Premessa: questa storia è suddivisa in tre parti. La prima è ambientata durante
i saluti post-mietitura di Johanna, che precedono i suoi
primi Hunger Games. La
seconda è ambientata durante il salvataggio dei
prigionieri da parte di Boggs e compagnia ne "Il Canto della Rivolta". La terza,
infine, è ambientata in un ipotetico futuro post-Il
Canto della Rivolta, tre o quattro anni dopo l’epilogo.
Premessa n°2: le citazioni in corsivo sul lato destro della pagina sono tratte dal
libro Io non ho paura, di Niccolò
Ammaniti.
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«Io non ho paura di niente, —
ho sussurrato per
farmi coraggio, ma le gambe mi
cedevano e una voce
nel cervello mi urlava di non andare»
Io non ho paura.
Johanna Mason tamburellò con
nervosismo le dita sul tavolo, guardando dritto di fronte a sé. Il cuore le
martellava con violenza nel petto percuotendolo come faceva lei con gli alberi,
quando aveva in mano la sua ascia. Suo padre Grimshaw
aveva lo sguardo annebbiato dall’alcool misto al dolore che affrontava ogni
giorno sin dalla morte della moglie. Non guardò nemmeno negli occhi Johanna, si limitò a rimanere seduto, fissandosi le mani
callose e respirando in maniera rumorosa – il bastone che gli faceva da
supporto per sostenere la gamba malandata giaceva abbandonato sul pavimento. Johanna fissò il padre con insistenza per qualche secondo,
sperando di attirare la sua attenzione.
Gli diede un colpo sulla
spalla e poi un secondo, più forte, supplicandolo in silenzio di reagire o di
darsi per lo meno un contegno. Di guardarla, se non altro. Di dirle addio. Si
arrese, non riuscendo a trattenere uno sbuffo infastidito. Si voltò in
direzione di Sloane, non sentendosi ancora pronta ad
affrontare il pianto di Sawyer. Sua sorella aveva le
braccia conserte e lo sguardo fermo, ma i suoi occhi erano umidi di lacrime. Abbracciò
Johanna e si aggrappò a lei a punto tale da farle male.
Johanna si morse il labbro. Sloane
non l’aveva mai stretta così a lungo: nessuno
l’aveva mai fatto. Sua sorella si separò da lei e la squadrò con attenzione. Le
sfiorò una guancia con la mano destra, ma non disse nulla. D’altronde, l’unico a riempire i silenzi in
quella famiglia era sempre stato Sawyer. Lui o il
tintinnio delle bottiglie che rotolavano a terra quando Grimshaw
si accasciava mezzo addormentato sul pavimento.
Johanna si decise finalmente a voltarsi verso il fratello minore. Sawyer si fissava la punta delle scarpe con occhi sbarrati,
la mano destra ancora avvolta attorno al suo origami a forma di pino: tremava.
Per quanto riuscisse a ricordare, Johanna non l’aveva
mai visto così spaventato. Di tanto in tanto l’aveva visto piangere, ma di
nascosto, al riparo fra i suoi boschi, mentre il rumore dell’ascia che si
abbatteva sul legno copriva i suoi lamenti. E non aveva versato alcuna lacrima,
mentre camminavano fianco a fianco verso lo spiazzo dove era stato allestito il
palco, nonostante il terrore per la sua prima mietitura fosse evidente dal suo
modo di incurvare le spalle, come se cercasse di nascondersi. In quel momento,
però, tremava. Strizzò gli occhi e si asciugò le guance umide con un movimento
brusco del polso. Johanna gli strinse con forza una
spalla, sforzandosi di imprimere in quel gesto le parole di conforto che gli
erano rimaste impigliate in gola.
"Non fare lo smidollato" commentò infine, dandogli un colpetto quasi
giocoso con il gomito. Sawyer si morse il labbro.
"Non sono uno smidollato” mormorò,
drizzando appena la schiena. Sollevò poi
la testa per guardare la sorella negli occhi. “Io non ho paura” aggiunse in tono di voce più deciso. Johanna annuì.
“Bene” dichiarò secca,
incrociando le braccia sul petto. “Ricordatelo quando sarò nell’arena. Perché
non ne avrò nemmeno io.”
