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Autore: ___Ace    30/11/2013    5 recensioni
“Non è serata, Evidenziatore, torna un’altra volta”.
Osservai quell’energumeno che avevo avuto la sfortuna di incontrare: i capelli in disordine e un orrendo paio di occhiali con le lenti spesse era appoggiato sulla fronte, tenendo quei ciuffi rosso vermiglio alzati verso l’alto; la maglia sporca di nero, pantaloni neri, scarponi neri. Praticamente avevo davanti a me l’Uomo Nero in persona.
Avrebbe potuto spaventare i mocciosi qui intorno.
*
Ecco, lui sembrava infiammato. Costantemente. Sembrava sempre avere qualcosa da dire, da fare o da vedere; non stava mai fermo e si muoveva in continuazione; a volte sembrava calmarsi ed essere colto da un’improvvisa quiete e sonnolenza, ma si riprendeva subito dopo; adorava i fuochi d’artificio e il fuoco lo affascinava. Diceva che era caldo, e quindi apprezzato dalle persone, ma allo stesso tempo temuto perché poteva bruciare e fare del male. Questi aspetti contrastanti gli piacevano immensamente, tanto da suscitare anche la mia curiosità e facendo si che, ogni volta che passava, mi ritrovassi chino sul bancone ad ascoltare le sue stramberie per nulla annoiato.
Ace era certamente così: bello, scoppiettante e caldo. Era il fuoco.
*
Kidd/Law. Ace/Marco. Penguin/Killer. Accenni Zoro/Nami.
Genere: Fluff, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eustass Kidd, Marco, Portuguese D. Ace, Trafalgar Law, Un po' tutti | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 9.
La stagione degli amori

E’ una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo provvisto di un ingente patrimonio debba essere in cerca di moglie. Per quanto al suo primo apparire nel vicinato si sappia ben poco dei sentimenti e delle opinioni di quest’uomo, tale verità é così radicata nella mente delle famiglie dei dintorni, da considerarlo legittima proprietà dell’una o dell’altra delle loro figlie.
«Bepo! Dove diavolo ti sei cacciato razza di orso con due zampe!».
«Oh Dio mio» mormorai esasperato, alzando gli occhi al cielo e sprofondando ulteriormente nella soffice poltrona gialla che i miei coinquilini mi avevano regalato il natale scorso, approfittando del fatto che il colore delle pareti dell’appartamento, dipinte di un arancione tenue, non stonassero con la stoffa di quella che era diventata la mia seduta preferita.
Era domenica sera, il giorno dopo avevamo tutti lezione al mattino e ci saremo ritrovati per giunta nella stessa classe, come se vivere sotto allo stesso tetto non bastasse.
Considerando che mi ero preso molto avanti con lo studio e che fossi dotato di una preparazione e di una conoscenza di gran lunga superiore a quella dei miei docenti, avevo deciso di dedicarmi un po’ di svago per leggere uno dei miei libri preferiti, sorvolando sul fatto che la famosissima opera di Jane Austen fosse stata scritta in quell’epoca per sollevare il morale alle povere ragazze zitelle e per dare loro un po’ di speranza per il futuro roseo che non avrebbero mai avuto a quei tempi. Sul serio, non mi toccava minimamente e quella era la decima volta che lo iniziavo da capo.
Capii che avevo fatto male i miei conti quando Penguin entrò nel salone con i capelli bagnati che gli ricadevano sugli occhi e all’altezza delle spalle, solleticandogli il collo e costringendolo a grattarsi, gocciolando ovunque.
«Penguin, bagni il tappeto» gli feci notare, mostrando il mio disinteresse per i suoi problemi con un cenno annoiato della mano e tornando a leggere da dove avevo lasciato.
«Cosa? Ah si, scusa. Bepo!» riprese a chiamare.
«Ora la moquette» sospirai, girando pagina e lasciando scorrere lo sguardo sulle frasi scritte su quella carta ruvida che ormai conoscevo a memoria.
«Cazzo» brontolò tra i denti, scomparendo nel corridoio che portava alle camere da letto e ritornando poco dopo con un asciugamano rosa in testa. Non volli nemmeno soffermarmi a pensare da dove sbucasse quella cosa improponibile. Era un insulto persino per lui.
Iniziò a girare per l’appartamento sbattendo le porte, aprendo cassetti, sbuffando come una furia e rischiando di scivolare a terra, rompendosi l’osso del collo quando passò sopra all’acqua che era colata sul pavimento davanti al divano e sotto il mio sguardo che cercavo di mantenere concentrato.
Solitamente non perdevo mai il controllo. Succedeva solo quando mi ritrovavo chiuso in casa con l’unica compagnia di quel’esaltato che poteva fare concorrenza ad Eustass Kidd in persona.
Beh, forse non proprio, pensai sarcastico, mentre mettevo un segnalibro fra le pagine e riponevo con cura il volume sul tavolino in vetro al centro della sala.
Mi passai stancamente una mano sul volto, scompigliandomi i capelli già in disordine e costatando che era da parecchio che non mi radevo la barba. Più tardi ci avrei pensato, sempre se non mi fossi incazzato nel frattempo.
«Penguin, dimmi cosa stai cercando prima di distruggere la casa».
Il ragazzo si fermò nel bel mezzo della sua andatura indaffarata, voltandosi e fissandomi con un paio di occhi grandi e inquieti, nei quali iniziò a farsi strada la speranza che, forse, avrei potuto aiutarlo.
