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Autore: _cashmere    14/01/2014    9 recensioni
Ma non si può fare nulla contro la sorte, si può solo sperare. Sperare di venire graziati per un altro anno. Sperare che un giorno le cose cambino. Sperare che la scintilla della rivoluzione torni a splendere, e nel frattempo sfilare come marionette al cospetto della morte.
Mentre il mondo resterà a guardare.


La cinquantasettesima edizione.
Genere: Angst, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Altri tributi, Presidente Snow, Tributi edizioni passate
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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The World Will BWatching.



(cinquantasettesimi Hunger Games)




CANTO II
People die only when they were forgotten








 

 

Luxury Spark.

La quindicenne venne trascinata a forza nella stanza dove avrebbe dovuto salutare i suoi cari. Non aveva voglia di sostenere un discorso con la famiglia al completo — era certa che Chrisalide l'avrebbe aggredita — né di incontrare i compagni dell'accademia, che probabilmente sarebbero stati vinti dalla paura e se la sarebbero data a gambe.
Perché lei era Luxury Spark, ed era nata per uccidere chiunque le intralciasse il cammino verso la gloria.
Era ancora assorta nei suoi pensieri quando la porta si spalancò e due giovani fecero irruzione nel salotto. Il ragazzo era decisamente arrabbiato, mentre la femmina dava l'impressione di essere completamente tocca.
— Avete tre minuti. — disse il Pacificatore.
— Perché l'hai fatto, Lux? Papà ti aveva ordinato di non offrirti. — sibilò Strass, afferrando la sorella per le spalle ed inchiodandola al muro.
— Perché l'hai fatto, Lux? Papà ti aveva ordinato di non offrirti. — lo scimmiottò lei, divincolandosi dalla sua stretta.
— L'hai sentita, Strass? È ridicola, diglielo anche tu. — rise Chrisalide. Una risata folle, inquietante.
— Non lo è, Chris. È stata semplicemente imprudente, ed adesso mamma ha ritirato fuori la vecchia mania dello spiritismo. — rispose il fratello, cercando di placarla con delle lievi carezze sul capo.
— La smettere di parlare di me come se non fossi qui? — intervenne Luxury, infastidita. Quei due perbenisti avevano intenzione di rovinare il suo momento di grandiosità, ma non ci sarebbero riusciti. Le sue unghie erano affilate quanto la lama di un coltello, ed altrettanto letali.
— Tanto lo sanno tutti che sei stata tu! — gridò Chrisalide in uno dei consueti raptus di pazzia. — L'hai uccisa tu! —
La tributa si limitò a fissarli con un sorrisetto di superiorità. I tre minuti stavano per scadere, e non valeva la pena di sgozzarli in così poco tempo. Anche se sentire il loro sangue sgorgarle addosso e macchiarle gli abiti era un'idea decisamente allettante...
— Finito. — disse l'uomo in uniforme, invitando la doppietta ad uscire dalla porta.
— Cerca almeno di vincere, ti prego. — la supplicò Strass mentre la porta si chiudeva.
Finalmente sola, Luxury si distese sul divanetto di seta, chiudendo gli occhi e sentendosi per la prima volta libera da quell'ingombrante fardello che era la sua famiglia.
— Certo che vincerò, fratellino. — sussurrò con malizia. — Ma sei davvero così convinto che tornerò da te? —

Oliver Phelwey.



