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Autore: ___Ace    16/11/2013    4 recensioni
“Non è serata, Evidenziatore, torna un’altra volta”.
Osservai quell’energumeno che avevo avuto la sfortuna di incontrare: i capelli in disordine e un orrendo paio di occhiali con le lenti spesse era appoggiato sulla fronte, tenendo quei ciuffi rosso vermiglio alzati verso l’alto; la maglia sporca di nero, pantaloni neri, scarponi neri. Praticamente avevo davanti a me l’Uomo Nero in persona.
Avrebbe potuto spaventare i mocciosi qui intorno.
*
Ecco, lui sembrava infiammato. Costantemente. Sembrava sempre avere qualcosa da dire, da fare o da vedere; non stava mai fermo e si muoveva in continuazione; a volte sembrava calmarsi ed essere colto da un’improvvisa quiete e sonnolenza, ma si riprendeva subito dopo; adorava i fuochi d’artificio e il fuoco lo affascinava. Diceva che era caldo, e quindi apprezzato dalle persone, ma allo stesso tempo temuto perché poteva bruciare e fare del male. Questi aspetti contrastanti gli piacevano immensamente, tanto da suscitare anche la mia curiosità e facendo si che, ogni volta che passava, mi ritrovassi chino sul bancone ad ascoltare le sue stramberie per nulla annoiato.
Ace era certamente così: bello, scoppiettante e caldo. Era il fuoco.
*
Kidd/Law. Ace/Marco. Penguin/Killer. Accenni Zoro/Nami.
Genere: Fluff, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eustass Kidd, Marco, Portuguese D. Ace, Trafalgar Law, Un po' tutti | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 7.
Sorridere è per le persone insignificanti

Guardai per l’ennesima volta la mia immagine riflessa nello specchietto retrovisore dell’auto e, più mi osservavo con occhio indagatore, più non riuscivo a capire da dove spuntasse quella strana smorfia che non voleva saperne di scomparire dalla mia faccia.
Non aveva nessun senso. Nonostante le mie labbra fossero serrate in una linea sottile, continuava ad esserci una piccola increspatura tendente a sinistra, come se fosse un ghigno trattenuto. Infatti, quello che cercavo di fare era cancellarlo, estinguerlo, estirparlo alla radice perché non era umanamente possibile una cosa del genere.
Eppure era li, sul mio viso, a darmi un’aria da imbecille suonato. Lo guardavo e non mi riconoscevo tanto la cosa era assurda. Quella inconsueta posizione della bocca non riuscivo proprio a concepirla, per quanto mi sforzassi.
E non voleva saperne di andarsene.
Pensavo al sangue visto durante il tirocinio in ospedale, ai pazienti morti, agli incidenti mortali e ai casi disperati che arrivavano in pronto soccorso dandomi modo di vedere cose improbabili e traumi mai visti prima su cui, un giorno, avrei messo le mani e fatto l’impossibile per riuscire dove tutti fallivano.
Ma niente. Non c’era verso che quel, quel…
Che quella cosa scomparisse dal mio volto.
Non stavo increspando le labbra, come quando ero indeciso se deliziare qualcuno con le mie perle di sarcasmo e non era nemmeno un ghigno, quell’espressione che tanto mi caratterizzava e che mi veniva così spontanea ogni volta che iniziavo a sfottere o a far notare cose ovvie a persone stupide, dimostrando di essere scaltro, intelligente e un fottuto maniaco perfezionista, convinto di meritare tutta l’attenzione e la ragione del mondo.
Forse era un blocco facciale.
Si, decisamente.
Perché era totalmente fuori discussione che potesse anche lontanamente trattarsi di…
Un sorriso.
