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Autore: Laylath    12/01/2014    3 recensioni
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo 8. Vittima e carnefice.




Dopo che Jean, Heymans e la bambina si furono allontanati, Kain rimase parecchio tempo inginocchiato a terra, fissando mestamente la propria tracolla sporca e con il materiale scolastico sistemato in modo disordinato.
Quello scontro con Jean l’aveva letteralmente scosso: mai fino a quel momento era stato aggredito in maniera così violenta dal suo aguzzino; la pelle dietro il collo continuava a pizzicare e bruciare in maniera violenta e non ci voleva molto per capire che il rossore sarebbe durato per diverse ore, restando tremendamente visibile.
Con che coraggio poteva presentarsi a casa in quel modo, con i vestiti pieni di terra e quel segno così evidente?
Tuttavia a un certo punto le sue gambe si mossero automaticamente e si alzò in piedi. Raccolse mestamente la tracolla, senza preoccuparsi di farla passare intorno alla testa e si diresse con passività verso casa: in qualche modo una parte di lui voleva tornare al sicuro dentro quelle pareti che, a quanto sembrava, erano il suo unico vero rifugio, il suo nido protetto. I suoi tormentatori potevano attaccarlo anche al di fuori della scuola: un’evoluzione che non gli era mai passata per la mente.
Mentre questi sgradevoli pensieri continuavano a vorticargli nella testa, arrivò nel cortile del retro che dava sulla cucina la cui finestra, considerata la bella giornata, era aperta.
“Oh, vedrai che starà arrivando: – disse la voce di suo padre – sarà questione di minuti.”
A quella frase Kain perse qualsiasi forma di coraggio e non ce la fece ad entrare. Cercando di trattenere le lacrime, che avevano improvvisamente fatto la loro ricomparsa, andò a sedersi contro il muro esterno, raggomitolandosi su se stesso, sperando che il mondo attorno a lui scomparisse e che i suoi genitori, specie suo padre, si dimenticassero di avere un simile figlio.
Rimase in quella posizione per diversi minuti prima che la voce della madre gli facesse alzare di colpo la testa.
“Kain! Pulcino, allora sei qui. Ma che hai?”
Immediatamente la donna lo fece alzare con gentilezza, prendendogli il viso tra le mani e notando l’espressione sconvolta. Quasi automaticamente le sue braccia morbide e profumate lo strinsero in un cerchio di protezione e d’amore, una cosa che da un lato fu di estremo conforto al bambino, ma dall’altro lo fece sentire profondamente triste.
“Amore mio, - disse ancora, scostandosi leggermente da lui e guardandolo - fai vedere… sei tutto sporco. Non vuoi dirmi che cosa ti è accaduto?”
“Mamma…” balbettò lui, sentendosi pericolosamente prossimo alle lacrime.
“Ehi, figliolo, che è successo?”
La voce del padre lo fece trasalire e cercò di ricacciare indietro la disperazione. Senza alzare lo sguardo sentì la mano di Andrew che gli sfiorava i capelli e poi scendeva con delicatezza sul collo, dove il colpo di Jean bruciava ancora. Questo lo fece sentire profondamente a disagio: non c’era bisogno di un grande intuito per capire che per la centesima volta non era riuscito a farsi valere.
“Non è successo nulla…” mormorò con tutta la forza di volontà che gli restava.
“Nulla…” il disappunto nella voce di suo padre fu fin troppo udibile.
“Nulla!” scoppiò a piangere, divincolandosi con violenza dalle braccia materne per scappare dentro la cucina e poi correre su per le scale, fino alla sua stanza. Entrò e sbatté la porta con tutta la forza disperata dei suoi undici anni per poi buttarsi nel letto a singhiozzare. Non seppe per quanto rimase da solo con la sua disperazione, ma all’improvviso sentì la porta aprirsi anche se rifiutò di girarsi per guardare chi era.
“Non è stato bello divincolarti in quel modo da tua madre, Kain; – disse la voce calma di Andrew – e se pensi che sbattendo la porta di camera tua risolverai qualche problema stai completamente sbagliando.”
