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Autore: Dzoro    19/11/2013    0 recensioni
Gesù gli domandò: «Qual è il tuo nome?» 
Egli rispose: «Il mio nome è Legione, perché siamo molti». 
Cosa fareste se vi svegliaste una mattina senza ricordare nulla delle vostre ultime 24 ore? E se trovaste sulla vostra porta le foto di degli uomini che non avete mai visto, e la scritta "stanno per morire?" 
Per fan di: Death Note, Twin Peaks, Dylan Dog, Dario Argento, Una Notte da Leoni, Il Grande Lebowski, il rock psichedelico e la crostata di ciliegie.
 
Genere: Horror, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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For We Are Many

Stagione 1

Capitolo 2: Paracetamolo

Venerdì ventuno ottobre, 10.00

La ragazza delle pulizie entrò mentre tentavo di slacciare il laccio emostatico dal mio pene. I nostri sguardi si incontrarono, e rimasero immobili. Poi dissi l’unica cosa che fu in grado di venirmi in mente:

“Dobbiamo smetterla di incontrarci così.”

La porta si chiuse di scatto, e sentii la ragazza fuggire di corsa nel corridoio dall’altra parte. Capì che era giunto il momento di cercarmi un altro albergo.

Ero rimasto addormentato fino all’alba, prima di accorgermi che il mio peso avevano allentato i lacci che mi tenevano legato alla rete. Avevo passato un paio d’ore a dimenarmi, finché non ero riuscito a tirare fuori un braccio. Il resto era stato relativamente facile, a patto di ignorare il formicolio pungente nella mia testa che traboccava di sangue, e l’emicrania che sembrava non voler andarsene più via. Una volta che ebbi staccato il laccio di gomma (il che, per inciso, fu una sensazione paradisiaca), esaminai le cinghie: sembravano delle cinture, ma erano troppo lunghe perché qualcuno le avesse effettivamente usate per reggersi i pantaloni. Nessuna marca, nessun segno di produzione, una cosa fatta in casa probabilmente. Nessun indizio su chi fossero quei due, o la ragazza che stavano cercando. Giovanna? Forse. Voleva dire che l’avevo trovata. Voleva dire che in quel momento avrei dovuto sapere dove si trovava. Forse. O forse no. O forse era arrivato il momento di ingoiare una confezione di aspirina per intero, tutto insieme con l’involucro e le avvertenze.

 

Scesi in reception, e trovai la ragazza delle pulizie che stava strillando davanti a Gianna, probabilmente raccontandogli dei miei passatempi onanisti. Non sembrava però riuscire in nessun modo a togliere il suo sorriso o la sua serenità da Buddha dalla faccia dell’anziana signora. Piegando le ginocchia e camminando come un membro delle forze speciali, passai inosservato e silenzioso fino all’uscita, e mi diressi in paese.

L’albergo era circondato da un cancelletto di ferro battuto e un giardino trascurato, qualche albero e una panchina a dondolo dipinta di vernice bianca scostata. Dava sulla strada principale di Fondale, nonché l’unica asfaltata, che conduceva fino a una barriera di paracarri bianchi che delimitavano uno spiazzo in porfido, intorno al quale sorgevano gli edifici del centro, che apparivano molto più recenti di quello che erano in effetti grazie ad un intonacatura fresca, probabilmente rifatta da poco. Era tutto ordinato e pulito da quelle parti, si sentiva la vicinanza con l’Austria. La croce verde della farmacia comparve all’orizzonte come il pinnacolo di un santuario, mi ci catapultai, anzi, mi ci catafottei. Catafottersi nel mio vocabolario assumeva insieme alle parole porco cane, bang e boom, un posto di riguardo. Il significato è lo stesso di catapultarsi, ma il verbo fottere gli conferisce una violenza maggiore, che alcune situazioni richiedono. Evitare che la mia testa esplodesse era una di quelle situazioni.

