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Autore: Memento_B    20/05/2008    2 recensioni
Le tre bambine erano sedute sui divani posti dall’altra parte della grande sala. Lì vi era più luce ed allegria; le tre confabulavano fra loro per poi ridacchiare sommessamente, ben attente a non farsi sentire o vedere dalla madre. La più grande era Bellatrix, aveva sette anni ed era una bambina bellissima. Ira e vergogna si leggevano nei suoi occhi molto espressivi, spesso lanciava sguardi carichi d’odio e rancore verso la madre. Andromeda aveva cinque anni e fisicamente assomigliava molto alla sorella, ma quando sorrideva vi si poteva scorgere una traccia di bontà ben rara nei Black. Narcissa quel giorno compiva tre anni. Seppur piccola non le fu risparmiato l’abito elegante di pizzo nero.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Andromeda Black, Bellatrix Lestrange, Famiglia Black, Narcissa Malfoy, Ted Tonks
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Missing moments'
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Londra, 1959

Il viso di Bellatrix era appoggiato contro il vetro della finestra della sua camera. Indossava un vestito largo rigorosamente nero, stretto in vita da una cintura, al collo vi era un collarino di seta, i ciuffi frontali della chioma nera erano raccolti dietro al capo con un fermaglio a forma di rosa nera, ai piedi due scarpe di vernice nera prive di qualsiasi ornamento, al polso destro un braccialetto con delle croci pendenti, due perle adornavano i lobi della bambina.
La stanza era completamente silenziosa e buia, oltre che fredda ed inquietante. Il pavimento era di legno, coperto con un grande e spesso tappeto su cui però Bellatrix non poteva giocare. Un angolo del tappeto era sporco: una volta Bellatrix fece accidentalmente cadere una bevanda al gusto di cioccolato, errore che le costò caro.
Vicino alla porta vi era un grandissimo armadio di ebano, sotto l’unica grande finestra della stanza vi era il letto della bambina.
Era un letto molto grande e comodo, qualsiasi bambina sarebbe impazzita per un letto come quello, ma non Bellatrix. Lei non era come tutte le bambine, ogni singolo dettaglio di quel palazzo, ogni suo mobile era per lei sinonimo di prigionia ed agonia. Raramente le era permesso di uscire dalla casa, ed era sempre accompagnata da un suo parente, era sempre tenuta sotto controllo, nessun movimento sfuggiva alla madre.
Lei, però, voleva solamente correre per le strade di Londra scalza sporcandosi di fango, voleva giocare con la neve, lanciare palle di neve alle sue sorelle, voleva ridere. Ma doveva accontentarsi di quelle quattro o cinque bambole di porcellana che erano posate in una cesta di vimini ai piedi del letto, bambole che l’assomigliavano terribilmente, avevano tutte i capelli scuri a boccoli e gli occhi castani o neri, la porcellana candida era nettamente in contrasto con i vestitini a quadri neri.
Spesso Bellatrix aveva pensato di imitare le eroine dei libri, di scappare di casa e di partire all’avventura e spesso era in procinto di farlo ma non ne aveva mai avuto il coraggio. Odiava quel luogo, ma era pur sempre la sua casa. E poi c’era sua madre... Druella, il suo esempio, il suo mito. Lei sì ch’era una donna forte, lei sì che sapeva cosa voleva, lei conosceva il mondo. Una volta Bellatrix aveva osato chiederle il motivo per cui non poteva giocare come tutti gli altri bambini, i suoi occhi incontrarono quelli austeri e irati della madre e subito si pentì di aver fatto tale domanda.
Si aspettava di venir picchiata, eppure la madre quella volta non la sfiorò nemmeno, per una volta le dette una spiegazione verbale e per la prima volta Bellatrix rimpianse le percosse, avrebbe preferito esser picchiata.
