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Autore: Himenoshirotsuki    19/11/2013    16 recensioni
Il suo corpo era luce, la emanava come una stella nella volta celeste, i capelli simili a lingue di fiamma. Ledah guardò quell'anima splendente, mentre si faceva strada tra i rovi e le spine. In quel luogo opaco, a cavallo tra la realtà e il mondo dell'oltre, ogni suo passo era troppo corto, la sua voce non era sufficientemente forte perché lei si accorgesse che la stava febbrilmente rincorrendo. Per un tempo indistinto inseguì quelle tracce vermiglie, testimoni delle catene corporee che la tenevano ancorata a questo mondo. Poi lei si girò, incrociando lo sguardo disperato di Ledah, e in quell'istante egli capì: lei era il sole nell'inverno della sua anima, l'acqua che redimeva i suoi peccati, la terra che poteva definire casa. Lei era calore e fiamma bruciante. Lei era fuoco, fuoco nelle tenebre della sua esistenza.
Revisione completata
-Storia partecipante alla Challenge "L'ondata fantasy" indetta da _ovest_ su EFP-
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Guardiani'
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7

Verso l'epicentro

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche


Il giorno successivo, in tarda mattinata, la guerriera annunciò a Ledah che sarebbe uscita per cercare del cibo. L'elfo era a malapena consapevole di dove si trovasse e di cosa fosse successo, perciò nemmeno si sprecò a rispondere, limitandosi a fissare con aria assente il soffitto della grotta. 
Della sera precedente conservava solo alcuni frammenti: il piacevole torpore in cui era scivolato, la voce dolce che lo chiamava, il tocco delicato di qualcosa sulla fronte bollente. Ricordava che era stato sul punto di lasciarsi andare, quando poi qualcosa l'aveva riscosso e riportato alla realtà. Aveva aperto gli occhi, ma aveva fatto fatica a mettere a fuoco i contorni delle cose. Il mondo era sfocato, immerso in una specie di nebbia, come se lo stesse osservando attraverso il vetro appannato di una finestra. Come in un sogno, aveva incrociato lo sguardo cieco del Cavaliere del Lupo, uno sguardo colmo di disperazione e paura. Gli stava dicendo di non dormire. Avrebbe voluto rassicurarla, dirle che stava bene, ma aveva sentito le forze venirgli meno. 
"Sto per morire" aveva pensato prima di piombare di nuovo in quel dolce sonno. Poi una fitta di dolore alla spalla l'aveva riportato brutalmente con i piedi per terra. Aveva urlato, si era divincolato per quanto gli permettessero le esigue forze, cercando di scostare quella cosa rovente che gli stava bruciando la carne, ma non era riuscito a liberarsi dalla presa di Airis. Infine, vinto dalla stanchezza, si era riaddormentato.
Non seppe per quanto era rimasto incosciente, il tempo in quella dimensione onirica non sembrava esistere. Sentiva solo la perenne presenza della sua inaspettata, e alquanto improbabile, compagna di viaggio e nei pochi momenti di lucidità l'aveva vista stesa di fronte a lui, gli occhi bianchi che non tradivano alcuna emozione. 
Ora Airis stava per andare a caccia e Ledah si ritrovò a sorridere malinconico senza rendersene conto.
"Se ne sta andando. Sono diventato un peso e sta per lasciarmi." 
Airis si avvicinò e depose al suo fianco una borraccia piena d'acqua. 
- Tornerò, non ti lascerò morire. - gli disse, come se gli avesse letto nel pensiero, - Cercherò di fare più in fretta che posso. -
Poi si alzò e si diresse verso l'uscita della grotta. La luce accecante del sole graffiò gli occhi socchiusi dell'elfo mentre lei spariva, come inghiottita da quel bagliore. Ledah sbatté le palpebre sforzandosi di restare sveglio, ma il torpore che lo accompagnava da giorni non accennava a lasciarlo. Era come in uno stato di dormiveglia perenne e spesso l'incoscienza lo avviluppava come una soffice coperta prima che se ne accorgesse. 