Il bambino non si mosse, restando ostinatamente prono nel letto con la faccia nascosta nel cuscino. Suo padre non era tipo da picchiarlo, nessuno dei suoi genitori lo era, ma quella voce così calma spesso faceva più male di un’eventuale sculacciata o schiaffo… perché gli chiedeva una reazione che lui era incapace di dare.
Possibile che non capisse? Possibile che ogni volta doveva saltare fuori questo discorso? Perché tutti gli dicevano di tenere lo sguardo alto, se nel momento in cui l’aveva fatto era stato buttato a terra da quella sberla di Jean?
Era facile parlare se ti chiamavi Roy Mustang, o se eri una persona amata e rispettata dagli altri…
Sapeva che suo padre era in piedi accanto al letto, aspettando una sua risposta, ma lui non aveva nessuna intenzione di dargliela, come sempre del resto: era un copione che ben conoscevano.
“Come preferisci; – disse ancora la voce di Andrew, dopo qualche minuto di teso silenzio – ma mi auguro che quando deciderai di scendere giù, avrai il buon gusto di chiedere scusa a tua madre. Presumo che non abbia nemmeno voglia di pranzare, vero?”
Non ci fu alcuna risposta: persino i singhiozzi erano diminuiti in quel momento di ostinata sfida. Forse quell’accenno a saltare il pranzo andava considerato come una sorta di punizione, ma Kain non ci fece nemmeno caso: non sarebbe sceso di sotto per nessun motivo.
I passi si allontanarono dal letto e la porta si chiuse con discrezione, lasciando il bambino solo nel suo circolo vizioso di disperazione e auto compassione.

Per tutto il tragitto che avevano fatto assieme, Heymans e Jean non si erano scambiati una sola parola, un fatto che non era mai successo in tutti quegli anni di amicizia.
Il primo era profondamente turbato per quanto era successo: mai avrebbe voluto assistere ad una scena simile; e la consapevolezza che se non fosse intervenuto lui, Jean sarebbe anche andato oltre con le botte che aveva intenzione di dare al bambino gli faceva ancora più male.
Il secondo si sentiva pieno di rabbia, pronto ad esplodere da un momento all’altro: ce l’aveva a morte con il suo miglior amico per averlo interrotto in quella che era una questione strettamente personale tra lui e Kain, mettendo in mezzo anche sua sorella. Ma era soprattutto quella frase con cui l’aveva paragonato ad Henry che bruciava malamente nella sua anima, anche se preferì non ammetterlo nemmeno a se stesso.
Arrivarono al solito crocevia che ormai la tensione era altissima e solo la presenza di Janet li obbligava a tenere un’espressione relativamente calma. Ma era chiaro che la bambina intuiva che qualcosa non andava e che Jean era arrabbiato come mai l’aveva visto prima.
Tanto che, come Heymans le lasciò la mano, alzò gli occhi azzurri e imploranti su di lui quasi avesse paura di essere lasciata sola con quella versione così sconosciuta di suo fratello
“Heymans…” mormorò.
Il rosso la guardo con rassegnazione, restio pure lui a lasciarla in una situazione così ostile. Ma si costrinse ad accarezzarle la testolina bionda e a farle un lieve sorriso rassicurante.
“Dovete andare a casa, Janet, vi aspettano per pranzo.”
“Domani ci sei ad aspettarci per andare a scuola, vero?” chiese supplicante.
“Andiamo, Janet! – ordinò Jean, tirandola bruscamente per la mano – Siamo già in ritardo!”
La bambina non aveva mai sentito la voce di suo fratello così arrabbiata e non osò obbiettare, facendosi trascinare via senza protestare. Si voltò lievemente per guardare il rosso che le rivolgeva un lieve cenno di saluto e, quasi contemporaneamente, la sua manina smise di stringere quella del fratello, rimanendo inerme nella morsa di lui.
Quando arrivarono in prossimità di casa loro, il giovane la lasciò andare, quasi spintonandola in avanti.
“Fratellone…”
“Che c’è?” chiese lui, senza nemmeno guardarla, andando verso la pompa che c’era nel mezzo del cortile.
“Heymans… Heymans domani viene, vero?” osò domandare la bambina.
“Non dire mai più quel nome!” sbottò gettando a terra la tracolla e mettendosi a pompare con forza l’acqua fino a quando non ne uscì un fiotto violento: mise la testa sotto quel getto gelido, trattenendo un’esclamazione di sorpresa per quel contatto così improvviso. In quel momento era l’unica cosa che potesse aiutarlo a sbollire.