«Bepo ha nascosto la roba. Sai dove l’ha messa?» chiese, avvicinandosi pericolosamente con uno sguardo da pazzo e le fauci spalancate con una lingua rossa a penzoloni. Per un istante sembrò un cane con la rabbia ed io dovetti trattenermi dalla voglia di dissezionarlo. All’università ci avevano fatto fare pratica solo su una rana e mi sarei rifiutato di farlo su qualsiasi altro animale, ovvio, ma Penguin non lo era, perciò niente mi tratteneva dall’agire, solo un forte senso di giusto e sbagliato.
Anche se non ero più tanto convinto che fosse sbagliato eliminare una spina nel fianco.
Bastò un’espressione seria e un’occhiata gelida e ammonitrice per far si che si desse una calmata e che si scusasse per la reazione esagerata. A volte superava il limite e dava di matto quando, per il suo bene e per fermare quella sua insana dipendenza, i ragazzi gli nascondevano il ricettario che utilizzava la maggior parte delle sere, quando non riuscivamo a farci trovare con il cibo da asporto già in cucina, per preparare dei piatti di diverse origini e sapori. In sé non mi sarebbe nemmeno dispiaciuto assaggiarli, non fosse stato che quell’incosciente non seguiva mai le istruzioni e le dosi, creando così dolci ipercalorici, manicaretti troppo salati e zuppe con ingredienti di dubbia provenienza. Diceva che gli piaceva dare un tocco personale a tutto.
Grazie tante per il pensiero, ma vaffanculo lo stesso.
Così Bepo aveva iniziato, quando riusciva a sottrarre il libro maledetto dalle grinfie di Penguin, a nasconderlo in posti noti a tutti tranne che al diretto interessato e si premurava di cambiare il nascondiglio ogni giorno per evitare che l’altro lo scoprisse troppo presto.
Il libro delle ricette era passato alla storia quando Ace aveva tentato di dargli fuoco con un accendino, riuscendo a distruggere solo l’introduzione. Un risultato piuttosto negativo e misero, ma fu abbastanza per darci modo di vedere la fissazione di Penguin per quell’affare. Sembrò impazzire quando se lo ritrovò tutto bruciacchiato tra le mani e non ci rivolse la parola per un mese intero, rifiutandosi persino di cucinare. Inutile dire che quello fu il periodo in cui mangiai il cibo migliore della mia vita, alternando pizzerie e ristoranti.
Poi gli era passata, ma ormai eravamo tutti convinti che la sua fosse una vera e propria dipendenza, così il ricettario era stato soprannominato ‘roba’, per ricordargli che, anche se in modo molto diverso e più sano, era un drogato.
«No, non so dove sia» mentii. Sapevo benissimo dov’era nascosta. In un posto dove Penguin non si sarebbe mai sognato di andare a guardare per timore di non rivedere mai più la luce del sole.
Camera mia.
«Balle. Avanti, dimmelo» insisté, portando le mani ai fianchi e battendo impaziente un piede a terra.
Per tutta risposta gli dissi che avevo già ordinato la cena e che sarebbe arrivata di li a poco, quindi avrebbe fatto meglio ad andarsi a vestire perché io non avevo la minima intenzione di scomodarmi dal mio posticino caldo e accogliente. Per sottolineare meglio le mie parole, agguantai un cuscino e una coperta dal divano e mi coprii, dipingendo in pochi attimi l’immagine del relax, iniziando a poltrire.
Quando aprì la bocca per insultarmi e mandarmi a quel paese, alzai l’indice nella sua direzione e lo feci zittire all’istante, facendogli morire le parole in gola.
«Sai cosa succede se lo fai» cantilenai con un macabro sorriso.
Mi lanciò un’occhiata truce per poi darmi le spalle e ritirarsi in camera sua sbattendo la porta con violenza. Mi sembrò di avere a che fare con un’adolescente in fase ormonale e con problemi relazionali, ma lasciai perdere e tornai a ghignare soddisfatto per la vittoria.
Penguin era da sempre uno dei miei migliori amici, ma aveva imparato a sue spese cosa succedeva quando qualcuno tirava troppo la corda con me perché se decidevo di dire no, era no e basta. Gli scocciatori non li sopportavo, per questo, quando non otteneva quello che voleva da me, se ne andava sempre imbronciato. Era tipico del suo carattere e il fatto che fossimo amici gli bruciava ancora di più, visto che sperava ogni tanto di spuntarla usando un qualche immaginario bonus affettivo. Il problema era che non aveva ancora capito che per me non c’erano eccezioni.
Una massa di riccioli biondi, talmente chiari da far sembrare il proprietario un albino, spuntò dalla porta semi aperta dello sgabuzzino vicino all’entrata dove tenevamo scope, aspirapolvere e scarpe.
«Se n’è andato?» sussurrò una voce bassa e tremolante, mentre un sorriso si faceva strada sul suo volto quando annuii verso la sua direzione.
Bepo uscì con tutta la sua stazza dall’armadio delle scope, dentro al quale era costretto a nascondersi fingendo di essere fuori casa quando Penguin decideva di assillarlo con qualche sua trovata, e si spolverò la felpa bianca e morbida, raggiungendomi in soggiorno e sedendosi sul divano accanto alla mia poltrona.
«Grazie per non aver parlato. L’ultima volta che ha cucinato non ho dormito per tutta la notte» si lamentò disperato, toccandosi d’istinto la pancia al ricordo dell’orribile esperienza vissuta.
«Potresti rifiutarti di mangiare» provai a dire, cosa che facevo sempre io per evitare problemi.
Mi lanciò un’occhiata sarcastica e allo stesso tempo preoccupata. «Come fai tu?».
«Touché» feci, con l’ombra di una smorfia sul viso, «Ma evito tanti problemi, ammettilo».
«Ti fai del male, Law, e lo sai. Da quanto non mangi in modo sano e decente?».