Il tempo passò e di Airis nessuna traccia. Ogni tanto la paura che lei avesse utilizzato la scusa di andare a procacciare del cibo per abbandonarlo a se stesso tornava a far capolino nei suoi pensieri febbricitanti, tormentandolo in maniera insistente e dolorosa. D'altronde, era un'umana, no? Non ci si deve fidare degli umani: la menzogna, il tradimento e l'egoismo fanno parte della loro natura. Era una verità che tutti gli elfi imparavano sin da piccoli e Ledah l'aveva più volte avvalorata. 
Il crepuscolo sopraggiunse più velocemente di quanto si aspettasse, accompagnato dal venticello fresco della notte. L'afa portata dall'esplosione stava svanendo, per cedere di nuovo il posto al freddo invernale. 
Ledah guardò pigramente verso l'entrata della caverna per l'ennesima volta e sbuffò, in un rituale che aveva collaudato nelle ore precedenti, sempre uguale a se stesso.
"Come volevasi dimostrare: Airis è scappata."
Eppure non capiva perché si sentisse così deluso. Insomma, non avrebbe dovuto aspettarsi nulla da quella giovane donna, non erano mica compagni d'armi. Avevano fatto un patto, tutto qui, ma non si erano giurati eterna fedeltà, né avevano stretto alcun legame di sangue, come fratello e sorella. Ledah non era sua responsabilità e Airis non era responsabilità di Ledah. Ognuno faceva quello che reputava giusto o comodo per i propri interessi, l'amicizia non era minimamente contemplata da nessuna delle due parti. Però l'elfo non riusciva a scrollarsi di dosso la stizza e l'amarezza per essere stato abbandonato senza remore in quelle condizioni, malato e ferito, in un grotta in mezzo al nulla. Almeno gli aveva lasciato dell'acqua. Che pensiero carino...
Borbottò infastidito e farfugliò qualche insulto rivolto ad Airis, poi provò a mettersi a sedere, ma un attacco di vertigini lo fece accasciare di nuovo sulla nuda pietra con un grugnito. La sonnolenza non tardò a farsi sentire e, proprio mentre stava ponderando di concedersi un altro pisolino, udì un rumore di passi sempre più vicino. Il suo cuore prese a battere un po' più forte, un po' più veloce, ma rifiutò categoricamente di etichettare quell'emozione come "felicità", anche se l'espressione che si dipinse sulla sua faccia tradì il sollievo. Forse Airis stava tornando.
"E se non fosse lei?"
Il calore che gli aveva scaldato il petto svanì in un lampo, rimpiazzato dal terrore dell'approssimarsi di un nemico. La vista si annebbiò, ma si obbligò a raccogliere le poche energie che gli scorrevano nelle vene e allungare una mano verso la daga vicino al fuoco. Tuttavia, quando era sul punto di afferrarla, essa sparì, come se si fosse trattato di un'allucinazione. 
A tentoni cercò la lama gemella e per fortuna la trovò assicurata alla propria cintura. Strinse l'elsa, sfoderò l'arma con un movimento goffo e si allontanò dall'entrata della caverna strisciando all'indietro. All'esterno il sole morì oltre gli alberi della foresta e le prime stelle fecero la loro comparsa nel cielo. Ledah scrutò nell'oscurità, cercando di distinguere le ombre. Sbirciò nella vegetazione, fra gli alberi rinsecchiti, e a un tratto vide una figura con in mano una spada lunga, di un metallo lucente come l'argento fuso, farsi largo tra i pochi cespugli sopravvissuti alla devastazione. Rinsaldò la presa attorno alla daga fino a farsi sbiancare le nocche, forse sperando che quel leggero dolore potesse risvegliare il suo corpo intorpidito. 
