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Autore: ___Ace    14/12/2013    5 recensioni
“Non è serata, Evidenziatore, torna un’altra volta”.
Osservai quell’energumeno che avevo avuto la sfortuna di incontrare: i capelli in disordine e un orrendo paio di occhiali con le lenti spesse era appoggiato sulla fronte, tenendo quei ciuffi rosso vermiglio alzati verso l’alto; la maglia sporca di nero, pantaloni neri, scarponi neri. Praticamente avevo davanti a me l’Uomo Nero in persona.
Avrebbe potuto spaventare i mocciosi qui intorno.
*
Ecco, lui sembrava infiammato. Costantemente. Sembrava sempre avere qualcosa da dire, da fare o da vedere; non stava mai fermo e si muoveva in continuazione; a volte sembrava calmarsi ed essere colto da un’improvvisa quiete e sonnolenza, ma si riprendeva subito dopo; adorava i fuochi d’artificio e il fuoco lo affascinava. Diceva che era caldo, e quindi apprezzato dalle persone, ma allo stesso tempo temuto perché poteva bruciare e fare del male. Questi aspetti contrastanti gli piacevano immensamente, tanto da suscitare anche la mia curiosità e facendo si che, ogni volta che passava, mi ritrovassi chino sul bancone ad ascoltare le sue stramberie per nulla annoiato.
Ace era certamente così: bello, scoppiettante e caldo. Era il fuoco.
*
Kidd/Law. Ace/Marco. Penguin/Killer. Accenni Zoro/Nami.
Genere: Fluff, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eustass Kidd, Marco, Portuguese D. Ace, Trafalgar Law, Un po' tutti | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 11.
Forse potevo davvero essere forte e senza paura

Dunque è così che stanno le cose? E tutto l’entusiasmo di pochi giorni fa, che fine ha fatto? Non avevamo deciso di fronteggiarci e spaccarci la faccia a suon di pugni, sbucciarci le mani a furia di colpirci e stramazzare al suolo sfiniti e senza un vero vincitore? Dove sono finite tutte quelle chiacchiere sul fatto di vedere chi é il migliore? Sparite tutte in un istante davanti ad un boccale di birra e ad un doppio cheeseburger? Sul serio, ragazzi? Magnifico, davvero magnifico. E io che speravo di sfogare la tensione con della sana competizione.
Fissavo annoiato e leggermente seccato come, davanti ai miei occhi e sotto il mio sguardo disgustato, Rufy stesse animatamente divorando il suo terzo panino con tanto appetito da farmi venire il sospetto che il suo intestino non avesse affatto fine o una capacità massima da rispettare. Ingeriva tutto, tutto. E ancora aveva il coraggio di chiedere al cameriere un’altra porzione e guai a chi provava a rubargli il cibo dal piatto!
Accanto a lui, Ace era a un passo dall’imitarlo e iniziare ad ingozzarsi come un pazzo da un momento all’altro, assecondando la caratteristica principale della loro famiglia, attirando curiosi che piazzavano scommesse su quanto avrebbero resistito prima di sentirsi male e finire all’ospedale per intossicazione o gastroenterite, diabete e quant’altro. Sciocchezze, quei due avevano uno stomaco di ferro e nulla poteva scalfirlo, nemmeno una bomba.
Sospirai rassegnato, calcandomi il cappuccio della felpa nera e anonima in testa nel tentativo di eclissarmi perché quella era una situazione estremamente imbarazzante e superava il limite del normale. Mi premurai anche di spostare la sedia un po’ più lontano dai due fratelli ingordi, lasciando che Robin si divertisse a fotografarli di tanto in tanto, abituata a vedere quello scempio e non stupendosi più davanti a certe scene. Era troppo persino per loro che di figure di merda ne facevano a palate e certo, anche io avevo contribuito a volte, ma adesso esageravano.
E gli altri. Gli altri!

Oppa Gangnam Style. Gangnam Style.