Il tributo del distretto 1 venne scortato con calma all'interno del Palazzo di Giustizia. Nei distretti Favoriti i ragazzi venivano sempre trattati con rispetto e, a volte, con una sorta di timore reverenziale.
Appena la porta lignea si chiuse alle sue spalle rivolse lo sguardo alla piazza, che si intravedeva appena dietro le imponenti persiane d'ebano. I suoi genitori biologici non avrebbero mai voluto vederlo offrirsi volontario, ma quelli adottivi erano di tutt'altra mentalità.
Si chiese cos'avrebbero pensato nel vedere la replica delle Mietiture dalla loro modesta casetta nel distretto 11, luogo dove erano stati trasferiti in seguito ad un guasto che avevano provocato in fabbrica. Sarebbero riusciti a riconoscere il loro amato figlio in quell'apparente macchina da guerra?
Ad un tratto sentì un cigolio alle sue spalle, e Veronica e Tamas entrarono con aria soddisfatta.
— Bravo, ragazzo mio. Siamo fieri di te! — disse l'uomo, scompigliandogli i capelli con fare affettuoso.
— Oh, non sai quanto mi hai resa orgogliosa quando ti sei offerto prima di tutti gli altri. Quando tornerai a casa ad attenderti ci sarà la sorpresa più grande che tu abbia mai visto! — gioì sua madre, abbracciandolo.
— Vincerò di sicuro. Questa è la mia occasione, non me la farò sfuggire per nessuna ragione. — dichiarò Oliver con un sorriso.
A quelle parole il signor Phelwey mimò un applauso fragoroso, e prima che la moglie potesse stritolarlo ulteriormente un Pacificatore irruppe nella stanza e li fece uscire.
Ma le visite non erano ancora terminate per il neo tributo. Infatti appena la coppia fu fuori dal salone entrò un giovane ragazzo molto simile a lui. In confronto ai genitori aveva un'aria leggermente più seria e corrucciata.
Il suo nome era James, il vincitore dell'edizione precedente nonché suo fratello biologico. Si sedette sul divanetto ed iniziò a parlare a voce bassa: — Cercherò di essere breve perché bbiamo poco tempo. Ci sono molte cose che non sai sugli Hunger Games, e sono proprio quelle che potrebbero portarti a vincere. —
— Cosa? — chiese interessato.
— Innanzitutto alleati con i Favoriti, ma non fidarti mai di loro. Di solito sono tutti come quella Luxury, non vedono l'ora di uccidersi a vicenda. Se ti dimostrerai simpatico e sicuro di te gli sponsor ti vedranno come una buona scommessa e li avrai tutti dalla tua parte. Il resto verrà da sé, te ne accorgerai sin dal tuo ingresso nell'arena. — spiegò James, mentre le immagini dei suoi precedenti giochi si facevano strada nella sua mente.
— Grazie. — commentò semplicemente Oliver, stringendogli la mano.
Ad un tratto il ragazzo si voltò, e senza farsi vedere in viso disse: — Spero di rivederti presto. Se non tornerai non te ne farò una colpa, so bene che non è facile come vogliono far credere mamma e papà... Ma io ti vorrò sempre bene, in ogni caso! —
Dopodiché se ne andò sbattendo la porta e lasciandolo solo nell'immenso Palazzo con solo i suoi pensieri a fargli compagnia.


Renée Elberg-Bratt.



La ragazza sedeva tranquilla nel salottino dove l'avevano scortata.
Sorrise, pensando al massacro imminente. Sarebbe stata la regina dei cinquantasettesimi Hunger Games, non c'era nessuno in grado di competere con la leader dei Corvi in astuzia ed agilità.
Si, quell'anno il distretto due avrebbe avuto l'ennesimo vincitore. Anzi, vincitrice.
In un impeto di curiosità si chiese chi sarebbe venuto a trovarla. Di sicuro non Elberg e Bratt, i suoi tutori, e neppure i membri della banda, che avevano l'abitudine di non rivolgere la parola a nessuno dopo la Mietitura.
Improvvisamente la porta si aprì con uno scatto metallico, ed una coppia sulla cinquantina entrò singhiozzando.
La cosa che stupì maggiormente Renée non fu l'atteggiamento dei due coniugi, persone che non aveva mai visto prima di allora, bensì la grande somiglianza fisica che c'era tra lei e la donna. Stessi occhi chiari, stesse labbra rosse e carnose, stessi capelli castani. Avrebbe potuto scambiarla senza difficoltà per la madre, se non avesse saputo che i suoi genitori biologici erano morti anni prima in un tragico incidente. O almeno così le era stato raccontato.
— Ellen, figlia mia, lasciati abbracciare! — balbettò, buttando le le braccia al collo.
— Sono spiacente, signora, ma penso che abbia sbagliato persona. — disse Raven, infastidita da quell'improvvisa manifestazione di affetto. Scostò la donna con un gesto brusco e ritornò seduta sull'elegante poltroncina, senza degnarla più di uno sguardo.
— Te l'avevo detto, Jolanda. — sospirò il marito con una nota di rassegnazione nella voce. — Non è più la nostra bambina, andiamo. —
— N- no! — singhiozzò Jolanda, cercando di abbracciare Renée.
— Chi siete? Cosa volete da me? Lasciatemi in pace! — gridò la tributa, divincolando si dalla sua presa ed ordinando alla coppia di uscire fuori dalla stanza.
Appena rimase sola si alzò in piedi, fremendo d'impazienza e dimenticando, seppur momentaneamente, il bizzarro incontro che era appena avvenuto.
Finalmente era giunto il suo momento. Il momento di uccidere.


