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Autore: Dzoro    23/11/2013    0 recensioni
Gesù gli domandò: «Qual è il tuo nome?» 
Egli rispose: «Il mio nome è Legione, perché siamo molti». 
Cosa fareste se vi svegliaste una mattina senza ricordare nulla delle vostre ultime 24 ore? E se trovaste sulla vostra porta le foto di degli uomini che non avete mai visto, e la scritta "stanno per morire?" 
Per fan di: Death Note, Twin Peaks, Dylan Dog, Dario Argento, Una Notte da Leoni, Il Grande Lebowski, il rock psichedelico e la crostata di ciliegie.
 
Genere: Horror, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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For We Are Many

Stagione 1

Capitolo 3: Babilonia

Venerdì ventuno ottobre, 19.30

 

Ebbi fortuna, il vecchio era ancora intento a bere sambuca e borbottare al bar quando lo trovai. Non mi feci vedere, comprai un giornale e mi appostai dall’altra parte della piazza. Lo vidi uscire dal bar verso le sei e mezzo, e lo seguii fino ad un parcheggio poco fuori dal centro, in uno spiazzo sterrato, dove entrò in un vecchio pick-up, con il rimorchio carico di taniche vuote. Il lupo si accucciò in mezzo ad esse, mentre il padrone metteva in moto. Fine del pedinamento. Mi diedi più volte dell’idiota per non aver tenuto pronta la macchina. D’altro canto, non sarei potuto entrare con quella in piazza. Però avevo visto la direzione in cui andava, e un vecchio a quell’età non si allontana troppo da casa. Avrei dovuto cercare comunque informazioni su di lui, capire chi era, dove abitava ma soprattutto, come si era procurato il giubbotto. Facevo ancora fatica a pensare fosse mio. Anzi, non ne ero nemmeno sicuro, ma era un indizio, gli indizi lasciano tracce, e le tracce si seguono.

Tornai all’albergo. La faccia avvizzita della Gianna riluceva estasiata alla replica di Un Posto al Sole, decisi quindi di lasciarla stare per il momento. Avevo bisogno che qualcuno mi dicesse chi fosse il vecchio, lei e il suo alzheimer galoppante erano l’ultima spiaggia. Ma almeno si sarebbe dimenticata subito della domanda, mentre in paese una domanda avrebbe attirato curiosità. Mi diressi al bar dell’hotel. Il mio status di figlio adottivo mi garantiva il libero accesso alla bottiglia di Johnny Walker, che non tardai a vuotare in un bicchiere da birra piccola. Mentre mi imbottivo di alcool, il mio pensiero tornò ai due volti inchiodati alla mia porta, e a quel messaggio. Stavo per chiamare di nuovo Coletti, quando una porta che si apriva e delle voci conosciute attirarono la mia attenzione in direzione della reception.

“E lui mi risponde dici così perché non hai mai provato.”

“Oddio!”

“Che schifo, ma davvero ce l’aveva annodato lì?”

“Ma l’hai chiamata la polizia? Potevi approfittarne, mai visti tanti carabinieri come oggi!”

Tre voci femminili, giovani. In quel momento in reception si trovava la santa trinità di donna delle pulizie, cassiera e barista. Le tre sorelle avevano appena oltrepassato l’ingresso dell’hotel, e stavano venendo nella mia direzione. Capii che quello sarebbe stato il momento migliore per presentarmi, spiegare che era tutto un malinteso, che non annodavo lacci di gomma intorno al pennacchio per scopi ricreativi, e che non avevano nulla da temere da me. Capii che dovevo trovare un modo per dirglielo.

Mi nascosi dietro al bancone, sperando se ne andassero via al più presto.

Di lì a poco le mie speranze vennero frustrate dai rumori di sedie che si spostavano e di lattine di birra che venivano appoggiate su un tavolo, e un secondo dopo stappate.

“Questo non mi era mai capitato. Al massimo c’era stato quel milanese che mi aveva toccato il sedere.”

“È vero! Che poi ci aveva provato con me al bar!”

“Ma non ha fatto niente di strano lì da te?”

“Lui nulla, ma appena è entrato, c’è il Franco che si è messo a urlargli contro!”

Scoppiarono a ridere. Io, sorseggiando il mio whisky mi ritenni soddisfatto.

“Il Franco? Il vecchio col cane?”

“Coi cani! Ne avrà comprati centinaia, non lo sai che è pericoloso salire al vigneto, è pieno di quei cani randagi. Si sono moltiplicati come conigli, ora vivono lì nei dintorni.”

