosi scarpa e calzino.

“Rachel…” provò di nuovo a dire, ma questa volta fu interrotto da Annabeth che si era alzata, borsa in spalla, e li guardò dall’alto in basso. Percy provò ad immaginare come dovevano sembrare, lui e Rachel, ai suoi occhi in quel momento.

“La campanella sta per suonare. Sarebbe meglio che ti prepari. Ci vediamo oggi pomeriggio, Testa D’Alghe.” E, ignorando completamente l’altra ragazza, se ne andò.

“Simpatica” commentò Rachel. Percy sospirò rassegnato.

 


 

“Vecchia bacucca!” esclamò Percy con rabbia. Per tutta la mattina era stato distratto e irritabile. Grover era andato a sedersi di fianco a Juniper nell’ora di Scienze, l’aveva ignorato per tutto il tempo e quando finalmente si erano trovati da soli in corridoio, avevano parlato ancora di Juniper. Condivideva e capiva la felicità del suo amico, per carità, ma aveva bisogno di fare qualcosa. Il suo Disturbo dell’Attenzione e Iperattività era a potenza mille e starsene lì ad ascoltare di come Juniper gli aveva preso la mano, di come pareva che quel giorno fosse un filino truccata in più ed è possibile che l’abbia fatto per Grover? dopo un po’ diventava seccante.

Non era assolutamente dell’umore adatto per un’interrogazione di matematica (non lo era mai, ma soprattutto quel giorno) e quando la professoressa Dodds gli aveva chiesto: “allora, tesoro, non sai dirmi nemmeno che figura è questa?”, l’irriverente risposta di Percy era stata: “questa è chiaramente una figura di merda, prof.”

“Brutta stronza! Esci immediatamente dall’aula, tesoro” cantilenò, con un’imitazione molto fedele del tono zuccheroso e basso della professoressa di matematica, i piedi che battevano sul pavimento del corridoio scolastico. “Esco, esco. Come se volessi starmene in quell’aula asfissiante a—”

“Percy!”

“Uhm… salve, professor Stockfis” rispose Percy cupo.

“Vai da qualche parte?”

“Mi è stato consigliato di schiarirmi le idee” replicò con un’alzata di spalle.

Il professor Stockfis sorrise con quella sua solita aria da ‘sono stato anch’io un adolescente una volta, so come ti senti e no, quel brufolo non andrà via per molto tempo’.

“Perché non vieni con me? Ho una scorta di lattine di Coca nel mio ufficio” disse il professore facendo l’occhiolino, come se si aspettasse che Percy si mettesse a saltellare e a urlare ‘lattine di Coca? Lei proprio figo, prof!’ e invece il ragazzo pensò a tutte quelle volte che sua madre gli aveva raccomandato di non accettare caramelle dagli sconosciuti. Ma forse con la Coca Cola non valeva.

“Ok.”

“Salute!” disse il professor Stockfis, quando si erano finalmente accomodati, due boccali di birra pieni di Coca tra loro. Il professore si era seduto di fianco a Percy invece della comoda poltrona che era al di là della scrivania, e il ragazzo si sentì a disagio. O Stockfis aveva intenzione di dirgli, nella sua maniera pacata e comprensiva, che non avrebbe passato l’anno (ed era appena cominciato) o era semplicemente un pervertito a cui piaceva adescare giovani e innocenti studenti con boccali di Coca Cola. Percy allontanò di qualche centimetro la sedia.

Tintinnarono i bicchieri l'uno contro l'altro e presero entrambi un grosso sorso.

“Dimmi, Percy,” cominciò Stockfis. “Come ti fanno le cose?”

“Bene.”

“Uhm... e... uhm.” Il professore sembrava nervoso, per qualche ragione. Prese un altro sorso di Coca per se avesse bisogno di un po' di coraggio liquido e Percy si chiese se non l'avesse allungata con dell'alcool. “Ah!” esclamò, come colto da un'improvvisa ispirazione. “Ti piacciono i Ramones, eh? Anche io li ascoltavo alla tua età.”

Percy lo guardò con aria interrogativa finché non notò che il professore stava guardando la sua t-shirt. Era grigia con un cerchio bianco e la scritta 'Ramones' al centro. “L'ho pagata tre dollari al mercato” rispose.

“Già... sì. Immagino che non siano esattamente in voga oggigiorno, eh?”

“Voleva dirmi qualcosa, prof?” Si fermò giusto in tempo dall'aggiungere: e no, non penso che andrò con lei al ballo di fine anno.