Anubis Black.



Anubis percorse lentamente il lungo corridoio del palazzo, preceduto da un uomo in uniforme bianca che aveva il compito di scortarlo nel luogo dove avrebbe salutato la sua famiglia. Lì al distretto 2 era alquanto improbabile che i tributi cercassero di scappare, perciò la sorveglianza era minima.
Ad attenderlo trovò solamente i due gemelli Dana e Niklaus, di soli tredici anni. Evidentemente tanta era la convinzione di Thor e Stephanine di vederlo tornare in meno di tre settimane che non si erano neppure degnati di andarlo a salutare. E di certo lui si sarebbe mostrato all'altezza delle loro aspettative.
— Bis, tornerai presto, non è vero? —disse Niklaus, abbracciandolo.
— Lo farò, promesso. E appena tornerò potrete vantarvi di essere i fratelli di un vincitore! — rise con convinzione. Lui era nato per rendere onore al suo distretto, non dovevano preoccuparsi.
— Tristan non è voluto venire a salutarti, perché papà gli ha detto che era inutile visto che ti riavremo presto con noi. Ha convinto persino i bambini! — esclamò Dana con la sua vocina acuta. La sua somiglianza con Evangeline, la loro defunta madre, era incredibile.
— Sono d'accordo con questa sua decisione, anche se mi dispiace di non aver rivisto Clarisse e Jackie. — rispose Anubis.
— Rendici orgogliosi di te. Sono sicuro che questa sarà la tua edizione, hai la vittoria in tasca! — sussurrò improvvisamente il tredicenne, avvicinandosi alla porta.
— Esatto, non dovrete mai dubitare delle mie capacità. E chi lo sa, può anche darsi che incontri una bella fanciulla a Capitol City! — disse, scompigliando i capelli della sorella.
— Sei sempre il solito, Bis! — rise lei.
Prima che potesse ribattere, entrò un Pacificatore che invitò i gemelli ad uscire dalla stanza, e Dana esclamò per l'ultima volta: — Ci rivediamo presto, fratello! —
Fu in quel momento che Anubis capì le vere ragioni che l'avrebbero spinto a fare di tutto pur di tornare. Non solo la gloria, non solo l'onore, ma l'amore fraterno, più forte di qualsiasi altra cosa.


Knilla Myree.



La sedicenne entrò nella stanza con un Pacificatore alle calcagna. Si guardò intorno, spalancando le iridi dorate e cercando di imprimersi nella mente ogni singolo dettaglio dell'ambiente in cui l'avevano condotta brutalmente.
— La pianti? — sibilò rivolta all'uomo che la stava strattonando per la manica del vestito, che con un sorrisetto di superiorità si limitò a chiuderla a chiave nella stanza.
“Ecco fatto” pensò. Addio rap, addio breakdance, addio Ekneuthes e Rap Melody. Anzi no, quello non era un addio. Non lo sarebbe mai stato.
All'improvviso la porta si aprì, e sulla soglia comparvero Myrtle e Rap Melody, tenuta per mano dall'undicenne.
— Non dire niente. — sbottò la sorella di Ekneuthes, mettendole un dito sulle labbra. — Tu entrerai là dentro, spaccherai i culi a tutti e tornerai da noi. Puoi farcela. —
— Ce la farò. Non permetterò a nessuno di separarmi da voi. — ribatté, mentre le lacrime iniziavano a pizzicarle gli occhi. Myrtle le era sempre piaciuta, era fin troppo maliziosa e furba per la sua età, e la sorprendeva la risolutezza con la quale stava affrontando l'evento.
— Ecco. Questa è la Knilla che conosco! — sorrise la bambina, per poi rivolgersi alla piccola Rap Melody: — Avanti, dì qualcosa alla mamma. —
— Dove ti portano? Cosa ti devono fare, mammina? — disse, sgranando gli occhi dorati così simili ai suoi. A quel punto Knilla non poté più trattenersi, ed una lacrima solitaria le inumidì la guancia. Sua figlia era ancora così dolce, così ingenua, perché tutto questo stava capitando proprio a loro?
— Perché piangi, mammina? — continuò, anch'ella sul punto di piangere. Sua madre era il suo unico punto di riferimento, e vederla per la prima volta così fragile la faceva stare molto male.
— Non è niente, tesoro, non è niente. La mamma tornerà presto da voi. Myrtle, abbi cura di lei mentre sono via. Ed ora andate. Ci vediamo presto. — disse a scatti. La bambina obbedì silenziosamente, e prima di uscire ripeté: — Dimostra loro quanto vali ed il pubblico sarà tuo. Spacca i culi a tutti, sorella. —
Si allungò sul divanetto di velluto rosso, chiudendo gli occhi ed aspettando che la chiamassero per partire.
Destinazione: l'inferno.


