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Autore: Mary P_Stark    08/01/2014    6 recensioni
Serena Ingleton è l'A.D. di Vanity Fair Los Angeles. Nessuno è in grado di metterle i piedi in testa, o di farla vacillare. Forte e determinata, sa quel che vuole e si impegna al massimo nel suo lavoro come nelle sue amicizie. Ma non è sempre stato così. Una sola persona, nella sua vita, è riuscita a far crollare ogni sua certezza, ogni sua barriera, ogni suo pregiudizio. E questa persona è Beaugirand Shaw, suo vecchio compagno di classe e, tra le altre cose, suo primo amore. Il destino li divise, spezzando dolorosamente ogni legame tra di loro, ma come si sa, al Fato piace giocare. E un incidente li rimette sulla stessa strada, a distanza di vent'anni. Il cuore spezzato di Serena sarà guarito, o rivedere Beau riaprirà antiche ferite? E Beau rimarrà indifferente a lei, dopo tanto tempo? O rimedierà all'errore che li divise tanti anni prima? SEGUITO DI "HONEY"-FA PARTE DELLA SERIE "HONEY'S WORLD"
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Honey's World'
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2.
 
 
 
Agosto 1990.
 
Consapevolmente, poteva anche comprendere le intenzioni di suo padre ma, pur avendo una mentalità aperta e una buona dose di coraggio, quando si ritrovò a fissare la scalinata che portava all'ingresso della scuola, tremò.

La Santa Monica High School non era male, come complesso.

Suddiviso in 'case', era un ampio complesso in stile moderno dalle bianche pareti, un giardino ben tenuto sull'ingresso e una marea di ali in cui perdersi, finire vittima di qualche bullo, o peggio, massacrata da una comitiva di ragazze.

Devi convivere con i tuoi coetanei al di fuori dell'ambiente protetto della scuola privata. Non puoi sempre fare affidamento sul tuo nome, figliola, ma devi imparare a cavartela con le tue sole forze.

A parole, tutto bellissimo ma, nella sostanza, ce l'avrebbe fatta?

E poi, perché? Perché doveva affrontare quella prova?

Cos’aveva fatto per meritarsi una simile condanna?

Serena deglutì a fatica, il sentore metallico dell'apparecchio ai denti che le scivolò fastidioso in gola e, fattasi forza, mise il primo piede sulla scalinata che conduceva alle porte a vetri dell'istituto.

Intorno a lei, una masnada informe di studenti le passò accanto lanciandole solo brevi occhiate.

Era probabile che loro avessero fatto parte di quella scuola fin dagli albori, quando ancora il mondo non appariva così immenso e senza confini, e maledettamente spaventoso.

Erano cresciuti assieme, avevano creato dei gruppi, degli autentici clan all'interno del plesso scolastico e lei, nuova  arrivata – ricca – e, per giunta, bassa di statura e con l'apparecchio dentale, sarebbe stata massacrata.

Non si faceva illusioni.

Se nella scuola privata certi comportamenti non erano ammessi – anche se venivano puntualmente evase le regole in modi subdoli – nella scuola pubblica il bullismo era all'ordine del giorno.

Certo, i Direttori d'Istituto ce la potevano anche mettere tutta per arginare il problema  ma, a parte inserire dei metal detector all'entrata e delle guardie armate all'interno, dubitava che le cose sarebbero cambiate.

Potrei anche finire con l'odiarti, papà, pensò tra Serena Elizabeth Ingleton, erede del magnate delle acciaierie Ingleton Inc., Barthemius Oliver Ingleton.

Figlia unica e unica depositaria della fortuna del padre, sposato con la popolare avvocatessa Grace Serena Brown, Rena aveva passato i suoi primi quindici anni di vita acciambellata nella quieta sicurezza del suo mondo dorato.

Amata e coccolata da servitù, tata e genitori, aveva studiato in eleganti istituti privati fino all'anno precedente quando, di punto in bianco, suo padre aveva deciso di lanciarla nel circo della vita, e nel peggiore dei modi.

Grace aveva in un primo momento storto il naso, ma alla fine era venuta a più miti consigli, accettando la decisione del marito.

Decisione che aveva spinto Rena – come la chiamavano coloro che le volevano bene – a ribellarsi, forse per la prima volta, alle decisioni genitoriali.

Aveva strepitato, si era infuriata, aveva tenuto il broncio, ma nulla era valso.