La figura si avvicinò lentamente pronunciando delle parole confuse, incomprensibili, forse un incantesimo offensivo. Un'estemporanea reminiscenza dello scontro con le creature risalente al giorno prima distolse l'elfo da ogni proposito di provare a capire quelle frasi sconnesse. Facendo appello a tutte le sue forze, si alzò e scattò in avanti tentando un affondo al cuore. La sua lama scivolò su quella del nemico, ma questi si scostò all'ultimo secondo, deviando il colpo e facendogli perdere l'equilibrio con una facilità disarmante. Ledah rotolò di fianco e si mise carponi, senza mai distogliere lo sguardo dalle pupille bianche e vuote dell'avversario. Ignorando i crampi causati dai movimenti bruschi a cui aveva appena costretto i proprio muscoli, tentò un secondo attacco. Il suo avversario parve sorpreso e indietreggiò nell'istante in cui la daga morse la leggera stoffa della sua veste. 
"Non è ancora giunto il mio mome-" 
Non riuscì a concludere il pensiero, perché un dolore improvviso allo sterno gli strappò il respiro dai polmoni. Nell'attimo stesso in cui le sue ginocchia cedettero, una forte presa sul polso lo costrinse a lasciar cadere la daga. Dopodiché, la figura sconosciuta avvicinò la sua spada alla gola dell'elfo e fu in quel momento che Ledah guardò nuovamente in quelle iridi spente. Fece per dire qualcosa, ma le sue labbra non scandirono alcuna parola. Infine, ogni cosa perse consistenza e l'oblio si impadronì di lui. 
Quando riaprì gli occhi, l'alba del nuovo giorno era ormai sorta da un pezzo e l’arciere era disteso sulla dura pietra, all'interno della grotta. Si sentiva tutto ammaccato, come se gli fosse passato addosso una mandria di buoi. Osservò l'ambiente che lo circondava, trovandolo familiare, e ripescò dalla memoria spezzoni di immagini confuse, finché i ricordi relativi al combattimento con il nemico ignoto non gli fece sbarrare le palpebre nel vuoto. Si tastò il corpo, incredulo e spiazzato nel trovare tutti i pezzi al loro posto.
- Quindi non sono morto. - constatò.
- Certo che non sei morto, brutto pezzo d'idiota, elfo stupido e autolesionista! -
Quella voce carica di sarcasmo lo fece sussultare. Airis era davanti a lui, appoggiata al muro, e lo osservava con uno sguardo assente, anche se il cipiglio assunto dalla ragazza esprimeva fastidio. Gli si avvicinò e gli sollevò il mento con un gesto stizzito. 
- Se volevi farti ammazzare, ci stavi riuscendo benissimo. Avresti potuto dirmelo prima che tenevi così poco alla vita, mi avresti risparmiato un sacco di fatiche. -
L'elfo la fissò sbigottito e confuso per alcuni secondi, poi si difese: - Non stavo cercando di farmi ammazzare. Uno di quegli esseri stava avanzando verso la caverna e io l'ho preventivamente attaccato. -
“E sono stato sconfitto in pochi secondi.”
Ma questo non lo disse. Ci teneva alla reputazione, soprattutto davanti a una donna. E a maggior ragione una donna umana. 
Ripensò a quello che era accaduto. La spada argentea del guerriero, lo scontro, la sua lama che sembrava danzare al chiaro di luna e poi quegli occhi bianchi...
La ragazza si morse le labbra, forse per reprimere un attacco di rabbia oppure una risata, impossibile stabilirlo. 
E allora Ledah capì. 
E si sentì immensamente stupido.
- Oh. - non gli uscì nulla di più intelligente.
Airis schioccò la lingua e sbuffò. Si allontanò, tornò ad appoggiarsi alla parete e incrociò le braccia al petto, tornando seria e algida come la guerriera che era. 
- Mi spieghi cosa ti passava per la testa? Se non ti avessi riconosciuto, a quest'ora la tua testa sarebbe cibo per lupi. E non so davvero come ho fatto, è stato un colpo di fortuna. -
- Non era mia intenzione ucciderti, davvero. È solo che al buio non sono riuscito a riconoscerti. Probabilmente ho avuto un'allucinazione e ho creduto fossi una di loro.-
Airis sospirò. 
