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Autore: Marlene Ludovikovna    13/12/2013    4 recensioni
1943 - Parigi
Ester Stradsberg; the Swan. Giovane, bella e annoiata moglie di un ricco imprenditore. Ciò che più vuole é la libertà di disinteressarsi a tutto.
Hans Wesemann; the Hunter. Spietato Colonnello delle SS, la sua giacca e ornata da medaglie e i suoi occhi mostrano solo ghiaccio.
Emilie Kaltenbatch; the Hawk. Giovane pittrice pronta a tutto per sfondare e dagli istinti creativi repressi a causa della dittatura a cui sottostà il suo paese. Affascinante, crudele, ambiziosa e, per tutti, indimenticabile.
Jean Russeau; the Treacherous. Ricco, bello ed egocentrico è il re della vita mondana parigina. Ereditiere di un'immensa fortuna dedito al lusso e all'amore per se stesso.
Delle vite vissute a metà come se aspettassero di essere esaurite, così cariche di emozioni e prive di valori da essere memorabili. Anime distrutte al centro della ricchezza, della miseria e della follia. Vite distrutte dallo sfarzo del Terzo Reich.
Genere: Angst, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
Capitoli:
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Spring: Part 8


Il successo di Emilie Kaltenbatch inizò con un Requiem. 
La morte improvvisa dei possibili eredi della fortuna familiare rese Emilie l'unica possibile candidata.
Vennero incolpati degli anarchici per il delitto, ma la cosa risultò abbastanza ambigua. Emilie fu sinceramente lieta che la farsa stesse andando bene, ma era dominata da una profonda inquietudine, nel profondo di sé. 
La sua famiglia era sempre stata fortemente simpatizzante alle teorie nazifasciste e si era sempre sentita così sola, rinchiusa nella sua stanza a leggere tutti quei libri proibiti come una piccola e patetica adolescente incompresa. O almeno lei si sentiva così, ma la sensazione di benessere quando sentiva di avere ragione su qualcosa nonostante tutti dicessero il contrario la rendeva viva. 
La rendeva viva anche ascoltare lo swing, sempre nella sua camera, fingendo che quelle stupide bambole appoggiate alle mensole le piacessero. 
Si sentiva oppressa dalla sua famiglia, che avrebbe venduto l'anima al diavolo pur di apparire bene e che continuava a bacchettarla parlando di buone maniere. Sentiva sempre il desiderio di avere dei momenti di sfogo e per un po' li aveva trovati, ma poi tutto era finito. 
Adesso quella sensazione magica gliela aveva fatta provare Jean, rendendo vivido il pensiero che da sempre, fino ad allora non si era concessa.                                                                                                                                                                                                                                                     
Ricordava i ricatti di Leon e l'indifferenza di Christiane, sempre presa dal suo amore non ricambiato per un giovane soldato. In questo Ester gliela ricordava molto. Lei cercava sempre di apparirle più vicina possibile. Una brava ragazza al servizio della sua nazione. Il ricordo che aveva di lei era quello della ragazzina bionda con la divisa della Bund Deutscher Madel e le treccine. 
Quella che leggeva poesie in onore del suo Fuhrer e che era sempre la prima quando si trattava di onorare la sua nazione senza mostrare una vera opinione. 
Effettivamente non esprimere un'opinione significativa era più semplice rispetto alla continua lotta interiore di Emilie, che adesso si sentiva con il fiato del Colonnello Wesemann e piena di sentimenti contrastanti dentro di sé. 