Odiava Kain Fury, odiava Roy Mustang… odiava Heymans Breda.
Il rumore dell’acqua si confuse con quello dei singhiozzi disperati di Janet.

Erano le tre passate quando Kain si svegliò.
Girò il viso di lato, scoprendo di avere gli occhiali fastidiosamente appannati ed il cuscino sotto di lui zuppo di lacrime; si sentiva incredibilmente svuotato e rintronato mentre ricostruiva i pezzi di quella giornata iniziata così bene e poi proseguita in modo disastroso.
Aveva una tremenda fame e sentiva la necessità di levarsi quei vestiti e farsi un bagno caldo. Come si mise a sedere nel letto si accorse che qualcosa gli scivolava sulla spalla per poi cadere sulla coperta: era una pezza di lino, ancora leggermente umida e non ci impiegò molto a collegarla al leggero senso di fresco sollievo che sentiva dietro il collo, proprio dove prima c’era il dolore bruciante dello schiaffo.
Sua madre doveva essere entrata in camera mentre dormiva e gli aveva messo quel piccolo medicamento.
… avrai il buon gusto di chiedere scusa a tua madre.
Ma mentre le parole del padre risuonavano nella sua mente stordita, si alzò dal letto e automaticamente si sedette sul pavimento, prendendo una scatola da sotto la scrivania. Fili elettronici e rondelle iniziarono a passare per le sue mani, diventando un circuito, ma questa volta Kain non cercava il funzionamento: quando si sentiva depresso smontava e rimontava in maniera completamente passiva, fissando il vuoto e facendosi cullare da quei gesti abituali che gli facevano perdere la cognizione del tempo.
Fu sua madre a richiamarlo gentilmente alla realtà: si accorse di lei quando gli si sedette accanto nel pavimento di legno; era stata così discreta nell’entrare e lui era così assorto in quell’automatismo difensivo che la sua voce quasi lo fece sobbalzare.
“Cavi verdi e azzurri: li ho sempre trovati dei bellissimi colori.”
“Il verde è per un uso generale non confondibile, – spiegò Kain con voce piatta, abbassandosi a guardare i fili e ripetendo le definizioni che aveva letto nel suo libro di elettronica – il blu è per un conduttore neutro.”
“Quante cose che sai, pulcino mio.” sorrise Ellie, allungando la mano per accarezzargli i capelli.
Il bambino ripose il circuito nella scatola e rimase ad accettare quelle carezze, riprendendo contatto con la realtà e chiedendosi da che parte iniziare a scusarsi. Non perché gliel’aveva detto suo padre, ma perché la donna che gli stava accanto era la persona al mondo che meno meritava di essere trattata in quel modo così sgarbato.
“Mamma… - mormorò infine, alzando lo sguardo su di lei – scusami per… per aver fatto un disastro coi vestiti e le lenzuola. Ho riempito tutto di terra…” c’era molto di più in quella frase, ovviamente, ma per quella piccola forma di vergogna che spesso hanno i bambini, la vera motivazione veniva nascosta dietro altre cose meno importanti. Ma Kain sapeva anche che sua madre sapeva rispettare ed interpretare le sue parole.
“Eh sì, un bel disastro, - sorrise infatti Ellie, alzandosi e tendendogli la mano per indurlo a fare altrettanto – bisogna decisamente cambiare tutto. Che dici, mi dai una mano?”
“Certo.” sorrise timidamente lui, aiutandola a disfare il letto ed ammucchiare tutto il bucato da fare.
“Poi che ne dici di farti un bagno e di scendere giù a mangiare qualcosa?” gli propose con gentilezza.
“Papà è in casa?” chiese lui, leggermente timoroso.
“No, amore, è andato a parlare con delle persone in paese per un nuovo lavoro da fare; torna stasera a cena.”
“Era… era molto deluso di me?” osò domandare il bambino.
Ellie posò a terra il mucchio di lenzuola e coperte sporchi: si inginocchio e prese il figlio tra le braccia, stringendolo a se.