- Ho immaginato. Comunque... - gli indicò un sacchetto alla sua sinistra. 
Era in tela, chiuso alla buona da una nastro nero piuttosto slabbrato, come se fosse stato strappato da un abito, e nella parte sottostante era sporco di terra. Ledah lo aprì e vide che all'interno c'erano alcune radici e delle bacche di un rosso acceso. 
- Non ho trovato altro, purtroppo. Ho camminato per ore cercando qualcosa di più prelibato, ma è stato tutto distrutto. Dovrai accontentarti. E stai tranquillo, ho già assaggiato tutto, non sono velenose. -
Ledah tirò fuori uno di quei piccoli frutti e annusò il loro odore dolce e invitante. 
- Non fa nulla, vanno bene. Grazie. -
Addentò una bacca e ne gustò il sapore dolciastro sulla lingua: mai in vita sua gli erano sembrate così deliziose. Ne porse una anche ad Airis, ma questa scosse il capo in segno di diniego. 
Mentre affamato divorava una radice, le domandò: - Senti, come sta la ferita? Quella che ti ho fatto ieri notte, intendo. - 
La guerriera si accigliò: - Non mi hai nemmeno sfiorata, a dir la verità. -
- No, impossibile. Sono sicuro di averti colpita. - insistette l'elfo.
Se lo ricordava perfettamente quel momento: l'aveva colta con la guardia abbassata ed era penetrato nelle sue difese.
Airis negò. 
- Vedi delle ferite da qualche parte? - si avvicinò allargando le braccia. 
In effetti, sembrava completamente indenne e la tunica pareva intatta, a parte poco sotto il costato, dove un taglio piuttosto largo lasciava scoperto un frammento di pelle. Ledah lo artigliò con un dito, facendo trasalire la guerriera. 
- E questo? Che mi dici di questo? Sembra opera di una spada e potrei giurare che non c'era quando l'ho raccolta dal cadavere di quel mago. - indagò sospettoso.
Per un attimo la maschera d'impassibilità della guerriera parve incrinarsi: - E' vero, l'hai presa dal cadavere di uno dei vostri, che potrebbe essere stato ferito in battaglia. Non è così strano essere pugnalati mentre si combatte, sai? -
- Io non l'ho notato. Ti stava a pennello quando l'hai indossata e, a parte un po' di povere, non era sciupata. -
- Allora, forse, è accaduto quando ci siamo scontrati con quei non-morti. La smetti di impuntarti su queste sciocchezze, per favore? - 
L'elfo ignorò la frecciatina, ma evitò di ribattere, tanto sarebbe stato inutile insistere sapendo che lei non avrebbe mai ammesso nulla. Ricominciò a mangiare rimuginando tra sé e sé, lanciando qualche occhiata furtiva di quando in quando alla guerriera. A vedersi sembrava una normalissima umana, eppure possedeva una capacità rigenerativa fuori dal comune, persino più rapida della sua. Sì, se n'era accorto. E poi c'erano quegli occhi opachi, così simili a quelli delle creature che li avevano attaccati: occhi incolori come quelli dei cadaveri, non dei ciechi. Sospirò e scosse la testa sconsolato. Troppi interrogativi gli frullavano nel cervello e a nessuno di questi ora come ora poteva fornire una risposta. 
Però doveva ammettere che era veramente bella, per essere un'umana.
"Quel corpo è sprecato in guerra." 
Richiuse il sacchetto e glielo restituì ringraziandola.
Il senso di intontimento lo aveva finalmente abbandonato e ora era totalmente presente a se stesso e la febbre pareva essere scesa. 
Raccolsero le poche cose che avevano e si misero in marcia. In un certo qual modo il clima stava lentamente tornando alla normalità e non era da escludersi che prima o poi avrebbe anche nevicato. A Ledah la cosa non sarebbe affatto dispiaciuta, aveva sempre amato i paesaggi innevati tipici di Llanowar, però con quei pochi abiti che avevano addosso e la scarsa quantità di cibo reperibile nei paraggi non sarebbero stati in grado di sopravvivere. 