Cercava di regalarsi dei momenti di pace quando si rinchiudeva nella stanza degli ospiti senza nessuno a disturbarla, solo se stessa, sdraiata sul letto a leggere o a fare qualcos'altro. 
Adesso poteva ammettere con se stessa ciò che aveva fatto. Aveva commissionato l'omicidio della sua famiglia per ottenere soldi, fama, libertà. Prima aveva pensato che probabilmente poi si sarebbe sentita in colpa, ma adesso era completamente consapevole della forza del falco che era dentro di lei. Ora conosceva pienamente il suo senso di ambizione che prima era inesplorato o esplorato solo in parte. 
Fu in questi giorni di lutto prima del funerale che ideò quello che sarebbe dovuto essere il suo quadro migliore. 
Prima d'allora si era accinta a dipingere paesaggi, nature morte e un'infinità di quadri propagandistici per il Reich. I suoi genitori probabilmente non avrebbero mai accettato l'idea di una figlia artista ed era anche per questo motivo che la loro morte significava libertà. Volevano che diventasse una brava moglie, come voleva essere Christiane. 
 In quei giorni di lutto e compatimento, Emilie sperimentò la felicità delle piccole cose. Del tè a tutte le ore del giorno, dei libri, della solitudine più totale anche se poteva udire gli urletti isterici di Emilie dall'altra parte della casa, ma il silenzio era quello presente nella sua mente che adesso era completamente libera da qualsiasi catena. Ci mise un po' a capire che non si trattava solamente della morte dei genitori, ma anche dalla frase sussurrata in biblioteca. Questa volta non era stata distrutta dalla mondaneità e ciò non sarebbe successo, per questo sentiva il desiderio di vedere Jean. Era anche suo il merito della quasi indipendenza che provava in quel momento. 
Poté anche interrogarsi su cosa fosse l'amore. L'amore non era quello di Ester per Wolfgang, quella era la devozione che una bambina inconsapevole prova nei confronti di colui che la salva dal lupo cattivo e l'amore non era nemmeno quel sentimento eroico che veniva descritto nei libri. Emilie si sentì indifferente nell'accorgersi che l'amore più intenso che provava era quello per se stessa. E quell'amore le aveva impedito di concedersi ad un uomo che non fosse egoista quanto lei. Ma ancora non capiva cosa quel sentimento implicasse davvero. 
L'unica certezza in quel momento era la morte, ma ciò non toglieva che dovesse incontrare Jean. Provava sentimenti ambigui e indistinti nei confronti dell'uomo che con la sua distinta seduzione l'aveva costretta a pronunciare le parole che voleva dire da tempo. 
Ester non disse nulla quando Emilie uscì di casa per andare chissà dove con la scusa di fare due passi. 
Aveva telegrafato Jean poco prima e si sarebbero visti al caffè La Clarisse.
Lei si era vestita completamente di nero, come si usava per mostrare il lutto e una veletta rendeva ancora più misterioso il suo sguardo intenso. 
Lo intravide appena fuori dal caffè con le mani in tasca e un mezzo sorriso. 
Apprezzo il tuo sostegno morale. Commentò Emilie dopo i saluti. 
Lui rise. 
Senti, mademoiselle, questo bar è pieno di nazisti e sinceramente non vorrei che ti sfuggisse di nuovo una certa parolina... Insomma non in mia presenza. 
Ovvio. Tu pensi che io volessi davvero venire qui? L'ho fatto solamente perché mia cugina si fida solo a lasciarmi andare accompagnata dalla Gestapo... Ha paura che io svenga o che mi suicidi in mezzo alla strada. 
Ah, premurosa la cuginetta. Rise lui accendendosi una sigaretta. 