Lei sarebbe andata alla scuola pubblica e nulla di quanto avrebbe fatto, o detto, avrebbe cambiato lo stato delle cose.

Ed ora si trovava lì, agnello sacrificale dinanzi al ceppo su cui le avrebbero tagliato la testa, e lei non sapeva come salvarsi da quel massacro inutile.

Entrò controvoglia, sospingendo i piedi sul linoleum fino all'ufficio della segreteria, dove trovò ad attenderla un bancone dell'accettazione, tre donne impegnate a scribacchiare e diverse poltroncine lungo i muri.

Cartelli che inneggiavano allo studio e alle attività extrascolastiche, sostenute dalla scuola, capeggiavano contro le pareti intonacate di bianco e giallo paglierino.

Lunghi neon appesi sopra la sua testa si intervallavano a pale da soffitto, già debitamente accese per spezzare l'afa di quel giorno di agosto, in cui la sua vita spensierata sarebbe terminata per divenire inferno.

Salutò cordiale e timida una delle segretarie, che la fissò interrogativa prima di domandarle cosa volesse.

Dopo averle spiegato chi fosse, si vide consegnare un cartoncino marrone ov’erano riportate le materie che avrebbe avuto quella settimana, assieme a una pianta dell'istituto e agli orari dei vari corsi extrascolastici.

Ciò fatto, la donna reclinò il capo su quello che stava facendo prima della sua entrata, lasciando Rena sola con se stessa e la sua paura.

Non potendo fare altro, uscì per immettersi nuovamente nel flusso umano del corridoio principale, lasciandosi trasportare pigramente dalla corrente fino a raggiungere la rampa delle scale.

Lì, rimase accanto al mancorrente, salendo con calma e appiattendosi il più possibile per non essere di ingombro a nessuno.

Tutto inutile.

Le spallate si sprecarono, così come gli 'ehi, togliti!' oppure i 'scansati, nanetta!', tutti corredati da occhiate curiose, risolini e sguardi beffardi.

Sarò morta prima di sera, si disse la ragazza, scuotendo mesta il capo di mossi e morbidi capelli bruni dai riflessi ramati, quel giorno trattenuti soltanto da un cerchietto di raso nero.

Per quel primo giorno di scuola aveva preferito indossare qualcosa di anonimo, perciò aveva puntato su dei jeans, una maglietta alla marinara e scarpette da tennis ai piedi.

Sperava, in quel modo, di non attirare troppo l'attenzione, ma si rese conto fin da subito che il suo abbigliamento così normale non le avrebbe risparmiato battute.

Da quel poco che vide, le ragazze preferivano abbigliarsi in maniera molto più appariscente – e disinibita – e, quelle che invece erano vestite come lei, venivano caldamente evitate.

Nerd? Probabile.

Rena sospirò ancora, avviandosi speranzosa verso il laboratorio di chimica, sua prima ora di lezione e, quando entrò, si ritrovò a fissare dei lunghi banchi neri, scaffalature metalliche piene di ogni genere di attrezzatura e...

Sì, i suoi occhi non si erano affatto sbagliati.

Seduta nella fila di fondo, letteralmente avviluppata al braccio di un ragazzo bruno dall'aspetto atletico e affascinante, stava la creatura più bella che lei avesse mai visto.

Le sue labbra di rosa stavano cercando di attirare l’attenzione dell’apparente recalcitrante belloccio, alternando sorrisi ironici a più sottili smorfie maliziose.

L'arrivo  di un loro compagno di studi la fece diventare subito l'oggetto di occhiate derisorie, che lei avrebbe preferito evitare caldamente.

L'urto violento con il nuovo arrivato le fece cadere tutto ciò che aveva in mano, portando i due ragazzi in fondo alla classe a curiosare nella sua direzione.

Il colpevole dell'agguato alle spalle si limitò a fissarla seccato.

“Che cavolo ci facevi, ferma sulla porta?”

“Scusa” mormorò lei, raccogliendo in fretta le sue cose e avvampando al tempo stesso in viso.

Il ragazzo grugnì un mezzo insulto prima di esclamare: “Ehi, Beau, ciao! Yvette! Sempre bellissima!”

“Ciao, Roy” dissero in coro i due, con voci ugualmente belle e armoniose.

