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Autore: ___Ace    23/11/2013    4 recensioni
“Non è serata, Evidenziatore, torna un’altra volta”.
Osservai quell’energumeno che avevo avuto la sfortuna di incontrare: i capelli in disordine e un orrendo paio di occhiali con le lenti spesse era appoggiato sulla fronte, tenendo quei ciuffi rosso vermiglio alzati verso l’alto; la maglia sporca di nero, pantaloni neri, scarponi neri. Praticamente avevo davanti a me l’Uomo Nero in persona.
Avrebbe potuto spaventare i mocciosi qui intorno.
*
Ecco, lui sembrava infiammato. Costantemente. Sembrava sempre avere qualcosa da dire, da fare o da vedere; non stava mai fermo e si muoveva in continuazione; a volte sembrava calmarsi ed essere colto da un’improvvisa quiete e sonnolenza, ma si riprendeva subito dopo; adorava i fuochi d’artificio e il fuoco lo affascinava. Diceva che era caldo, e quindi apprezzato dalle persone, ma allo stesso tempo temuto perché poteva bruciare e fare del male. Questi aspetti contrastanti gli piacevano immensamente, tanto da suscitare anche la mia curiosità e facendo si che, ogni volta che passava, mi ritrovassi chino sul bancone ad ascoltare le sue stramberie per nulla annoiato.
Ace era certamente così: bello, scoppiettante e caldo. Era il fuoco.
*
Kidd/Law. Ace/Marco. Penguin/Killer. Accenni Zoro/Nami.
Genere: Fluff, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eustass Kidd, Marco, Portuguese D. Ace, Trafalgar Law, Un po' tutti | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 8.
Se c’era qualcuno più bastardo di mio padre, quella era mia madre

Avevo imparato ad arrangiarmi e ad essere più o meno autosufficiente all’età di dieci anni, quando, secondo il parere degli adulti, ero abbastanza grande per rimanere a casa da solo, arrangiarmi nei compiti e comportarmi bene senza cacciarmi nei guai. Facevo del mio meglio, all’epoca, rinchiudendomi nella mia stanza a leggere riviste d’auto e a giocare con le costruzioni quando era brutto tempo e uscire a giocare, infischiandomene del resto, quando in campagna splendeva il sole e i ragazzini del quartiere uscivano in strada per ritrovarsi tutti assieme.
La mia infanzia l’avevo passata così, a costruire e smontare macchinine giocattolo, a creare robot con i bulloni delle vecchie auto, a montare e truccare il mio primo motorino e a sbucciarmi le ginocchia quando correvo in bicicletta su una ruota sola. Avevo imparato a gestirmi, a cucinare, a prendermi cura della casa, a difendermi se i bambini più grandi provavano a rubarmi la merenda a scuola; mi tenevo in forma correndo, sollevando pesi, sviluppandomi e crescendo a vista d’occhio.
Mi arrangiavo ed ero piuttosto bravo.
I miei genitori lavoravano tutto il giorno ed erano a casa solo la domenica, momento sacro in cui dovevo fare il bravo, non mangiare come un selvaggio, aiutare in cucina quando preparavo la cena per loro tutte le sere, sparecchiare, andare a trovare l’unica vecchia nonna decrepita che mi era rimasta e che stava a dieci metri da casa, non dire parolacce, non litigare con i cugini e ‘accidenti, Kidd, porta rispetto per tuo padre’.
Poi ero cresciuto, diventato maggiorenne e avevo trovato un lavoro, potendomi così permettere di trasferirmi nella casetta che mi aveva lasciato in eredità una vecchia bisnonna, troppo gentile e con il prosciutto sugli occhi per non rendersi conto di stare lasciando il suo patrimonio ad un perfetto coglione, vivendo da solo, andando a scuola e mantenendomi orgogliosamente con le mie forze.
Mi si poteva dire tutto, ma nella vita quello che avevo me lo ero guadagnato senza l’aiuto di nessuno, dei miei soprattutto.
A mia madre si illuminavano gli occhi quando mi vedeva o parlava di me. Era fiera di avermi come figlio, anche se i suoi modi a volte mi lasciavano in imbarazzo nonostante il legame di sangue che mi scorreva nelle vene, mentre mio padre era un fottuto stronzo. Avevo preso più da lui che da mamma, il mio carattere scorbutico e facilmente irritabile lo dovevo solo a lui e ai suoi modi poco affettuosi. Certo, non era tipo da perdersi in convenevoli, abbracci e carezze, ma aveva sempre lavorato per potersi permettere il meglio e non far mancare niente alla sua famiglia.