Vuoi? Aggiunse poi. 
Emilie sorrise provando la calma e allo stesso tempo l'eccitazione che avvertiva solamente immergendosi tra le pagine di un buon libro. 
Jean le accese la sigaretta. 
Mercì. Disse lei aspirando appoggiata al muro con la schiena. 
Lui si voltò verso il bar. 
Allora, mia mademoiselle in nero, per dove ci avviamo? Domandò con tono intraprendente. 
Per ora non ho preferenze, scegli tu. 
D'accordo, andiamo. Disse lui incamminandosi con il suo fare disinvolto.
Jean Russeau e Emilie Kaltenbatch in quel momento divennero padroni del centro storico di Parigi. I soldati nazisti venivano eliminati dal loro subconscio, perché sarebbe stato come vedere continui difetti in un quadro. 
I miei complimenti. Disse lui all'improvviso, afferrandole entrambe le mani. 
Si bloccarono. Non importavano i soldati; Emilie era certa di voler vivere appieno il suo egoismo, come aveva fatto nella biblioteca, perché non esisteva nulla di più piacevole di esplorare i sentimenti che le erano stati negati. 
È stata la messa in scena più convincente che io abbia mai visto e il piano più geniale, non sto scherzando. Sei una SS mancata. Quella triste battuta non era fatta con cattiveria, ma solo con la dolce amarezza delle foglie di un tè scadente.  
Emilie si sentì completamente piena, non contava nulla per lei se non la sua felicità personale e Jean in quel momento poté dargliela. 
Fu lei a travolgere le sue labbra, con amore, con passione. 
Fu lui a ricambiare quel bacio intenso come può esserlo solamente un sentimento d'odio oppure qualcosa di totalmente contrario. 
La morte fu galeotto per Emilie e Jean che inconsapevoli continuavano a baciarsi bloccando il passaggio. 
Poi si staccarono e ripresero a camminare come se nulla fosse, come se Parigi fosse la stessa di com'era prima dell'occupazione. 
Avrei tanto voluto che la vedessi, era così... Viva. Disse poi Jean. 
Emilie restò per un po' a guardarlo in silenzio. 
Allora perché indossi quella spilla? Non ti fa schifo guardarti allo specchio ogni mattina? Sei un collaborazionista, Russeau. 
Jean non riuscì a decifrare subito l'aggressività di Emilie, ma ne rimase irritato. Quelle erano cose che diceva a se stesso e la propria immagine a volte lo disgustava, ma lei metteva a nudo quei sentimenti di ripudio come se fossero nascosti semplicemente da un leggero e sottilissimo velo. 
Lo denudava umiliandolo, per poi restare indenne. 
Tu porti la stessa spilla, Kaltenbatch. Rispose lui, non sentendosi volenteroso nel baciarla dopo quella aggressione. 
Emilie rise. Siete un vigliacco. 
Era così carina mentre lo diceva, così carina e così crudele. Jean la percepì come la sua punizione dopo la gente finita male per colpa sua, ma non si sarebbe mai aspettato che la sua punizione avesse le sue fattezze di stupenda imperfezione. 
Forse lo sono, sai? Ma cosa conta l'onore quando al mondo non importa? 
Lei si sentì scaldare il cuore da quelle parole così vere, sincere. Fuori da qualsiasi idillio di perfezione, perché il mondo era imperfetto e sarebbe sempre stato tale. 
Emilie si avvicinò a lui, alzando un po' lo sguardo in modo che i loro sguardi si incrociassero. 
Niente. L'onore non conta assolutamente niente. Disse lei sorridendo. 
Un'altro bacio, per un'altra pagina della loro filosofia personale che stavano scrivendo insieme. 
Portami a casa tua! Urlò lei all'improvviso. 
Oh, sì! Di sicuro lì non ci saranno nazisti. Esclamò lui con ilarità.
Emilie rise di cuore. 
  La morte era solo l'inizio di tantissime altre vite, pensò.  