Oltrepassai due vecchiette con il fazzoletto in testa, intabarrate in cappotti sbiaditi, a quanto pare le uniche frequentatrici della piazza a parte me. E un carabiniere. Il carabiniere era appoggiato al muro della farmacia, e si grattava rabbiosamente la testa. Ci avrebbe potuto scavare dentro un buco, dal quale pensai, suggestionato dalla faccia poco sveglia dell’uomo e da qualche strana logica da barzelletta, probabilmente sarebbe uscita una nuvola di polvere. Smisi di pensarci, i pensieri si muovevano sulla superficie del mio cervello in preda all’emicrania come un gomitolo di filo spinato.

Entrai ed uscii dalla farmacia nel giro di trenta secondi, con sotto braccio il mio ricco bottino, consistente in una scatola di moment e una di aspirina. Adocchiai un alimentari, che mi attendeva dall’altra parte della piazza, colorato e invitante come un frutto tropicale per una scimmia. Mi ci catafottei.

Superate le porte scorrevoli, in mezzo alla frutta e alla verdura scorsi le forme squadrate e sexy di un cartone da un litro di succo d’Ananas. Sono tuo, mi vuoi, mi diceva lo svergognato. E aveva ragione. Lo afferrai e corsi lungo il corridoio dei detersivi, e svoltato l’angolo, trovai tre carabinieri, ognuno con un sacchettino di pane ed uno di affettati, in fila alla cassa. Silenziosi, mi fissarono. Io sorrisi, alzando il cartone come se stessi facendo un brindisi in loro onore. Fortunatamente trovarono il gesto abbastanza imbecille per smettere di guardarmi. Vicino a loro, attesi in vano che iniziassero a chiacchierare in un qualche dialetto del sud Italia, mentre rimasero silenti. Le loro facce erano stanche, le loro occhiaie profonde e scure. La cassiera, una ragazza biondo finto dal mento sfuggente, batté i loro panini, loro pagarono con monete e scomparirono oltre le porte scorrevoli.

“Buongiorno.” Dissi io, appoggiando il cartone sul nastro. Le labbra della cassiera si mossero come per articolare un saluto di risposta, ma quando mi vide esclamò:

“Oddio, lei è il maniaco sessuale dell’albergo!”

“Sì, ma che resti tra noi. Sono tre euro, giusto?”

Uscii dal negozio, con la nuova consapevolezza che i pettegolezzi di una comunità di mille abitanti possono essere più efficaci di un agenzia investigativa. Ero sicuro che non fosse passata più di un ora dal mio risveglio. Decisi di non preoccuparmene.

Nel giro di pochi minuti il mal di testa venne sostituito da quel piacevole intontimento che solo sei pastiglie di paracetamolo affogate in mezzo litro di succo possono concedere. La realtà iniziò di nuovo a sembrarmi un luogo ospitale.

Mentre sorseggiavo dal cartone, seduto su uno dei paracarri della piazza, un rumore ovattato inizio a farsi sempre più udibile. Era il suono cadenzato della pale di un elicottero. Alzai il viso, e lo vidi in lontananza, una macchia blu scuro contro il cielo blu chiaro di montagna. Gli elicotteri di soccorso alpino sono di colori chiari, di solito giallo. Il che significava altri carabinieri. Sorseggiai il succo chiedendomi come Fondale si potesse essere trasformata in sbirropoli nel giro di ventiquattrore. Ventiquattrore di cui io non ricordavo nulla, tra l’altro. Quando entrai nell’unico bar della città, non mi stupii poi troppo nel trovarlo pieno di carabinieri, intenti a concedersi un cappuccino.