Su questo dovevo dargliene atto, ma non glielo avrei ma e poi mai detto o si sarebbe vantato per il resto della sua vita, facendomi sentire inferiore.
Ormai ero abituato a vivere da solo, pensando a me stesso, senza pensieri e preoccupazioni inutili e facendo quello che più mi andava tra quelle quattro mura di casa.
Cucinavo, giocavo, tenevo la musica alta, mi ubriacavo, apportavo modifiche all’abitazione costruendo muretti per delimitare il mio territorio, aggiungendo un caminetto nel soggiorno, ridipingendo i muri e altri lavoretti che avevo imparato a fare negli anni e che non mi pesavano, dato che sapevo arrangiarmi al meglio.
Rientravo quando volevo, giravo nudo per casa se non mi andava di vestirmi, lasciavo tutto in disordine, spostavo mobili e nelle occasioni speciali si festeggiava tra amici.
Vivevo da Dio, in poche parole.
E potevo permettermi di scopare in santa pace senza dovermi rifugiare in qualche buco o ritrovarmi a casa di uno sconosciuto con cui accidentalmente decidevo di passare la notte. Per questo, quando quell’inquietante individuo di Trafalgar Law arrivava da me, non c’erano problemi e la serata, o pomeriggio che fosse, passava tranquilla, senza fretta o intoppi, dandoci l’opportunità di avere tutto il tempo a nostra disposizione, dato che una volta non mi bastava mai.
Anche in quell’occasione era andata così, solamente che avevo deciso di mangiare qualcosa prima di divertirmi.
Non si trattava di un invito a cena come aveva insinuato lui tra un boccone e l’altro, facendomi infuriare parecchio, assolutamente. Avevo trovato la pasta per le lasagne e gli ingredienti necessari per caso e avevo deciso di consumarli una volta per tutte visto che avevo qualcuno con cui condividere il cibo. Cioè, io mi dimostravo, per una volta tanto, gentile e lui che faceva? Trovava il coraggio di aprire bocca per far uscire un sacco di stronzate. Perfetto, potevo ritenermi offeso.
Un invito, che stupidaggine. Gli avevo chiesto di venire prima solo per evitare che si raffreddasse tutto, dovendo poi buttare via e sprecare una specialità delle mie. Era difficile da capire, o ero io che sbagliavo? Non mi era minimamente passata per la testa un’intenzione del genere. Così sdolcinata poi da far venire il voltastomaco.
Disgustoso.
«Eustass-ya, non avrei mai detto che fossi un tipo da cenette romantiche» aveva detto quel miserabile, facendomi incazzare talmente tanto che in un secondo avevo afferrato il coltello per la carne da dentro al cassetto della cucina e gliel’avevo puntato contro minaccioso, trovandolo in posizione di difesa con in mano la teglia ormai vuota delle lasagne e un’espressione che non prometteva nulla di buono.
Ci eravamo guardati in cagnesco per un po’, studiandoci attentamente e registrando ogni nostra mossa, pronti a scattare se uno dei due avesse dato segno di voler iniziare una battaglia senza fine, dove non c’era mai un vero e proprio vincitore. O forse si, c’era in realtà, ma non poteva definirsi tale, dato che, odiavo pensarlo, era come se fossimo due metà di un intero.
Dio mio. Dio mio, che… Che schifo!
Non in quel senso, per carità, semplicemente, per giustizia, lui aveva il potere di zittirmi e vincermi con quelle sue battutine pungenti, mentre io mi potevo sbarazzare di lui e atterrarlo in un attimo, se parlavamo di prestazioni fisiche. Andiamo, ero il doppio, abituato a fare a pugni, anche se il piccoletto, dovevo ammetterlo, se si impegnava sapeva menare abbastanza. Da non dimenticare che, come avevo immaginato, aveva dislocato il polso a uno di quei ragazzi fuori dalla taverna la prima notte che avevamo passato assieme e dalla quale poi era iniziato tutta quella scocciatura.
A proposito di questo.
Se ne stava andando, di nuovo.
Dopo esserci calmati e aver abbassato le armi e finito di cenare, aveva insistito per aiutarmi a sparecchiare, spiegandomi che a casa sua si davano il turno e che non gli piaceva restare con le mani in mano. Dopo avergli dato un consiglio su come poteva passare meglio il tempo, ovvero intrattenermi con un lavoretto di bocca mentre io finivo di sistemare i piatti e dopo aver schivato un coltello volato, a detta sua, casualmente, verso la mia direzione, lasciai perdere e lo lasciai fare. Senza motivo, per dire qualcosa, mi aveva raccontato alcuni aneddoti sui suoi coinquilini e su quello che di solito facevano la sera per passare il tempo. Inutile dire che in una gabbia di matti come la loro non avrei mai voluto metterci piede.