Sebastian Mansfield.



Un pacificatore dall’aspetto burbero accompagnò Sebastian in una stanza umida e scura stringendogli saldamente i polsi. Il ragazzo si guardò intorno senza nascondere un certo stupore. Il luogo dove era stato scortato non aveva nulla a che fare con i lussuosi salottini pieni di arazzi e stendardi colorati che ogni anno vedeva in televisione quando venivano trasmesse le repliche delle Mietiture dei Distretti Favoriti.
Fissò il pavimento con un'espressione indecifrabile, e subito dopo l'uscio dipinto di grigio si aprì rivelando una diciannovenne in lacrime, che si lanciò tra le braccia del fratello singhiozzando silenziosamente. Commosso da quell'inaspettata manifestazione di affetto le accarezzò i capelli biondicci e disse: — Non c'è bisogno di piangere. —
— Tu devi tornare, hai capito? Non riuscirei a resistere neppure per un secondo in quella casa senza di te. — pianse Heather, stringendolo ancora più forte.
— Proverò a vincere. Per te. — fu tutto quello che riuscì a dire. Il suo tono era abbastanza sicuro, nonostante quelle parole suonassero di più come una sorta di autoconvinzione. Avrebbe voluto anche lui abbandonarsi alle lacrime, ma non poteva farlo. Doveva essere forte per lei. Per sua sorella.
— E io pregherò per te tutti i giorni. Se mi impegno, forse, riuscirò a indire una colletta per sponsorizzarti quando sarai nell'arena. — rispose improvvisamente seria.
Dal giorno dell'incidente Sebastian si era allontanato molto dal resto della famiglia e aveva dimenticato quanto bene volesse a Heather, che nonostante i suoi diciannove anni era la più fragile tra loro. Le prese il viso tra le mani e, continuando a celare i suoi sentimenti dietro la maschera di indifferenza e sicurezza che da sempre lo accompagnava, affermò: — Sta' tranquilla. Tra meno di due settimane mi riavrai qui insieme a lingotti d'oro e altre ricchezze. —
Una parvenza di sorriso apparve sul volto della giovane, dopodiché un uomo la tirò via per il braccio, lasciando solo il vociare nelle stanze attigue a fargli compagnia.


Tailt Belle.



La quindicenne percorse l'ampio corridoio del Palazzo di Giustizia seguita da un Pacificatore che rideva sotto i baffi nel notare l'imbarazzo ed il disagio della tributa.
Una volta sola si sedette su uno sgabello riccamente decorato e rimase a fissare le sue scarpe, quasi come se fosse in grado di vedere qualcosa di sconosciuto per gli altri.
Non era una ragazza forte, e si domandava come avrebbe potuto superare indenne anche solo il Bagno di Sangue. Non sapeva per quanto tempo sarebbe riuscita ancora a fingere ignavia, e non era neppure certa che il ruolo dell'indifferente le riuscisse bene.
In ogni caso non avrebbe mai smesso di sperare. Forse con i giusti alleati e le generose offerte di sponsor compassionevoli sarebbe riuscita a sopravvivere almeno per qualche giorno.
Improvvisamente la porta si aprì, lasciando entrare una vecchietta dall'aria gentile ed amichevole.
— Nonna. — sussurrò Tailt, abbracciandola.
— Va tutto bene, tranquilla. — le rispose Risa, aprendo il palmo della mano e rivelando un sacchettino di plastica contenente delle gelatine colorate. — Guarda cosa ti ho portato. —
Gli occhi verdi della ragazza si illuminarono, e quel sorriso tanto raro quanto radioso le ingentilì il viso pallido: — Grazie nonna, sei molto gentile. —
Ne mise una in bocca e disse: — Come stanno Layla e Wilde? —
Il viso dell'anziana signora si fece più serio: — Loro... Sono andate a consolare le altre nove. Ma non preoccuparti, la tua amica Mitia si prenderà cura di loro quando sarai via. —
— Tempo. — disse qualcuno entrando nella stanza all'improvviso. Risa si alzò in piedi e la baciò delicatamente la nipote sulla guancia.
— Buona fortuna. — concluse, mentre l'uomo iniziava a trascinarla via.
Tailt borbottò un “grazie” appena percepibile e, ormai sola, si sentì ancor più in dovere di vincere. Lei era una che le manteneva, le promesse.