- Tu non sei come tutti gli altri bambini, Bellatrix, tu sei una Black. La vita non è mai giusta, la vita deve essere odiata, non è un dono ma una punizione. Non vi è punizione peggiore del vivere, la morte è solo una liberazione, la morte è l’unica cosa che può liberarci da queste sofferenze. Imparerai ben presto ad invocare la morte, Bellatrix. Imparerai che non v’è gaudio maggiore dell’abbandonare questa vita d’infamia e di sofferenze. Imparerai che la vita non è fatta per essere vissuta, ma per soffrire in silenzio, per piangere, per sentir la propria anima lacerarsi. No, figlia, la vita non è per niente giusta con nessuno, dopo la massima felicità strisci nella polvere come una larva implorando pietà, e quando credi che le cose vadano meglio sprofondi sempre più giù. Non v’è che tristezza dopo la letizia. Soffri, bambina, soffri fin da ora, trattieni le tue lacrime, le tue urla, diventa una donna forte e vedrai che verrai ricompensata. Procura sofferenze, sfogati su quei miseri omuncoli che incontrerai per la tua via, espia tutte le tue colpe, libera la tua rabbia a discapito di altri, rallegrati delle loro lacrime, saziati delle loro urla, infliggi sofferenze poiché è anche una loro colpa la tua effimera esistenza. Tu, Bellatrix, sei superiore a molti, inferiore solo ai tuoi parenti. -
Quelle parole avevano profondamente scosso Bellatrix, non si aspettava certo una risposta simile e non aveva capito come ciò potesse c’entrare col gioco. Eppure aveva deciso di fare tesoro delle parole di quella donna da lei tanto amata e tanto odiata, si era convinta della superiorità della sua famiglia non solo su tutte le creature magiche e non, ma su tutti i maghi e su tutti gli esseri umani.
La luna illuminò il viso della bambina. Bellatrix era sul punto di piangere, cercava di portare alla mente un ultimo pensiero allegro che l’avrebbe tenuta su di morale, ma non ce la fece.
La prima lacrima le cadde sul palmo. Pianse a lungo e rumorosamente, cosa strana per quella bambina che tratteneva sempre le lacrime e la rabbia fino ad esplodere. Non sapeva perché piangeva, non aveva una ragione per farlo, eppure voleva piangere, voleva liberarsi di quel peso e di quella sofferenza.
Si sentiva perduta, come se non potesse più essere felice, si sentiva oppressa e cercava di ritrovare la libertà e l’allegria, voleva essere spensierata come tutti i bambini della sua età, ma non poteva. Desiderava che si trattasse solo di un incubo, desiderava aprire gli occhi e vedere scomparire la sua vita attuale ma sapeva che non sarebbe successo, tuttavia continuava a sperare.
Si sentiva sola, senza alcun aiuto e si odiava. Si odiava perché aveva bisogno delle sue sorelle per stare meglio, necessitava dell’allegria di Andromeda e dell’innocenza di Narcissa per essere felice, cercava dentro di sé il suo vero io, cercava le caratteristiche delle sorelle.
Ogni volta che il sole sorgeva nasceva in lei oblio, ogni volta che il sole tramontava ricominciava a sperare.
Quando calava la notte lei era felice perché poteva chiudersi in camera sua, tirarsi le coperte sulla testa e leggere un libro alla luce della candela, poteva perdersi fra le lettere del romanzo, dimenticare gli orrori della giornata, sognare altri paesi e altre persone.
Poi si addormentava e sognava di quelle terre. Nei suoi sogni sorrideva sempre, ma lei aveva dimenticato come si faceva a sorridere.
- Bellatrix? Posso?- la voce bassa e calda di Andromeda riportò Bellatrix alla realtà, per un secondo si dimenticò del male ch’era in lei.
Andromeda non aspettò risposta ed entrò nella stanza -Ti avevo sentito singhiozzare- disse, avvicinandosi alla sorella - Bella, vuoi parlarmi? -
Bellatrix la fissò con ira. Era entrata nella sua camera, l’aveva vista piangere, aveva scoperto che anche lei aveva un cuore e soprattutto le aveva offerto la sua commiserazione. - No! Vattene via! - le urlò, anche se i suoi occhi tradivano la sua voglia della compagnia della sorella - Non ho bisogno di te, non ho bisogno di piangere, io sono senza lacrime! Via!-
La sorella minore la fissò interdetta per qualche secondo, non si era certo aspettata di venir aggredita in quella maniera. -Come vuoi, Bella. Ricordati che io ci sono sempre però - annuì, uscendo dalla stanza- Fra mezz’ora dovrai scendere, inizia la cena -.