Si chinò appena,
avvicinando le labbra all’orecchio del fratello minore. “Non lasciarti fregare
da quello che vedrai in televisione” sussurrò
in fretta, prima di scostarsi da lui. “Giuramelo, Sawyer.
Non fartela sotto quando guarderai quei dannati giochi. Non mi interessa cosa
vedrai, ricorda solo quello che ti ho detto io. Hai capito?”
Sawyer annuì, passandosi il dorso della mano sugli occhi. Porse il suo origami a Johanna che se lo girò un po’ fra le dita, prima di
infilarselo malamente in tasca. Si diedero un abbraccio che mescolò l’odore dei
pini alle lacrime di entrambi, accompagnato da un sussurro flebile ripetuto più
volte, come una cantilena. “Io non ho paura. Io non ho paura” continuò a
mormorare Sawyer, fino a quando due braccia robuste
non lo separarono dalla sorella.
Mentre un pacificatore scortava Johanna fuori dalla
stanza le lacrime silenziose della ragazza si tramutarono gradualmente in un
pianto disperato. La maggiore dei tre fratelli Mason sgranò gli occhi, sorpresa
dalla sua reazione. Perfino Grimshaw si riscosse a
quel suono. Sloane cercò di stringere la mano di Johanna un’ultima volta, ma venne trattenuta da un secondo
pacificatore. Sawyer, che non aveva mai sentito sua
sorella piangere, ricominciò a tremare, in preda al panico. Impiegò qualche secondo a ricordarsi
delle parole di Johanna. A comprendere le istruzioni
che le aveva dato. Fece un lungo respiro, sforzandosi di controllare i tremiti
del suo corpo e batté con forza le nocche contro la porta.
“Io non ho paura!” gridò
il ragazzino, prima che Sloane lo afferrasse per le
spalle, cercando di guidarlo fuori dalla stanza. Aveva capito.
Dall’altro lato della
porta Johanna accennò un lieve sorriso. Le lacrime
che le rigavano le guance contribuirono a proteggere il segreto di cui solo lei
e Sawyer erano a conoscenza: i Mason non sarebbero
mai stati degli smidollati.
Johanna non aveva paura.
«Non ce la faccio,
— ha detto. — Ho paura.
— No, tu non hai
paura. Non hai paura. Non c'è
niente da avere paura.»
***
«Da piccolo sognavo sempre i mostri.
E
anche ora, da adulto, ogni tanto, mi capita, ma non riesco più a fregarli.»
Johanna si scostò i capelli madidi di sudore dalla fronte.
Camminava per l’Arena ormai da diverse ore, eppure era sicura di trovarsi ancora
nella sezione delle ghiandaie chiacchierone. Quei dannati uccellacci
avevano smesso di strillare, ma poteva scorgerne le ombre appollaiate sui rami
degli alberi. Di Finnick, Katniss ed il resto del
gruppo, invece, non c’era traccia.
Johanna imprecò a denti stretti, proseguendo lungo la
giungla. La voce di un bambino la costrinse a fermarsi: ben presto incominciò
ad udirne altre. Sollevò la testa di scatto, temendo di trovare i becchi aperti
delle ghiandaie puntati verso di lei, ma le voci che aveva sentito non
arrivavano dall’alto. Si alternavano al rumore sordo di una lama che colpisce
il legno e provenivano dalle file di pini schierati di fronte a lei. Johanna inarcò un sopracciglio, prima di abbozzare un mezzo
sorriso. Non era nell’Arena: quelli erano i boschi del Distretto 7. Stava
tornando a casa. Man mano che si addentrava più a fondo nella pineta, le voci
dei taglialegna incominciarono a suonarle più familiari. Udì Sloane borbottare qualcosa e, subito dopo, la risata
leggera di un ragazzo: Johanna riconobbe anche
quella. La voce del bambino si fece più vicina: Sawyer
la stava chiamando per nome, chiedendole di raggiungerlo. Johanna
riuscì ad intravederlo da lontano, attraverso una porzione sfoltita di albero.