«L’altra sera ho cenato da Eustass-ya» mi difesi, stringendomi nelle spalle, come se la cosa non fosse così grave come la stava facendo sembrare. Sorrisi impercettibilmente davanti a quel ricordo.
«Si, e hai vomitato tutta la notte perché il tuo corpo non è riuscito a digerire tutto quel cibo, dato che ti nutri con poco e male» mi sgridò, «Inoltre stai sempre a studiare e dormi, si e no, cinque ore se tutto va bene».
«Questo non è vero» feci glaciale, guardando altrove. Forse solo in parte, ma non sopportavo quando ricevevo la ramanzina dai miei compagni sul modo in cui decidevo di tirare avanti. Per le cose secondarie come dormire e mangiare potevo fare a meno, l’obbiettivo primario era eccellere negli esami e darmi da fare con i corsi all’università per laurearmi e coronare il mio sogno diventando un chirurgo di fama mondiale, impeccabile, all’avanguardia e capace di sfidare la Morte e batterla al suo stesso gioco.
«Spero tu sappia quello che stai facendo» si limitò a dire, vedendo che, come al solito, non stavamo andando da nessuna parte e non mi avrebbe convinto di certo a fare come diceva. Non ci riusciva mai e se non avevo io un motivo per farlo, allora non sarebbe mai stato capace di farmi cambiare.
In quel momento arrivò Penguin a completare il quadretto, entrando in salotto con una vestaglia e un paio di pantofole dei Simpson, con la faccia di Homer ad avvolgergli i piedi. Improponibili, ma i suoi gusti erano sempre stati a dir poco strani, quindi non mi stupii e lasciai che si fiondasse addosso a Bepo, inchiodandolo sul divano e minacciandolo di morte se non gli avesse rivelato dove tenesse nascosta quella sua fottuta roba.
Quando suonò il campanello stavano ancora litigando come due bambini, così fui costretto ad alzarmi e a raggiungere l’uscio dove una ragazza con un berretto da baseball in testa e i capelli tinti di rosa aspettava per fare la sua consegna.
«Sono venti in tutto» disse allegra e con un sorriso smagliante.
Pagai il conto usando il portafogli di Penguin, così, giusto per vendetta personale per essermi dovuto scomodare dalla mia postazione e per avermi fatto passare la voglia di leggere, lasciandole addirittura la mancia, e la salutai educatamente prendendo con me le tre pizze che ci avrebbero sfamato quella sera.
Per fortuna che Ace è fuori, aggiunsi mentalmente, altrimenti avrei dovuto ordinarne tre solo per lui. Beh, ma che problemi mi faccio, tanto pagavano gli altri.
Svoltai a sinistra e ignorai quei due mocciosi troppo cresciuti che dal divano erano passati al pavimento, e mi diressi in cucina dove apparecchiai il tavolo, distribuendo il cartone su ogni posto e iniziando a mangiare la mia parte con gusto, accendendo la televisione e sintonizzando il canale sulle ultime notizie.
I due ragazzi, non appena si accorsero della voce del giornalista sopra le loro teste, smisero di litigare e osservarono prima l’uomo sullo schermo, poi me ed infine la mia fetta di pizza.
La cucina dava sul salone e potevamo guardare comodamente i canali restandocene comodi a colazione, pranzo e cena.
«Ehi, non si offre?» chiese un indignato Penguin, il quale liberò Bepo all’istante e si fiondò a tavola. Non voleva ammetterlo, ma anche lui si sentiva sollevato e tranquillo quando non doveva trovarsi ad affrontare temperature del forno, fornelli e grammi di farina da dosare per preparare le sue stranezze culinarie. Il perché si ostinasse a farlo non era chiaro a lui come non lo era a noi.
«Buon appetito!» disse a bocca piena, ingoiando in un sol boccone un intero pezzo, mentre l’altro ragazzo iniziava a tagliare la sua cena con calma e senza fretta.
Passammo vari minuti in silenzio, ognuno perso nei suoi pensieri e dovetti ricorrere più volte al mio autocontrollo per ignorare gli sguardi preoccupati che mi lanciava di tanto in tanto Bepo con la coda dell’occhio. A suo modo cercava di prendersi cura di me, ma non era grave come pensava, davvero. Io mangiavo, e parecchio anche, solo non in modo regolare. Se saltavo il pranzo recuperavo al pomeriggio e se non cenavo, pazienza, mi rifacevo a colazione il giorno seguente, passando alla caffetteria dell’università. Insomma, non ero bulimico o anoressico, semplicemente a causa dei corsi e dello studio avevo dovuto riorganizzare i miei orari e arrangiarmi come potevo.
«Che fine ha fatto Ace?» chiese ad un tratto Penguin, accorgendosi solo allora che qualcuno mancava all’appello, «E’ già la terza volta che non cena con noi».
Dovrebbe fare più attenzione, pensai, fingendomi indifferente all’argomento, questi due iniziano a sospettare qualcosa. Mi toccherà metterlo in guardia se tiene così tanto alla sua riservatezza. Certo che poteva inventarsi una scusa migliore quando l’ho beccato a sgattaiolare fuori di casa la prima volta.
«In effetti è strano» aggiunse Bepo facendosi pensieroso, «Spero solo che non stia combinando qualche guaio.
Io, invece, spero si sia reso conto che non ho creduto minimamente alla sua trovata geniale. Andiamo, chi andrebbe mai ad uno spettacolo di poesia? Ace no di certo, si addormenterebbe ancor prima di entrare nel locale.