“Che a me il filino mi fa anche un po’ schifo, e lo tolgo con uno stuzzicadente. Poi metti pangrattato un po’ doppio, prezzemolo, olio, in forno, e mangi da Dio!” Erano in sei, seduti intorno a due tavolini. Uno di loro, tarchiato e con un ciuffo di peli che gli spuntava sulla nuca da sotto il colletto della divisa, stava tenendo un comizio ad un tavolino, portando un raggio di sole partenopeo nella foschia del trentino. Io andai al bancone, facendo scricchiolare le assi di legno del pavimento, e attirando inevitabilmente l’attenzione dei presenti. Presi un macchiato. La barista era probabilmente la sorella della cassiera al supermercato, le assomigliava troppo, stesso mento sfuggente, stessi occhioni da cerbiatto. Un attimo di riflessione mi fece ricordare che gli occhioni da cerbiatto erano quelli che avevano visto il mio pene annodato da un laccio di gomma quella mattina. La cameriera assomigliava alla cassiera che assomigliava alla ragazza delle pulizie. Lo realizzai nel momento in cui il macchiato arrivò strisciando contro di me sulla superficie di marmo del bancone, mentre la terza sorella mi chiese:

“Ma che gusto c’è nel legarsi lì con un laccio di gomma?”

“Dici così perché non hai provato.” Risposi io, agguantando la tazzina e nascondendomi nel tavolino più lontano. Un ora e cinque minuti, e già ero diventato il pervertito del villaggio. Non male.

Seduto, un rumore come di un motore che si avvia fece voltare il mio sguardo verso un angolo del bar. Era una pastore tedesco, immobile, grosso e terribile come una gargolla medievale, che ringhiava sommessamente e ininterrottamente, fissandomi con i suoi occhi gialli. Vicino a lui si trovava un vecchio, che sedeva con entrambe le mani appoggiate sul manico di un ombrello. Sulla testa era calcato un cappellino con visiera, che gli nascondeva gli occhi e comprimeva la sua faccia in un gomitolo di rughe, che si agitavano intorno ad una bocca intenta a contorcersi in un’ininterrotta masticazione. Indossava un giubbotto imbottito blu scuro, che stonava terribilmente con i pantaloni a coste da anziano che gli coprivano le gambe. Era un giubbotto enorme, non che gli stesse largo, ma l’imbottitura era assolutamente eccessiva, e lo rendeva simile ad una versione decrepita e inquietante dell’omino michelin. La visiera del cappello era rivolta verso di me, immaginai mi stesse guardando. Si alzò. Il cane smise di ringhiare, lanciò uno sguardo prima al padrone, poi a me. Il vecchio mi venne incontro, trafiggendo rumorosamente il pavimento di legno con la punta dell’ombrello. Notai, quando fu vicino, che il manico dell’ombrello era a forma di testa di cane lupo.

“Tornatene a casa tua.” Mi sputacchiò addosso, con una voce che ricordava da vicino quella del suo cane.

“Posso finire il caffè prima?”

“Ma varda ti se devono venire qui ‘sti furesti. A disturbare la gente onesta. Furesti di merda.” disse lui. I suoi denti non si muovevano mentre parlava: strisciavano tra di loro.

“Ha ragione, sono terribilmente, terribilmente dispiaciuto. Lei perché non torna a finire la sua sambuca mentre io torno dai miei amici furesti?”

“A disturbare la gente onesta che dorme. Babilonia! Babilonia!” sbottò ancora. Ebbi l’impressione che non stesse più parlando a me, ma che le sue parole avessero improvvisamente assunto una valenza universale. Si trascinò indietro fino al suo tavolo, prese il cane per il collare, e uscì dal bar. I carabinieri mi stavano fissando. Feci finta di bere il caffè, succhiando dalla tazzina ormai vuota. Uno di loro si alzò, toccando quasi il soffitto. Era enorme, avrebbe fatto passare la voglia di raccontare barzellette a chiunque. Incedette come un rinoceronte fino al mio tavolo, e mi tese una mano massiccia e nodosa come una sequoia, coperta da una peluria lanosa. Il suo volto era squadrato, coperto da una barba brizzolata, e dotato di due occhi azzurro ghiaccio.

“Caporale Amerigo Furlani.” Tuonò con una voce senza accento.