Si mosse in avanti per raggiungerlo, ma fu costretta a scattare all’indietro,
quando un grosso tronco cadde a terra dall’alto, bloccandole la strada. Un
grido straziato spezzò l’aria come un proiettile, gelandole il sangue nelle
vene. Johanna sollevò il capo ed inorridì, di fronte all’improvviso
spettacolo che le si parò davanti: il fuoco emergeva a fiumi dalle punte degli
alberi e le fiamme avevano incominciato ad avvolgere la pineta con una velocità
impressionante. Il crepitio delle fiamme
le penetrò le orecchie, già graffiate dalle urla delle persone intrappolate
oltre gli alberi. Johanna chiuse gli occhi per
proteggerli dal fumo. Provò a farsi strada verso le voci, ma una lingua di
fuoco le bloccò il passaggio, avvolgendo i tronchi degli arbusti che aveva di
fronte. Incominciò a tossire, la testa le si fece pesante e le gambe smisero di
sostenere il suo peso. Mentre cadeva a terra una ghiandaia chiacchierona le
piombò addosso, premendole gli artigli sulle spalle. Le sue grida le
rimbombarono nelle orecchie, riproducendo una delle voci che aveva udito nell’Arena,
quando Katniss e Finnick erano stati attaccati, la
voce di un ragazzo. Gridava un nome, solo un nome: Peeta. Il crepitio delle fiamme incominciò a smorzarsi, così come
le urla soffocate dei taglialegna: le urla della sua famiglia. Johanna gridò, lasciandosi scivolare a terra.
“… dov’è Peeta?”
Quando aprì gli occhi, Johanna si accorse che il bosco del Distretto 7 era scomparso, ma il fuoco continuava ad ardere. Lo trovò a fare pugni con le iridi grigie di un ragazzo che la stava fissando con espressione preoccupata. Le sue mani la sorreggevano ferme per le spalle, con più delicatezza di quanto avessero fatto gli artigli della ghiandaia nel suo sogno, o chiunque, nel corso delle ultime settimane.
“Johanna Mason, giusto?” bisbigliò il giovane, guardando in fretta dietro di sé, come se temesse l’arrivo di qualcuno. Johanna lo scrutò con diffidenza, scontrandosi nuovamente con i suoi occhi grigi. Aveva qualcosa di familiare: assomigliava a Katniss. Johanna cercò di rimettersi in piedi da sola, rifiutando il sostegno del ragazzo. Lentamente incominciò a mettere a fuoco la situazione: riconobbe la cella che aveva fatto da carceriere alle sue urla fin da quando era stata prelevata dall’Arena. Evocò per un attimo il freddo pungente dell’acqua che le scivolava addosso e un tremore s’impossessò del suo corpo, facendole cedere le ginocchia.
“Ehi…” bisbigliò istantaneamente il ragazzo, sostenendola per la vita. “Va tutto bene. Adesso ti portiamo fuori di qui” cercò di rassicurarla, parlandole vicino all’orecchio. “Sai dov’è Peeta?” chiese di nuovo in fretta, sforzandosi di mantenere un tono di voce pacato.
Johanna non rispose subito; avvertì l’impulso improvviso di dargli uno schiaffo, ma si sentiva fin troppo debole anche solo per sollevare un braccio. Rimase immobile, avvertendo i battiti irregolari del cuore del ragazzo pulsarle contro l’orecchio.
“Nella cella accanto” sussurrò infine con voce rauca, mentre la porta si apriva di scatto. Un uomo si introdusse nella stanza, seguito a ruota da altri due.
“Boggs” lo riconobbe il ragazzo, rilassando di poco la sua espressione.
“Riesce a camminare, Hawthorne?” chiese Boggs, analizzando Johanna con espressione nervosa.
Johanna non udì la risposta del giovane. Sentì però la presa del ragazzo allentarsi, mentre altre due braccia la sollevavano da terra con facilità.
“Vado a prendere Peeta” dichiarò poi Gale Hawthorne, avviandosi verso la porta. Gli altri due uomini lo seguirono. Johanna avvertì un violento giramento di testa e la sua fronte andò a sbattere contro la spalla di Boggs.
“Fa’ attenzione, bel fusto” trovò la forza di bisbigliare, tornando a chiudere gli occhi. “Non sarà facile portare Peeta via da lì.”
Gale scosse il capo con risolutezza, senza nemmeno fermarsi.
“Io non ho paura” rispose, prima di abbandonare la cella.