No, no, no. Non esiste. Io non sorrido. Mai. Sorridere è per le persone insignificanti, per quelli che si accontentano di tutto e che sprecano le loro risate per qualsiasi stupidaggine, senza rendersi conto che dovrebbero custodire gelosamente una tale espressione per qualcosa di veramente speciale. Invece non lo capiscono e sorridono sempre. Sorridono ad uno sconosciuto, cosa che non si dovrebbe fare; sorridono al momento del saluto, quando dovrebbero dire semplicemente ciao o arrivederci; sorridono quando non sanno cosa dire o sono in imbarazzo. Ma che mentalità è? Se sei in imbarazzo ti limiti a fissare malamente quello che ti sta davanti per spaventarlo e spostare l’attenzione su qualcos’altro! Ma non si può sorridere sempre.
Come facevo io. Non sorridevo e tutta la mia vita scorreva senza problemi o intoppi. Dimostravo serietà, disciplina e rispetto all’università e con i miei docenti; evitavo di dare ascolto alle sciocchezze dei miei compagni ed amici e mi limitavo a commentare con cinismo tutto ciò che gli altri trovavano buffo.
Il sorriso era per le persone che ancora credevano in qualcosa, che non avevano perso la speranza nei loro sogni e nei loro idoli, qualunque essi fossero. Cosa potevo pretendere io, dopo aver visto morire mia madre e dopo aver aiutato la polizia a spedire in galera mio padre con l’accusa di omicidio e spaccio di droga? Dove potevo trovarla la forza di sorridere ancora? Cosa poteva valere così tanto per smuovermi dalla mia bolla di ghiaccio e scaldarmi abbastanza da farmi dimenticare il torpore che mi avvolgeva l’anima?
Nella vita non c’era niente che valesse un sorriso, a meno che non fosse speciale oltre ogni dire.
Per questi motivi in quel momento mi sentivo preoccupato e impreparato ad una cosa del genere. Non riuscivo ad accettare il fatto e non mi era facile scendere a patti con questa nuova circostanza, ma dovevo farlo per forza, dato che era già la terza volta che mi scoprivo a, come dire, sghignazzare tra me e me quando nessuno era nelle vicinanze.
Perciò dovevo affrontare la questione e accettare che tutta questa allegria fosse frutto di quello che mi stava capitando in quell’ultimo periodo.
No, non ce la faccio. Non ci credo, è inammissibile. Cazzo!
Il problema?
Quello scalmanato di Eustass Kidd. Quell’essere che era piombato nella mia tranquilla e pacata vita come una bomba ad orologeria, esplodendo e sconvolgendo la mia esistenza, rivoltando come un calzino le mie sicurezze.
Quando mi rendevo conto che lui era nei paraggi mi sentivo ardere. E non di passione o di voglia di scopare, no, quello accadeva dopo qualche bicchiere di vodka liscia, ma di impazienza. Esatto, impazienza nel prendermi gioco di lui e di vederlo perdere il controllo, diventando una bestia indomabile e impazzita, pronta a tutto pur di dimostrare la sua forza, la sua virilità, il suo orgoglio che non ammetteva battutine, insulti o sconfitte. Ed era così facile farlo scattare. Bastava una parola, uno sguardo derisorio, un ghigno appena accennato e subito credeva di essere preso in giro. La faccia che faceva era impagabile. Si voltava a guardarmi con occhi sbarrati e increduli davanti a tanta sfrontatezza, boccheggiava per qualche istante, come se non trovasse le parole adatte e poi scoppiava il finimondo. Si alzava di scatto e mi afferrava per la collottola della maglia se era seduto; mi spintonava facendomi cadere a terra se stavamo camminando; mi fronteggiava stringendo i pugni e puntandomi contro l’indice ammonitore se eravamo in presenza di altri; insomma, così tante sfumature e modi di fare da studiare e tanti comportamenti, sensazioni, stati d’animo da capire. Era tutto così interessante e…
E basta.
La maggior parte delle volte lo importunavo apposta, giusto per notare quella scintilla di rabbia e offesa accendersi nei suoi occhi e renderli ardenti.
Come i baci che ci scambiavamo.
Non c’era niente di lento, timido, dolce. Erano aggettivi che nemmeno lontanamente mi sognavo di aspettarmi e, sinceramente, mi avrebbero fatto sentire fuori posto. Si trattava, invece, di tutto uno scontro, una lotta per la supremazia, una danza di morsi, spintoni, graffi e strette micidiali che toglievano il respiro.