Perché dovevano mettersi a ballare Gangnam Style sopra al bancone del bar? Con i baristi che, invece di essere sconcertati e cacciarli a calci, li lasciavano fare perché i clienti sembravano apprezzare lo spettacolo e li incitavano a continuare. C’era la pista con le casse, l’impianto stereo, le luci, una console e tanta gente sudata, ubriaca e sballata che ne faceva buon uso. Allora, perché esibirsi in quel modo, quando potevano mischiarsi con il resto dei presenti? E senza nemmeno essere sbronzi!
Usopp, Chopper, quel piccoletto perdeva la testa quando beveva e faceva qualunque cosa gli venisse proposta, Bepo e Brook stavano imitando, piuttosto bene anche, quello stupido balletto che ultimamente stava spopolando in giro, mentre le note della canzone avevano raggiunto fama internazionale. Saltellavano sul legno del banco, muovendo le braccia a ritmo prima davanti a loro e poi in aria, assumendo pose assurde e ridendo come pazzi senza la minima vergogna.
Non li conosco. Non li conosco, mi ripetevo come un mantra. Perché devono fare queste scenate? Uno con un cappello a forma di renna in testa, l’altro con le bretelle ai pantaloni, un altro con i capelli afro e… Bepo, Dio mio, come ti sei ridotto!
In pista, invece, Sanji stava dando il meglio di sé ballando sopra ad uno dei cubi posti ai lati dell’enorme e sofisticata console, facendo roteare sopra ala sua testa la giacca nera che si era tolto e venendo accerchiato da un gruppetto di ragazze che gli giravano attorno come facevano le api con i fiori. Mandava baci a destra e a sinistra, felice come un bambino a cui viene fatto il regalo più bello del mondo. Ai miei occhi, invece, sembrava solo un damerino con la testa in mezzo alle gambe, pazienza che sapesse cucinare divinamente.
Al contrario di lui, Zoro era un tipo più serio e meno espansivo, almeno fino a quando non alzava il gomito, cosa in cui era un vero maestro, e si metteva a bisticciare con la sua compagna fissa di bevute con la quale era meglio non avere debiti. Lui e Nami erano seduti al bar proprio sotto ai loro amici ballerini ed erano impegnati a bere, incuranti degli sguardi stupiti dei presenti che non credevano possibile che una donna riuscisse a resistere così tanto dopo una serie infinita di shots, bicchierini, boccali e fiumi di alcool. Giù di schiena, un bicchiere dietro l’altro mentre osservavano la scena davanti a loro e si reggevano la pancia per le risate. I visi arrossati e le lacrime agli occhi. Zoro provava a ripetere le parole della canzone, ma finiva per ingarbugliarsi e scoppiare a ridere nel bel mezzo della frase, provocando altra ilarità e facendo mancare il fiato a Nami. Se c’era qualcuno capace di reggere gli alcolici senza svenire, vomitare o andare in coma, quelli erano loro due.
Quella non è una femmina, ma una spugna e lui una botte.
Mi guardai attorno di nuovo, ignorando meglio che potevo le due teste vuote che non facevano altro che masticare e indicare i loro amici sparsi per il locale, ridendo di tanto in tanto e mantenendo quell’aria allegra e spensierata che sempre li caratterizzava. Erano riusciti a contagiare persino Bepo, il quale non mi abbandonava mai e non si lasciava andare troppo alle distrazioni, mantenendo sempre un’aria composta, anche se sorridente. Purtroppo quella sera avevo perso pure lui. Non sapevo come, ma aveva iniziato a bere sempre di più, ascoltando le stronzate che gli rifilava Penguin sul fatto che gli sarebbero bastati quattro passi all’aria aperta per sentirsi meglio; invece, il bastardo lo sapeva e lo aveva fatto apposta, non era affatto vero. Così aveva messo nel sacco il povero ragazzo albino e se l’era trascinato dietro, lasciandolo in balia della confusione e facendolo montare sopra quel bancone assieme a quegli sconsiderati senza un minimo di rispetto per la loro reputazione.
Fu quando lo vidi muovere il bacino avanti e indietro che capii che la stima che nutrivo per lui era appena andata perduta, evaporata in meno di un secondo.
Mi schiaffai una mano sul volto per non guardare oltre quello scempio. Quel poveretto si sarebbe ritrovato il giorno dopo a dover fare i conti con un’amnesia da dopo sbornia ed io non avevo intenzione di essere presente quando avrebbe ricordato tutto, sentendosi morire per i gesti compiuti. Non sembrava, ma era parecchio timido e pudico, il signorino.
Altro che orsetto adorabile come dicono Nami e Robin, è diventato un maniaco!
Sbirciai tra le dita per assicurarmi che quello strazio fosse giunto a termine non appena la canzone toccava le ultime note, ma mi sbagliavo di grosso se credevo che avessero smesso solo per farmi un piacere. Come a volersi prendere gioco di me, nessuno smise di fare quello che stava facendo e, partito un nuovo brano, tutti ripresero da dove avevano lasciato, ballando, bevendo e mangiando.
Erano una causa persa, ormai, dovevo farmene una ragione. Quella serata sarebbe scivolata via così, nel divertimento, e nessuno avrebbe fatto a botte o rovinato l’atmosfera con litigi inutili. Un po’ ero contento, almeno mi sarei risparmiato una perdita di tempo e una scocciatura per sopportare l’eccitazione di Rufy e le sparate colossali di Eustass-ya.
A proposito, che fine aveva fatto quello stronzo?
Il luogo dove avevamo deciso di ritrovarci quella sera era il famoso Moby Dick, gestito da una delle famiglie più ricche e potenti della città, nonché di proprietà del sindaco, il Signor Edward Newgate. Un brav’uomo, assolutamente, ma forse un po’ troppo festaiolo. Si diceva che aveva avuto molti figli, alcuni anche adottati, e che fosse di animo buono e di cuore e gentile, interessato ai problemi della città e vicino ai cittadini. Nessuno lo metteva in dubbio e tutti lo amavano e rispettavano per questo.
All’interno sembrava di essere catapultati nella nave di un pirata: pareti e pavimenti rivestite da assi in legno scuro o chiaro, spesso e ben lucidato; tavoli massicci come le sedie e lunghe panche per chi decidesse di festeggiare in compagnia; quadri, ritratti, oggetti antichi, reperti storici di tutti i tipi erano appesi alle pareti e un’ancora vera e piuttosto grande faceva la sua bella figura davanti all’entrata, accogliendo i visitatori. Si divideva, inoltre, in due parti: una adibita e organizzata per servire da mangiare e l’altra, ampia e capace di contenere un gran numero di persone, era stata trasformata in una discoteca a tutti gli effetti.
Data la grandezza del Moby Dick e capendo che standomene seduto al tavolo con quei tre non avrei risolto niente e avrei rischiato di essere riconosciuto da qualcuno, decisi che era meglio dileguarsi finché ero in tempo e, magari, trovare un posticino tranquillo e isolato dall’altra parte del banco bar, lontano da dove quegli idioti si stavano esibendo facendo andare di traverso i drink a quelli che se li ritrovavano davanti al naso.