- Sarà meglio sbrigarsi. Non possiamo farci sorprendere dalla neve in questo stato. -
Airis fece un lieve cenno del capo e si mantenne a breve distanza da lui. Camminarono per tre lunghi giorni in un susseguirsi di paesaggi tristi e desolati, tra foreste di alberi morti e steppe di erba riarsa, che erano ormai diventati un panorama onnipresente. Gli argini dei fiumi prosciugati erano ferite slabbrate nella terra sterile che li circondava. Nulla era più devastante e doloroso per Ledah che vedere la propria foresta ridotta al solo ricordo di ciò che una volta era.
Alla fine del terzo giorno giunsero a destinazione. Di fronte a loro si estendeva un'immensa città elfica edificata direttamente nei tronchi di alberi millenari, che affondavano le loro radici nel terreno ancora fertile, non toccato dall'esplosione, mentre i rami nodosi si arrampicavano sui muri delle case di legno fino ai tetti, coprendoli con le loro lussureggianti fronde illuminate dagli obliqui raggi del sole. Tutto intorno alla città di forma circolare correva un grande fossato, dentro il quale, in passato, confluivano le acque degli affluenti del fiume Tabor. 
Ledah si avvicinò al bordo e sbarrò gli occhi: le pareti rocciose dello strapiombo precipitavano dentro una densa coltre di nebbia e sembravano proseguire fin nei meandri della terra, e il ponte che collegava le due sponde del fossato era sparito, lasciando al loro posto solo un buco nella roccia. Imprecò e si grattò la nuca frustrato. 
- Perché ci siamo fermati? - chiese Airis.
- Aspetta, facciamo il giro. Voglio verificare una cosa e spero vivamente di sbagliarmi. -
camminarono per ancora mezza giornata e alla fine si ritrovarono esattamente nel punto da cui erano partiti, dopo aver girato intorno alla città.
- Adesso mi dici che succede? - ripeté la ragazza per la decima volta, esasperata dal silenzio teso dell'elfo.
- Tutti i ponti per raggiungere Alfheim sono andati distrutti. Non so se sia stata l'esplosione. È difficile credere che sia arrivata fin qui, visto che la natura non ha subito danni, eppure... non so, è strano. Se questo è davvero l'epicentro, qui non dovrebbe esserci più niente. Invece le case e gli alberi sono ancora integri. - spiegò.
La guerriera inclinò la testa di lato con un'espressione interrogativa: - Alfe-che? - 
Ledah sospirò, si era dimenticato che stava parlando con un'umana: - E' la capitale di Llanowar. -
- Avete delle città, voi? Pensavo viveste solo in piccoli villaggi. -
- Diciamo che il mio popolo ha sempre preferito vivere in piccole comunità. Però, dopo che l'esercito degli umani è riuscito a penetrare fin quasi alla zona sacra della foresta, il Concilio ha deciso di isolarla per difenderla. Così è stata costruita Alfheim. È stata un'ottima idea creare un fossato... - si sporse di nuovo e una raffica di vento gelido penetrò sotto gli abiti leggeri, - Ora come ora, però, non possiamo passare. -
- Sicuro non ci sia un qualche altro modo? Sì, insomma... non posso pensare che quando la città è stata progettata nessuno abbia considerato l'eventualità che potesse accadere una cosa simile. Non esiste, per esempio, un passaggio nascosto? -
- Che un'ondata di magia distruttiva radesse al suolo Llanowar, eliminando ogni collegamento con la capitale? Mi sa proprio che nessuno dei costruttori ci ha mai pensato. Già di per sé l'idea è assurda. Certo che ne dici di sciocchezze. -
La guerriera lo colpì con un pugno sulla schiena, evidentemente non aveva gradito. Massaggiandosi la zona lesa, Ledah si girò verso di lei e sbuffò: - Beh, fatto sta che non possiamo passare. - 
Airis si sedette sul ciglio del fossato e lasciò le gambe a penzoloni nel vuoto, assorta nelle sue riflessioni. Ledah la squadrò preoccupato e anche lievemente stupito.