“Fabrizio Scafo.” Dissi, troncando a metà il mio cognome finto a causa della tenaglia che mi aveva appena stritolato la mano. Il caporale si sedette, facendo scricchiolare la sua sedia.

“Posso farle alcune domande?”

“Ne ha appena fatta una.” Risposi sommessamente, mentre portavo la mano sotto il tavolo e me la massaggiavo per assicurarmi fosse ancora intera. Lui evidentemente percepì nel mio mugugnare un segno di approvazione, e continuò:

“Lei non è di queste parti, vero?”

“No, sono qui qualche giorno per affari. Vendo aspirapolveri.”

“Qui? A Fondale?”

Per un attimo visualizzai la mia carriera di venditore. Mi vidi davanti ad una porta, con una vecchina che la apriva lasciando attaccato il catenaccio, mi scrutava con sospetto e poi, senza dire una parola, me la sbatteva in faccia. In effetti non era molto credibile, ma grazie a Dio sono sempre stato un bugiardo patologico. E poi immaginavo che Furlani fosse il classico tutto muscoli e niente cervello.

“La polvere è dappertutto.” Risposi sorridendo.

Lui grugnì, immaginai in segno di assenso.

“Stiamo facendo alcune indagini. C’è stato un omicidio qui nei paraggi.”

Avete presente quella sensazione di un nodo alle budella?

“A Fondale?” chiesi.

“Gli stronzi sono come la polvere.” Fece lui.

“Quando è stato?” chiesi, mentre il sorriso mi colava via un po’ alla volta dalla faccia.

“Ieri notte.”

Iniziai a sperare ardentemente di non aver commesso il primo omicidio della mia vita subito prima della prima amnesia della mia vita. Iniziai a sperare che la mia faccia non si fosse ridotta ad un lenzuolo bianco.

“Chi è stato ucciso?”

“Questo non posso dirglielo, è riservato.” Tagliò corto il caporale. Non voleva dirmi altro. Voleva solo vedere la mia reazione alla parola omicidio, capire se io c’entrassi qualcosa. E temevo che la mia reazione fosse stata pessima. Un bel furbo, quel Furlani. Tutto muscoli e tutto cervello.

“Da non credere, vero? In un paese così piccolo. Mi hanno svegliano alle quattro di mattina per venire. Immagini la gioia.” In effetti mi chiesi come avessero avuto il coraggio di chiederglielo senza paura di essere mangiati.

Dato che ero in ballo, decisi di ballare. Dissi:

“E’ un bel dispiegamento di forze per un solo omicidio.” Mentre pensavo avanti, dimmi qualcosa, un indizio. Che cavolo è successo? Un trucco di noi detective. Manda avanti la conversazione, e il pollo si tradirà prima o poi.

Furlani non rispose. Non a parole, almeno. La mia frase fece scattare nel suo volto uno di quei movimenti involontari impossibili da fermare, quando un emozione improvvisa ci attraversa il cervello. Un movimento che sul volto di cemento armato di Furlani era impossibile non notare. In un secondo ripensai ad ogni parola che avevo detto, cercando di capire che cosa fosse stato.

“Sì, ma ci serve ogni singolo uomo. È un’operazione di una certa entità. Anche se alcuni dei miei colleghi a quanto pare sono più interessati al loro pranzo.” Fece un cenno in direzione degli altri carabinieri.

“A tutti piace mangiarsi qualcosa di buono. Ha provato il ristorante qui in piazza?” non l’avevo provato nemmeno io, stavo soltanto dando fiato alla bocca.

“No.” E rimase zitto. Era un mastino, Furlani, i miei trucchi affabulatori da quattro soldi funzionavano su di lui come un coltello di pongo su una bistecca. Strinsi i denti, cercando di accumulare qualche parola generica per dar corpo a qualche chiacchiera generica.

“Pensavo che questo fosse un posto tranquillo. Non avevo idea.” Farfugliai infine.