Adam Nobody.



Il Pacificatore fissava il neo tributo con aria disgustata. Odiava i rammolliti, ed era convinto che il ragazzo non avrebbe superato il Bagno di Sangue.
Lo spinse dentro una stanza riccamente illuminata e lo chiuse dentro. Era un luogo molto sfarzoso, pieno di tappeti in broccato, tendaggi di seta e affreschi alle pareti. Proprio come le case di quei membri della comitiva di amici che talvolta frequentava.
Iniziò a camminare avanti e indietro, contando i minuti che scorrevano inesorabilmente lenti e realizzando piano piano che nessuno sarebbe venuto a trovarlo.
Come succedeva spesso, nessuno si era ricordato della sua esistenza. Nessuno gli era realmente amico, né lo sarebbe mai stato.
Iniziò ad immaginare come sarebbe stata la sua vita nell'arena. Proprio come l'uomo che l'aveva scortato lì dentro, era consapevole che non avrebbe resistito molto nonostante anche lui avesse frequentato per molti anni l'Accademia. Forse però, apparendo sciolto e disinvolto nelle occasioni pubbliche, avrebbe attirato l'attenzione di qualche sponsor. Ed anche il Distretto di provenienza ed il suo fisico atletico e muscoloso avrebbero fatto la loro parte.
Improvvisamente pensò a Hope, la ragazza di cui era perdutamente innamorato ma che fingeva di non sapere neppure chi fosse, ed i ricordi di quella serata ebbero il sopravvento.
La ragazza era entrata spedita in casa, finché non si era bloccata di colpo in mezzo al salotto, era rimasta ferma alcuni istanti e poi si era voltata a scrutarla in maniera spesata. Alla vista di Adam aveva sussultato e aveva chiesto: — Dove... Dove ci troviamo? —
— Io sono a casa mia. Siamo a casa mia. — aveva risposto, mentre lei si era seduta tremando sulla poltrona accanto alla sua e aveva iniziato a tremare.
— Voglio tornare a casa. — aveva ammesso dopo un po'.
Lui l'aveva riaccompagnata alla sua abitazione perché lei diceva di non ricordare dove fosse, ma il giorno dopo quando era andato incontro al gruppo di amiche oche della giovane per invitarla ad uscire aveva riso sprezzante: — Ripassa quando avrai tolto le rotelle alla tua bici, d'accordo? —
La parola “tempo” lo riscosse dai suoi pensieri, e quell'uomo che tanto gli ricordava suo padre, l'uomo che lo maltrattava continuamente, lo trascinò fuori dal salotto.
Nessuno fino ad allora si era ricordato di lui. Ma lo avrebbero fatto presto.


Crystal Seandeen.