Stockfis si schiarì la gola, si inclinò sullo schienale della sedia e, guardando un punto imprecisato sul muro rispose: “Vedi, Percy, a volte le persone che dovrebbero proteggerci sono quelle che ci fanno più male. E sono anche quelle che più difficili da perdonare. Ma... ecco... quello che voglio dire—“

“Non mi piacciono i ragazzi” lo interruppe Percy. Perché, davvero, non aveva niente contro le persone gay, anzi, era relativamente sicuro che il fratellino di Bianca, Nico, avesse una cotta per lui e, a parte l'imbarazzo di non sapere bene cosa dire quando lo guardava con quei suoi occhi neri pieni di adorazione, non aveva di certo cambiato l'opinione che aveva di lui — e cioè che era un ragazzino un po' inquietante con quei suoi vestiti neri e quell'aria da 'io sono il re dei morti'. Ma lui preferiva le ragazze e il professor Stockfis doveva avere tipo il doppio dei suoi anni e... era il suo professore, per gli dei!

“Come? No, non era di questo che—Oh! Oh! No! Percy, non volevo dire—Cavolo! Non rendi le cose molto semplici, eh?” Stockfis rise di gusto e sembrò finalmente rilassarsi. “Percy,” ricominciò, questa volta guardandolo negli occhi. “So che tuo padre è venuto a farvi visita.”

Percy si irrigidì. Cercò di ricordare se qualche giornale ne avesse parlato, ma lui cercava in tutti i modi di evitare di imbarcarsi in Discovery Channel per non dover vedere la faccia di suo padre in TV e di certo non li leggeva, i giornali. E per quanto ne sapeva, Poseidone non aveva mai detto di aver un figlio illegittimo in nessuna intervista. Di sicuro non voleva rovinare la sua immagine.

“Come lo sa?” chiese.

“È stata tua madre a dirmelo.”

“Mia madre? Quando avrebbe parlato con mia madre?”

“Beh... ecco. Al corso di scrittura creativa, ovviamente.” Stockfis sembrò di nuovo imbarazzato.

“Oh!” esclamò Percy, chiedendosi perché sua madre non gli avesse mai detto che al corso che frequentava ci fosse anche il suo professore di inglese.

“E quindi... volevo solo dirti che se mai avessi bisogno di parlare—“ continuò il professore.

“Grazie” rispose Percy, sentendosi sotto i riflettori. Era stata sua madre a chiedere a Stockfis di parlargli? Poseidone aveva improvvisamente deciso di venire a fargli visita, sì, e allora? Non era 'sta gran cosa. Percy non aveva bisogno di parlare con nessuno. Forse avere un padre che aveva abbandonato tua madre quando era incita di te e averlo visto solo due volte di persona e un centinaio di volte in TV — quando il dito gli scivolava sul telecomando — poteva essere considerato un problema dal punto di vista di un adulto. Ma Percy ci era abituato. Non avrebbe scritto poemi angoscianti a riguardo, né avrebbe cominciato a drogarsi o tagliarsi o a fare tutte quelle cose che facevano gli adolescenti problematici — era già un ragazzo problematico di suo, non aveva bisogno di attaccarsi un cartello in fronte con su scritto 'La Mia Vita Fa Schifo, Prego, Per i Teschi Da Questa Parte”.

“Percy—“

“Semmai avessi bisogno di parlare verrò da lei. Adesso devo andare a lezione. Arrivederci.” Ed uscì dall'ufficio lasciando il professor Stockfis da solo come un... beh... come uno stoccafisso.


N/A: eccoci qua. Ragazzi, questo capitolo non voleva proprio finire. Avrei voluto aggiungerci un po' di Grover/Juniper (come avevo promesso nel capitolo precedente) e un'altra lezione con Annabeth, ma ho preferito far entrare in scena due dei miei personaggi preferiti: Rachel e Paul. Li vedremo ancora in futuro. Un piccolo appunto per i Percabeth shipper. Non ci sarà alcun Rachel Bashing in questa storia. Adoro Rachel e da me sarà sempre dipinta come un personaggio positivo.
Ancora una volta ringrazio chi ha recensito e/o inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate. YOU GUYS ROCK! Oh! E complimenti a giugiu8 per aver indovinato la sorpresa di Poseidone :D


Nel prossimo capitolo: Percy impara un paio di cosette su Tyson, Poseidone è sempre insopportabile (secondo Percy), Sally è un po' troppo girly (secondo Percy) e Annabeth è sempre una So-Tutto-Io (secondo Percy).

   
 
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