“Kain, non pensare nemmeno per un secondo che tuo padre sia deluso da te. Lo so che nella tua testolina ci sono tante e tante paure, ma lui non deve essere una di queste. Papà ti adora, così come me: sei il nostro unico amato bambino, il nostro preziosissimo pulcino… non pensare di essere una delusione per noi, mai e poi mai.”
“E’ che stamane…”
“Non confondere preoccupazione con delusione, amore mio.” gli suggerì la donna, baciandolo sulla guancia ancora recante i segni di lacrime e sporco.
“E tu sei preoccupata?” chiese Kain, fissandola con attenzione.
“Preoccupata? Beh, considerato il disastro che hai combinato con questa biancheria… forse dovresti esserlo più tu!” e con un’improvvisa e accurata spinta lo fece sprofondare in quel groviglio di coperte e lenzuola.
“Mamma!” scoppiò a ridere lui, cercando di districarsi.
“Forse potrei risparmiare tempo e mettere a lavare tutto insieme, te compreso… che dici? – sorrise Ellie, inginocchiandosi davanti a lui e bloccandolo in quella posizione sdraiata – Ti va di odorare di bucato?”
“E allora devi lavarti anche tu mamma: – ribatté con spavalderia il bambino – perché ti ho sporcato tutti i vestiti con quell’abbraccio!”
Ellie si guardò con sorpresa l’abito ed il grembiule con inequivocabili macchie di terriccio e scoppiò a ridere, seguita a ruota dal figlio che, come sempre, in sua compagnia, riusciva a ritrovare la serenità.
Jean poteva essere ampiamente dimenticato.

Proprio il biondo aveva momentaneamente sbollito parte della rabbia che fremeva nel suo corpo di adolescente.
A dire il vero il rientro a casa era iniziato in modo abbastanza teso, con Janet che piangeva e lui che entrava in cucina praticamente fradicio dalla cintola in su. Sua sorella, anche dopo che si era calmata, aveva tenuto un atteggiamento mogio per buona parte del tempo e non gli aveva rivolto la parola. Non che lui avesse intenzione di risponderle.
Sua madre aveva cercato di capire che cosa non andasse, pensando che si trattasse di uno dei soliti litigi tra fratelli, magari particolarmente brutto. Ma quando per caso venne tirato fuori il nome di Heymans, Janet si rimise a piangere e Jean si alzò dal tavolo, uscendo con ancora metà del piatto pieno.
Al contrario di quanto aveva fatto Kain poco prima, non era andato in camera sua, sbattendosi la porta alle spalle: non era quel tipo di persona.
Aveva bisogno di uno sfogo fisico e così era entrato nel magazzino dell’emporio dove aveva iniziato a lavorare come un ossesso, spostando pesanti sacchi o altro materiale, in uno sforzo che non aveva mai compiuto.
Suo padre lo raggiunse che questa prova fisica era iniziata da una quindicina di minuti ed rimase ad osservarlo, con gli occhi azzurri che sembravano trafiggerlo. Non gli disse niente, né si mise ad aiutarlo: si sedette su una cassa ed aspettò che le energie si esaurissero da sole; infatti, per quanto Jean fosse estremamente alto e robusto per la sua età, dopo più di mezz’ora di intenso e continuo sforzo fisico dovette cedere alla stanchezza.
Così, dopo aver posato pesantemente l’ultima cassetta, si lasciò cadere a terra, chiudendo gli occhi e respirando affannosamente, mentre i muscoli delle braccia e delle gambe protestavano.
“Direi che adesso possiamo parlare.” disse suo padre, andando a sedersi accanto a lui nel pavimento.
Fino a quel momento Jean si era reso conto solo marginalmente della sua presenza. Fino a quando era rimasto a tavola, James non aveva detto una parola, assistendo a quelle scene di pianto e mutismo da parte dei propri figli.
Jean sapeva per esperienza che quando suo padre voleva parlare con lui in determinate situazioni spesso si trovava con il fondoschiena livido. Ma in questo caso non aveva nessuna voglia di pensare alle conseguenze: il suo litigio con Heymans era troppo doloroso per fermarsi a riflettere su quanto dire al genitore e che tono usare.
“E di cosa dobbiamo parlare?” chiese, dopo aver ripreso fiato, guardando il soffitto con aria assente.