Alzandomi di tutta fretta e avvisando Robin che andavo a farmi un giro, approfittai per lanciare qualche occhiata nei dintorni, alla ricerca di tre persone che non vedevo da un po’ e che mi facevano stare in pensiero, conoscendo la loro natura scatenata.
Appena eravamo arrivati, incontrandoci tutti nel parcheggio del locale a qualche centinaio di metri di distanza, la situazione non si era prospettata delle migliori. Questo perché, non appena avevo messo piede fuori dall’auto, quella di Ace per la precisione, non avevo nemmeno avuto il tempo di alzare la testa e salutare tutti che mi ero sentito strattonare per il bavero del cappotto, ritrovandomi un paio di occhi infuocati a fissarmi e a rimproverarmi silenziosamente, mentre una serie di imprecazioni facevano da sottofondo a quello che quello sguardo voleva veramente dirmi.
Con calma e non senza un certo fastidio avevo afferrato il polso che mi teneva addossato alla fiancata dell’auto e me l’ero scostato di dosso poco dopo, raddrizzando le spalle e fronteggiando quella massa di capelli fulvi dai quali spuntavano un paio di occhialoni con le lenti spesse adagiati sopra ad una fascia nera.
E poi quello con problemi esistenziali sarei io, avevo pensato, ricordando per un momento le ramanzine di Bepo sul fatto che non mangiassi regolarmente. Era un aspetto che si poteva curare, il mio, il suo cattivo gusto nel vestire, invece, no.
Davanti a me, come mi ero aspettato, c’era quell’invasato di Kidd il quale, per la prima volta, aveva tutte le ragioni per essere incazzato o offeso con me, anche se, per quanto mi riguardava, non era un problema mio.
Non ero obbligato a fare niente e nessuno si poteva permettere di dirmi come essere.
Per cui non mi sentivo in colpa a non aver colto il suo invito, rifilatomi dal professore di anatomia quel lunedì scorso, quando aveva deciso di sconvolgere l’equilibrio delicato della mia già instabile vita, venendo a salutarmi all’università.
Rufy l’aveva fatto altre volte e, quando accadeva, non mi dispiaceva. Mi faceva sempre piacere quando i miei compagni di classe rimanevano a guardare quell’idiota che non faceva altro che ingozzarsi e parlare come stava facendo a tavola in quell’esatto momento.
Ma, quando mi aveva indicato la porta, facendomi notare che non era solo e che con lui c’era qualcun altro, qualcuno di impensabile e con una faccia che rivelava che avrebbe preferito essere sotterrato all’istante, piuttosto che trovarsi lì, per un attimo non ci avevo creduto ed ero rimasto a guardarlo, incapace di capire per quale assurdo motivo fosse venuto anche lui. Non lo aveva mai fatto, il patto non lo prevedeva. O ero solo io a insistere nel voler mettere un freno a tutto?
Lui non era esattamente il tipo che prendeva decisioni del genere, non faceva visite di cortesia, preferiva scopare e basta e a me stava bene. Niente contatti, niente legami, liberi di fare ciò che volevamo.
Perché allora le cose stavano cambiando precipitosamente? Prima la cena e adesso pranzare insieme? No, non potevo permetterlo, era troppo.
Mi serviva del tempo per prendere le distanze e iniziare a non cercarlo, smettere di andare da lui, non accogliere i suoi inviti e evitare di starci assieme mi sembrava un buon inizio. Non mi ero semplicemente fatto sentire e l’avevo lasciato in pace, come volevo stare io. Per quel motivo era incazzato quella sera, era ovvio, chiunque lo sarebbe stato.
No invece, una persona a cui non fregava niente dell’altra non se la sarebbe mai presa, anzi, avrebbe fatto finta di nulla e lui, per quanto ne sapevo, non si lasciava coinvolgere da certe cose. Se ne fotteva altamente, non si abbassava a chieder spiegazioni, a parte quando i suoi piani andavano storti e finiva col non ottenere ciò che voleva. Eppure l’aveva presa male, ma male davvero.
Infatti mi aveva evitato tutto il resto del tempo, dandomi le spalle nel parcheggio, stando in compagnia di quei ragazzini che sembrava voler sopprimere ogni volta che li incontrava, spaventandoli in un primo momento, ma venendo poi accettato, preso in considerazione e introdotto nei loro argomenti. Era arrivato persino, anche se con i suoi soliti modi da psicopatico che ce l’ha col mondo, a parlare con Penguin, persona che, da quel che avevo capito, non gli andava a genio per ragioni a me non chiare.
Solo una volta avevo provato a cercare il suo sguardo per capire cosa gli passasse per la testa e, vedendo come mi evitava, come sembrava interessato alle chiacchiere di chi gli stava vicino, quando invece, ci avrei giurato, non gliene fregava un emerito cazzo, lasciai perdere e non ci provai più. Era stato già abbastanza difficile abbassarsi a trovare un contatto, figuriamoci tentare di nuovo. Io non ero di certo una persona che si sbatteva troppo per gli altri. Se voleva tenere il broncio come i bambini affari suoi, io non avevo nessun tipo di obbligo nei suoi confronti e se avevo deciso di starmene a casa tutta la settimana senza passare da lui per una misera e squallida scopata avevo tutto il diritto di farlo senza rendere conto a nessuno, tanto meno a lui. Cosa si aspettava da me? Eravamo stati chiari anche se non ne avevamo mai discusso apertamente: niente legami, niente appuntamenti, niente di niente. Solo sano sesso e poi ognuno per la sua strada.
Perché, allora, lui sembrava intenzionato a non rivolgermi la parola e io non avevo quasi toccato cibo, quando potevo approfittare del fatto che non cucinasse Penguin?
Ero rimasto a pensarci e ripensarci per tutta la cena, senza prestare attenzione al resto e, quando Killer aveva deciso di andarsi a sgranchire le gambe in pista, chiedendo chi avesse voglia di fare altrettanto, la testaccia rossa e il mio coinquilino erano stati i primi a dire di si e ad aggregarsi a lui, alzandosi da tavola e avviandosi verso la bolgia di gente che sembrava sprizzare energia da tutti i pori.
Affondai le mani nelle tasche dei jeans chiari che avevo indossato e mi diressi apparentemente tranquillo verso il bar, alla ricerca di qualche sgabello vuoto e rispondendo con un cenno di diniego al saluto di Zoro e all’invito di Nami ad unirmi a loro e agli innumerevoli brindisi che stavano facendo in onore di chissà cosa. Forse alla Divinità greca del vino e degli ubriaconi.
Alzando gli occhi al cielo superai i quattro ragazzi, grandi, vaccinati e coglioni, che si erano improvvisati ballerini e, per mio sconcerto e orrore, erano sulla strada giusta per fare anche da spogliarellisti, ma sperai si fermassero molto prima di levarsi anche solo i pantaloni. Lasciatimeli alle spalle sondai il terreno, adocchiando poco lontano un posto libero, giusto al terminare del ripiano bar, isolato, senza nessuna presenza inquietante, pericolosa o troppo ubriaca vicino.
Mi lasciai cadere con un sospiro stanco sullo sgabello, appollaiandomi sopra ad esso e stringendomi nelle spalle, iniziando a fissare le nervature del legno d’ebano con il quale era stato fatto il bancone, notando come qualche piccolo delinquente ci aveva inciso un nome, una data o altre sciocchezze simili.