Bellatrix lanciò contro il muro una scarpa, che cadde sul pavimento con un tonfo. Non riusciva a capire come potesse essere la sorella così umana anche quando veniva maltrattata, non comprendeva il motivo del suo continuo perdono. Lei non era in grado di perdonare il più piccolo errore, non sopportava le persone che piangevano o che avevano bisogno di sfogarsi; Andromeda invece era sempre lì pronta a consolare chiunque, aveva una buona parola per tutti e raramente perdeva la pazienza. Aveva poi un qualcosa di carismatico che le permetteva di vincere su tutto e tutti, perfino sulla madre.
Andromeda era sempre sorridente e allegra; lei invece era stanca di quella situazione, era oppressa dalla paura di sbagliare, sentiva l’ombra della madre sempre su di sé, non la lasciava mai da sola, soffriva e non aveva lacrime per mostrarlo, temeva e non aveva voce per chiedere aiuto perché la madre era lì con lei. Capitava anche che Bellatrix sognava la madre, ed allora i suoi sogni generalmente felici diventavano improvvisamente cupi, non poteva più evadere nel suo mondo ma era costretta alla realtà, doveva dire addio ai suoi sogni, doveva proclamare il loro requiem. Sentiva di uscire pazza.
Andò nel suo bagno personale e si sciacquò il viso, poi si aggiustò il vestito e i capelli e ritrovò la sua solita aria austera.
Quel giorno era Natale, tutta la famiglia si era riunita a casa loro per la tradizionale cena. Per i bambini di Londra Natale equivaleva ad una festa allegra e ai regali. Per i Black no. Per loro il Natale era solo un’altra festa come tante altre, i bambini Black non avevano mai visto un regalo ed odiavano quelle carte colorate e quei nastrini luccicanti.
Le tre sorelle avevano passato la mattinata a Londra e guardavano stupite quei bambini che giocavano con la neve, chi lanciava delle palle agli altri bambini, chi costruiva dei pupazzi, chi si tuffava dentro quella poltiglia bianca. Una bambina aveva avuto anche l’ardire di lanciare una palla di neve ad Andromeda. Lei era scoppiata a ridere, ma i suoi genitori no.
Bellatrix uscì nei corridoi, camminò a lungo fra ritratti degli avi e armature, poi finalmente arrivò alla lunga scalinata di marmo e la scese. Nel salone d’ingresso della casa era radunata tutta la sua famiglia, in attesa di cenare.
Erano tutti perfettamente uguali, si distinguevano solo per il diverso colore di capelli, alcuni Bellatrix non li conosceva nemmeno, di altri sapeva solo il nome. Erano pochi i parenti che conosceva davvero, come lo zio Alphard, ma quella sera era l’unico assente.
C’era una sola persona che si distingueva fra tutti, Andromeda. Il suo vestito rosso fuoco risaltava in quel mare di nero, girava su se stessa, cantava e rideva, tutte cose che i suoi parenti non facevano.
Quando Bellatrix l’ebbe raggiunta notò che suo padre, sua madre, i suoi nonni, sua zia Walburga ed un cugino di suo padre, Orion, parlavano sommessamente in un angolo.
Suo nonno Pollux aveva un’aria ancora più severa e cattiva del solito, le bambine notarono che anche tutti gli altri avevano la stessa espressione.
- Secondo te che è successo?- chiese Bellatrix alla sorella in un sussurro. Era curiosa di sapere il motivo di quella durezza ma non voleva chiedere, sapeva che nel migliore di casi sarebbe stata cacciata a calci.
- Non ne ho idea e non m’interessa, sono problemi di adulti, no?- rispose Andromeda, ridendo.
-Sì ma… se riguardassero noi? -
-Ce lo avrebbero detto, Bella. Ti preoccupi troppo! -
Bellatrix non era del tutto sicura dell’affermazione della sorella tuttavia cercò di non dare peso a quei parenti. Le fu impossibile, però, non notare l’espressione sconvolta che si era dipinta sul volto della nonna e il terrore della zia.
- Vieni - Bellatrix afferrò per il polso Andromeda e la trascinò lì vicino, in modo da ascoltare quel che dicevano.
- Non ho alcuna intenzione di sposarmi ora! - sibilò Walburga in direzione del padre.
- Non m’importa quel che vuoi o no, Wal! L’unica cosa veramente importante è nascondere questo scandalo! Vi rendete conto di quello che avete fatto? Fra cugini! - rispose con lo stesso tono di voce Pollux, la sua voce trasudava tutta l’ira che provava. Non ci poteva credere, sua figlia, la sua prediletta aveva una relazione con suo cugino, e da anni.