«Ora che ci penso è da un po’ che tutti si comportano in modo strano. Non trovi anche tu, Law?». Penguin, con la sua solita sfacciataggine, mi lanciò un’occhiata eloquente, sollevando le sopracciglia fino all’attaccatura dei capelli e lasciandomi intendere che voleva avere delle risposte riguardo un certo argomento: gli stramaledetti affaracci miei.
«E cosa ci sarebbe di strano?» domandai, stando al gioco. Sapeva che non ero solito parlare della mia vita privata, tanto meno di come passavo il mio tempo libero e, sopra ogni cosa, non andavo a dire in giro che mi vedevo con quel disadattato sociale di Kidd.
Lui e Killer, quel simpatico e benedetto capellone che sembrava sopportarlo Dio solo sapeva come, avevano preso l’abitudine di presenziare alle nostre uscite i sabato sera, invitati una volta da Sanji, un’altra da Zoro, una da Penguin e, addirittura, da Rufy stesso. Erano, per qualche misteriosa ragione, entrati nelle sue grazie, così me li dovevo sorbire ogni volta che decidevamo di passare una serata tutti in compagnia. In quelle occasioni tutto era come la prima volta: ci fulminavamo con lo sguardo; io mi dedicavo al mio sport preferito, ossia farmi beffe di lui e causare le risate generali, sempre discrete per paura delle sue reazioni, e trovavo sempre nuovi nomignoli da affibbiargli, giusto per non farlo sentire ignorato o in disparte. Ero gentile, dopotutto, ed educato. Che a fine serata, chissà come, mi ritrovassi, volente o non, a casa sua quello era un caso a parte e non un’anima faceva domande.
Non sapevo bene quale fosse il termine adatto da usare e per il momento non avrei mai parlato o anche solo pensato a verbi impegnativi come frequentare. Troppo pesante, troppo intimo, troppo…
Troppo serio.
Andiamo, erano tempi moderni, nessuno mai si sarebbe andato a legare le mani in una relazione stabile e duratura che, in realtà, non sarebbe mai stato facile mantenere con un testardo come quel rosso incandescente.
A dire la verità non avevamo mai parlato di questa cosa, semplicemente lasciavamo la questione come stava e non affrontavamo l’argomento. Gli accordi erano questi: andavo da lui, scopavamo e ritornavo a casa. Semplice, facile da fare, non richiedeva grossi cambiamenti nel mio orario settimanale e, soprattutto, mi permetteva di tenermi il più lontano possibile dal venire coinvolto sentimentalmente. Mantenevo le distanze per questo motivo.
Una relazione non era ciò che volevo.
Avevo paura che, se avessimo iniziato a passare più tempo insieme, se ci fossimo incontrati per caso o se ci fossimo dati appuntamento così, senza uno scopo, ma soltanto per il bisogno di vederci, di sapere che eravamo un qualcosa di concreto e non solo un semplice e sporco piacere fisico, non ce l’avrei più fatta ad allontanarmi una volta scomparso tutto.
Non eravamo destinati a durare, niente durava, ed io avevo già le mie cicatrici da sopportare; non avevo bisogno di altro a cui pensare e per cui soffrire. Ero stanco.
E forse, continuando così, avrei smesso di sperare inconsciamente di essere considerato più che un oggetto da quell’invasato.
Perché quel bastardo mi piaceva. Mi piaceva più di quanto mi potessi permettere e volessi ammettere.
«Oh niente, solamente il fatto che una sera a settimana sparisci dall’appartamento e torni a casa con un sorriso grande da un orecchio all’altro. E la prima volta che ti ho visto con quell’espressione non ho creduto ai miei occhi. Diciamocelo, tu non sorridi mai. Aggiungiamo anche che dietro tutto questo c’è Eustass Kidd e la cosa diventa a tutti gli effetti incredibile!».
Fulminai Penguin con la peggiore occhiata assassina per tutto il suo discorso da saputello, meditando sulle varie possibilità che avevo di fargli soffrire le pene dell’inferno prima di ucciderlo e sbarazzarmi di lui per sempre.
Per un momento pensai che anche Bepo avrebbe potuto fare la stessa fine, quando provò a dare ragione all’altro ragazzo ma, accortosi che il mio umore non era dei migliori, preferì restarsene zitto e abbassare il capo, concentrandosi sul suo piatto e finendo la cena. Si salvò per un soffio.
Quando Penguin si decise a guardarmi con la faccia di chi sa di avere la situazione in pugno, gli dedicai un ghigno malefico, sfoderando il mio asso nella manica per punzecchiarlo a mia volta nel vivo.
«Parliamo di te ora» iniziai, facendogli intendere che non aveva via di scampo, «Tu e Killer-ya avete già concluso o hai fatto come tuo solito, comportandoti da ragazzino timido e impacciato, presentandoti solo come un buon amico e incapace di volere di più? Perché finirà come al solito di questo passo: lui se ne andrà con un altro e tu rimarrai a bocca asciutta».
Godetti nel vedere la sua faccia sbiancare e l’espressione vittoriosa che aveva lasciare spazio ad uno sguardo perso e una smorfia di pura tristezza.
Penguin era così. In un certo senso eravamo simili perché entrambi avevamo paura di quello che i sentimenti potevano causare, l’unica differenza era che io mi tenevo alla larga da questi dandomi comunque da fare, mentre lui non riusciva mai ad esprimersi come avrebbe voluto, perdendo così l’occasione di trovare una persona con cui stare bene.
Parlando in quel modo sapevo di averlo ferito, ma non ero riuscito a sopportare l’idea che tutti in quella casa si stavano facendo, ossia che il fatto di passare del tempo con Kidd mi rendesse felice.
Era sbagliato. Era tutto sbagliato, non avevano capito niente.