Poi mi aveva chiesto dov’era il bagno e mi sembrò strano, dato che passava per casa mia tutte le settimane, ma mi resi conto solo in quel momento che lui, in realtà, la casa non la conosceva affatto se non per la camera da letto. Senza dire una parola gli avevo fatto strada, indicandogli la porta e, quando stava per entrarci, si era voltato a guardarmi con la testa leggermente inclinata e incoraggiandomi con lo sguardo a seguirlo.
«Tu non vieni?» aveva sussurrato.
Senza derisione, senza ghigni, senza sbuffi e senza proteste da parte di entrambi, l’avevo raggiunto e, poco dopo, avevo lasciato scorrere l’acqua della doccia fino a farla diventare calda sulle nostre pelli già bollenti.
E adesso, come ogni volta del resto, raccolse le sue cose in silenzio, con movimenti calcolati e attenti a non fare rumore per svegliarmi. Non stavo dormendo in realtà, ma mi sentivo stanco e assonnato, probabilmente in dormiveglia. Doveva essere tardi, forse le due di notte, e mi chiesi per la millesima volta perché non restava a dormire e ripartiva la mattina dopo. Per l’università? Per non far preoccupare i suoi amici? Sicuramente no, quei tizi erano uno peggio dell’altro e Trafalgar era un tipo che sapeva badare a se stesso, di certo lo sapevano.
Solo, ero curioso di sapere perché continuava a scappare nel bel mezzo della notte come se fosse un ladro.
 
* * *

Sabato. Il sabato non lavoravo e, anche se era il giorno che veneravo più di tutti, facevo una cosa che solamente pensarla mi faceva incazzare. L’aspetto comico era che ero costretto a farla proprio per evitare di perdere il controllo nei momenti più tesi e stressanti in cui non volevo fare altro che prendere e spaccare qualcosa.
Yoga.
Fanculo Killer che mi aveva convinto a iscrivermi a quel dannato corso che, secondo me e tutti coloro a cui lo chiedevo fingendomi disinteressato, non volevo di certo che tutto il mondo lo sapesse, era un’enorme cagata.
Attraversai la strada dopo aver parcheggiato poco lontano dalla palestra e mi calcai bene in testa il cappuccio del piumino nero e pesante che indossavo per non venire riconosciuto, affrettandomi ad entrare dalla porta sul retro dello stabile acanto all’edificio con su scritto Sabaody’s Energym.
Il corso, grazie al Cielo e per bontà Divina, si teneva in un luogo diviso dalla sede centrale, per comodità e perché gli svariati corsi che si svolgevano erano parecchi e non c’era spazio per tutti in un unico edificio, inoltre, organizzare e far combaciare tutti gli orari, doveva essere sicuramente un calvario.
A me andava benissimo, in questo modo non rischiavo di incontrare gente che conoscevo e mantenevo al sicuro il mio vergognoso e umiliante segreto.
Raggiunsi lo spogliatoio maschile e appoggiai lo zaino logoro e rattoppato alla meglio da mia madre, la quale lavorava come sarta per una delle più importanti case di moda dell’Isola, ma non si degnava di perdere tempo a ricucire gli stracci del suo figlioletto, la stronza.
Estrassi una bottiglia d’acqua e una fascia azzurra che mi passai tra i capelli per evitare che mi ricadessero sulla fronte e mi cambiai i pantaloni.
Una persona normale sarebbe venuta direttamente in tuta, ma nemmeno morto mi facevo tutto il tragitto, anche se si trattava di pochi metri a piedi da dove mi trovavo al parcheggio, con addosso quell’orrenda tenuta. Era un obbrobrio e una mancanza di rispetto persino per i gay.
Ma quelle erano le regole, quindi mi trovavo costretto a portare un paio di pantaloni di cotone, troppo, troppo stretti, con un motivo floreale e una canottiera tinta unita che si intonava alla calzamaglia. Inutile dire che sembravo un emerito idiota, per non parlare dei miei capelli che si intonavano perfettamente al bordeaux della maglia.
La prima volta che mi avevano messo tra le mani quella roba avevo deciso che lì non ci avrei mai più messo piede, ma Killer mi aveva tanto pregato di provare a resistere almeno un mese che, alla fine, avevo accettato, ingoiando bestemmie e improperi. Inutile dire che, col tempo, ero stato costretto a continuare, dato che mia madre lo era venuto a sapere e adesso avrebbe fatto carte false affinché non smettessi.