Il labbro di Walburga tremava, cosa assai insolita. Lei era una donna forte, nulla la colpiva, nulla le importava, aveva fatto letteralmente scappare diversi partiti ed iniziava a non essere più una ragazzina, non le era mai importato di nessuno, svolgeva la sua vita autonomamente.
Poi i suoi occhi incontrarono quelli di Orion, suo cugino. Erano cresciuti insieme, non erano mai andati d’accordo, ma quando tornarono dai propri viaggi e si rincontrarono bastò un solo sguardo per cadere nel peccato, nell’incesto, ormai erano anni che la loro relazione segretamente andava avanti, ogni tanto qualcuno sospettava qualcosa ma fino a quel momento erano riusciti a nascondere tutto. Però ora non potevano più nascondere nulla.
- Scandalo!- strillò Walburga, ormai non le importava più nulla degli altri parenti e della rivalità che c’era nella stessa famiglia. - Non sei sempre stato tu a dirci che era meglio sposare un proprio parente che un Mezzosangue? Ed ora? Preferiresti che il padre del mio bambino fosse un Mezzosangue? Lo vorresti? -
Pollux era spiazzato da quella domanda. Non poteva negare di aver sempre detto quelle parole, né poteva affermarsi favorevole ad un matrimonio con un Mezzosangue. Non poteva replicare. C’era da dire che la famiglia di Orion era ricca, oltre ad essere Purosangue e che sarebbero stati moltissimi i vantaggi di quel matrimonio, lui stesso l’avrebbe obbligata a sposarlo se non fosse stato suo cugino. Tuttavia non poteva cancellare la parentela che li univa ed era troppo tardi per stroncare ogni rapporto.
Tutti i parenti intanto avevano smesso quelle false cerimonie d’inchini e riverenze a cui nessuno voleva mai dar inizio, osservavano le cinque persone nell’angolo cercando di carpire quel che si preannunciava come un pettegolezzo. Le due bambine, che non si erano mosse da lì, si guardavano e si consultavano senza riuscir a capir quel che succedeva.
- Almeno in questo modo hanno preservato la purezza del sangue - intervenne Druella, le braccia incrociate al petto, negli occhi uno sguardo superiore. Sua cognata le era sempre piaciuta, forte di carattere ed eloquente nel parlare, amava passare i pomeriggi con lei. Non poteva dire lo stesso di Orion, non le piaceva particolarmente, ma del resto quelli erano problemi di Walburga, non suoi.
Orion, dal canto suo, era troppo vigliacco per prendere iniziativa, per difendere sé e sua cugina. Non aveva mai preso sul serio quella relazione, l’aveva sempre considerata uno stupido gioco che a quanto pareva era finito male. No, non amava Walburga, amava il suo fisico, amava il suo sguardo, amava possederla ma non l’avrebbe mai sposata o avuto una relazione seria, anche perché non era certo l’unica donna che frequentava in quel periodo. Era stupito che non l’avesse ancora capito, la trattava male, la ignorava se non era lui a cercarlo e spesso lei piangeva a causa sua, ma non capiva. Aveva paura di incrociare lo sguardo della moglie di suo cugino, la temeva più di ogni altra persona, quella donna era in grado di strappare la verità a tutti con un’occhiata. Era una donna estremamente intelligente e pericolosa, la evitava a tutti i costi e quando proprio non poteva fare a meno di parlarle non la guardava mai negli occhi.
-Comunque sia si sono comportati in maniera ignobile e dovranno assumersi le proprie responsabilità, al più presto verrà fissata la data del matrimonio- Pollux prese per il braccio sua moglie Irma e insieme si allontanarono, seguiti dai padroni di casa.
Orion fissò un punto indistinto davanti a sé per qualche secondo, poi si affrettò ad andarsene. A quanto pareva era finito il tempo della bella vita.
Walburga lo seguì con lo sguardo finché non scomparve dalla sua vista, gli occhi pieni di lacrime. Si aspettava un minimo di sostegno, uno sguardo almeno, ma lui se n’era andato come faceva sempre, senza una parola, era sempre così bastardo. Si chiese come faceva a sopportarlo, come poteva piacerle una persona simile, alla fine anche lei aveva un cuore. Si affrettò ad uscire in giardino e si lasciò cadere sotto un albero, incurante della neve, e scoppiò a piangere.



  
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