La casa si apriva in due larghe scale appena cerate su cui era posato un tappeto bordeaux. 
Tutto per Emilie era l'emblema del desiderio, dell'oro, della ricchezza immorale che non voleva nascondersi dietro ad un concetto nazionalistico d'onore. E Jean che correva su per quelle scale, come per dire seguimi, vieni con me. 
E lei avrebbe detto si. Sì, lo voglio. 
Jean afferrò il suo braccio, sorreggendola nel mentre le sue labbra venivano aggredite da un sensuale bacio. 
Fammi vedere tutta la casa, Jean. Voglio vederla. Disse lei con voce limpida.  
Lui sorrise. Va bene, la vedrai. 
E così si avviavano per quella casa enorme e vuota, con pochissima servitù. Solo loro e i corridoi. Le pareti erano abbellite da quadri, talvolta si potevano notare opere d'arte. E ciò era fantastico, perché Emilie amava l'arte, amava come l'essere umano potesse esprimersi mostrando completamente il suo Io. 
Visitarono ogni stanza, anche la biblioteca, ma da decisero inconsciamente che questa volta non sarebbe avvenuto lì uscendo dalla stanza. 
Entrambi parlarono poco, limitandosi a qualche frase spezzata a qualche sospiro. 
 La camera da letto di Jean Russeau, in cui poco prima dormiva anche Ginet era magnifica. Il letto matrimoniale era stato rifatto alla perfezione, avevano addirittura cosparso dei petali di rosa rossa sopra il copriletto.
Emilie cadde sul letto sospesa in una dimensione ovattata, in cui gli unici suoni erano le sue risa e i respiri di Jean. Poi si destò e tutto era troppo realistico, troppo magnifico. 
Si tolse la veletta e le dita attorno ad essa si schiusero fino a farla cadere a terra. 
Jean le sorresse la testa, afferrandole i capelli, ma senza farle troppo male. 
Emilie Kaltenbatch era per la prima volta era succube di qualcuno per sua volontà e quel qualcuno era sopra di lei e le stava slacciando il vestito. 
Sei la donna in lutto più bella ch'io abbia mai visto, Kaltenbatch. Sussurrò con le labbra appoggiate alla sua pelle liscia. 
Lei sorrise debolmente, troppo presa dal momento per riflettere appieno sulla situazione. 
Si lasciò di nuovo cadere all'indietro, sprofondando nel materasso, tra i petali di rosa. 
Jean colse del momento, per seguirla negli ondeggiamenti del suo corpo. Le sue curve vennero rimodellate dal tatto di lui, dai baci leggeri e poi più passionali. 
  Jean si bloccò a guardarla dritto negli occhi.
Tu mi vuoi. Disse; non era una domanda. 
Emilie restò per un po' con la bocca semiaperta e gli occhi spalancati.
Io... Ti... Voglio. Pronunciò ansimando. 
Ti voglio, non ti amo. Era quello il loro tocco di classe. 
E Emilie riuscì ad apprezzare ogni singolo istante di quella loro riscoperta di sè, un viaggio magnifico che potevano condurre insieme. 
Era un crescendo d'adrenalina, di passione. Tutte contenute in una stanza che dava verso Parigi; Emilie era certa che lì avrebbe trovato fortuna e adesso pensando ai genitori morti non si sentì più così in colpa, come spesso si sentiva. 
Per la prima volta, tra le braccia di Jean e tra quelle del destino in cui tanto credeva sentì di aver individuato davvero i nazisti come nemico. Erano il nemico e in quanto tale andavano eliminati. Ma sì, lo ammetteva a se stessa che si era venduta pur di ottenere più fama e nemmeno se ne vergognava. 
Ora che il nemico era chiaro, però, i sensi di colpa erano qualcosa che non avrebbe potuto nemmeno sfiorarla da quanto erano lontani. 
E questo l'amore! Urlò al culmine del suo piacere. 
Poi le spinte di Jean smisero e i due restarono sdraiati sul letto. 
Questo è volere, Emilie. E se vuoi una cosa... - venne scosso da un gemito - ... Te la prendi. Disse lui. Aveva uno strano scintillio negli occhi che Emilie identificò con ambizione. 
Lui afferrò una manciata di petali e gliela fece cadere dolcemente sul viso. 
Emilie sorrideva allegra, come si sentiva raramente. 
Lei gli afferrò il viso e lo baciò ancora, poi Jean si alzò per azionare il grammofono. 
Una commerciale canzone tedesca che non significava niente. Uno di quei motivetti allegri che si sentono nei bar, cantato da Willy Fritsch e Lillian Harvey. 
Anche Emilie si alzò. 
Questa canzone è completamente stupida, la detesto. Disse. 
Oh, anch'io... Però tu mi devi un ballo. Rise lui mettendole una mano sul fianco in questa intimità nuova per Emilie. Quei gesti con lui non erano cortesia, erano veri. 
Va bene, balliamo. Accordò lei improvvisando una piroetta. 
Risero avvolti dalla musica, mentre dall'altra parte della città nello stesso preciso momento un auto nera si fermava sotto la casa degli Stradsberg.

 

Angolo Autrice:

Oh, bien sono finalmente riuscita a pubblicare! YAY. *^*
In questo capitolo c'è ancora tanta tanta tanta Jemilie, ma state sicuri che nel prossimo ci sarà molta Hanster.
Spero che io stia riuscendo a portare avanti bene la storia rendendo credibile l'epoca storica e i personaggi. Specialmente in questo capitolo in cui inizio ad esplorare un lato più infido e contorto della personalità di Emilie. Quella di ragazza egoista, ironica e molto intensa. Voglio rendere umani i miei pesonaggi e spero tanto che io ci stia riuscendo.
Il prossimo capitolo sarà di Ester, perché mi sento in colpa a darle così poco spazio AAHHA. 
Un grazie a tutti coloro che stanno seguendo la storia.
Auf wiedersehen;

Marlene
   
 
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