Un gruppo di uomini in uniforme bianca scortò la rossa lungo gli stretti corridoi cupi del Palazzo di Giustizia. Le bianche pareti erano incrostate di muffa e pezzi d'intonaco erano caduti a terra formando chiazze gessose.
Era proprio vero: il loro era l'edificio più malmesso dell'intera Panem.
Si strinse nelle spalle e cercò di mettersi più comoda possibile sulla poltroncina spelacchiata che troneggiava al centro della stanza, consapevole che nessuno sarebbe venuto a farle visita.
Non aveva parenti in vita, poiché i suoi genitori erano morti in un tentativo di rivolta contro il governo dalle tragiche conclusioni. Da quel giorno la sua voglia di sorridere era andata pian piano scemando, ma ogni tanto le bastava alzare gli occhi al cielo ed ammirare l'immensità che si stagliava all'orizzonte per sentirsi viva. Per sentirsi libera.
E come il sole sorgeva ogni giorno, così anche lei nel suo piccolo lottava quotidianamente per liberarsi dai modelli comportamentali imposti da Capitol City. Aveva imparato a cacciare da bambina, e questo l'avrebbe di certo posta in una situazione di vantaggio rispetto ai tributi dei distretti periferici che non avevano mai maneggiato un arma fino ad allora, ma quel poco che sapeva fare l'avrebbe aiutata nell'affrontare il temibile gruppo dei Favoriti?
Iniziò a gesticolare freneticamente con le bianche mani sudate, tendendo l'orecchio verso la parete che si affacciava sulla piazza nella speranza di cogliere qualche brandello di conversazione.
Era rimasta sola per troppo tempo, e al momento avrebbe dato qualsiasi cosa per un po'di compagnia.
Come se avesse la capacità di leggerle nel pensiero, un Pacificatore aprì la porta violentemente e le intimò di uscire. E così Crystal Seandeen disse addio al distretto 5, sentendo già la mancanza delle chiassose centrali che un tempo aveva tanto odiato.


Leonida Thunderbolt.



Il diciassettenne entrò tranquillamente nella stanza dove avrebbe dovuto dire addio — o forse arrivederci — ai suoi cari, senza tener conto dei rimbrotti e degli sbuffi dei Pacificatori che lo incitavano a camminare più velocemente.
Non gli importava più niente ormai. Erano liberi di gridargli, di rifilargli i più coloriti insulti usati a Capitol City e lui non se ne sarebbe neppure accorto.
Ma quando quella porta si spalancò con uno scatto secco i pensieri che lo tormentavano svanirono all'istante.
— Allora! Come sta il mio futuro figliolo vincitore? – trillò sua madre irrompendo nella stanza e muovendo sensualmente i fianchi.
Leonida alzò gli occhi al cielo, esasperato. Nonostante fosse stata esiliata dall'alta società capitolina quella donna non si era privata di alcun vezzo. In quegli ultimi anni aveva continuato ad assistere ai Giochi a cuor leggero, tifando per i tributi dall'aria più spietata ed incitando allo spargimento di sangue innocente.
E dal suo modo di parlare era facile intuire che anche quell'anno avrebbe continuato con quella frivola messinscena.
La ignorò bellamente, e non si dispiacque quando vide una smorfia di dispiacere comparire su quel volto ridicolmente truccato. I suoi occhi si posarono sul padre, seminascosto dietro la grata di ferro, e non esitò ad abbracciarlo.
— Papà... —
— Io... Ho paura di perderti, figlio mio. Sei la cosa più preziosa che ho, e l'idea che tra pochi giorni potrei vederti morto in diretta televisiva mi fa stare male. — ammise, mentre una lacrima si faceva lentamente strada lungo le sue guance.
Quella frase sembrò infondere nuova speranza nel giovane cuore di Leonida. Si alzò in piedi e si voltò, in modo che entrambi potessero vedere ogni screziatura dei suoi occhi.
— Non succederà. Presto torneremo ad essere una famiglia. —


Violet Edith Varðeldur.