Rena si sentì malissimo all'idea di doversi sedere sotto i loro sguardi curiosi ma, non potendo fare altro, scelse il banco più lontano da loro e vi si accomodò, piegando il capo il più possibile per non dare ulteriormente nell’occhio.

Man mano che gli studenti entrarono nella classe, gli sguardi si moltiplicarono, così come i risolini e le battutine di spirito di Roy, che raccontò a tutti dell'allieva imbranata a cui erano caduti i libri.

Prima ancora che la prima campanella fosse suonata, la stavano già guardando tutti con aria divertita e ironica malignità.

Rena pregò che l'insegnante giungesse a salvarla il prima possibile, perché l'avere come compagna di banco una ragazza con il suo medesimo grado di popolarità non l'aiutava molto.

Quando infine un uomo azzimato e gracile entrò nell'aula, il cicaleggio calò un poco.

Nel poggiare la sua borsa sulla scrivania, l’uomo esordì dicendo: “Bene, ragazzi. Da oggi siete al liceo, perciò molti vostri atteggiamenti non verranno più accettati, così come molti comportamenti indulgenti non saranno più tenuti dal nostro corpo docente. Dovrete imparare la disciplina, l'ordine ed il rispetto per l'autorità.”

Sono in caserma, o a scuola?, pensò tra sé Rena, non credendo neppure per un momento che una simile linea di condotta potesse essere tenuta in piedi.

Nessuno degli studenti dietro di lei si sentì minimamente minacciato dalle parole intense dell'insegnante e, anche durante la lezione, non ci fu il tanto sperato cambiamento agognato dal professore.

Semplicemente, ognuno faceva quel che voleva.

Rena e la sua compagna di banco, che scoprì chiamarsi Maurinne Schmit, si limitarono ad ascoltare la lezione senza badare ai chiacchiericci vari alle loro spalle.

Meno si fosse resa visibile, meglio era.

Con un leggero moto di speranza, scoprì che Maurinne aveva quasi le sue stesse lezioni perciò, al suono della campanella, si levò dal banco con un sorriso che sapeva di coraggio e determinazione.

Questo, però, venne subito spazzato via dalla bella in fondo all'aula che, come un generale in corteo, le scansò per uscire prima di loro, facendo cadere tutti i libri ad entrambe.

E due, pensò accigliata Rena, raccogliendo nuovamente la sua roba prima di sentire il risolino sommesso della bellezza bionda, ferma sul ciglio della porta ed intenta ad osservarla con interesse.

“Tu devi essere nuova per forza. Non ti ho mai vista prima, qui intorno” asserì la ragazza, fissandola con i suoi opachi occhi azzurri.

Rena si limitò ad annuire, non arrischiandosi ad aprire bocca.

La bionda, non contenta, si avvicinò con andatura fluida e sinuosa, le mise un dito sotto il mento per sollevarle il viso e la scruto con curiosità.

Il giovane bruno al suo fianco la osservò a sua volta incuriosito, accennando un mezzo sorriso.

“Oh, ma guarda! Che scocciatura! L'apparecchio ai denti! Ti da fastidio, cara?” ironizzò la bionda, lasciandola andare.

Maurinne defilò alla svelta, lasciandola sola con la coppia di esseri perfetti e bellissimi.

Tutta la sua speranza di aver trovato un’alleata al primo giorno scemò in un nulla di fatto, mandandola nel panico.

Deglutendo a fatica, Rena annuì alla sua domanda e la bionda – Yvette –, accentuando il suo sorriso denigratorio, lanciò un'occhiata al brunetto al suo fianco.

“Non possiamo aiutarla?”

Il ragazzo si accigliò immediatamente e, scuotendo il capo, replicò: “Yvette, smettila. Non ho intenzione di finire nell'ufficio della Direzione il primo giorno di scuola.”

“Come sei noioso, Beau! Non vuoi proprio aiutare ...” bloccandosi, la bionda si volse verso Rena e le domandò caustica: “Come ti chiami, sgorbietto?”

“Serena... Serena Elizabeth Iglenton” recitò a fatica lei, ricordandosi troppo tardi che nominare il suo cognome avrebbe potuto richiamare solo guai.

Accigliandosi immediatamente, Yvette la scrutò con attenzione per alcuni istanti prima di assottigliare le iridi azzurro opaco e celiare: “Oh, ma guarda! Ecco chi mi ricordavi. Sei la figlia di quel riccone dell'acciaio, vero? Eri con lui sul molo di Santa Monica, quando hanno inaugurato quella nuova nave!”