I've been up in the Air, out of my head. Stuck in a moment of emotion I've destroyed. Is this the end I feel?

Ordinai qualcosa da bere, non troppo forte, ma nemmeno tanto leggera. Se volevo arrivare ad alleggerire il peso sullo stomaco, liberare la mente e sorridere come un deficiente dovevo pur iniziare da qualcosa, e quello di ubriacarmi era il modo migliore e meno dannoso che conoscevo per dimenticare un po’ di problemi e buttare nel cesso il senso di oppressione che provavo.
Che m’importa se è incazzato, continuavo a pensare, sperando di auto convincermi che stavo facendo la cosa giusta. Quante persone mi detestano per vari e inutili motivi? Tante, e allora? Una in più deve per forza fare la differenza? Non penso proprio. Io non gli devo niente, tantomeno delle scuse! Figuriamoci poi, non mi sognerei mai di fargliele. A uno come lui nemmeno morto, mi amputo una mano piuttosto che passare il resto dei miei giorni a sentirmi rinfacciare il fatto di aver ceduto.
Il drink arrivò veloce e altrettanto velocemente finì giù per la mia gola, infiammandomi e dandomi una scossa lungo tutto il corpo. Ecco cosa ci voleva, un altro paio di bicchierini e tutto si sarebbe sistemato, per il momento almeno, permettendomi di rilassarmi un po’ e mandare a fanculo i miei problemi. Quella sera si stavano divertendo tutti, perché io non potevo lasciarmi alle spalle il mio personale casino e fare lo stesso? Non ero costretto a rovinarmi l’umore solo perché avevo preso la decisione migliore per me stesso.
Appoggiai il bicchiere sul bancone e mi voltai verso la pista, senza sapere bene dove guardare, vedendo che Sanji non si era mosso da dove l’avevo mollato l’ultima volta e che le ragazze erano aumentate, così come i giovani che avevano deciso di iniziare a ballare e saltare come canguri, urlando a squarciagola.

Tonight, we are young! So let's set the world on fire, we can burn brighter than the sun!
Woooaaah!