Entrai nell’ampia stanza con il pavimento in legno e le pareti rivestite di specchi dove un gruppo di signore sulla quarantina chiacchierava fitto fitto, lanciando qualche risolino acuto.
Assottigliai lo sguardo e avanzai lentamente, attento ai loro movimenti e fissandole circospetto. Loro erano stato il mio più grande incubo. All’inizio credevo di diventare lo zimbello del corso, essendo l’unico uomo presente, invece, non appena quelle arpie mi avevano visto, si erano avvicinate mestamente, sondandomi con uno sguardo profondo e sfacciato e, come per magia, me le ero ritrovate addosso, incapace di togliermele di torno.
Non appena mi videro si voltarono a salutarmi, chiamandomi ad alta voce affinché le raggiungessi.
Maniache, pensai, mentre mi sentivo le guance andare a fuoco sotto quei loro sguardi adoranti. In poche parole, quelle casalinghe, donne insoddisfatte, non facevano altro che guardarmi il pacco, facendomi sentire nudo anche con i vestiti addosso.
Sono peggio di Trafalgar, queste qui, ne sono certo. Sarebbero disposte a tutto pur di una scopata. Altro che lui che fa tanto il prezioso prima di lasciarsi andare, sto stronzo.
Le avevo tollerate nel migliore dei modi durante i mesi passati ma, quando una di loro mi aveva dato uno schiaffo malizioso sul culo, mi ero schiarito la voce e avevo messo un punto a quelle sceneggiate, dicendo in modo che tutte capissero e trattenendomi dal dare di matto, che mi piacevano gli uomini, che si, ero quello che si definiva gay e che non avrei portato a letto nessuna di loro.
Quasi dimenticavo, chiarii anche che volevo che la smettessero di rifilarmi banconote nella tasca della giacca sperando che mi accorgessi dei loro sguardi arrapati.
Mi avevano guardato sbalordite e, per un primo momento, deluse, ma poi si erano riprese ed erano diventate, se possibile, più assillanti, affascinate dall’idea di avere un amico maschio con cui sfogarsi e al quale raccontare tutta la loro vita e la delusione che provocavano i loro mariti.
«Kidd, caro, che bello rivederti! Devo raccontarti un sacco di cose» iniziò una, seguita poi dalle altre.
Sbuffai sonoramente, alzando gli occhi al cielo. Io andavo lì per migliorarmi e plasmare il mio animo combattivo in qualcosa di più pacato e loro mi rendevano la cosa estremamente difficile per i miei nervi già propensi alla violenza.
Fortunatamente arrivò il nostro insegnante, altro essere vivente insopportabile che ci aveva provato con me.
Insegnava danza, soprattutto, ma nel tempo libero di dedicava anche alla yoga e ad altre discipline insulse, così ero capitato sotto il suo insegnamento e, non appena mi ero dichiarato dell’altra sponda, come dicevano quelle donne sessualmente frustrate, aveva preso a farmi il filo fino a quando, una sera, era entrato in sala tutto contento dicendo di essere innamorato, smettendo di darmi noia e di rischiare di essere tirato sotto dalla mia auto in un moto di stizza.
Si faceva chiamare Mister Two, quel cretino, si truccava ed era pignolo oltre ogni dire.
«In posizione gente, forza, forza!».
Strinsi i pugni e feci un respiro profondo, contando, per sicurezza, fino a venti. Lo facevo ogni volta prima di iniziare, pregando qualsiasi entità per non andare fuori di testa.
Le lezioni duravano un ora e mezza e si tenevano due volte la settimana, ovvero il sabato e il martedì, dopocena. Mi andava bene, almeno non perdevo ore importanti durante il giorno e non dovevo saltare il lavoro, anche se avevo i miei dubbi sull’utilità di tutto ciò, dato che nell’ultimo mese mi ero ritrovato più volte a voler spaccare la faccia a qualcuno.
Probabilmente, anzi, senza dubbio, la colpa era di Law, il quale sembrava godere di un assurdo divertimento quando mi vedeva reagire male alle sue battute sarcastiche. Sembrava che la sua esistenza consistesse in questo: urtarmi i nervi. Ed ero sempre più convinto che fosse stato mandato dal Diavolo in persona per rovinarmi la vita. Quello non era un uomo, ma una maledizione. La peste, una spina nel fianco, anzi no, nel culo.
Il Malocchio, cazzo! Il Malocchio, un Demone, un, che ne so, una testa calda! Ancora peggio, è una catastrofe. La mia catastrofe, quello che mi farà finire in manicomio, ne sono certo. Ecco qual è il suo piano.