“Di molte cose… per esempio del perché tua sorella sta piangendo, o del perché il nome Heymans ti dà improvvisamente così fastidio, tanto da alzarti e lasciare a metà il pranzo.” scrollò le spalle James con noncuranza, come se stesse parlando del più e del meno.
Colpito in pieno, Jean si alzò di scatto e fece per andarsene.
“Non assumere certi atteggiamenti infantili con me, giovanotto! – lo avvisò l’uomo, alzandosi in piedi a sua volta – Non mi costa niente metterti sulle mie ginocchia e farti assaggiare la cintura, lo sai bene.”
A quelle parole il ragazzo fu costretto a fermarsi, bloccato da anni e anni di esperienza dei castighi paterni; si girò verso il genitore con aria di offesa sfida: sembrava che il mondo, quel particolare giorno, avesse deciso di mettersi contro di lui con continue provocazioni. La rabbia gli risalì di colpo, come se tutto lo sfogo fisico non fosse mai esistito.
“Non siamo più amici, va bene?! – esclamò con stizza, vedendo che l’uomo si avvicinava – E se quella stupida di Janet piange non me ne importa assolutamente nulla! Se lo vede a scuola il suo preziosissimo Heymans! Non ho intenzione di…”
Lo schiaffo del padre lo ridusse a silenzio.
Non era stato nemmeno troppo forte, era una di quelle classiche sberle di ammonimento che servivano più che altro a far male all’orgoglio. Ma per la sua profonda ostinazione, Jean tenne lo sguardo alto sull’uomo, sebbene avesse gli occhi luccicanti per le lacrime e la guancia fastidiosamente bruciante.
Non si portò nemmeno la mano sulla parte lesa.
“Prendi un paio di respiri profondi, Jean, – gli consigliò James, impassibile, mettendogli le mani sulle spalle – e conta fino a dieci prima di dire determinate cose. Non si butta via un’amicizia come quella tra te ed Heymans per qualche stupidata.”
“Non sono stato io a buttarla via…” scosse il capo Jean, con tristezza.
“Mi pare molto strano, conoscendo Heymans: – lo contraddisse l’uomo – forse, ora che hai sbollito abbastanza, in tutti i sensi, puoi andare in camera tua e riflettere su quanto è successo.”
“Stai prendendo le sue parti e non le mie?”
“Non mi pare il momento di fare l’orgoglioso, Jean. E comunque più che le sue sto prendendo le tue… perché finché non rifletti su cosa ha provocato questa fantomatica rottura e capisci dove avete sbagliato entrambi, rimarrai con questo senso di rabbia dentro che non ti porta da nessuna parte. E io non voglio vedere mio figlio, anzi i miei figli dato che anche Janet ne risente, ridotti in un simile stato.”
“Lui è solo… uno stupido! – sbottò il ragazzo, dando una testata al petto del padre e serrando le braccia attorno a lui, prima di scoppiare a piangere – Io non sono per niente come quell’altro!”
James non chiese il significato di quell’ultima frase, non ne aveva bisogno. Strinse a se il figlio e lo fece sfogare, sapendo bene che l’idea di perdere l’amicizia di Heymans era la cosa peggiore a cui il ragazzo potesse pensare. Ma sapeva altrettanto bene che sicuramente, dopo questo sfogo, Jean sarebbe stato abbastanza lucido da riflettere e cercare di raddrizzare le cose: niente avrebbe potuto spezzare quell’amicizia così solida.

Una delle cose che spesso succedeva quando Kain e suo padre “litigavano” è che dopo facevano finta di niente, come se entrambi preferissero non affrontare un discorso che poteva degenerare. Ellie conosceva bene quelle sere cariche di tensione, ma non faceva niente per sbrogliarle perché sapeva che era una cosa che padre e figlio dovevano risolvere da soli.
Se non fosse stato per la massiccia dose di insofferenza che mostravano entrambi, la donna sarebbe anche scoppiata a ridere perché quei due molto spesso si somigliavano più del previsto.
Andrew amava tantissimo il proprio figlio e quando si rendeva conto che i suoi rimproveri paterni non avevano la reazione sperata tendeva alla stessa ostinata indifferenza che assumeva, sebbene in vesti più infantili, Kain. Forse proprio come il bambino si sentiva un fallimento come figlio, lui si sentiva carente come padre… e questo provocava notevoli difficoltà a venirsi incontro.