«Questa potevi risparmiartela» mormorò sommessamente, giocherellando con gli avanzi sul cartone della pizza.
Sbuffai e risposi con un’alzata di spalle, «Potevi evitare di provocarmi».
«Siete patetici, tutti e due!» sbottò allora Bepo con un furore che ne io ne l’altro ragazzo gli avevamo mai visto usare.
Brandì una forchetta come se fosse un’arma micidiale e la puntò verso di noi con aria importante.
«Penguin dovresti darti una svegliata e tirare fuori le palle, dato che sei la persona più fuori di testa che conosca. Andiamo, voi due siete stata l’attrazione nudista in un locale, ve lo siete dimenticato? E tu, Law, sei un povero illuso se speri di andare avanti così senza innamorarti!».
Lo guardammo allibiti per un tempo indeterminato. Non riuscivo a trovare nulla da ribattere e, per la prima volta, Bepo aveva saputo farsi rispettare e zittire due delle persone più difficili da sopportare e con la battuta acida sempre pronta e a portata di mano.
Quando si rese conto della sua sfuriata si sentì in imbarazzo, le guance si tinsero di rosso e, ricomponendosi, ci guardò con occhi desolati, iniziando a profilarsi in una serie di scuse per quanto riguardava il suo comportamento maleducato e indelicato. Davanti a quella scena Penguin iniziò ad urlare, insistendo sul fatto che non poteva prima sgridarci e poi scusarsi, mentre io ero semplicemente troppo impegnato a pensare ai miei problemi per dare ascolto alla loro pazzia.
Che avesse ragione il ragazzo bonaccione accanto a me?
Innamorarmi.
Odio Eustass-ya. Odio tutto di lui. E’ scorbutico, impaziente, senza cervello, pazzo, Malpelo, stronzo e senza un minimo di autocontrollo! Insopportabile oltre ogni dire. Ed io sono un emerito coglione visto e considerato che non riesco a troncare i rapporti. Perché diavolo gli ho lasciato il mio numero poi? Perché continuo ad andare da lui quando mi chiama? Da quando faccio quello che gli altri mi dicono?
«Scusa, scusa, scusa!» ripeteva nel frattempo Bepo.
«Dammi la roba e poi ne riparliamo» propose allora Penguin, salendo sopra al tavolo per raggiungere il suo coinquilino e ottenere ciò che voleva.
«Non stavamo parlando di Ace?» provai a ricordargli, tanto per cercare di sviare l’argomento e riportare un po’ di calma in quella casa che ormai ne aveva viste di tutti i colori. Nel vero senso della parola dato che una parete del soggiorno era coperta da impronte di mani, piedi, una faccia spiaccicata e schizzi verdi, blu, rossi e viola. Ognuno aveva lasciato la sua firma in una calda giornata estiva, quando avevamo deciso di ridipingere le pareti. Il nostro capolavoro, però, era uno smile stilizzato, fatto nel tentativo di creare un Jolly Roger tutto nostro, piuttosto originale.
«Può saltare in aria! Datemi la mia roba!» piagnucolava Penguin, infischiandosene di tutto e iniziando a girare per la cucina, aprendo tutti gli scomparti e rovistando dietro le pentole dove avevamo nascosto una volta il ricettario maledetto.
«Sapete, credo che lui sia coinvolto in loschi affari, al contrario di voi con problemi di cuore» ipotizzò Bepo, rimettendosi seduto e sistemandosi il colletto della camicia che l’altro ragazzo aveva spiegazzato a furia di saltargli addosso nel tentativo di farlo parlare.
«Ma dai? Sul serio?» fece sconcertato l’idiota di turno con la faccia dentro al frigo, mentre io, con le braccia incrociate e il viso corrucciato, fulminavo qualsiasi cosa con lo sguardo.
Problemi di cuore un paio di palle. Non siamo ragazzine in fase adolescenziale, nonché la peggiore.
«Lo sapete quanto lui ami le esplosioni. Potrebbe essere passato al lato oscuro».
«In questo caso piloterà un aereo e si farà esplodere andandosi a schiantare contro un monumento famoso? Magari la prigione di Impel Down, sai che figata!».
Mi schiaffai una mano sul viso, incapace di sopportare oltre.
«Smettetela di blaterare. Ace ha la ragazza, punto. Non c’è nessun attentato sotto e non è un terrorista!» sbottai.
«La ragazza? Ma stai scherzando?».
«Non ha mai avuto una ragazza».
«Gli sarà venuta voglia» rifletté allora Penguin, seduto a terra e con il mento appoggiato alla mano in una posa pensierosa.
«Sembra che sia iniziata la stagione degli amori anche se è inverno ormai».
«Bepo, dacci un taglio» mormorai minaccioso. Era il mio ultimo avvertimento, dopo di che non avrei più risposto delle mie azioni e, quando Ace avrebbe fatto ritorno, avrebbe avuto il suo bel da fare nell’aiutarmi a seppellire quei due in giardino.
Deglutì a fatica e fece segno di chiudersi la bocca con la zip, alzandosi per ripulire, lavare i bicchieri e le posate e mettere in ordine quello che l’iperattivo Penguin aveva ribaltato.
Io me ne tornai in salotto, diretto verso la mia poltrona e con tutta l’intenzione di estraniarmi dal mondo.
Ovviamente, se volevo sperare in una cosa del genere, dovevo per forza rinchiudermi in camera e chiudermi a chiave. Solo allora sarei stato sicuro di essere lasciato solo e in pace. Purtroppo per me il Destino non voleva così e il televisore di fronte a me si oscurò mentre un DVD veniva inserito e le luci si spegnevano.