Guarda dov’è finito quell’essere.
Mi sentii quasi sollevato nell’inquadrare il cappello di Penguin aggirarsi sopra alla passerella improvvisata con i tavoli ai lati della sala, illuminato a intermittenza da luci colorate, soffuse, bianche e nere, mentre una sfera stroboscopica simile alla luna girava sopra a tutte quelle teste.
Si stava divertendo parecchio a giudicare dall’espressione che sfoggiava e, dopo qualche minuto che lo osservavo, mi accorsi che non era da solo nell’incitare la folla ad agitarsi sempre di più. Ad aiutarlo c’era Killer-ya con una massa di capelli biondi che ondeggiavano in tutte le direzioni, ricadendogli sugli occhi e coprendogli più volte la faccia esaltata e divertita. Rimasi a fissali mentre, con qualche sforzo, attiravano l’attenzione del cuoco situato dall’altro lato rispetto a loro e lo invitavano a raggiungerli, venendo esauditi dopo poco. Ora erano in tre a darci dentro, facendo segno al dj di alzare il volume e continuare a fare il suo mestiere, volgendo le braccia verso il soffitto, saltando e cercando di parlare tra loro mettendo una mano al lato della bocca per riuscire sovrastare tutto quel chiasso.
Perché dovessero mettersi sempre in mostra non lo capivo, ma almeno loro non erano caduti così in basso come gli altri quattro al bar. Diedi le spalle alla zona discoteca e mi arrischiai a guardare verso il bancone, pentendomene subito dopo quando scoprii che a fare altra scena si era aggiunto pure Rufy.
Ora la banda di idioti è al completo, pensai sarcastico, bevendo un altro sorso e fissandoli in malo modo.
Cominciavo a sentirmi più leggero, ma non bastava. Mi serviva un altro giro, al massimo due, per essere sicuro di essere sulla strada giusta. Non ero ai livelli di Nami e Zoro, ma sapevo reggerlo anche io l’alcool e di certo un paio di bicchieri non erano sufficienti a stendermi. Per quello ci voleva ben altro.
Certo, magari qualcuno che offre per tutti e la giusta compagnia. Un paio di risate, qualche drink più pesante, poi birra, ancora superalcolici, altra birra e il gioco è fatto. Fatto e strafatto, tanto da non ricordare nemmeno come si cammina e chi si ha davanti, finendo col commettere un errore madornale dietro l’altro e andare a letto con…
«Fammi spazio, stronzo».
«Eustass Kidd» mormorai, quasi sorridendo nel sentire lo sgabello accanto al mio spostarsi bruscamente e ricevendo una gomitata dritta sul fianco, fatta per incitarmi a spingermi più in là e lasciare spazio al corpo robusto del ragazzo alto due metri che sembrava aver appena deciso di ricordarsi che esistevo.
Giocherellando col bicchiere che tenevo tra le mani voltai di poco la testa e lo osservai mentre si ordinava da bere una vodka liscia.
Aveva i capelli scompigliati, tanto che, dato il loro insolito colore, sembravano prendere fuoco, ed era in maniche corte. Probabilmente veniva dalla pista dove era stato a saltare come un marsupiale dell’Australia assieme al resto dei decerebrati senza neuroni che continuavano indisturbati la in mezzo. Il petto si alzava e abbassava velocemente, calmandosi via via che i minuti passavano e un ginocchio fasciato da un paio di jeans scuri fremeva a ritmo della musica.
Era difficile e altrettanto strano immaginarsi quell’essere mentre ballava. Più ci provavo, più mi sembrava bizzarro e impossibile, eppure il suo aspetto parlava chiaro, nonché la sete che aveva visto e considerato che si scolò l’alcool in pochi secondi come se fosse acqua fresca.
Aggrottai le sopracciglia, rendendomi conto che non avrebbe mai smesso di stupirmi con la sua stramberia.
«Dì un po’, che cazzo te ne fai inchiodato qua?» domandò ad un tratto, mantenendo un tono distaccato e piuttosto scocciato, voltandosi però a guardarmi stranito, appoggiando un gomito al bancone e sostenendosi il capo con la mano.
«Bevo» fu la mia unica ed immediata risposta, mentre mi portavo alle labbra il bicchierino di vetro e lasciavo che le ultime gocce di rhm mi scivolassero sulla lingua. E quel gesto, per quanto mi riguardava, poteva interpretarlo come voleva, ma era dato semplicemente per provocarlo.
Eustass Kidd era una persona semplice sotto un certo punto di vista. Se qualcuno non faceva come diceva lui, si incazzava e riempiva di cazzotti la suddetta persona. Aveva difficoltà a relazionarsi con la gente comune e sembrava odiare chiunque si dimostrasse capace di tenergli testa ma, allo stesso tempo, apprezzava l’impegno dell’avversario, volendolo comunque vedere morto. Aveva strane manie omicide, vero, ma a parte questo sembrava parecchio legato ai pochi amici che gli stavano intorno. Fino ad allora l’avevo visto andare d’accordo solo con Killer, se si escludevano gli insulti che a volte i due non si risparmiavano. Non sapevo se potevo considerarlo amico di Rufy e della nostra allegra combriccola, ma per il momento non si era rifiutato di deliziarci con la sua presenza durante le nostre uscite per cui avevo dedotto che, per quando potessimo stargli sulle scatole, sopportarci non era così difficile. Ad ogni modo, quando trovava un degno rivale, non perdeva occasione per attaccar briga e, non so se per mia fortuna o sfortuna, aveva deciso che io ero un degno grattacapo e meritavo la sua attenzione, in quanto moccioso viziato, chirurgo del cazzo, saccente e stronzo, appellativi che mi affibbiava spesso quando mi minacciava di morte.
C’erano solo due problemi: il primo era che, quando iniziava una guerra, non era contento fino a che non vinceva e distruggeva il suo avversario; il secondo, e questo riguardava la sua salute in primo piano, era che aveva scelto me come avversario. Scelta sbagliata che l’avrebbe condannato.
Perché anche io, quando qualcuno mi dava sui nervi, ero deciso a schiacciarlo. E non come faceva lui, no, molto peggio. Non serviva dare di matto per essere forti, nemmeno saper come tirare un pugno ben assestato. Per fare male bastavano e avanzavano le parole, l’arma peggiore che l’uomo aveva. Una frase poteva distruggere moralmente una persona e lui, per mio sommo divertimento, era uno che se la prendeva subito anche solo per un ghigno, figuriamoci quando iniziavo a parlare.
«Questo lo vedo anche io» abbaiò stizzito, ordinando una birra e spaventando un cameriere per il tono rabbioso in con cui lo disse.
«Preferiresti che ti dicessi che ho intenzione di esibirmi pure io sopra al bancone del bar?» gli chiesi allora, anche se la faccia schifata con cui mi espressi servì a fargli capire che non avevo la minima intenzione di rendermi ridicolo e fare una scenata del genere, al contrario di qualcuno di mia conoscenza.
«Non eri tu quello che si era spogliato davanti a tutti dopo aver bevuto come un bastardo?» mi sentii domandare allora, ritrovandomi davanti una faccia divertita e un sorriso malizioso quando mi voltai di scatto a guardarlo.