“Ma perché ne ha comprati così tanti?”

“È pazzo, non c’è un perché.”

“Sì che c’è! È impazzito quando è morta la moglie! Ha lasciato che il vigneto andasse in malora e ha iniziato a comprare i cani per fare la guardia, perché non si fidava più di nessuno.”

“E cosa ha fatto il nostro maniaco per farlo arrabbiare?”

“Boh. Un proposta indecente?”

Mentre le tre ridevano, e fantasticavano su un mio possibile rapporto omoerotico con l’allevatore di mastini Infernali, capii che la fortuna non aiuta solo gli audaci, ma anche i codardi nascosti dietro ad un bancone da bar. Diedi un altro sorso al mio whisky, iniziando a pianificare il mio piano d’attacco. Andare a chiedere il giubbotto per favore? No, non avrebbe funzionato. Non con il vecchio, pazzo Franco.

 

Fermai la mia Polo a mezzo chilometro dal vigneto, e smontai insieme ad un catino da bucato riempito di cibo per cani. Lavorare come detective mi aveva dato modo di approfondire il mio rapporto con i cani, soprattutto in sede di una missione di pedinamento o spionaggio. Il trucco del mangime di solito bastava per rendermi tranquillo. L’importante era non lasciare tracce, e sperare che il padrone pedinato non si accorgesse che le sue bestie fossero vergognosamente ingrassate durante la notte. Però lì parlavamo di una muta di cani selvatici, sperai caldamente che le ragazze esagerassero quando parlavano di centinaia di cani. Avevo con me, infilato nei pantaloni, il coltello più affilato che avessi trovato nella cucina dell’Hotel Girasole. Non ero sicuro avrei avuto il fegato per usarlo contro un cane, tanto meno contro un essere umano, immagino me lo fossi portato dietro più come una specie di talismano protettivo.

Il vigneto era delimitato da un muro di pietra, che sarebbe potuto sembrare a secco se solo non fosse stato così incredibilmente alto. Si interrompeva solo per lasciare il posto ad un cancello di ferro nero avvolto d’edera, dietro al quale si scorgeva un viale ciottolato che conduceva fino ad una sagoma scura in lontananza, confusa nella notte. Issandomi sulle punte dei piedi riuscii ad appoggiare il catino in cima al muro, e con qualche difficoltà in più, a scavalcarlo io stesso. Gli appigli non mancavano, le pietre sporgevano dal muro appuntite e irregolari.

Come avevo intuito, la vigna era stata lasciata per anni nella più totale incuranza. I rami si attorcigliavano morti e dissecchi intorno alle intelaiature di fil di ferro e cemento, illuminati appena dalla luce della luna, che spuntava intermittente dietro a stormi di nubi vaganti. Procedetti con cautela, dosando il mio respiro. Non sembrava esserci anima viva, umana o canina.

Una volta avevo letto un racconto di Lovecraft, che parla di un vecchio, la cui casa di notte viene assediato da alieni malevoli. Per difendersi, di giorno compra un sacco di cani, che vengono regolarmente uccisi dai mostri. La cosa che mi aveva sempre colpito in quel racconto era come gli alieni fossero, appunto, alieni. Strani, non umani, di una forma che probabilmente l’autore si era immaginato sotto acidi, una specie di gamberetto gigante armato di pistole laser. In quella notte, in quel vigneto, mi sembrava di essere circondato da alieni. Li vedevo in ogni ramo, in ogni gomitolo di fil di ferro, in ogni tanica abbandonata per terra. Se quegli oggetti avessero iniziato a muoversi, non me ne sarei stupito. Probabilmente sarei pure scappato strillando come una scolaretta, ma questa è un’altra storia. Procedetti in mezzo agli alieni, e i miei sensi acuiti dalla tensione mi fecero sentire le loro voci sibilanti.