«Piega di più quelle gambe, Kidd» fece Mister Two, passeggiando per la sala e controllando l’impegno che tutti stavano mettendo nel piegare le gambe dietro al collo. Inutile dire che era una cosa imbarazzante oltre ogni dire e che stavo tentando in tutti i modi di non assumere quella posizione. Non mi sarei più potuto guardare lo specchio altrimenti.
Una baldracca è, altro che storie. Una baldracca, bagascia e sgualdrina.
«Kidd, si può sapere dove hai la testa oggi?».
Grugnii un seccato 'niente' come risposta e cercai di fingermi il più esausto possibile, beccandomi così dieci minuti di pausa ed evitando di far crollare ulteriormente il mio già minato orgoglio. Presenziare a quelle lezioni mi abbatteva l’autostima in un modo incredibile e mi costava molto abbassarmi a fare tutto ciò, ma Killer insisteva tanto e continuava ad assicurarmi che avrebbe funzionato. Mi fidavo di lui, perciò avrei continuato e ce l’avrei messa tutta per arrivare fino alla fine, ma tutto aveva un limite e mettermi con le chiappe al vento, per giunta rese in bella vista da quei pantaloni attillati non l’avrei di certo sopportato.
Quando Dio decise che il tempo della mia ultima lezione settimanale era scaduto, mi affrettai a raggiungere gli spogliatoi, iniziando a spogliarmi durante il tragitto in modo da potermi infilare di fretta la felpa, la giacca e i jeans e volatilizzarmi da quella gabbia di matti ai quali, secondo il mio sincero e schietto parere, serviva solamente una bella notte di puro e gratificante sesso per risolvere i problemi e tornare ad essere allegri.
Cosa che sarebbe piaciuto fare anche a me, ma quella figa d’oro sembrava troppo pigro per chiamarmi e vederci qualche volta in più e io, di certo, non sarei mai andato a cercarlo, abbassandomi a lui e dandogli l’occasione di rinfacciarmelo fino al giorno della mia morte, quando mi sarei finalmente liberato del suo ghigno.
Uscii dalla porta di servizio giusto quando quelle vecchie svitate raggiungevano lo spogliatoio in compagnia di quell’insegnante stravagante, sempre intento a ripetere e mostrare passi di danza classica.
Roba da non credere.
Raggiunsi l’auto, la mia amata, fidata e venerata auto, salii e accesi il riscaldamento, preparandomi a partire e tornare a casa dove avrei potuto rilassarmi, svagarmi e fare quello che più mi piaceva: giocare ad Assassin’s Creed.
Quando il telefono prese a squillare ancora non avevo messo in moto, perciò mi sembrò normale rispondere, dato che non avevo altro da fare, così estrassi il cellulare dalla tasca e, senza riflettere o pensarci due volte, risposi animatamente, aspettandomi che fosse Killer oppure Zoro per sapere se quella sera avessi intenzione di uscire.
L’ultima persona che mi aspettavo di sentire, invece, pensò bene di scombinarmi i piani e farmi gelare il sangue nelle vene.
«Biscottino, ceni con noi stasera, vero?».
In un primo momento rimasi spiazzato, sentendomi improvvisamente senza aria e incapace di reagire. Poi ringrazia il Cielo perché, se avessi deciso di partire, a quest’ora sarei già finito fuori strada e avrei causato un incidente mortale per altre persone. Poi ebbi la tentazione di tirare giù il Paradiso, ma tenni a mente che ero appena uscito da yoga e che lo scopo era quello, ridurre gli scatti d’ira.
Eh no, fanculo il mondo, è una congiura contro la mia sanità mentale!
«Ehm, veramente devo uscire più tardi, sai com’é…» provai a dire, grattandomi convulsamente la testa e scompigliandomi i capelli per l’ansia.
«Non voglio sentire scuse. Ti aspetto per le otto, intesi pasticcino?» fece una voce categorica che non ammetteva repliche dall’altro capo e udii dei distinti rumori di pentole e piatti che sbattevano. Stava già preparando da mangiare a quanto pareva.
«Va bene, a dopo allora» mormorai sconfitto, «Mamma».
Se c’era qualcuno più bastardo di mio padre, quella era mia madre.
Una donna esuberante, appariscente, che non si dimenticava facilmente quando la si vedeva. Sicura di sé, imponente, scassa palle come qualsiasi altra madre sulla faccia della terra. Dire che in casa comandava lei era un eufemismo. Lei era la sovrana, l’imperatrice, la regina incontrastata, colei che dettava legge e che impartiva gli ordini, non accettando scuse o risposte negative. E guai a chi disobbediva.