E lui come cazzo lo sa?
Roteai gli occhi nell’istante successivo, mentre mi rendevo conto dell’evidenza e la consapevolezza si faceva strada dentro di me. Eustass-ya veniva dalla pista e, di certo, era stato fino a poco prima in compagnia di quello sciagurato di Penguin e Dio solo aveva idea di che cosa quell’infame gli fosse andato a raccontare su di me e sulle nostre bravate.
«Penguin» sussurrai, notando come Kidd annuiva vivacemente. Avrei dovuto fare una chiacchierata a quattrocchi con il mio coinquilino e minacciarlo con le cattive, dato che non aveva ancora recepito il messaggio di non andare a raccontare in giro i fatti miei.
«Sai, Trafalgar, se decidessi di rifarlo, a me farebbe piacere» disse con noncuranza, marcando però l’ultima parte della frase per lasciarmi intendere dove voleva andare a parare. Non poteva riferirsi altro che a quello che gli avevo detto alla facoltà prima di salutarlo e rientrare in classe. Il mio primo e madornale errore in assoluto, dopo essermi risvegliato a casa sua e non essermene andato immediatamente, si intende.
Non volevo dirlo ad alta voce. Inizialmente avevo formulato tutto come un semplice pensiero, lasciandolo vagare a briglia sciolta nella mia mente, mettendomi poi nel sacco da solo. Avevo aperto la bocca e lasciato che quelle parole che mi ronzavano in testa da un po’ formassero un’affermazione di senso compiuto, raggiungendo il suo finissimo udito, cosa che funzionava solo quando gli faceva comodo, ovvero ogni volta che qualcuno dava l’impressione di voler condividere qualche informazione imbarazzante sul mio conto, informazioni che gli servivano per ribaltare la mia indifferente facciata da vincitore che tanto detestava. Avrebbe fatto di tutto per abbattermi.
Avevo parlato velocemente, esprimendomi in un modo incasinato, ma abbastanza spontaneo, chiaro e tondo da permettergli di riuscire a raccogliere ogni singola sillaba. Che altro avrei dovuto fare, quindi, se non togliermi subito da quell’impaccio? Allora la classe era stata la mia salvezza, ma quando il professore era entrato, avvisandomi che uno strano tizio dai capelli rossi mi aspettava per darmi ripetizioni quello stesso giorno, beh, avevo deciso che no, non gli avrei permesso di avermi a sua disposizione per sentirmi rinfacciare quello che mi ero pentito di aver detto e anche solo pensato subito dopo che il danno era stato fatto.
Ero salito al settimo cielo quando mi aveva offerto su un piatto d’argento la scusa per sfotterlo fino alla morte, dato che era venuto a trovarmi, di sua spontanea volontà come sosteneva Rufy, portandosi dietro il pranzo per farmi compagnia. Nulla di ciò era vero, lo immaginavo, ma ricamarci sopra lo avrebbe fatto incazzare ancora di più, rendendomi euforico nel vederlo rodersi il fegato.
E poi tutto era andato in fumo, rivoltandosi contro di me. Ma se pensava di avermi in pugno si sbagliava di grosso e gliel’avrei fatto capire in quell’esatto istante. Nessuno mi metteva i piedi in testa. Nessuno.
«Cosa stai insinuando, Eustass-ya?» feci calmo, sfoggiando la mia solita maschera pacata e intoccabile.
«Lo sai benissimo. O vuoi forse negare di aver detto, piuttosto chiaramente, che ti ha fatto piacere vedermi alla tua facoltà l’altro giorno?» sghignazzò, «Non ti facevo un tipo così sentimentale» aggiunse anche, soddisfatto per come si stava volgendo la conversazione. Peccato per lui che non sarebbe durata quella positività che girava apparentemente a suo favore.
«Ho detto che non mi dispiaceva averti visto, non che mi aveva fatto piacere. C’è differenza, caro Eustass, impara a prestare attenzione alle parole degli altri. Sai, potresti fraintendere». Dopo questo smacco, conclusi il tutto dedicandogli un sorrisetto strafottente che lo fece zittire e trasformò la sua allegria in frustrazione.
«Lo so io cosa hai detto!» si inalberò, «Puoi negare quanto vuoi, ma tienilo a mente» ghignò, avvicinandosi e riducendo gli occhi a due fessure, «Io ho sentito benissimo».
«Pensala come vuoi» gli dissi educatamente, o lo sarei stato, se solo non gli avessi rivolto un mio tipico sorriso di autosufficienza che lo fece scuotere il capo e riprendere a scolarsi il boccale di birra sotto al mio naso.
Fremeva e stava cercando di mantenere la calma, fulminando qualsiasi cosa su cui gli capitasse di posare gli occhi. Una mano era chiusa a pugno con così tanta forza che le nocche stavano diventando bianche mentre con l’altra stringeva convulsamente il bicchiere, come se volesse frantumare il vetro in mille pezzi. Si stava trattenendo e il luccichio infuocato nel suo sguardo ne era la prova.
Perché quella faccia? Perché controllarsi? Ormai lo conoscevo bene, sapevo come reagiva quando le cose andavano per il verso sbagliato. Quindi che iniziasse pure ad insultarmi o anche aggredirmi, non mi sarei di certo stupito e nemmeno tirato indietro. Almeno così avrei sfogato una parte di quel tormento che mi portavo dietro dall’inizio della settimana.
Ma qualcosa non andava. Per la prima volta Kidd sembrava intento a riflettere sul da farsi e questo, per qualche strano motivo, non mi faceva sentire tranquillo. Lui non pensava, agiva e poi rifletteva su ciò che combinava. Si lasciava andare, senza eccezione, senza costrizioni, era libero. Adesso, invece, sembrava quasi combattuto, indeciso sul da farsi.
Perché? Perché deve essere così difficile? Colpiscimi e basta e facciamola finita!
Bevve l’ultimo sorso, scolandoselo di schiena tutto d’un fiato e poi sbatté malamente il bicchiere sul bancone, lasciando trapelare un po’ di quell’agitazione che sembrava bloccarlo e mandarlo in confusione.
Si alzò in piedi e, dopo aver lasciato una banconota accanto al contenitore delle salviette, finalmente si decise a guardarmi.
Combattei con me stesso per non lasciar trapelare la marea di sensazioni che provai non appena i nostri occhi si incrociarono, iniziando una piccola guerra privata, mentre quelle pupille ambrate e decise sondavano le mie, grigie, interdette e tempestose, alla ricerca di qualcosa, un accenno al mio tentennamento magari.
Non potevo permetterglielo, non aveva alcun diritto di sondarmi così a fondo, di scavarmi nell’anima e di mandare in frantumi quella facciata di indifferenza che con tanta fatica e sacrificio, dolore e tristezza avevo costruito. Non era possibile che, con uno sguardo, riuscisse a leggere così in profondità quello che volevo nascondere, che non volevo ammettere, che temevo di affrontare. Non poteva e non glielo avrei lasciato fare.
Prima ancora che potessi aprire bocca per freddarlo e allontanarlo da me con uno dei commenti più offensivi e crudeli che conoscevo, mi precedette, lasciandomi per un attimo senza parole.
«Sai che penso? Penso che tu stia scappando da questo come un codardo senza nemmeno provare a combattere».