Kidd toglieva il respiro.
Anche solo con uno sguardo. Minaccioso o non.
Per quegli occhi ambrati passavano un sacco di emozioni e di pensieri. Non si fermavano mai, nemmeno per fissare il vuoto come succedeva spesso a me, quando mi perdevo nelle mie riflessioni. Erano attenti, all’erta, scocciati, incazzati la maggior parte del tempo, maliziosi e divertiti. E ammonitori quando mi dava un ultimatum, avvertendomi di non provare ad insultarlo oltre, altrimenti avrei subito la sua furia.
Stronzate, fargli perdere le staffe era il mio obbiettivo primario ogni volta che lo incontravo, perciò andavo fino in fondo senza esitare.
Pazienza che poi mi sbattesse al muro, non era così male.
Cosa aveva di tanto particolare lui da non riuscire a fare a meno di stuzzicarlo, cercarlo, infierire sul suo umore sempre scorbutico e sui suoi modi di fare così bruschi, maleducati ed incivili? Era una persona qualsiasi, normale, comune. D’accordo, si vestiva in modo del tutto particolare e che incuteva timore ai passanti, pieno di borchie, lacci in cuoio e cazzate moderne varie, per non parlare di quella chioma rosso fuoco. Come se avesse appiccato in testa un incendio indomabile. Forse poteva essere definito un po’ fuori dal comune, ma non era niente di speciale.
Non era così importante da meritare un sorriso. Un mio fottutissimo sorriso. Niente lo valeva, perché quella testaccia rossa si? Perché cazzo stavo sorridendo ora?
Le labbra si erano schiuse in un sorriso sincero e faticavo a frenare i sussulti di qualche risata. In parte ci stavo riuscendo bene, non fosse stato per lo sguardo che brillava di qualcosa di nuovo, qualcosa a cui non volevo dare un nome e che non avevo voglia di sondare come facevo di solito fissando le altre persone.
Non morivo dalla voglia di sapere cosa ci avrei trovato perché temevo di scoprirlo. Avevo paura, paura che il gioco non valesse la candela, che tutto sarebbe sparito, che il Destino si sarebbe preso quella cosa che aveva meritato un mio piccolo ed innocente sorriso e che se la portasse via, come aveva fatto nella mia infanzia. Prima o poi tutto sarebbe svanito nel nulla. Lo sapevo, ne ero convinto, ma continuavo a sorridere.
Mi morsi l’interno di una guancia per non andare oltre.
Va bene sorridere, ma ridere no. Assolutamente.
Parcheggiai l’auto in uno spiazzo di terra dietro la modesta casetta a un piano di mattoni rossi, attento a non avvicinarmi troppo allo steccato che delimitava il canale che scorreva a pochi metri di distanza. Spensi i fari e scesi dalla macchina, inspirando l’aria fresca di novembre a pieni polmoni e godendomi la vista che si aveva da quella posizione.
Certo che per essere un poveraccio, quel deficiente si era scelto un posto proprio carino in cui vivere. In un quartiere non troppo malfamato, appena in periferia e circondato dal verde e da alberi secolari infinitamente alti e frondosi che in quel periodo dell’anno sembravano dare vita a tutte quelle case in laterizi con i vari colori delle foglie secche. Niente male davvero.
Camminai fino ad arrivare alla porta d’ingresso. L’auto mi premuravo di lasciarla sempre sul retro, nascosta da sguardi indiscreti dato che volevo evitare qualsiasi furto o danneggiamento. Al diavolo me e la mia passione per quel ferro vecchio e la velocità.
Non bussai e non suonai il campanello, come avevo preso il vizio di fare, sicuro di trovare aperto e così fu. Entrai con calma, venendo subito accolto dal calore del riscaldamento acceso, chiudendomi la porta alle spalle e scrollandomi di dosso il freddo che si era insinuato attraverso i vestiti. Mi tolsi le scarpe e il cappotto, appendendolo all’attaccapanni all’ingresso e salendo i tre scalini che portavano in una piccola, ma accogliente, entrata. A sinistra c’era il salotto arredato con mobili semplici, ma di buon gusto, cosa parecchio strana conoscendo il proprietario, e si notava perfettamente un enorme televisore collegato a molteplici cavi e un paio di joystick posizionati con cura sul ripiano del tavolino in legno chiaro situato al centro della stanza e circondato da due divani ad angolo in pelle beige.