«E’ tanto che non giochiamo a costruire les barricades con il sottofondo de Les Miz» ammiccò Penguin, prendendo posto sul divano e ammucchiando accanto a sé vari cuscini e coperte che avrebbero servito a fare da barricate, il tutto impilato in equilibrio precario sopra ai divani dai quali avremmo finto di cantare per poi crollare a terra senza vita quando i francesi avrebbero sparato.
La prima volta che l’avevamo fatto era successo per caso, durante il film, e da allora, ogni volta che decidevamo di rivederlo, era d’obbligo rifare la stessa scena. L’avevamo ripetuto talmente tante volte che era diventata una tradizione, tanto che lo consideravamo addirittura un gioco. L’ideale quando non sapevamo cosa fare a casa.
Una volta avevamo provato persino a imitare il film Fight Club. Inutile dire che non era finito molto bene.
Alzai gli occhi al cielo e lasciai che le canzoni del film riempissero la stanza, attirando l’attenzione di Bepo e facendolo correre per non perdersi l’inizio. Lui adorava quella nostra trovata un po’ infantile ma, in un certo senso, divertente.
Ho a che fare con degli idioti, pensai, prima di sbattere un bracciolo rimovibile della poltrona in faccia a Penguin e iniziare così un’imprevista battaglia di cuscini.
 
* * *

L’appartamento era silenzioso e buio a quell’ora tarda della notte; i erano balconi chiusi, la televisione spenta, il soggiorno miracolosamente non distrutto e in ordine, fatta eccezione per qualche cuscino ancora sparso qua e la sotto al tavolino e al divano. I cartoni delle pizze erano stati gettati nella spazzatura, i piatti lavati e rimessi al loro posto, non una virgola fuori luogo.
Tutto calmo e tranquillo come succedeva di rado e solo quando i coinquilini più vivaci erano a letto a dormire un sonno profondo popolato di sogni.
O fuori per un appuntamento.
Il classico tintinnio delle chiavi e lo scattare secco della serratura mi risvegliarono dal mio dormiveglia, facendomi tornare lucido all’istante e non più avvolto nel torpore. Feci un respiro profondo, stiracchiandomi lentamente e rendendomi conto di aver perso del tutto la sensibilità a entrambe le gambe a causa della posizione rannicchiata che avevo assunto per diventare un tutt’uno con la mia poltrona.
Avrei dovuto chiacchierare con Ace da li, non c’era altra soluzione.
Lo sentii aprire lo sgabuzzino e riporre il cappotto e le scarpe prima che una luce si accendesse ed illuminasse la stanza, rivelando la sua figura infreddolita e assonnata, ma in ogni caso entusiasta e di buon umore.
Ghignai. A quanto pareva le cose si erano fatte interessanti.
Quando attraversò il salotto per dirigersi verso la sua camera sobbalzò nel vedermi davanti a lui, intento a indicargli il divano accanto a me, invitandolo con una mano a sedersi e guardandolo con un’espressione diretta a fargli capire che non l’avrei lasciato andare fino a che non mi avesse raccontato tutto.
«Law, che ci fai ancora in piedi?» chiese guardingo, ma avvicinandosi comunque, sapendo che con me non aveva speranze di filarsela a nascondersi e lasciare le cose in sospeso.
«Pianificavo un omicidio. Come è andata la tua serata? Ti sei divertito ad ascoltare poesie?» feci sarcastico, calcando bene l’ultima parola e curioso di vedere quanto avrebbe retto quella farsa. Sapeva che non me l’ero bevuta la sua più grande, insulsa, pessima e patetica balla. Se mi avesse detto che usciva per trafficare illegalmente fuochi d’artificio forse non ci avrei dato così tanto peso ed interesse. Ma poesie? Per l’amor del Cielo, quello si che andava oltre l’inverosimile.
«D-direi di si» mormorò, visibilmente in imbarazzo e consapevole di essere stato scoperto, «E’ stato molto interessante ed istruttivo. Sai, i miei professori vogliono che mig...».
«Ace».
Mi guardò per un istante negli occhi, mordendosi un labbro indeciso, ma poi si arrese.
«E va bene, ti dirò tutto».
«Ti ascolto». Mi accomodai meglio, lasciando che riordinasse le idee e che iniziasse a raccontarmi di quelle sue capatine segrete che tanto aveva cercato di nascondere al mio intuito allenato e infallibile.
«Vado davvero in un locale dove danno spazio a quella roba noiosissima, ma in quel posto, ecco, c’è una persona che mi fa piacere vedere e così approfitto per parlarle» confessò.
Ci avevo visto giusto quindi. Quante storie per una ragazza, avrebbe potuto dirlo subito, di certo nessuno avrebbe avuto nulla da ridire.
Forse l’aveva fatto per Penguin, quell’idiota. Temeva che sarebbe andato in giro a dirlo a tutti, specie al suo piccolo e adorato fratellino, il quale non avrebbe di certo evitato di pretendere di conoscere immediatamente la persona con la quale il maggiore si frequentava. Sarebbe successo il finimondo, come tutte le volte.
«Sai, lui lavora lì come barista e chiacchieriamo molto quando ci sono questi eventi, dato che i clienti sono tutti concentrati ad ascoltare quelle quattro parole scritte a caso, dimenticandosi di ordinare da bere» disse, accennando ad un sorriso e, sicuramente, ricordando qualche buffa scena alla quale aveva assistito durante quegli incontri che di casuale da parte sua non avevano nulla. Mi domandavo solamente se si potessero considerare veri e propri appuntamenti dato che il mio coinquilino fingeva di andare in quel locale per caso, tanto per non destare sospetti sul ragazzo che gli interessava.