E questa loro similitudine rendeva problematico il loro rapporto in determinate situazioni.
Anche questa volta erano profondamente turbati entrambi: lo dimostrava il fatto che dopo cena Andrew era andato nel suo studio a lavorare e Kain si era rifugiato in camera sua, quando in genere preferiva restare con la madre fino al momento di andare a letto.
Ma per quanto Ellie fosse apprensiva nei confronti del mondo esterno, non lo era per niente nel rapporto tra padre e figlio: lasciava sempre che le cose si svolgessero secondo le giuste tempistiche, perché tanto uno dei due, molto spesso Kain, prima o poi cedeva all’esigenza di dialogo.
Anche questa volta fu il bambino a cercare il padre, per un semplice motivo: non aveva ancora avuto la forza di chiedere scusa per il suo comportamento di quel pomeriggio. Sotto questo punto di vista Kain era molto ansioso: per quanto il suo carattere docile e tranquillo lo portasse ad essere sgridato o castigato molto di rado, l’idea di uno dei suoi genitori arrabbiato con lui lo faceva stare davvero male.
E così, quando Ellie dalla cucina, dove preparava l’impasto per una pietanza che aveva intenzione di fare il giorno dopo, vide la figura del bambino già in pigiama che si dirigeva verso lo studio del padre, fece finta di nulla.

A Kain piaceva tantissimo guardare suo padre lavorare nel proprio studio: vedendolo in mezzo a tutti quei disegni e quei progetti, si sentiva molto vicino al genitore, sebbene la stessa grande passione in lui si fosse rivolta all’elettronica. E poi adorava stare in quel posto per un altro motivo: quando lavorava ai disegni di precisione che richiedevano determinati progetti, suo padre indossava gli occhiali; non sapeva perché, ma questo dettaglio gli piaceva tantissimo, come quando lo vedeva stringere sua madre e darle un bacio sulla punta del naso o fare qualche altro gesto d’affetto. Forse perché, quando a quattro anni era stato costretto a mettere gli occhiali, Andrew l’aveva consolato facendogli vedere che anche lui li usava… e spiegandogli che vedendoci bene si potevano fare molte più cose.
Avvicinandosi a piedi scalzi al tavolo da disegno dove stava lavorando Andrew, Kain fissò la figura paterna con profonda ammirazione: gli piaceva vedere il volto impegnato, eppure sereno, la mano che si muoveva rapida e precisa con le squadre e le righe…
“Papà.” mormorò.
“Dammi cinque secondi, Kain.” sussurrò l’uomo, tracciando con perfetta maestria delle linee.
Poi annuì soddisfatto e il suo viso si rilassò sensibilmente.
“Che cos’è?” chiese il bambino, facendo un ulteriore passo avanti e accostandosi allo sgabello dove stava seduto l’uomo
“La piccola deviazione che dovremo far fare all’argine del fiume. – spiegò Andrew, senza smettere di tracciare cifre e segni sul foglio – Dovevo finire queste modifiche entro oggi, considerato che nei prossimi giorni potrei essere impegnato su più fronti.”
“Si? E dove?”
“Pare che dovrò andare ad esaminare la vecchia miniera per aiutare la polizia a stendere una perizia che confermi la necessità di chiuderla del tutto. Ma domani a scuola potrai chiedere maggiori dettagli al tuo amico, dato che il capo della polizia è suo padre.”
“Oh, certo Vato… - annuì Kain, ma poi impallidì nel capire il sottinteso – e… e tu come lo sai?”
“Questo pomeriggio sono andato a casa di Vincent Falman per parlare della questione della miniera e c’era anche Vato, tutto qui. – spiegò l’uomo aggiustandosi gli occhiali sul dorso del naso, in un gesto identico a quello che compiva il figlio – Non mi avevi ancora parlato delle tue nuove amicizie, Kain.”
“E’ che lui è più grande di me e pensavo che non ti andasse bene che lo frequentassi.”
“Tua madre lo sa?”
“Sì…” annuì mestamente il bambino, dispiaciuto nel mostrare così palesemente la differenza di confidenza che c’era con i due genitori.