Il falò* del sesto Distretto percorse il lungo corridoio con un sorriso sereno stampato sul volto affilato ed entrò nella sala ponderando ogni singolo passo. Dalla sua espressione non trapelava ansia né paura alcuna, probabilmente perché era decisa ad impiegare tutte le sue energie per tornare a casa.
Sospirò, accovacciandosi su una poltroncina in un angolo e sistemandosi una ciocca ribelle sfuggitale dalla sobria acconciatura. La povertà della sua famiglia — motivo per cui era stata costretta a richiedere un gran numero di tessere — l'aveva distrutta anche quella volta, ancor prima che potesse realizzare il sogno che aveva sin da piccola.
Volare. Vedere il mondo farsi sempre più piccolo e sentirsi per una volta la padrona del mondo. Viaggiare lungo orizzonti che la morsa devastante del governo capitolino non aveva ancora raggiunto.
Quasi non si accorse del ragazzo seminascosto dallo stipite del portone. I corti capelli rossicci cadevano in ciocche spettinate lungo il viso pallido, dove spiccavano due iridi che parevano pezzi di un cielo estivo. Proprio come le sue.
— Mi dispiace. Come stai? — fu tutto quello che riuscì a dire, cingendole le spalle con fare affettuoso.
— Come dovrei stare secondo te? — commentò, leggermente scocciata da quell'osservazione inopportuna.
— Perdonami, non volevo... Io... — balbettò, impacciato — Sono terrorizzato dall'idea di perderti. — ammise.
La smorfia della tributa si addolcì, ed un sorriso luminoso comparve sul suo viso illuminandolo come mille candele. — Voi non preoccupatevi. Sono sveglia, e non dovrei avere problemi con gli sponsor. Ce la farò, vedrai. Come stanno gli altri sei? —
— Sono qui fuori. — disse, indicando il portone. — Ma alcuni sono troppo scioccati anche solo per aprire bocca. —
— Allora abbracciali da parte mia. — sospirò — E dì loro che anche se sono la più piccola tra voi ho più possibilità di farcela di quelle che avreste avuto tutti voi messi insieme. —
Prima che potesse ribattere, un Pacificatore sibilò “tempo” e trascinò il giovane lontano da lei, portando via con sé anche l'anima della bambina che era stata fino ad allora.


James Dævankei.



Keitō camminava silenziosamente lungo il corridoio, con un espressione di fredda determinazione stampata sul volto asciutto. Alle sue spalle, un Pacificatore lo seguiva con timore, celandolo tuttavia dietro una maschera inespressiva.
Appena entrato nella stanza udì uno scatto improvviso e, senza che potesse rendersi conto della situazione, vide Goldie corrergli incontro con le lacrime agli occhi e un attimo dopo sentì le labbra carnose della ragazza sulle sue.
Fu un bacio breve ma intenso, che sapeva di sale e di malinconia, durante il quale milioni di pensieri si accavallarono nella mente del giovane ladro. Goldie, sorella del suo migliore amico Damien, faceva anch'ella parte della banda dei Grudge ed aveva un carattere molto simile al suo, ragion per cui avevano avuto dal primo incontro battibecchi furiosi.
Tuttavia era bastato poco perché dalle liti passassero al fare l'amore. Di nascosto, come se fosse qualcosa di sbagliato e malsano da tenere nascosto agli sguardi indiscreti del mondo.
Lui, però, la amava davvero, e soffriva quando le sue richieste venivano liquidate dalle scuse insensate della diciannovenne. Ma forse — pensava in quel momento, inspirando il profumo dei suoi capelli — non era l'unico a provare qualcosa di più serio nei confronti dell'altro.
Si separarono dopo poco tempo, e solo allora James vide il resto dei Grudge gettare loro occhiate che andavano dall'incredulo al divertito.
— Ragazzi... — tossicchiò imbarazzato, passandosi una mano tra i capelli.
A rompere il ghiaccio fu Damien, che gli strinse calorosamente la mano e disse: — Kei, a nome di tutto il gruppo ti faccio i miei più sinceri auguri. E possa la fortuna... —
— Sempre essere a mio favore. Speriamo. — concluse, con una nota di inspiegabile aggressività nella voce.
Il Pacificatore si fece largo tra i presenti sgomitando e, senza proferir parola, spinse fuori l'intero drappello, lasciando il ragazzo a rimuginare sull'accaduto.
Avrebbe voluto riuscire a fare luce sui sentimenti che provava verso Goldie in quegli ultimi minuti, ma avvertiva solo una gran confusione in testa e le ultime farfalle solitarie abbandonare il suo stomaco frullando le ali, lasciando posto ad una spiacevole sensazione di vuoto. Probabilmente l'unico modo per chiarire quella vicenda sarebbe stato vincere gli Hunger Games.
E in quel momento capì che avrebbe rischiato tutto pur di riuscirci.





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#Cash
Lo ammetto, questo capitolo non mi convince più di tanto. Forse perché mi fa impressione vederlo “spezzato”, ma qualquadra non cosa qui.
Non ho altro da dire, se non scusarmi in anticipo in caso avessi caratterizzato male qualche tributo (cosa assai probabile).
Ci risentiamo presto – questa volta è una promessa – con la seconda parte dei saluti! *fa ciao ciao con la manina*

*La parola Varðeldur significa appunto falò in islandese, e ciò rispecchia bene il carattere solare e vivace di Violet.
   
 
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