Ero davanti all’ingresso della casa. Nessuna traccia di un solo cane. Appoggiai la tinozza per terra. La casa era probabilmente stata edificata una trentina d’anni prima, e i suoi mattoni intonacati stonavano non poco con l’atmosfera generale, ma perlomeno smisero di farmi pensare agli alieni. La porta era di legno, serratura standard. Immaginai che dall’altra parte si trovassero però una selva di chiavistelli aggiuntivi. Optai per una finestra, poco distante, chiusa da una persiana. Usai il coltello per alzare il fermo, infilandolo dentro la fessura tra le due imposte e facendolo scorrere verso l’alto. Mi trovai davanti ai vetri della finestra chiusa. Dietro c’era una cucina, col tavolo ricoperto da scatolette vuote di tonno, fagioli e cibo per cani. Non dovetti scassinarla, era solo accostata. La cucina era in uno stato perfino peggiore di quello che dava a vedere da fuori. Il lavello era pieno di piatti, e le scatolette vuote dovevano essere lì da giorni. Settimane, mi suggerii il ronzio dei moscerini. Entrai dalla finestra, e uscì in fretta dalla stanza, arrivando in quello che doveva essere l’ingresso. Era un locale spoglio, le pareti erano ingiallite, l’unico elemento decorativo erano uno sproposito di ombrelli, infilati a decine in un minuscolo portaombrelli. Nessun appendiabiti nelle vicinanze. Nessun cappotto.

Di fronte all’ingresso si trovava un breve corridoio, che terminava in una porta semi-aperta. Della luce di lampadina filtrava da essa. Procedetti lentamente, con il parquet che scricchiolava debolmente sotto le punte dei miei piedi. La porta dava su una scala che andava verso il basso, illuminata da una lampadina che spuntava con un filo dalla parete. La scesi, arrivando in un sottoscala riempito all’inverosimile di bottiglie di vino artigianale tappate con tappi di latta, allineate su scaffali, abbandonate per terra, ficcate in disordine dentro una enorme tinozza di legno. La mia attenzione venne però ben presto attirata da qualcos’altro. Da una porta, l’unica in quel sottoscala, provenivano dei suoni. Una voce umana, femminile, ovattata dalla porta chiusa. Mi avvicinai, e vi appoggiai sopra l’orecchio. Era davvero una voce femminile. Gemeva, sembrava si lamentasse. Sentivo anche, in sottofondo, il borbottio di una voce maschile, che sembrava articolare qualche parola. Il vecchio pazzo Franco. Il vecchio rapitore, stupratore, assassino seriale Franco. E io ero nella sua cantina, nella tana del lupo. Strinsi il coltello più forte che potevo, e misi una mano sulla porta, pronto ad entrare.

Un urlo della donna, più forte di ogni altro verso sentito prima, interruppe le mie fantasie e mi fece staccare dalla porta.

“Scopami, scopami!”

Ero perplesso. Iniziai ad elaborare uno scenario verosimile: un vecchio allevatore di mastini infernali ed una ragazza che hanno un coito nello scantinato del suddetto. Oppure.

Aprii leggermente la porta. Subito fu udibile anche una scarna melodia jazz. Nella stanza che si apriva davanti a me le pareti erano ricoperte da cianfrusaglie accatastate, casse di cartone, rastrelli, taniche, ceste di vimini. Ma in fondo si trovava un divano che mi dava le spalle, e davanti a lui un televisore acceso. Mi avvicinai di soppiatto, e iniziai a sentire un lento e profondo russare. Il vecchio Franco si era addormentato con i pantaloni calati, proprio sul più bello, mentre Moana Pozzi cavalcava un pelosissimo Ron Jeremy. Ah, gli anni settanta, era tutto così naturale negli anni settanta.

Dopo aver rinfoderato il coltello, procedetti fino al divano. Feci un passo avanti verso il vecchio, facendo attenzione a non calpestare una qualche sorpresina vischiosa per terra. Accanto alla tivù si trovava uno scaffale, pieno di videocassette. I miei occhi si spalancarono, e mi venne un po’ da chinare il capo davanti a quella Mecca dell’intrattenimento per adulti. Nel primo ripiano, in un ordine terrificante paragonato agli standard di quella casa, si trovavano grandi classici come Moana la scandalosa, Super vogliose due, Carne bollente e Banane al cioccolato. Il secondo erano videocassette di importazione, tedesche feticiste, giapponesi con tentacoli in copertina, americane amatoriali. Ma era l’ultima mensola che mi fece mancare il fiato. Conteneva cose che fino ad un attimo prima pensavo fossero leggende. C’era Tutto in famiglia, con Jackie Chan in uno dei suoi primissimi ruoli prima di darsi alle arti marziali, poi Giarrettiera tutta matta, con Adam West, impegnato in un’imbarazzatissima scena di sesso orale fuori camera. Anche lui sarebbe in seguito diventato famoso come il Batman del telefilm, quello con gli attori in pigiama. Due cassette senza copertina concludevano la fila, entrambe contrassegnate con un pezzo di scotch di carta con sopra una scritta in pennarello nero: Cicciolina in parlamento e Carrie e Giabba. Quella era roba che poteva valere milioni, il modo in cui fosse finita in quella cantina è tutt’ora il più grande mistero non risolto della mia carriera. Fui tentato per lunghissimi minuti di intascarmele, ma sapevo di non poterlo fare: io, quella notte, non ero mai stato in quel luogo. Continuai però a far vagare gli occhi tra i titoli, ad ammirare quella che era probabilmente una delle più esaustive collezioni di film porno che esistesse in Italia, destinata all’oblio, in uno scantinato di Fondale.