But just because it burns doesn’t mean you’re gonna die. You’ve gotta get up and try, try, try.

Ed ecco qui come una frase può essere così tagliente da arrivare dritta al petto e mozzarti il respiro senza la minima pietà.
Detto questo mi superò e si incamminò verso la pista, lasciandomi a fissare il vuoto mentre il respiro si faceva irregolare e un’onda di insicurezza mi investiva, trascinandomi via, lontano.
Io. Io sto scappando? Io sono un codardo? No, no questo non dovevi dirlo, non dovevi proprio.
«Che diavolo ne sai tu?» trovai la forza di ribattere, anche se la voce sembrava essere scomparsa e la gola era secca e arida come il deserto, ma feci abbastanza affinché mi sentisse prima di allontanarsi troppo, riuscendo ad attirare la sua attenzione. Anche se non potevo vederlo perché tenevo il capo chino, fisso sulle mia mani abbandonate in grembo, potevo percepire che mi fosse vicino, forse al mio fianco.
«Non sai niente» continuai glaciale, «Niente, chiaro? Perciò non permetterti mai più di giudicarmi in questo mondo dove tutti sono imputati e peccatori».
Senza attendere una risposta da parte sua, desideroso solo di andarmene e restare solo e con una gran voglia di urlare fino a sentire la gola bruciare, le corde vocali stridere e i polmoni esplodere, scesi dallo sgabello e partii spedito verso l’uscita, infilandomi tra i cumuli di gente e facendomi strada a spintoni, ignorando gli insulti e i mormorii scocciati di coloro che si sentivano spingere di lato all’improvviso. In poco tempo riuscii ad aggirarli tutti e mi ritrovai fuori, dove uno schiaffo di aria fredda mi colpì brutalmente il viso, facendomi rabbrividire all’istante mentre si insinuava sotto ai vestiti, sotto la pelle e fin dentro le ossa.
Pensai distrattamente al cappotto ancora dentro, abbandonato in una delle sedie al tavolo assieme ai documenti, portafogli, soldi e quant’altro, ma lasciai perdere. In quel momento avevo di peggio su cui riflettere. Innanzitutto dovevo allontanarmi. A piedi sarebbe stata una bella scarpinata fino a casa, soprattutto con quel freddo maledetto, pungente come lame affilate che si insinuavano nella carne.
Strinsi i denti e serrai la mascella per non esplodere proprio lì, dove ancora tutti potevano vedermi. Quando tutto il mondo mi era contro, quando davvero non ne potevo più, quando anche io volevo essere una persona normale, quando non esisteva più una minima goccia di autocontrollo, solo allora anche io mi lasciavo andare come chiunque altro. Mi arrabbiavo, urlavo, distruggevo qualsiasi cosa, iniziando dalla mia espressione calma e pacata. Non ne rimaneva nulla, se non un volto sfigurato dal dolore, dalla frustrazione, dall’ingiustizia e da tutto quello che ero costretto a portarmi dentro.
E nessuno mai doveva vedermi. Vedere quanto fossi debole e vulnerabile, come non riuscissi a rimettere in ordine i tasselli di quel puzzle che era la mia vita incasinata. Quei momenti di delirio erano rari. Una volta erano più frequenti, mi aggredivano in qualsiasi ora del giorno, all’improvviso, facendomi sentire male, a pezzi, e mi lasciavano vuoto, senza nulla a cui aggrapparmi. Col tempo, crescendo, avevo imparato a controllarmi, a farmi scivolare tutto addosso, a non pensare. A chiudere tutto in un cassetto e dimenticarlo.
Funzionava, le cose andavano meglio e potevo permettermi di stare tranquillo.
Ultimamente, però le mie sicurezze erano state messe a dura prova, il mio mondo stava cambiando, qualcosa di nuovo si stava creando uno spazio nella mia vita e tutto ciò non ero capace di gestirlo. Quel qualcosa era troppo forte, troppo travolgente e improvviso, irruento e difficile da allontanare per poter mantenere salda la presa e tenere a bada la paura.
Era vero, tutto vero. Avevo paura e perciò scappavo. Scappavo ed evitavo di affrontare i problemi che si presentavano con tutte quelle novità.
Era una cosa troppo grande e non potevo reggerla. Per quanto mi sarebbe piaciuto non ne avevo la forza. Continuavo a ripetermi che, se avessi provato a sostenerla, tutto mi si sarebbe rivoltato contro, avrei sbagliato e anche quel, quel… Quell’affetto sarebbe svanito. Quella complicità, quella sfida continua, quella voglia di vedersi, provocarsi, cercarsi, quello che avevo con Eustass-ya non ci sarebbe più stato. Perché tutto, prima o poi, doveva finire. Nulla durava, così come la famiglia, anche l’amore aveva un suo termine e, la maggior parte delle volte, era doloroso. Ed io non avevo intenzione di avere un’altra cicatrice da aggiungere al mio cuore, ne avevo troppe e non c’era posto per i tentativi o per le prove.
Non c’era più spazio per nient’altro, per questo motivo non volevo approfondire quel complicato rapporto che avevamo iniziato. Andava bene fino a che le nostre vite non iniziavano ad intrecciarsi l’una con l’altra, quello che stava appunto succedendo in quei giorni.
Mi sarei spezzato. E rimettere assieme me stesso non era facile. Sapevo di essere un tipo complicato, nemmeno io avrei voluto avere a che fare con me, figuriamoci gli altri. Appena capivano che razza di persona ero se ne andavano e come poterli biasimare? Chi mai lo vorrebbe un disadattato sociale? Dovevo rassegnarmi all’inevitabile.
Preferivo restarmene da solo, lontano da tutti, almeno mi proteggevo ed evitavo sofferenze inutili e che non avrebbero fatto altro che distruggermi definitivamente.
Avanzai rapidamente verso il parcheggio, non sapendo bene dove andare, volendo solo allontanarmi il più possibile, quando udii un trambusto alle mie spalle, gente che si lamentava e porte che sbattevano. Ignorai tutto, infossando la testa nelle spalle e concentrandomi sui miei passi, uno dopo l’altro, veloci e silenziosi. Passi che scappavano.
«Stai fuggendo di nuovo» mi fece notare una voce stranamente calma dietro di me, tanto che mi vidi costretto a fermarmi e concedermi un respiro profondo prima di rispondere e togliermi di mezzo quell’impiccio una volta per tutte.
«Non sono affari tuoi, Kidd» soffiai, più freddo del vento, rimanendo immobile e voltando solo la testa, quel tanto che bastava per osservarlo con la coda dell’occhio da sopra la spalla. Era più vicino di quanto pensassi e solo allora percepii il suo respiro arrivarmi alle orecchie. Quell’idiota era uscito senza nemmeno prendersi la briga di coprirsi e ora tendeva i muscoli per ignorare il gelo della notte.
«Non sei nessuno per potermi dire cosa fare. E ora vattene, lasciami in pace!». L’ultima frase mi uscì più come un lamento e mi morsi forte un labbro per non cedere, non in quel momento, non davanti a lui.
Dannazione, perché non se ne andava come facevano tutti?
«E se lo fossi?» sbottò, prendendomi alla sprovvista e facendomi spalancare gli occhi per lo stupore che quella domanda mi aveva provocato.
«Se fossi quel nessuno» aggiunse con un filo di sicurezza in più, avanzando di un passo sulla ghiaia e avvicinandosi ulteriormente, «Che faresti?».
«Cosa stai dicendo?». Lo sguardo fisso davanti a me, nemmeno mi resi conto di aver parlato.
Ignorando la mia voce e il tono incrinato con cui gli risposi, mi afferrò saldamente per un braccio e mi costrinse a voltarmi, facendomi ritrovare davanti ad un paio di occhi caldi e determinati come non li avevo mai visti prima.
«Sappi che io non fuggirò» disse semplicemente e, con poche parole, riuscì a fare breccia nel mio animo distaccato e solitario, smuovendo quella massa ghiacciata che mi intorpidiva e riscaldandomi nel profondo.

Do you know that there’s still a chance for you cause there’s a spark in you.

In quel momento un barlume di speranza si fece prepotentemente strada nel mio cuore, strappandomi un timido sorriso così genuino che non avrei mai pensato di potergli rivolgere.
«Hai una vaga idea di quello in cui ti stai imbarcando?» gli chiesi, giusto per precauzione, tormentandomi le mani e non sapendo bene come comportarmi. Bastò un’occhiata per capire che nemmeno lui era tanto pratico in questo genere di circostanze, ma rimanere li impalati a guardarci, fremendo per creare un contatto, mi sembrava sciocco, così sollevai le braccia con l’intenzione di avvolgergliele attorno al collo mentre anche lui decideva il da farsi e mi attirava con un veloce movimento contro il suo petto, facendomi sentire come se tutto potesse aggiustarsi, mentre tutte le insicurezze che mi avevano attanagliato lo stomaco svanirono non appena ci stringemmo in un abbraccio un po’ impacciato, ma sincero e spontaneo.
Forse potevo davvero essere forte e senza paura.
«Sarai anche un bastardo» ammise, appoggiando il mento tra i miei capelli e allacciando le dita dietro alla mia schiena, «Ma so di non essere così docile nemmeno io».
«Tu sei molto peggio, è questo che volevi dire» lo corressi, sentendomi di conseguenza stringere più forte e beandomi di quel piccolo e inaspettato istante di benessere gratuito di cui non credevo che una persona violenta come Eustass Kidd fosse capace di farmi provare.
«Non pensare che questo cambi le cose, ho ancora intenzione di ucciderti» chiarì, anche se tutta quella situazione e i nostri gesti dicevano il contrario, ma non glielo feci notare.
Per una volta avrei lasciato a lui l’ultima battuta.