Oh, cavoli, è vero!, esalò tra sé Rena, cominciando a tremare leggermente.

La bionda allora rise sarcastica e, allungata che ebbe una mano, arricciò attorno a un dito una ciocca delle lunghe chiome bruno ramate di Rena.

“E cosa diavolo ci fa una riccona come te, in una scuola pubblica? Cos'hai combinato, per fare incazzare tanto papino?”

“Lui non è...” iniziò col dire lei, subito azzittita dall'occhiata venefica di Yvette.

“Non ti ho dato il permesso di rispondere!” sibilò la bionda, incenerendola con lo sguardo.

“Andiamo, Yvy. Faremo tardi” la richiamò Beau, lanciando un'occhiata disperata a Serena, che tremò visibilmente.

Quei chiari occhi di giada parvero metterla in guardia e lei, in fretta, si murò la bocca.

“Visto che sei così ricca, non ti offenderai se chiederò a te di foraggiarmi casomai mi servisse qualcosa. Tra compagni di scuola ci si aiuta, no?” ironizzò Yvette, spingendola lontana da sé con una certa acredine.

Beau attese un attimo per assicurarsi che la compagna di classe fosse lontana e, a bassa voce, intimò a Serena: “Stalle alla larga, se non vuoi cacciarti nei guai.”

Ciò detto, se ne andò a grandi passi e alla ragazza non rimase altro che prendere la sua roba, uscire mogia dall'aula e recarsi alla prossima lezione.

Evitarla? Se avesse potuto, l'avrebbe fatto più che volentieri.

Ma, visto com'era andata, dubitava ci sarebbe riuscita.

 
§§§

Era distrutta, senza forze, piena di lividi interni dovuti al dolore provato ad ogni nuova umiliazione.
Il Fato doveva essersi divertito molto, con lei, affiancandole Yvette ad ogni lezione.

Neppure la presenza dell'aitante Beau era riuscita a distogliere da lei l'attenzione della bella bionda e, per tutto il giorno, Rena aveva dovuto subire le sue vessazioni più o meno marcate.

Il fatto che lo facesse sempre nei momenti migliori, in cui non poteva essere vista dai professori, le fece capire quanto fosse brava in quel gioco perverso.

Quando infine uscì da scuola, percorrendo mogia le scale, Rena quasi andò a sbattere contro una figura a lei famigliare e che, in quel momento, le restituì in un colpo solo tutta la gioia persa in poche ore.

Aprendosi in un sorriso estasiato, fissò con occhi lieti il viso a lei caro di Nickolas Van Berger, suo coetaneo e amico d'infanzia che, in divisa scolastica e con un gran sorrisone, le aprì le braccia per stringerla a sé.

Rena non si fece pregare.

Lo abbracciò con così tanta foga che Nick emise un singulto strozzato prima di scoppiare a ridere e, nel baciarle la chioma bruna, le avvolse le spalle con un braccio e la condusse via dalla scuola.

Gli studenti li fissarono dubbiosi e vagamente divertiti, ma Nickolas non vi fece alcun caso e Rena, troppo demoralizzata per pensare alle conseguenze, si aggrappò a lui come ad un'ancora di salvezza.

Quando infine raggiunsero la berlina scura con cui l'autista della famiglia Van Berger aveva accompagnato Nick, Serena vi salì con naturalezza, dimostrando una volta di più quanto fosse abituata agli agi e la bella vita.

L'amico la seguì e le si sedette al fianco, dicendo: “Possiamo andare, Leonard.”

“Subito, signorino” assentì l'uomo, mettendo in moto.

Più di uno studente fissò accigliato la loro partenza in grande stile, ma ancora una volta Rena non vi badò.

Che guardassero pure, a lei non interessava.

“Devo dedurre che il primo giorno di scuola pubblica è stato un inferno” motteggiò bonariamente Nick, sorridendole.

Lei lasciò scivolare il capo sulle sue gambe e subito il ragazzo le carezzò i capelli, muovendo gentilmente la mano su quella massa morbida e profumata.

“Così brutta, Rena?” mormorò allora Nick, sinceramente dispiaciuto.

La ragazza annuì, singhiozzò e infine pianse, coccolata in silenzio dalla presenza sicura e forte dell'amico che, senza più chiederle nulla, si limitò a lasciarla sfogare.