Ghignai al pensiero di poterli rivendere su internet come avevo già tentato di fare, venendo poi costretto ad usarli come merce di scambio per avere indietro il mio cappello preferito. Quella sera, per evitare disastri, l’avevo direttamente lasciato a casa, di conseguenza ora non c’era niente che potesse obbligarmi a restituirli una volta rubati.
Stavo valutando la possibilità di farlo, quando qualcosa, o meglio, qualcuno ebbe la brillante idea di bestemmiare ad alta voce, facendomi alzare gli occhi al cielo e scuotere il capo sconsolato.
Concedendomi un respiro profondo e armandomi di tanta pazienza, svoltai a destra verso l’ampia cucina dove il colore predominante era il bianco che la rendeva piena di luce, nonché molto apprezzata secondo i miei gusti. Non mi piacevano le stanze buie e quella era la mia preferita in assoluto in tutta la casa.
Appoggiandomi a braccia conserte allo stipite della porta osservai divertito una scena che non avrei mai creduto di poter vedere.
Il buon vecchio Eustass se ne stava chino sui fornelli, intendo a litigare con la manopola del gas e con in mano una presina da forno e un coltello da macellaio che stonava con l’ilarità della situazione.
Sopra alla maglia bianca a maniche corte, dalla quale spuntavano definite le scapole e la forma slanciata della schiena, e ai pantaloni osceni a macchie gialle su uno sfondo nero, indossava un grembiule con raffigurate delle carote. Il senso di tutto ciò non mi era chiaro, ma mi era bastata un’occhiata per capire che il fumo che usciva dal forno non prometteva niente di buono. Soprattutto con il gas acceso. E questo non lo dicevo solo perché dividevo la casa con un dinamitardo che si divertiva a far esplodere fuochi d’artificio sul tetto dell’appartamento.
«Eustass-ya vuoi per caso far saltare in aria baracca e burattini o sei semplicemente un cuoco negato?» feci, annunciando la mia presenza con tutta la disinvoltura di cui ero capace, come se la cosa che avevo davanti agli occhi fosse normale.
Colto alla sprovvista il ragazzo sobbalzò e si voltò di scatto, rovesciando sul ripiano della cucina un sacchetto di farina e facendo rotolare a terra due cipolle. Il tutto si concluse con l’accendersi del fornello che con una fiammata andò a bruciacchiargli un avambraccio, facendolo sussultare e allontanarsi di qualche centimetro, urtando poi una sedia e inciampando sui suoi stessi passi, finendo finalmente a terra.
Io non sorridevo mai. Non era nella mia indole, non lo facevo e non volevo cominciare a farlo. Soprattutto, ero sicuro che nulla meritasse la mia completa attenzione.
Ero convinto, ma alla luce degli ultimi avvenimenti, combattendo con me stesso, avevo dovuto ricredermi.
Perché in quel momento ero piegato in due, con le lacrime che pungevano sugli occhi serrati e che cercavo di aprire con fatica, mentre tentavo inutilmente di trattenermi, senza riuscirci e ridendo a crepa pelle per l’orribile figuraccia che stava facendo morire di vergogna il povero ragazzone poco distante da me.
Non ricordavo nemmeno da quanto tempo non ridevo così, senza pensieri, per il solo gusto di farlo, e mi sentivo così bene che nemmeno feci caso alla faccia stupita e sorpresa di Kidd, il quale mi fissava da terra con due occhi spalancati e grandi quanto il piattino di una tazza, incredulo nel vedermi così normale, diverso, semplice, da come ero di solito.
Non riuscì a resistere neppure lui e si unì a me dopo poco, ridendo ancora più sguaiatamente mentre mi accasciavo al suolo, appoggiato alla porta e intento a cercare di calmare gli spasmi e di asciugarmi gli occhi umidi con la manica della maglia che indossavo.