Perché mi ero accorto di quel lui che aveva usato, quasi sussurrato per paura o vergogna, ma non ci avevo dato peso. Nessuno lo avrebbe mai giudicato per i suoi sentimenti o per il suo modo di essere, io per primo.
«E da quanto vi frequentate?» domandai. Se volevo avere delle risposte dovevo porre le giuste domande e quella mi avrebbe permesso di capire se si trattava di qualcosa di serio oppure no, almeno per il momento.
«In realtà lui non sa nemmeno chi sono. Certo, mi riconosce, parliamo del più e del meno, ma tutto finisce qui» ammise abbattuto, sdraiandosi per tutta la lunghezza del divano e afferrando uno dei cuscini ancora a terra per coprirsi il volto.
Non bastavano le scenate di Penguin, il quale, quando una sua relazione mai iniziata andava a finire male, era l’esatto ritratto della disperazione e passava giorni e giorni in depressione, chiedendomi aiuto come se fossi uno psicologo. Adesso ci si metteva pure Ace a fare la parte del complessato pieno di paranoie.
«Presentati allora» feci con tono ovvio. Qual’era il problema? Dove stava la difficoltà?
«Come se fosse facile» farfugliò da sotto la stoffa, prima di scaraventarla a terra in un moto di stizza. «Non capisci Law, lui è così…».
«Non lo voglio sapere».
«E’ da perdere la testa».
Parlammo all’unisono, io con gli occhi rivolti al cielo, stanco di sentire sempre le solite cose uscire dalla bocca di quei poveri cuori infranti, mentre lui aveva un’aria sognante e perfettamente idiota.
«Almeno sai come si chiama? Così possiamo dare un nome a questa tua nuova fissazione».
Ignorando la mia solita acidità e il mio intento di sfotterlo, come facevo con chiunque, scattò a sedere, appoggiando i palmi sulle ginocchia incrociate sul divano e sfoggiando un sorriso carico di speranze e sogni e dondolandosi avanti e indietro come un malato di mente.
«Si chiama Marco, ma tutti lo chiamano La Fenice» confessò con gli occhi che brillavano e accompagnando la frase con un sospiro sognante.
«E viene soprannominato in questo modo perché è rinato dalle ceneri?» ipotizzai scherzando, appoggiando il mento ad una mano e fissandolo incuriosito e divertito da quella stranezza.
«A dire il vero è l’unico sopravvissuto ad un incendio che ha raso al suolo l’orfanotrofio in cui viveva».
Ci guardammo in silenzio per un lungo istante.
«Solo una persona con un passato del genere può avere una relazione stabile con un dinamitardo come te, amico mio».
«E’ quello che ho pensato anche io!» sbottò, saltando in piedi e prendendo a girare per la stanza, animato da chissà quale forza malefica interiore.
Sono uno peggio dell’altro. Penguin non ha il fegato di fare il primo passo con qualsiasi ragazzo verso il quale prova interesse e ora Ace. Non lo facevo un tipo che rimaneva a guardare, lo credevo più coraggioso e pronto all’azione.
«Sai, dovresti presentarti e chiedergli di uscire. Le persone normali fanno questo» decretai, dandogli la soluzione che cercava, che tutti cercavano quando decidevano, o venivano obbligati, di parlare con me, «Lascia perdere la poesia e passa ai fatti. Scommetto che accetterà».
«Tu dici, Law? E se dovesse dire di no?».
«Almeno non dovrai più ascoltare sonetti» gli feci notare, alzandomi per sgranchirmi le gambe e il resto del corpo prima di dirigermi verso la mia camera per concedermi qualche meritata ora di sonno. Anche quella sera avevo fatto tardi. Fantastico.
Mi seguì anche lui, continuando a blaterare su quanto gli piacesse il taglio di capelli del ragazzo, sui suoi occhi, i modi di fare pacati, le sue battute, e altre sciocchezze simili.
Sperai di riuscire a prendere sonno dopo tutto quello che avevo dovuto stare ad ascoltare, cercando vivamente di farle entrare per un orecchio e poi lasciarle uscire immediatamente dall’altro.
Delle ragazzine. Io ho a che fare con delle sciocche ragazzine, pensai rassegnato.
Prima che mi chiudessi la porta alle spalle, Ace decise che quello era il momento migliore per ricordarsi di qualcosa di importante, sotto il suo punto di vista, e richiamò la mia attenzione porgendomi una domanda che mi rese impossibile prendere sonno.
«A proposito, non te l’ho nemmeno chiesto, il tuo appuntamento dell’altra sera con Kidd come è andato? Tutto bene?».
Non lo disse con voce derisoria o con cattive intenzioni, si preoccupava solo per me data la natura violenta di quell’essere. Era comprensibile sotto un certo aspetto, ma non potei fare a meno di digrignare i denti e sentirmi punto nel vivo del mio orgoglio e della mia personalità fredda e ghiacciata.
Dannazione, come gli vengono certe idee in mente?
«Non era un appuntamento» sibilai, sperando di essere chiaro e di non doverlo più ripetere a nessuno e sentire sparate del genere su quell’argomento.
«Avete cenato insieme, pensavo che forse …».
«E tu come lo sai?» chiesi, voltandomi di poco e scoccandogli un’occhiata glaciale da sopra la spalla, trattenendo a stento l’irritazione per quelle insinuazioni.
«Beh, Penguin ha accennato qualcosa a riguardo, quando non c’eri» si giustificò, rendendosi conto di aver detto troppo e facendosi piccolo piccolo, inoltrandosi sempre più all’interno della sua stanza per paura della mia reazione e dell’espressione omicida che si era appena dipinta sul mio volto.