Johanna cercò di roteare gli occhi, ma il gesto le peggiorò solo il dolore alla testa. Abbandonò nuovamente il capo contro la spalla di Boggs. I battiti rapidi e sfasati del cuore di Gale le ronzavano ancora nelle orecchie. Si aggrappò con la mente a quel suono, sforzandosi di ignorare il crepitio delle fiamme e le urla dei suoi familiari evocate dal suo incubo. Sentì la porta della cella accanto aprirsi con violenza, dei passi affrettati lungo il corridoio e il rumore di qualcosa che veniva sbattuta contro il muro. Il gemito di dolore di Gale Hawthorne giunse subito dopo e il ricordo del suo battito sfasato si perse nel nulla. Johanna si arrese alla stanchezza, lasciando che Boggs la sostenesse, mentre la sua testa le ripeteva in sordina le quattro parole pronunciate da Hawthorne poco prima: io non ho paura.
Anche mio fratello non aveva paura, avrebbe voluto dirgli con un sorriso amaro, guardandolo dritto negli occhi. Ma tanto è morto comunque.
***
L’odore
di bruciato le impregnò le narici e il calore delle fiamme le imperlò la fronte
di sudore. Era circondata dal fuoco e i rami inceneriti degli alberi
continuavano a staccarsi dai tronchi con schiocchi secchi, minacciando di
colpirla. Johanna guardò in alto, avvertendo qualcosa
di umido bagnarle la fronte. La pioggia incominciò a rovesciarsi a fiotti su di
lei, ma l’incendio nella pineta continuò a divampare. Un lampo di luce
improvviso illuminò una porzione di cielo la donna udì lo schianto del fulmine che
indicava lo scoccare della mezzanotte nell’arena. Tic Tac. Il fulmine non si abbatté su di un albero, ma su di lei:
questo perché non era un fulmine. La scossa di elettroshock le strappò un
grido, facendola crollare a terra nel fango. Johanna
si accorse di avere i polsi legati, così come le caviglie. La pioggia continuò
a scendere ed il fumo si fece più denso, facendole lacrimare gli occhi. Udì dei
colpi di tosse, rantolii strozzati e le urla di suo fratello, mescolate al
crepitio del fuoco.
“Johanna!”
Johanna
strattonò con violenza le catene che le bloccavano i polsi, ma non riuscì a
liberarsi. Sawyer continuò a implorare aiuto,
gridando il suo nome, fino a quando il fuoco e il fumo non inghiottirono
completamente la foresta di pini. Le urla del bambino si assottigliarono,
riducendosi a lamenti soffocati.
“Jo!”
Johanna
aprì gli occhi, alzandosi a sedere di scatto. Aveva il fiato corto e la gola le
bruciava come se avesse inghiottito sul serio del fumo. Si controllò
rapidamente i polsi, per assicurarsi di non essere legata, ed imprecò,
passandosi una mano fra i capelli corti, madidi di sudore. Si accorse che
qualcuno la stava trattenendo per una
spalla. Una mano esile la scrollò delicatamente e Johanna
si scansò d’istinto, allontanandola con un colpo brusco del braccio. Un
ragazzino dai capelli scuri la stava osservando con espressione preoccupata.
“Jo” ripeté in un sussurro,
appoggiandosi con il fianco al materasso. “Stavi avendo un altro incubo”. Johanna inspirò con
forza, rivolgendogli poi un’occhiata perplessa.
“Sawyer” mormorò, aggrottando appena le sopracciglia. Il
bambino scosse il capo.
“Sono
Joel” bisbigliò, continuando a stringerle la spalla. “Joel Hawthorne, lo sai.”
Le parole di Joel sciolsero la
confusione che il brusco risveglio le aveva impresso addosso. Johanna allungò un braccio sotto il lenzuolo, cercando a
tentoni la persona sdraiata di fianco a lei.
“Papà sta dormendo” sussurrò in quel
momento il ragazzino, in risposta ai suoi movimenti nervosi. I polpastrelli della donna passarono in
rassegna il petto dell’uomo che le dormiva accanto. Gale Hawthorne riposava con
un braccio appoggiato al cuscino e l’altro abbandonato sul materasso. Ciocche
di capelli scuri gli ricadevano disordinate sulla fronte e le sue palpebre
fremevano appena, indici di un sogno agitato. Johanna
continuò a percorrergli il torace nudo con le dita, come se stesse cercando
qualcosa, fermandosi solo quando riuscì a distinguere i battiti del suo cuore pulsarle
contro i polpastrelli. Avvertì i movimenti regolari del suo petto che si
sollevava ad ogni respiro e – finalmente – riuscì a mettere da parte le urla strazianti
di Sawyer e il ricordo dell’incendio. Sbuffò,
lasciando andare Gale e abbandonandosi contro la testiera del letto.