Non ci credevo, quel figlio di puttana aveva fatto crollare una delle certezze che mi accompagnavano da anni in pochissimo tempo e per una stupidaggine.
«Non ti credevo capace di ridere, Trafalgar» fece ansimando, rotolando su un fianco e mettendosi seduto, massaggiandosi distrattamente il braccio scottato.
Sospirai e guardai il soffitto con ancora l’ombra di un sorriso sulle labbra.
«Nemmeno io, a dire il vero, ti credevo così maldestro» scherzai, incapace di trattenermi e senza preoccuparmi del fatto che, forse, avrebbe potuto arrabbiarsi davvero questa volta.
Non mancò di mandarmi a quel paese in effetti, ma non la tirò per le lunghe e, dopo essersi alzato con un abile movimento, tornò ad occuparsi della sua cucina. O meglio, del tentativo di cucinare.
«Non stare sulla porta, non ti mangio se entri» accennò distratto, recuperando le cipolle da terra per poi lavarle ed iniziare a tagliuzzarle in modo esperto, stupendomi non poco.
«Per adesso» aggiunse poi, ghignando malizioso.
Ignorando quella sua frecciatina lo raggiunsi, restando comunque a distanza di sicurezza. Più volte il bastardo aveva minacciato di uccidermi e vederlo con un coltello in mano mi faceva temere per la mia incolumità.
«Non ti ho sentito arrivare».
«Non mi sono annunciato».
«Avresti dovuto farlo».
«Mi sarei perso tutto questo» dissi ammiccando. Come risposta si mise a tagliare il secondo ortaggio con forza e precisione, come se stesse immaginando di avere la mia testa in quel tagliere.
Decisi che era meglio allontanarsi per dargli tempo di calmarsi, così andai a controllare il forno, aprendolo giusto un po’ per far uscire tutto il calore e abbassando la temperatura, facendo si che un buon profumo di lasagne si disperdesse nell’aria.
Dall’aspetto non sembra male, pensai, osservando attentamente il cibo nella teglia mentre cuoceva e diventava sempre più invitante, come può saper cucinare un’idiota come lui?
«Spostati» grugnì, scostandomi con una mano e andando ad aprire il frigorifero per recuperare due pomodori maturi.
Lo osservai mentre iniziava a tagliare il primo, stando attendo a non sporcarsi troppo.
Più lo guardavo e più mi sembrava impossibile. Eppure appariva sicuro di quello che stava facendo. Le mani non tremavano, il taglio era preciso e pareva che conoscesse bene i vari passaggi. E il comportamento non lo tradiva, dato che io ero un bravo lettore. Non stava fingendo, era davvero capace di preparare un’insalata.
«Che hai da fissare?» domandò, lanciandomi un’occhiata veloce per poi tornare a concentrarsi sul cibo che stava preparando evidentemente per cena.
Alzai le spalle e guardai altrove senza rispondere, trovando molto interessante la tavola imbandita per due e sentendomi stringere immediatamente lo stomaco da una sensazione decisamente estranea.
Mi morsi un labbro, ritrovandomi a disagio per il casino psicologico che si stava creando nella mia mente. Prima mi riscoprivo capace di ridere e mi rendevo conto che la chiave di tutto era proprio quello stronzo, aggressivo e insopportabile Eustass Kidd, poi mi accorgevo che stava preparando la cena per due persone. E quella sera ero solamente io a ritrovarmi li in sua compagnia. Quindi, se non avevo fatto male i conti, stava cucinando per me. Non l’aveva mai fatto prima. Anzi, prima non avevo nemmeno mai avuto il tempo di mettere piede in stanze che non fossero la sua camera da letto o il corridoio dell’entrata.