And I have finally realized what you need.





Angolo Autrice.
Allora, non voglio annoiarvi o strafare, ma ho davvero tante cose da dire e quindi cercherò di riassumere come posso. Partiamo con le canzoni che probabilmente avrete riconosciuto, per ordine abbiamo:
Gangnam Style, PSY.
Up in the Air, Thirty Seconds to Mars.
We are young, Fun. 
Try, Pink.
Firework, Katy Perry.
Madness, Muse.
Passando al capitolo adesso: cosa ne pensate?
Mi sono mangiata le unghie scrivendolo e sono un po’ sclerata nel cercare di mantenere la vicenda e le reazioni in linea con il carattere e la personalità dei personaggi. Quindi, in poche parole, vi chiedo gentilmente un’opinione, soprattutto sull’ultima parte, quando i nostri ragazzi escono dal loro guscio di indifferenza e si espongono, trovandosi davanti ad una decisione da prendere e a un rapporto da chiarire. Ci terrei molto a sapere cosa ne pensate, se è troppo o troppo poco; se dovevo evitare oppure no, insomma, qualcosa.
Come spiegazione al loro avvicinamento, che secondo me era anche ora, povere anime, vi dico che un po’ di tenerezza? Dolcezza? Ci stavano a mio parere. Non troppo sdolcinati, ma nemmeno così distaccati da fare fatica a guardarsi. Kidd già da un po’ sospettava qualcosa e voleva vederci chiaro, mentre Law, anche se faceva di tutto per mentire a se stesso, i cambiamenti nella sua vita li vedeva eccome. Bastava solo una spinta per togliersi il magone e, che cazzo, abbracciarsi e smetterla di fare i preziosi orgogliosi.
Ad ogni modo, sta a voi giudicare il tutto, io sono qui e se avete qualcosa da farmi notare sarò felice di ascoltarvi per migliorare.
Ora mi sembra più che giusto passare alle cose ruffiane e dedicare il capitolo ad una persona così gentile, paziente e adorabile che non smetterò mai di ringraziare per tutti i consigli e la costanza con cui mi vizia. G R A Z I E, FlameOfLife, sono sempre in debito.
Un grazie, ovviamente e con la stessa intensità, va anche a tutti coloro che leggono e che recensiscono!
Anyway, ho notato che alcuni, me compresa, adorano Ace, (Come si fa a non amarlo?), perciò dal prossimo capitolo vi prometto una bella entrata in scena di lui e qualcun altro e cercherò anche di inserirlo più spesso, dato che questa long coinvolge più personaggi. E’ un casino, ma li ammiro tutti, quindi non riesco a fare a meno di regalare loro un qualche spazio.
E’ un po’ tardi per dirlo, ma le coppie, per chiarezza, sono: Kidd/Law; Ace/Marco; Penguin/Killer. Per ora queste sono quelle definite, mentre Zoro/Nami è solo accennata dato che, come amici, si stanno divertendo un sacco. Non so cos’altro succederà, probabilmente aggiungerò qualcosa, ma vedrò andando avanti a scrivere.
Uhm, penso sia tutto. Vi lascio quattro spoiler adesso, visto che il prossimo capitolo è un po’ particolare: i punti di vista sono differenti.
 
1.
Mi era sembrato un miracolo, un’apparizione per la precisione, intravvederlo a pochi metri di distanza, in mezzo alla bolgia di gente scatenata e piena di energie, mentre chiacchierava con alcune persone tenendo in mano un bicchiere pieno di chissà che cosa e gesticolando con l’altra. Per un minuto buono ero rimasto in totale contemplazione, con la bocca aperta, gli occhi spalancati e immobilizzato davanti al bancone del bar.
Oh, Dio mio, pensai tra me e me mentre non riuscivo a staccare gli occhi dal suo profilo, quell’uomo sarà la mia rovina, ne sono certo.
 
2.
Ecco, lui sembrava infiammato. Costantemente. Sembrava sempre avere qualcosa da dire, da fare o da vedere; non stava mai fermo e si muoveva in continuazione; a volte sembrava calmarsi ed essere colto da un’improvvisa quiete e sonnolenza, ma si riprendeva subito dopo; adorava i fuochi d’artificio e il fuoco lo affascinava. Diceva che era caldo, e quindi apprezzato dalle persone, ma allo stesso tempo temuto perché poteva bruciare e fare del male. Questi aspetti contrastanti gli piacevano immensamente, tanto da suscitare anche la mia curiosità e facendo si che, ogni volta che passava, mi ritrovassi chino sul bancone ad ascoltare le sue stramberie per nulla annoiato.
Ace era certamente così: bello, scoppiettante e caldo. Era il fuoco.
 
3.
Avanti, facciamo presto. “Penguin, mi dispiace, sei un bravo ragazzo, ma non sei il mio tipo. Non prendertela, non è colpa tua, sono io che non me la sento di andare oltre, scusami. Possiamo rimanere amici se ti va”. La solita frase programmata, nulla di nuovo e ora forza, il colpo di grazia.
Cosa avevo di sbagliato che non andava? Certo, ero fissato con certe cose, avrei dato l’anima pur di fare qualche sutura, ma non ero cattivo. E non ero da buttare via, come tutti invece facevano e continuavano a fare. Mi sentivo uno straccio a volte e l’unica cosa che volevo era un’occasione, una speranza, qualcosa o qualcuno che non mi mettesse da parte e che capisse che con me erano gli altri a dover fare il primo passo. Quella sera era stata un’eccezione e mi era costata cara. L’unica volta che mi buttavo dovevo perdere un amico.
 
4.
“Ace esce con qualcuno” dichiarò allora uno dei miei migliori amici, nonché ragazzo che stimavo molto e di cui mi fidavo.
Lo guardai a bocca aperta, assimilando le informazioni ricevute e voltandomi a rallentatore quando un ragazzo con i capelli corvini e scompigliati, lo sguardo assonnato e i vestiti stropicciati fece il suo ingresso in salotto, salutando tutti e sbiancando poi di fronte alla mia espressione apatica.
“Rufy, che ti succede?” mi chiese Ace, visibilmente preoccupato.
“Ace, perché non mi hai detto che ti sei innamorato?”.
 

E qui concludo e vi auguro un buon fine settimana. 
See ya,
Ace.


 

 

  
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