“Lo pensavamo tutti, signor Scafo. Se ha qualche informazione da darci, non esiti a chiamarci.” Si alzò, e la sedia lanciò uno scricchiolio di sollievo.

“Senza dubbio. Arrivederci.”

Lui grugnì di nuovo, immaginai in segno di saluto, e si riunì ai suoi compagni. Si sedette di nuovo, non prima di avermi trafitto con un ultima occhiata inquisitoria. Contai fino a cento, poi mi catapultai dalla mia sedia, e mi catafottei dal locale alla velocità della luce, intenzionato a dare il bacio d’addio a Fondale il prima possibile.

In piazza, iniziai a pensare. A pensare a quella strana reazione nel volto di Furlani.

E’ un bel dispiegamento di forze, ripetei tra me, per un solo… Un solo omicidio. Era chiaro che c’erano molti carabinieri. Era chiaro che c’era stato un omicidio. Un solo omicidio. Uno solo. Non era uno solo. Erano morte persone. Tante persone. Molte vittime, uguale molti sbirri.

Bang.

Il macchiato mi si agitò in corpo. C’era stata una strage, uno a dieci ne ero in qualche modo coinvolto, e non me lo ricordavo.

 

Arrivato nella reception, trovai la Gianna in piedi vicino al bancone, mentre spruzzava delle piantine appassite terminali con un flacone di detersivo per vetri pieno d’acqua.

“Buongiorno, Giancarlo!” mi fece, assumendo una posa da diva anni trenta.

“Buongiorno Gianna, sono in partenza, passo tra poco a saldare il conto.”

“Ma come fate voi giovani ad andare in giro con questo freddo? Si metta il giubbotto!” Mi fece un occhiolino. Quella ragazzaccia.

“Sto bene in maglione. Mi scusi.” La oltrepassai, sperando avesse compreso la mia intenzione di andarmene. Corsi su perle scale, feci una breve preghiera che nessun sicario misterioso mi stesse attendendo in camera per torturarmi, poi agguantai il mio portachiavi ceppo e aprii la porta della centodue. La trovai gradevolmente vuota, e mi avventai sulle mie valige.

Mentre ricomponevo i pochi averi rimastimi, la mia mente annebbiata dagli effluvi dell’aspirina era lanciata a cento chilometri orari in un attività tanto frenetica da risultare dolorosa.

“Foresti de merda.” Dissi tra me, imitando la voce del vecchio “Che la gente onesta vuole dormire. Foresti de merda.” Mi chiesi quale foresto avesse potuto disturbare il sonno del vecchio. Mi chiesi se piuttosto, in quanto vecchio e stupido, non si fosse inventato tutto. Un pensiero improvviso mi immobilizzò, mentre stavo cacciando in valigia la mia collezione di calzini spaiati. Mi chiesi se non fossi proprio stato io, in quelle ventiquattro ore di buio, a disturbarlo.

Bang.

La scoperta della ruota, del fuoco, della relatività. Eureka. Improvvisamente, le parole della Gianna iniziarono a riempirsi di significato.

“Se esce si metta il suo giubbotto, che c’è un freddo…” il mio giubbotto, il mio giubbotto che non avevo mai avuto, il mo giubbotto che avevo indossato il giorno prima, mentre disturbavo il sonno di un vecchio scorbutico e il suo mastino infernale. Il vecchio indossava un giubbotto, un giubbotto nuovo insieme ad un vecchio cappello e dei vecchi pantaloni. Boom.

Mi catapultai in reception.

“Di che colore è il mio cappotto?” urlai addosso alla Gianna. Lei distolse lo sguardo dalla televisione, e mi fissò perplessa. Mi chiesi se una vecchia al confine dell’alzheimer potesse ricordarsi un particolare del genere.

“Blu scuro con interno bordò.” Mi rispose lei, come se le avessi domandato l’ora. Così, senza fare domande.

Boom.

Realizzai di avere un paio di domande da fare al signore col cane.

 

   
 
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