“Bene, – sospirò Andrew, osservando l’operato sul grande foglio – direi che può andare.”
“Papà… - la voce di Kain iniziò a farsi flebile come al solito – mi dispiace.”
“E di che?”
“Di non avertelo detto.”
“Hai parlato a tua madre quello che ti è successo oggi?”
“No, ma penso che non ci voglia molto per capirlo.”
“Vieni, – mormorò Andrew, prendendolo in braccio e sistemandolo a cavalcioni sulle sue gambe – non ti fa bene restare scalzo, anche se non fa ancora così freddo.”
“Papà… - sussurrò Kain a testa bassa – mi dispiace di essere così debole.”
Fu un gesto del tutto inaspettato per il bambino, ma improvvisamente l’uomo lo strinse a sé, facendogli posare la testa bruna sulla sua spalla.
“Debole… Mi ricordo che lo disse il dottore quando eri appena nato: che eri così debole che non saresti vissuto a lungo. Eppure io ti ho visto continuare a respirare, minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Ti ho visto affrontare quattro anni di salute cagionevole, dove sembrava che anche la più banale influenza dovesse portarti via da noi… eppure non hai smesso di lottare, fino a superare tutto quanto. Dov’è la debolezza in tutto questo, Kain?” c’era una strana forma di orgoglio nella voce di Andrew e a Kain sembrò che suo padre fosse pronto a difenderlo da qualsiasi minaccia al mondo. Gli tornarono in mente le parole della madre a proposito di quanto fosse prezioso per loro due e per la prima volta si sentì perfettamente accettato e al sicuro in quell’abbraccio. Non che prima non lo fosse mai stato, ma non se ne era reso pienamente conto, preso com’era dalle sue paranoie di essere un fallimento come figlio.
“Lui è più grande di me, – riuscì a confessare, il viso nascosto nella camicia paterna – ed io vorrei davvero riuscire ad essere forte…”
“Per poterlo picchiare?”
“No, per poter ottenere… rispetto.”
A quella sincera dichiarazione, sentì la mano di Andrew che gli accarezzava i capelli e lo induceva poi a scostare il viso il tanto che bastava per potersi guardare negli occhi.
“Allora sei già più forte di lui, Kain. Parli di rispetto e non di vendetta: c’è una bella differenza.”
“Come quella che c’è fra delusione e preoccupazione?” chiese il bambino d’impulso.
“Sì; perché?”
“Niente di importante. Papà… lo sai che ti voglio bene?”
“Anche io, ragazzo mio, non devi mai metterlo in dubbio.”
“Non… non dovevo sbattere la porta in quel modo, questo pomeriggio. E… e avrei dovuto risponderti quando sei venuto a parlarmi in camera. Perdonami.”
Lo disse incontrando gli occhi castani di Andrew, senza rifugiarsi dietro altre banali scuse come invece aveva fatto precedentemente con la madre.Questa era una forma di maturità che si sentiva di affrontare con suo padre..
“Scuse accettate, ometto: – annuì l’uomo, dandogli un buffetto sulla guancia – non pensarci più. Forza, vieni, ti riporto a letto prima che tu prenda un raffreddore.”
E alzandosi dallo sgabello lo tenne in braccio, dirigendosi verso la porta.
“Papà, – mormorò Kain, mentre l’uomo metteva mano alla maniglia - stanotte posso dormire con te e la mamma?”
“Kain…” sospirò Andrew.
“E dai! – supplicò lui, alzando il viso per fissarlo col broncio – Per favore!”
No, questa non era proprio una forma di maturità, anzi era qualcosa di estremamente infantile.
Ma Kain non si vergognava assolutamente di queste richieste: a volte sentiva la necessità di avere la vicinanza fisica di entrambi i suoi genitori. Era una cosa che si portava dietro da quando era debole e spesso malato: stare nel lettone tra i due adulti in qualche modo lo faceva sentire maggiormente protetto nei confronti di quelle febbri e quei dolori che potevano ucciderlo.
“Che non diventi un vizio, va bene?” sospirò Andrew, arruffandogli i capelli neri.
“Va bene.” annuì lui, lieto di quella concessione.
No, non sarebbe diventato mai un vero e proprio vizio: era semplicemente il modo migliore di concludere quella giornata così particolare.







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