Dimenticai Ace nell’esatto istante in cui fece il nome di quell’emerito idiota che mi ritrovavo come amico e come compagno di corso, nonché coinquilino e, con poche falcate, raggiunsi la camera del diretto interessato, spalancando la porta con appesi alcuni poster di cantanti e facendola sbattere addosso alla parete.
Lo sentii sussultare per lo spavento sotto ad un ammasso di coperte, ma non fece in tempo a fare domande o a rendersi conto del guaio in cui si trovava perché mi fiondai su di lui con l’intendo di soffocarlo con il suo stesso cuscino o con qualsiasi altra cosa mi fosse ritornata utile.
Di solito mi limitavo alle minacce e ad incutergli timore dato che non mi abbassavo ad usare le mani, consapevole del pericolo di potergli fare male davvero e deciso ad evitarlo. Il fatto era che ero sempre stato un tipo calmo e convinto che passare alle maniere forti fosse solo l’ultima possibilità da prendere in considerazione, ma in quel momento il mio autocontrollo sembrava essersi azzerato del tutto, lasciandomi solo con un forte prurito alle mani.
Praticamente il mio solito modo di essere e la mia personalità erano stati messi a dura prova in quegli ultimi tempi. Prima sorridevo e adesso mi lasciavo andare agli istinti. Tutto ciò, però, invece che farmi piacere mi faceva preoccupare. Se fosse successo un anno prima o anche solo un paio di mesi fa, la cosa non mi avrebbe minimamente toccato, anzi. Quello che mi preoccupava, invece, era il fatto che il motivo per il quale ero scattato come una molla, oltre alla scoperta di saper ancora come sorridere, era sempre a causa quell’invasato, montato e arrogante Eustass-ya.
«Dì un’altra volta che io e Kidd usciamo assieme e sarò costretto a farti molto male, Penguin!» lo minacciai, tra una cuscinata in faccia e l’altra.
Fu solo quando cadde dal letto e riuscì a sfuggire alla mia presa, gattonando verso l’uscita, che trovò il fiato e il tempo di ribattere.
«Adesso vi chiamate anche per nome? E’ una cosa seria allora» scherzò, fiondandosi fuori dalla stanza non appena si accorse del mio sguardo, mettendo un piede in fallo nel calpestare il tappeto e scivolando a terra lungo il corridoio.
«Ma che succede?» sbadigliò un assonnato Bepo, disturbato dai rumori molesti che stavamo facendo, mettendo appena la testa fuori e stropicciandosi gli occhi.
«Penguin ne ha combinata una delle sue facendo arrabbiare Trafalgar» fece Ace con voce monotona, abituato a quello scenario, appoggiato al muro con le braccia incrociate e osservando divertito la scena, indeciso se intervenire in soccorso del ragazzo che stavo immobilizzando a terra e minacciando di morte istantanea, incurante delle sue proteste e deciso a ricorrere alla mia arma segreta.
Avevo sempre un asso nella manica, o meglio, nei pantaloni, ed ero pronto ad usarlo con maestria e senza esitazione, come in sala operatoria.
«Tutto normale quindi» asserì Bepo.
«Tutto normale».
«Non restate a guardare, questo psicopatico ha un bisturi in tasca!».




Angolo Autrice:
Okay, Buon qualsiasi cosa a tutti! Spero stiate bene e che il capitolo riguardante la vita casereccia dei quattro coinquilini vi sia piaciuto e vi abbia strappato qualche sorriso.
Che dire, il capitolo inizia con le prime righe del capolavoro di Jane AustenOrgoglio e Pregiudizio. Venerate questa donna e il suo genio, grazie.
Come avrete immaginato e da quello che vi ho spiegato nel capitolo precedente, Law non segue un’alimentazione tanto giusta, nonostante studi medicina, ma, come ci tiene a sottolineare, lui mangia, solo a orari differenti e per la maggior parte schifezze.
Penguin è ossessionato e malato di mente. Nah, poveretto, non così tanto, ma ce lo vedo attivo e un po’ fuori dal comune :D
Bepo è coccoloso e non esce mai dalle righe, a parte nei casi estremi per far valere le sue ragioni come a tavola! Bravo ragazzo, continua così!
Aaaaaaace! Ace che si finge un cliente di passaggio e si sorbisce poesie e sonetti romantici solo per poter vedere Marco e parlarci. E poi fa di Trafalgar il suo consigliere personale. A qualcuno doveva pur dirlo di essersi preso una cotta. 
QUASI DIMENTICAVO: les barricades sono le barricate nel musical meraviglioso di Les Miserables, appunto Les Miz. Non so cos’altro dire, come sempre se ho dimenticato qualcosa potete farmelo sapere o chiedere.
Ringrazio tutti quanti, dal primo all’ultimo, vi meritate tanti abbraccioni **
Spoileeeeeeer:
 
“Eustass-ya, non mi saluti nemmeno?” mi pungolò, vedendo che non ero intenzionato a voltarmi.
“Ciao?” feci, stringendomi nelle spalle e fissandolo interrogativo, non capendo bene cosa si aspettasse che dicessi dopo la scenata di poco prima. Che diavolo voleva ancora da me? Mi aveva esasperato abbastanza per quel giorno.
Rimase fermo a guardarmi, l’indecisione dipinta sul suo volto mentre si mordeva un labbro, forse mentre vagliava le varie battutine acide del suo repertorio da piaga della società.
“Se non hai altri commenti, io avrei di meglio da fare” conclusi, prima di lanciargli un ultima occhiata tagliente e dirigermi verso l’uscita.
“Non mi è dispiaciuto vederti”.

 
See ya,
Ace.


 
  
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