Me ne ero andato di casa appena ne avevo avuto l’occasione non perché fosse un cattivo genitore, ma per il semplice fatto che vivere sotto il suo stesso tetto era soffocante e impensabile. Appena mi vedeva mi stritolava in un abbraccio e non mi lasciava andare fino a quando non ricambiavo come si doveva. Che imbarazzo. Mai nessuno avrebbe dovuto vedermi fare una cosa del genere. La mia reputazione sarebbe andata a farsi fottere assieme al mio orgoglio.
Io ero un duro accidenti, non era possibile che mia madre pretendesse ancora di essere abbracciata, baciata, venerata e, soprattutto, insistere nel vedermi presenziare almeno una volta al mese alla sua stupida cena di famiglia.
Mi passai una mano sul volto esasperato, imboccando una stradina di ghiaia lunga un chilometro prima di intravvedere un paio di casette spuntare tra i rami frondosi di alcune querce che delimitavano la tenuta dei miei, lontana dalla strada principale, dal centro città e dalla fastidiosa presenza di vicini e curiosi.
Parcheggiai di fronte all’entrata, preparandomi al peggio e recuperando le ultime energie e l’ultimo spiraglio di calma che mi era rimasto, sperando di non impazzire e di superare la tortura che mi aspettava al di là della portone.
Scesi dall’auto e mi avviai lungo il vialetto con lo stesso entusiasmo di un detenuto che si appresta a salire sul patibolo per la sua esecuzione, guardandomi intorno e notando come il giardino fosse sempre ben curato, le aiuole in ordine e i cespugli di rose rigogliosi anche se il tempo non era dei migliori.
Tutto merito della nonna, pensai, scuotendo il capo e ricordando all’improvviso che, molto probabilmente, ci sarebbe stata anche la vecchia quella sera.
Angosciato e ormai arreso all’idea di un’imminente serata infernale con i miei parenti, suonai il campanello e attesi qualche istante, curioso di scoprire quale uragano sarebbe piombato ad aprire, investendomi in pieno e intrappolandomi in una stretta ferrea, ma allo stesso tempo famigliare.
«Tesoro sei arrivato!» sentii urlare all’interno attraverso i muri, ascoltando come la voce si facesse sempre più vicina e acuta.
«Mamma» ghignai, nell’esatto istante in cui la porta si aprì e sull’uscio apparve una massa di capelli ricci e voluminosi che accompagnavano una donna alta e dai lineamenti fieri e marcati sul cui viso risaltavano un paio di occhi grandi, evidenziati dal trucco nero e pesante come il rossetto viola che spiccava sulle sue labbra schiuse in un sorriso amorevole.
«Oh, il mio piccolo bambino! Finalmente sei arrivato!» fece con voce nasale, stritolandomi tra le braccia come avevo previsto e scompigliandomi i capelli, facendomi temere che li volesse strappare via, tanta era la forza esercitata.
Incapace di parlare, soffocato da tutto quell’affetto rivolto unicamente a me, aspettai con pazienza e sacrificio che la smettesse di esprimere tutto il suo sentimento e amore materno per il suo unico e viziato figlio per poi divincolarmi e sfuggire alla sua presa, riprendendo a respirare e sistemandomi alla meno peggio i ciuffi che mi ricadevano sulla fronte.
«Guarda come sei dimagrito! Forza, entra e aiuta la mamma a cucinare. Stasera ci penso io a rimetterti in sesto». Con queste parole mi spinse dentro casa, togliendomi dalle mani la giacca e appendendola distrattamente all’attaccapanni posizionato all’ingresso, iniziando a farmi una serie di infinite domande sulla mia salute, sulla casa e sul lavoro, lasciandomi a malapena il tempo necessario per riflettere e formulare una frase concreta, dato che si rispondeva da sola alla maggior parte dei quesiti che lei stessa poneva.
Così la lasciai fare, percorrendo il corridoio d’entrata con le pareti tappezzate di quadri e foto, raggiungendo l’ampia e spaziosa cucina al centro della quale spiccava un lungo tavolo in legno scuro, apparecchiato per tre. Mi sedetti sul ripiano accanto ai fornelli e la guardai trafficare con il pollo e con tutte le pietanze in fase di preparazione che aveva davanti a lei.
Mentre si aggirava per la stanza intenta e indaffarata, come se dovesse cucinare per un reggimento e non per tre persone soltanto, mi lasciai avvolgere dalla familiarità dell’ambiente accogliente e pieno di ricordi. Quella donna aveva ragione nell’insistere a volermi a casa per cena qualche volta, così mantenevo vivo il contatto con quello che era legato alla mia infanzia che con piacere mi ricordava ogni volta che la incontravo o che veniva a farmi visita. Almeno tutta la sua insistenza non era dettata solo dal suo desiderio di non perdermi di vista e di continuare a tenermi d’occhio, anche se cercava di nascondere quell’aspetto dietro alla scusa della facciata affettiva.