"Non ha paura che la possa spingere giù? Si fida così tanto di me?" 
Dopo un paio di minuti le parole della ragazza risuonarono nel silenzio: - Dobbiamo assolutamente andare a vedere. - 
- Lo so, lo so. Però non mi viene in mente nulla. A meno che... -
- A meno che... cosa? Non riesci a finire una frase almeno una volta? -
- Stai calma. Intorno ad Alfheim c'erano dieci ponti che la collegavano al resto della foresta e di essi non ne resta nemmeno uno. Però si racconta che ci fosse un undicesimo ponte, il primo ad essere costruito, che conduceva direttamente alle prigioni. Teoricamente dovrebbe essere ancora lì, perché su di esso era stato posto un sigillo di protezione, però non ne sono certo. Sai, visto che è protetto dalla magia, non è facile individuarlo, e solo gli elfi con una notevole conoscenza magica possono farlo. Ora, non per vantarmi, ma io... -
- Se è l'unica via, non ci resta che tentare. - lo interruppe Airis.
Ledah sospirò e alzò gli occhi al cielo, richiamando a sé tutta la pazienza di cui era capace.
La ragazza si alzò lentamente in piedi, mentre il vento le scompigliava i serici capelli rossi. 
"Vivi come il sangue, belli come il fuoco." 
- Allora? Dove dobbiamo andare? -
Ledah si riscosse dai propri pensieri e distolse lo sguardo dalla chioma vermiglia del Cavaliere del Lupo.
- Seguimi. - si allontanò da lei con passo spedito, cercando di mettere una distanza tra loro due, come se il solo fatto di camminare a meno di due metri gli provocasse imbarazzo. 
Proseguirono per un centinaio di metri verso destra, fin quando l'elfo non si arrestò, richiamando l'energia magica e incanalandola davanti a sé per aprire una crepa nel velo invisibile che nascondeva il passaggio. Poi si sporse oltre il bordo del fossato esalando un sospiro di sollievo: il possente ponte in pietra era ancora lì, protetto dal sigillo. Per chiunque non avesse gli occhi di un elfo allenato sarebbe parso di camminare nel vuoto, ma Airis non poteva vedere e la vista di Ledah bastava per entrambi. Lo attraversarono e in un paio di minuti raggiunsero i confini di Alfheim. 
Ledah alzò il capo e scorse la sagoma di un dissestato torrione di mattoni, ricoperto da muschi, licheni e piante rampicanti. Fece per indicarlo ad Airis, ma ritirò subito la mano con una smorfia e si diresse direttamente lì, mentre la guerriera lo seguiva in silenzio come un'ombra. Giunti di fronte all'antica piazzaforte, la ragazza si fermò in ascolto.
- Hai sentito qualcosa? - domandò l’arciere.
La guerriera scosse la testa: - E' questo il problema: non sento nulla. Alfheim costituisce l'ultima difesa di Llanowar, no? Allora perché non avverto alcun suono? Anche se l'onda magica avesse travolto ogni cosa, la popolazione dovrebbe essere stata messa al sicuro all'interno delle mura... - 
Un brivido gelido corse lungo la spina dorsale dell'elfo. Che fossero...? No, impossibile, non era neanche immaginabile. 
- Si staranno nascondendo. Forse stanno celando la loro presenza con un qualche incantesimo, sarebbe comprensibile. - proferì con calma, cercando di convincere più se stesso che lei.
Una volta in prossimità del grande e pesante portone d'ingresso delle prigioni, Ledah si concentrò e pronunciò delle parole in lingua elfica. Dalla serratura dell'antico lucchetto posto sui battenti si levò un rumore meccanico e lentamente le ante massicce si aprirono con un cigolio sinistro. Dinanzi a loro c'era una rampa di scale intagliate nella pietra, che scendeva giù e si immergeva nel buio.
- Andiamo. - la esortò Ledah.

 
  
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