Fermatisi in prossimità di una gelateria dopo un lungo girovagare, Nickolas offrì un gelato all'amica.

Sedutisi poi all'ombra delle palme, su una panchina in ferro battuto, lei gli raccontò tutto; le vessazioni, l'orribile bionda, l'avvertimento del ragazzo bruno. Tutto.

“Non riesco a capire tuo padre, onestamente. Stavolta mi ha lasciato interdetto” ammise controvoglia Nickolas.

Lui stimava da anni Barthemius Ingleton ma, in quell'occasione, le sue manovre gli risultavano oscure.

“Dillo a me! In questo momento, lo odio con tutta me stessa!” sibilò Rena, affondando il cucchiaio nella massa morbida della crema alle nocciole che aveva preso assieme a una buona dose di panna montata.

Sorridendole indulgente, l'amico replicò: “Non odieresti tuo padre neppure sotto tortura.”

“Non credo. Ora come ora, non ne sarei proprio sicura” replicò lei, acida.

“Se vuoi, provo a parlarci io” le propose lui, benevolo.

“E' inutile. Ho usato tutte le tattiche che conosco, e non hanno funzionato. E' stato irremovibile” brontolò Rena, ingollando l'ennesimo cucchiaino di gelato.

“Allora lo dirò a mio padre e...”

Interrompendolo sul nascere, lei scosse il capo e, con un sospiro, mormorò: “Non voglio che litighino per me. Andrea e mio padre sono grandi amici e non voglio che, per causa mia, abbiano dei dissapori. Quando mio padre prende una decisione è quella, e nessuno è in grado di fargli cambiare idea. Neanche mamma che, tra l'altro, è d'accordo con lui.”

Nickolas sbuffò, attirò a sé l'amica per darle tutto il suo appoggio morale e, accigliato, commentò: “Non li capisco proprio, gli adulti.”

“Bran come sta, a proposito? Il braccio è andato a posto?” si informò a quel punto Rena, preferendo cambiare argomento.

Nick annuì, sempre mantenendosi accigliato.

“Se solo mamma lo lasciasse in pace, guarirebbe anche prima. Come può pretendere che sia sano come un pesce due giorni dopo aver tolto il gesso? Lo ha tenuto per un mese! Gli serve qualche tempo per recuperare le forze. L'ha detto anche il fisioterapista!”

“Forse lo sta solo incoraggiando. Sai che tua madre è una tipa di polso” tentennò l’amica, non sapendo bene che dire.

Non si era mai trovata a suo agio con Isabel Van Berger, ma non voleva incrinare la patina perfetta che Nick e Bran aveva steso sull'immagine della loro madre, confidando loro i suoi dubbi.

Anche se, a sentir parlare l'amico, sembrava che quell'amore incondizionato e cieco stesse svanendo, almeno da parte di Nickolas.

“Ha dieci anni, ci sta benissimo che possa piangere quando gli fa male!” sbottò il ragazzo prima di calmarsi, prendere un gran respiro e aggiungere: “Ma io non devo prendermela con te, perché non c'entri. Vuoi andare a casa, ora, o preferisci venire a cena da noi?”

“Vado a casa. Voglio che papà veda come mi ha ridotta” sentenziò Rena, alzandosi dalla panchina con aria volitiva.

Nick la imitò e, tenendola per mano, la accompagnò all'auto e sorrise a Leonard, che stava finendo la sua cialda al cioccolato e pistacchio.

“Finisci pure con calma. Noi, intanto, ci sediamo in auto.”

“Avrà vita breve, questo è sicuro” ridacchiò l'autista, indicando il gelato.

Il ragazzo ammiccò divertito, annuendo complice e, nell'aprire la portiera all'amica, mormorò: “Te la caverai, Rena. Tranquilla. E hai me su cui contare.”

“Se non ci fossi tu, mi sarei già data alla fuga” mugugnò la ragazza, accomodandosi con aria stanca e accigliata sul morbido sedile di pelle.

Non avrebbe mai resistito fino al diploma se ogni giorno, per quel numero mostruoso di anni, fosse stato così.

Non era così forte, no davvero.

 
 
 
 
_______________________
N.d.A: Per un po’ rimarremo nel passato di Rena, per comprendere dov’è nato il dissapore tra lei e Beau. Spero di avervi incuriositi almeno un po’.
  
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