La osservai infornare le patate, con quelle calze a rete che sempre l’avevano caratterizzata e la collana di perle che papà le aveva regalato per il loro anniversario di matrimonio allacciata ed esibita orgogliosamente al collo.
Era sempre lei, la donna che quando ero piccolo mi portava a lavoro con sé e mi lasciava disfare tutti gli abiti fuori moda che non le servivano più. Mi proteggeva con le unghie e con i denti ed era gelosa, molto gelosa. E possessiva. E anche sempre più difficile da sopportare mano a mano che gli anni passavano. Inutile dire che aveva fatto una strage quando avevo deciso di rendermi indipendente e andare a vivere con Killer prima di abitare da solo in città.
Ormai era passato, ma continuava ad essere la solita donna risoluta, intraprendente e forte.
La Grande Ivan, pensai, sorridendo per il soprannome che colleghi, amici e ammiratori le avevano dato e con cui ancora si riferivano a lei quando la nominavano o la incontravano per caso. Era il suo carattere buono e disponibile che aveva contribuito a renderla famosa, oltre al lavoro e alla causa da lei sostenuta per i diritti e l’accettazione da parte della società nei confronti degli omosessuali e dei, come venivano chiamati, travestiti.
Aveva combattuto duramente e alla fine aveva raggiunto un buon traguardo e continuava tutt’ora a portare avanti quel suo progetto, sostenuta da un gran numero di persone volontarie e affezionate a lei e al suo buon cuore.
Mi chiesi per un attimo come avrebbe reagito quell’insolente di Trafalgar nel conoscerla e avere a che fare con una stronza quasi quanto lui. Quasi, perché nessuno superava il livello di quel ragazzino. Nessuno.
«La nonna? Non viene questa sera?» domandai, dimenticandomi certe idee e accorgendomi solo allora che una presenza ingombrante e la solita voce gracchiante mancavano nella stanza.
«Ha prenotato un volo all’ultimo minuto diretto chissà dove. Ha detto che voleva svagarsi un po’» spiegò Ivan, arrotolandosi le maniche dell’abito per essere più agevolata nei movimenti senza rischiare di sporcarsi.
«A novant’anni?» le feci notare, alzando un sopracciglio sarcastico e guardandola stupito. Anche se non poteva vedere la mia espressione fu come se l’avesse immaginata. Scoppiò a ridere e scosse la testa, come a voler dire che quella vecchia era piena di energie e nessuno l’avrebbe fermata. Non per niente l’avevo rinominata nella mia mente con il nomignolo di Vecchiarda.
Lasciai perdere l’argomento con un’alzata le spalle, guardando l’orologio appeso al muro e chiedendomi quando sarebbe arrivato l’ultimo componente della famiglia.
«Tuo padre arriverà presto. Sa bene che non gli conviene tardare» mormorò, seguendo il mio sguardo fino alla parete di fronte, celando una minaccia nelle sue parole, ne ero certo. E, anche se quell’uomo era un emerito bastardo, non si sarebbe mai azzardato ad incappare nelle ire di quella donna dall’aspetto gentile e intimidatorio allo stesso tempo. Avevo provato una volta a non presentarmi in orario ad una delle sue cene e non era finita nel migliore dei modi.
Quando ormai mancavano pochi minuti all’ora stabilita e Ivan stava per scaldarsi, infastidita dal possibile ritardo di suo marito, il rumore delle gomme di un’auto che avanzavano fuori in cortile la fece rilassare all’istante, mentre io scattavo in piedi, serrando i pugni e preparandomi ad uno dei soliti battibecchi con quell’uomo autoritario e scassa palle.
Mamma mi lanciò uno sguardo ammonitore, pregandomi silenziosamente di comportarmi bene e di mantenere la calma, mentre la porta d’ingresso si apriva e il rumore dei passi pesanti accompagnati dagli scarponi di mio padre arrivava forte e chiaro alle nostre orecchie.
Apparve in cucina pochi minuti dopo, con i capelli bianchi e il solito cipiglio incazzato a disegnargli la faccia; la camicia aperta sul petto allenato come d’abitudine e la giacca della divisa in mano, gettata poi in malo modo su una sedia. Anche se vigeva la regola che in cucina non si fumava, l’odore passivo di sigari mi arrivò ugualmente alle narici.
«Moccioso» mi salutò con un cenno del capo, passandomi accanto per andare a sedersi a capotavola e urtandomi volontariamente con una spallata.