Credetti di sentirmi male, invece mi scoprii solo un po’ imbarazzato e, in un certo senso, lusingato. A casa era Penguin a cucinare, ma non era la stessa cosa dato che lo faceva per tutti e in modo discutibile, causando spesso attacchi di vomito e mal di stomaco pazzeschi. Adesso era diverso. C’era qualcuno che si stava dando da fare unicamente per me e tutto ciò era così inaspettato e alquanto difficile da credere, tenendo presente che ogni volta che andavo da lui non rimanevo per più di qualche ora e, soprattutto, non passavamo mai la notte assieme. Una volta ci era bastata, mi ripetevo quando me ne andavo.
«Sai cucinare». Non era una domanda la mia, solo la risposta che avevo deciso di dare a tutto ciò. Lui sapeva preparare da mangiare e in un momento di pazzia aveva deciso di darmene prova, forse per dimostrarmi che non era un completo disastro come spesso sostenevo.
Borbottò qualcosa di incomprensibile prima di far scivolare i pezzetti rossi della verdura nel contenitore che aveva preparato davanti a lui e dove erano andate a finire le cipolle in precedenza, passando poi al secondo pomodoro prima di giustificarsi dicendo che si era sempre arrangiato, anche da piccolo.
Rimase con il coltello a mezz’aria, mentre sul suo viso appariva un’espressione indecisa, valutando qualcosa che a me sfuggiva, come una delle sue solite insensate e assurde idee.
Quando si voltò a guardarmi capii che avrei dovuto aspettarmi di tutto dalle parole che stava per pronunciare.
«Vuoi provare?» chiese, animato da chissà quale buonumore.
Mi rifiutai categoricamente, ammettendo senza vergogna di non essere molto bravo e che alla cucina ci pensavano sempre i miei coinquilini mentre io ero solo in grado di prepararmi un piatto di pasta.
«Sbaglio persino a dosare il sale» mentii. Tutto pur di evitare quell’offerta, o invito, o presa per il culo per avere l’opportunità di beffeggiarmi come avevo fatto io prima, ma non volle sentir ragioni.
Con la sua solita e discutibile gentilezza mi agguantò per un braccio e mi trascinò davanti al bancone, incurante delle mie lamentele, posizionandosi dietro di me e poggiando le mani sul ripiano in modo tale da non farmi scappare.
«Ora prendi il coltello» ordinò, avvicinando il viso alla mia spalla per supervisionare il mio operato.
Sbuffai, ma feci comunque come aveva detto, trattenendomi dall’infilzargli un arto con la lama, ideando di usare come scusa la mia goffaggine e incapacità di cucinare. Non se la sarebbe comunque bevuta dato che avevo una mano incredibilmente ferma ed ero già capace di fare una sutura completa senza problemi. Avrei persino potuto squarciarlo e poi ricucirlo in modo perfetto, rimettendo insieme i pezzi, ma per il momento avrei evitato.
«Con una mano tieni fermo il pomodoro e con l’altra inizi a tagliarlo a fette» spiegò, abbandonando quell’aria scocciata che aveva sempre quando si trovava a discutere in modo quasi civile con me, sostituendola con un tono più calmo e rilassato.
Potrei fare te a fette, pensai, ma non con cattiveria. Infatti, ad accompagnare i miei pensieri fu un maledetto sorriso che non riuscii a frenare. Avrei dovuto abituar mici, era chiaro.
«Così?» chiesi, tagliando di netto l’ortaggio. Scoprii che non era così impegnativo e che era esattamente come il lavoro di un chirurgo, solo non su un corpo umano. Incoraggiato da questa scoperta continuai, riducendolo in fettine sottili che con maestria gettai nella terrina di fronte a noi assieme al resto, poggiando poi con ordine il coltello e il tagliere e osservando con la coda dell’occhio la sorpresa farsi strada negli occhi di Kidd.
Con uno sbuffo che doveva sembrare una risata sarcastica mi bloccò le braccia con fermezza e mi fece voltare in modo da ritrovarmi faccia a faccia con lui, impossibilitato a sottrarmi a quello sguardo penetrante e divertito.
«Non ti facevo così capace, ragazzino» disse ghignando e i suoi occhi scivolarono per un istante a fissare le mie labbra, svelandomi la via che stavano prendendo i suoi pensieri e le sue intenzioni.