Joel la stava ancora osservando con
espressione impensierita e un’aria quasi adulta. Assomigliava a Sawyer, ma Johanna non aveva la
minima intenzione di incominciare a fare paragoni. Sawyer era morto. Era morto e basta, gli Hunger
Games erano finiti e lei si era lasciata alle spalle
il Distretto 7 ormai da anni. Anche la guerra era finita, ma c’era ancora in
gioco una battaglia incominciata sin da prima della rivolta. Solo che adesso la
combattevano in tre: lei, Gale, e quel ragazzino identico al padre che non era
nemmeno figlio suo. La loro era una
guerra notturna, fatta di scatti improvvisi nel buio, incubi, e sensi di colpa.
Tic Tac. L’Arena era un circolo
vizioso che li ospitava ogni notte, quando il sonno li rendeva vulnerabili e i
mostri del passato incominciavano a riemergere.
Johanna
roteò il collo, facendo scrocchiare qualche articolazione. Rivolse un’occhiata
indagatrice a Joel, che ricambiò impassibile il suo sguardo.
“Che
ci fai tu qui, comunque?” lo interrogò la donna in tono di voce asciutto. “Quelli
della tua età, a quest’ora, dovrebbero dormire”.
Joel si strinse nelle spalle.
“Controllavo che tu e papà non aveste
degli incubi” spiegò, spostando lo sguardo in direzione di Gale, ancora
profondamente addormentato. Johanna inarcò un
sopracciglio.
“Tu hai seri problemi, Hawthorne”
borbottò infine, tornando a raggomitolarsi sotto le coperte. Joel roteò gli
occhi, ma non sembrò essersela presa: era abituato a quel genere di commenti. Johanna non si era mai fatta
problemi a parlargli come si parlerebbe ad una persona di dieci anni più grande.
Per lei non si poteva definire bambino, qualcuno che si alzava nel cuore della
notte per vegliare sul sonno di due adulti. Qualcuno che rassicurava, più che
venire rassicurato. Eppure, Johanna sapeva che aveva incubi anche lui. Ogni
tanto, quando chiudeva gli occhi, Joel sognava una madre che non aveva mai
avuto. Gli andava vicino, talmente vicino da poterle quasi sfiorare la fronte con
la propria, ma quando tendeva la mano per toccarla la donna svaniva, e al suo
risveglio Joel non ricordava più nulla di lei. Dimenticava tutto. Quando era
più piccolo, c’erano state delle sere in cui era corso a rifugiarsi in quello
stesso letto, spaventato al pensiero che anche suo padre potesse abbandonarlo
come aveva fatto la madre. Gale era quasi sempre sveglio per via degli incubi e
padre e figlio si consolavano vicenda, aggrappandosi l’uno alle rassicurazioni
dell’altro. Più volte, in quei momenti, Joel aveva teso una mano verso Johanna, facendo scivolare le dita sotto le sue.
Qualche volta Johanna
gliele aveva strette, ignorando il bisogno istintivo di farsi da parte, di
abbandonare quel letto e tornare ai suoi boschi nel Sette, per curarsi solo di
se stessa.
Lo fece anche in quel momento, quando
sentì la pressione delle dita sottili di Joel contro il dorso della sua mano.
“Dovresti
andartene a letto” commentò infine, prima di voltarsi verso di Gale. Analizzò
il suo volto con attenzione, come se volesse assicurarsi che i suoi sogni non
avessero incominciato a farsi più agitati.
Joel scosse il capo, stringendosi poi nelle
spalle.
“Non riesco a dormire” rispose,
lasciandole andare la mano. “Posso restare qui e svegliarti se vedo che
stai avendo degli altri incubi.”
“Hawthorne, non lo sai che sono
pericolosa?” ribatté la donna, appoggiando le braccia al cuscino e intrecciando
le dita dietro la nuca. “Non solo da sveglia, ma anche mentre dormo.”
Un lieve sorriso corse ad arricciare le
labbra di Joel. Il ragazzino fece spallucce, lasciando oscillare i piedi oltre
il bordo del letto.