«Stronzo» grugnii a denti stretti, sedendomi il più lontano possibile da lui. Quando ero piccolo gli ero sempre accanto e lo seguivo ovunque, venendo addirittura sgridato a volte per intrufolarmi in caserma all’età di otto anni solo per salutarlo prima di andare a scuola.
Adesso, invece, era una lotta continua. Non perché avessimo litigato o per qualche torto subito, semplicemente il suo caratteraccio l’avevo ereditato tutto e adesso difficilmente passavamo qualche secondo senza insultarci o punzecchiarci a vicenda.
«Kidd, porta rispetto a tuo padre» fece mamma, continuando a darci le spalle e controllando se la pasta fosse cotta.
L’altro allora ghignò vittorioso mentre io, per tutta risposta, gli mostravo il dito medio e lo mandavo bellamente a fanculo, facendogli perdere quella pazienza che anche in lui scarseggiava.
«Te la faccio vedere io, razza di mascalzone!» iniziò a dire, slacciandosi i polsini della camicia e mostrando i pugni con fare minaccioso e totalmente incazzato, imitato all’istante da me.
«Smoker, tocca mio figlio e non arriverai a domani!».

 


Angolo Autrice.
I’m back! Allora, cosa dite? Piaciuta la sorpresa barra scandalo barra infarto? Si, perché nemmeno io riesco a capacitarmi del fatto di aver veramente accoppiato Smoker e Emporio Ivankov. Potrei aver storpiato per sempre questi personaggi, ma ho le mie motivazioni!
Innanzitutto, la strettissima somiglianza di Kidd con Smoker. Avanti, sono perennemente incazzati e pronti a scattare in qualsiasi momento, così mi sono presa la libertà di creare tra loro un grado stretto di parentela. E Smoker, secondo me, ci può anche stare come padre.
Ivan. A parte che adoro il suo personaggio, mi piaceva l’idea che Kidd potesse avere come madre qualcuno che lo chiamasse con nomignoli affettivi imbarazzanti e che se lo spupazzasse in ogni momento. Daaaaaai, non è così male. 
Detto questo passiamo al resto, per esempio alla lezione di Yoga! Finalmente l’ho descritto e, data la stranezza della situazione, mi è sembrato simpatico creare una situazione imbarazzante tra Eustass-ya e le sue compagne di corso arrapate. Si, loro volevano portarselo a letto e mangiarlo vivo, sia chiaro, come l’intento iniziale di Mister Two, personaggio che mi è simpaticissimo e contro di lui non ho proprio niente.
Che altro dire? La parte iniziale riguardante Kidd spiega il motivo per il quale lui sappia cucinare ed arrangiarsi, cosa che aveva lasciato Law perplesso la sera prima. E ho anche lanciato le basi per un qualcosa che si evolverà nei prossimi capitoli. Intanto Kidd si chiede perché Trafalgar faccia di tutto per attenersi alle regole da loro mai stabilite. Piiiiiccolino.
Grazie a tutti coloro che mi lasceranno un ricordino e a quelli che leggono tranquilli, spero che questo vi abbia fatti divertire.
Abbraccioni e spoiler:
 
“Sapete, credo che lui sia coinvolto in loschi affari, al contrario di voi con problemi di cuore” ipotizzò Bepo.
“Ma dai? Sul serio?” fece sconcertato l’idiota di turno con la faccia dentro al frigo, mentre io, con le braccia incrociate e il viso corrucciato, fulminavo qualsiasi cosa con lo sguardo.
 “Lo sapete quanto lui ami le esplosioni. Potrebbe essere passato al lato oscuro”.
“In questo caso piloterà un aereo e si farà esplodere andandosi a schiantare contro un monumento famoso? Magari la prigione di Impel Down, sai che figata!”.
Mi schiaffai una mano sul viso, incapace di sopportare oltre.
“Smettetela di blaterare. Ace ha la ragazza, punto. Non c’è nessun attentato sotto e non è un terrorista!” sbottai.
“La ragazza? Ma stai scherzando?”.
“Non ha mai avuto una ragazza”.
“Gli sarà venuta voglia” rifletté allora Penguin, seduto a terra e con il mento appoggiato alla mano in una posa pensierosa.
*
“Presentati allora” feci con tono ovvio. Qual’era il problema? Dove stava la difficoltà?
“Come se fosse facile” farfugliò da sotto la stoffa, prima di scaraventarla a terra in un moto di stizza. “Non capisci Law, lui è così…”.
“Non lo voglio sapere”.
“E’ da perdere la testa”.
 
See ya,
Ace.

 

  
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