Scossi la testa e mi voltai di nuovo verso il vecchio: era tempo di concludere quella storia. Cercando di far evitare al mio sguardo le parti intime dell’anziano, notai che se i pantaloni a coste giacevano afflosciati intorno alle sue caviglie, il giubbotto gli era ancora indosso, seppur con la cerniera aperta. Mi misi alle sue spalle, mentre la musica di sottofondo lasciava lo spazio ad un assolo di Sax, e Moana si esibiva in una delle sue indimenticabili battute.

“Su e giù, su e giù!”

“Zitta che mi distrai.” mormorai io. Afferrai il giubbotto per i polsi. Lo tirai delicatamente verso l’alto, lentamente. Il vecchio continuava a russare. Iniziai a sfilarglielo dalle braccia.

“Ti piace lì, eh?” diceva Jeremy in sottofondo.

“Insomma.” feci io. Il giubbotto era quasi uscito. Il vecchio smise di russare. Io mi immobilizzai. La paura acuì il mio udito. Il sottofondo jazz di serie zeta diventò minaccioso e potente come i tamburi di una tribù africana che sta per andare in guerra. La bocca del vecchio si mosse, masticò qualcosa, schioccò. E poi riprese a russare.

Io sfilai del tutto il giubbotto, e lo allontanai dalla poltrona con un movimento secco. Dalla tasca uscì una raffica di monetine da due centesimi, che si sfracellò sul pavimento, risuonando nella mia immaginazione terrorizzata come un esplosione. Il vecchio sussultò.

Capii che era arrivato il momento di catafottersi via da lì. Mi lanciai a tutta velocità verso l’uscita, stringendo il giubbotto più che potevo. Sentì alle mie spalle tuonare un urlo, poi un tonfo secco. Mi girai, e vidi il vecchio annaspare nei suoi pantaloni.

“Furesti di merda! Ladri! Assassini!” gridava. Constatato che fosse ancora vivo, continuai nella mia fuga precipitosa.

“Babilonia! Babilonia-a-a!” lo sentii uralre, mentre salivo le scale. Arrivai di corsa alla porta di ingresso. Purtroppo, la mia intuizione di poco prima era corretta: davanti a me si trovava la più intricata selva di catenelle e lucchetti che avessi mai visto. Iniziai ad aprirli, ma le mie dite tremavano per la tensione, umide e molli come anguille, e scivolavano incapaci di sbloccarne uno. Sentì dei passi alle mie spalle, e mi voltai: Franco stava davanti a me, in mutande, con in mano il suo ombrello con la testa di cane. Sfilò il manico dal corpo dell’ombrello, e in un attimo impugnava uno stiletto lungo due spanne, affilatissimo. Mi si avventò contro urlando, e io mi buttai in cucina in una corsa goffa. Finii sul tavolo, e vi ruzzolai sopra scagliando lattine in tutte le direzioni. Sentì lo stiletto conficcarsi nel legno della tavola, a mezzo metro da me. Mi tuffai contro la finestra, ritrovandomi un attimo dopo accasciato per terra nel giardino. Me la diedi a gambe. Passando vicino all’ingresso, vidi il cane con la testa affondata fino alle orecchie nel mio catino di leccornie. Vado matto per i piani ben riusciti, pensai, immaginandomi con un grosso sigaro in bocca.

“Babilonia-a-a!” sentii urlare di nuovo alle mie spalle. Ma non ero più dell’umore di voltarmi. Arrivai al muro, e lo scalai con un agilità di cui non mi sarei mai ritenuto capace. Era fatta, corsi fino alla macchina e, con il cuore in gola e in testa le urla di piacere di Moana Pozzi, tornai in albergo. Ogni tanto lanciavo delle occhiate al mio compagno di viaggio, adagiato sul sedile davanti accanto a me. Blu, con interno bordò, e dall’imbottitura a dir poco eccessiva. Il mio giubbotto. Sperai solo non si fosse sporcato, nello scantinato.

 

   
 
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