“Io non ho paura” dichiarò poi con
semplicità, sostenendo fiero lo sguardo della donna.
Johanna
strinse le labbra, socchiudendo appena gli occhi. Non si prese nemmeno la briga
di sbuffare: in fondo se l’era aspettata, una risposta simile.
“Nemmeno io, Hawthorne” rispose a mezza
voce, girandosi su un fianco. Il suo sguardo ricadde ancora una volta su di
Gale, mentre le dita di Joel tornavano ad intrecciarsi alle sue. Chiuse gli
occhi, arrendendosi alla stanchezza. “Nemmeno io.”
E
per la prima volta da mesi, Johanna si accorse di
aver detto la verità.
«Respiravo e
sentivo il cuore placarsi, il fiato tornare
normale e
improvvisamente mi è venuto sonno. Mi
sono sdraiato. Ho
chiuso gli occhi. Sotto le palpebre era
tutto rosso. La
paura c'era ancora, ma era appena un
bruciore
in fondo allo stomaco.»
______________________
Grazie infinite a yingsu
per aver rivisto la storia prima della pubblicazione – e per l’aiuto con l’impostazione
grafica!
Nota dell’autrice.
Ho
paura che queste note possano diventare lunghe almeno la metà della one-shot stessa! Non fa niente, potete sentitevi tutti
liberi di ignorarle.
Parto
dicendo che il modo in cui ho concluso per ritrarre Johanna
è un po’ più morbido di come vevo in programma di rappresentarlo,
ma mi sono resa conto scrivendo che ho scelto di scrivere di tre momenti in cui
è particolarmente vulnerabile. La mietitura che la porterà ai primi Hunger Games, la prigionia e il
risveglio da un incubo. Quindi ho pensato che, tutto sommato, ci potesse stare.
I nomi dei familiari di Johanna sono legati in
qualche modo al suo distretto. Grimshaw significa dark woods e Sawyer significa wood-worker. Sloane, invece,
significa warrior
e l’ho scelto perché il nome di Johanna mi ha sempre
fatto pensare un po’ Giovanna D’Arco e volevo che anche la sorella avesse un
nome che ricordasse una guerriera. C’è dietro tutta una storia dietro Johanna e la sua famiglia, legata principalmente alla madre
di Jo e spero di riuscire un giorno a scriverci qualcosa su. Sawyer e Sloane, sono morti in un
incendio, assieme al ragazzo di Johanna – la risata
che sente nell’incubo era la sua - . L’incendio venne fatto appiccare da Snow, quando Johanna si rifiutò
di prostituirsi.
Il
pianto di Johanna durante la prima scena inaugura l’inizio
della sua interpretazione da ragazza debole e spaventata che la aiuterà a
vincere i giochi. Per questo mette in guardia Sawyer,
assicurandosi che non creda alla visione “debole” di sua sorella che vedrà in
televisione.
Per
quanto riguarda Joel, la mia macchinazione mentale fatta qui è un po’ più
stramba. Introdussi il personaggio di Joel per scrivere La cometa del
Distretto 12 e da allora fatico a immaginare un Gale del futuro senza di
lui. Non sono mai riuscita a immaginare il Gale post-mockingjay
come qualcuno ancora in grado di innamorarsi e mettere su famiglia. Almeno non
nell’immediato. Joel è nato da una relazione occasionale e molto breve con una
donna del Distretto 2 che si è disinteressata a lui, lasciandolo alle cure del
padre (cit. Giraffetta, che mi fornisce accurate descrizioni dei
miei stessi personaggi, poiché io non sono in grado xD).
Johanna vive con Gale da quando Joel era appena un
neonato, quindi entrambi si sono fatti il callo ad aversi attorno a vicenda. E
Joel è molto affezionato a lei. Ho incominciato un paio di storie Johanna/Gale che dovrebbero andare ad inserirsi nello
stacco temporale che si è creato tra la prima e la seconda scena di questa
storia (ambientate soprattutto nel Distretto 13) e alcune ambientate dopo.
Spero di riuscire a terminarle, prima o poi, perché tengo molto a Joel e a
questa unione un po’ disfunzionale tra i due Hawthorne e Johanna.
Grazie
infinite a chi ha avuto il coraggio di leggere fin qui!
Un
abbraccio!
Laura