Lo capivo, era ciò a cui non avevo smesso di pensare da quando mi ero ritrovato intrappolato tra lui e la cucina, ma che avevo abilmente nascosto. Però era anche vero che avevo fame e che il timer del forno stava scattando proprio in quel momento, segnando la fine della cottura e annunciando a tutti che era pronto. Avrebbe dovuto aspettare, anche per il semplice fatto che io non vedevo una cena del genere da parecchio, a parte la pizza da asporto che ordinavo e che segretamente mangiavo in camera mia in compagnia di un libro.
Così dovetti calmare i suoi bollenti spiriti e ricordargli che avevo ancora io il coltello dalla parte del manico.
«Ho fatto molta pratica con i cadaveri, Eustass-ya. Vuoi offrirti volontario per una prova su carne viva?» proposi con innocenza.
«Ah, va’ al diavolo, stronzetto». Detto questo tornò ad essere il solito brusco, impaziente, capriccioso ed insopportabile Kidd, minacciandomi di mettere del veleno nel mio piatto e sotterrarmi in giardino dove nessuno mi avrebbe trovato. Poi avrebbe dato fuoco alla macchina e l’avrebbe gettata nel fiume che scorreva accanto a casa sua.
Nel frattempo, ascoltando i suoi sproloqui e immaginandolo con una tanica di benzina in mano mentre appiccava il fuoco e ballava attorno all’auto, mi sedetti a tavola, puntando il gomito sulla superficie di legno e appoggiando la testa sulla mano, osservando quell’impiastro mentre finiva di tagliare l’insalata per poi condirla e sbattermela davanti agli occhi con poca grazia, tornando ad occuparsi delle lasagne e sfornandole.
Ero sempre stato una persona schiva, convinta di non sorridere e permettendomi solo dei ghigni strafottenti e adatti a qualsiasi occasione.
Forse, da quel momento in avanti, avrei potuto concedermi qualche piccolo attimo di tregua per lasciare che un sorriso mi si dipingesse sul volto, come in quel momento, mentre quella testa rossa si dava da fare per non rompere qualche piatto con i suoi modi decisamente poco adatti in un contesto simile.
«Cazzo. Trafalgar, dammi una mano!».
«Perché mai, Eustass-ya? Te la stai cavando così bene nei panni dell’adorabile mogliettina».




Angolo Autrice.
Sabato. Adoro anche io il sabato come Kidd, ma passiamo alle cose importanti. Mi sono innamorata di questo capitolo e immagino la risata di Law come un qualcosa di anormale da associare a lui, ma tremendamente adorabile. Si limita a qualche sorrisetto beffardo quando è in compagnia, o ad un classico ghigno sadico, ma stasera si lascia andare e scoppia a ridere.
Kidd sa cucinare e, non appena vi svelerò qualcosa sulle sue malsane origini, capirete perché. Praticamente nel prossimo capitolo. E ce lo vedo davanti ai fornelli con quella chioma vermiglia.
Ho introdotto un po’ il passato di Law, turbolento, burrascoso, incasinato, ma scenderò nei dettagli più avanti, spiegando anche alcuni problemi e disagi a lui associati.
Che altro dire, spero di avervi strappato un sorriso con questa scena quotidiana tra i due e spero vi sia piaciuto **
Per qualsiasi cosa sapete dove sono e ringrazio sempre tutti quanti. Grazie!
Va bene, piccolo spoiler:

Le avevo tollerate nel migliore dei modi durante i mesi passati ma, quando una di loro mi aveva dato uno schiaffo malizioso sul culo, mi ero schiarito la voce e avevo messo un punto a quelle sceneggiate, dicendo in modo che tutte capissero e trattenendomi dal dare di matto, che mi piacevano gli uomini, che si, ero quello che si definiva gay e che non avrei portato a letto nessuna di loro.
Quasi dimenticavo, chiarii anche che volevo che la smettessero di rifilarmi banconote nella tasca della giacca sperando che mi accorgessi dei loro sguardi arrapati.
 


See ya,
Ace.


 

  
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