Note1: Originariamente questa shot
non era stata pensata per la
pubblicazione. Ciò che doveva essere pubblicato è
una sequenza che va da quando
stanno facendo ritorno sulla terra al compleanno di Jim; storia non
ancora
scritta e che non so quando leggerete.
Di sicuro dalla seconda metà di
febbraio in poi.
Tornando a questa storia, dovete
ringraziare solo Nakahime se la sto pubblicando perché
quando l’ho mandata a
lei, ha insistito tanto perché io la facessi leggere anche a
voi.
E...... ah, sì! I fazzoletti,
prendetene almeno un pacchetto, ve lo consiglio!!!
La fic non è stata betata,
quindi per qualsiasi errore scusatemi.
L’ultima cosetta e ho concluso,
se volete sapere cosa ha portato a questa storia, o meglio come io li
ho
portati a questo punto, vi consiglio di rileggere “A
Spasso per l’Enterprise” e
se dopo di ciò vi chiederete come ha fatto Jim a diventare
così, bhe leggetevi “Sono
un dottore, non una bambinaia” di Naka che
è sempre una dolcezza.
Vi lascio alla fic, ci si
rilegge sotto!
Non Torna. Perché Non Mi
Vuole Più Bene.
Quando Leonard entra nella stanzetta,
quella mattina, Jj é seduto su una piccola sediolina
accostata ad un basso
tavolino.
"Ehi piccoletto, cosa stai
facendo?" chiede allegramente.
"Cololo" risponde il
bimbo tutto concentrato sul suo compito.
'E questo lo avevo già
capito' vorrebbe
dire Len, ma
si astiene dal commento, per evitare l'ennesimo futile battibecco. Non
che Jim
abbia perso la voglia di bisticciare con lui, da quando é
rimpicciolito.
"Cosa stai colorando di
così importante? Mi è permesso chiederlo?"
riprende il moro, sempre con
una nota di ilarità nella voce. Davvero, non riesce ad
essere arrabbiato con
quel bambino. Anche se gliene combina di tutti i colori.
Dopo aver sistemato qualche
giocattolo sparso per la stanza, Leonard si avvicina al piccolo
tavolino
azzurro, per sbirciare la grande opera d'arte del bambino paffuto.
Ma tutto quello che riesce a
scorgere sono degli informi scarabocchi. O almeno, quello che a lui
sembrano
degli informi scarabocchi.
"Jim, cosa stai disegnando?"
chiede, questa volta leggermente più serio. Non sopporta
quando gli viene
taciuta una risposta, soprattutto se é Jim a farlo.
Perché in quei casi vuol
dire che ha combinato qualche guaio.
Il piccolo, ripassa ancora una
volta una figura con un pastello verde, per poi posarlo sul tavolino e
girarsi
a guardare il più grande.
Aprendosi in un sorriso
dolcissimo, dice.
"Pok no sa chi è benuto a
tlovacci, e ho fatto disegno per faglielo sapele".
Tutto sommato McCoy si è
aspettato una risposta del genere. Ormai ha fatto l'abitudine a certe
cose.
Una piccola morsa allo stomaco
gli ricorda che non é vero che Spock non sa delle visite che
hanno ricevuto. E’
stato Leonard stesso a tenerlo aggiornato.
Ma, sapendo che se lo avesse
detto al bambino sarebbe scoppiato il finimondo, ha preferito non fare
parola a
Jim delle sue chiacchierate serali con il primo ufficiale.
Len si apre in un sorriso e poi
chiede.
"Sei felice che oggi venga
a trovarci, vero?".
"Sì" grida il bimbo,
per poi ridere felice, battendo le manine.
E come potrebbe essere
altrimenti? é un anno intero che quei due non si vedono. E
Len sa benissimo che
nessuno dei due è stato particolarmente felice di quella
separazione obbligata.
Le cose avevano cominciato ad andare
male quando, un giorno, all’incirca l’anno prima,
di ritorno da un incontro con
gli ammiragli Winchester e McAllister, Spock aveva annunciato a McCoy
che
l’Enterprise era costretta a ripartire e lui con lei.
L’unica cosa “buona”, in quel disastro
apparente, era che
Spock era riuscito a non far nominare nessuno come nuovo capitano;
bensì aveva
ottenuto per se la carica di “facente
funzione ad interim”.
Segretamente tutti covavano ancora la speranza che si
potesse trovare un modo per “guarire” il capitano
Kirk.
Il difficile, però, veniva proprio nel dover comunicare la
notizia a Jim.
In un primo momento Len immaginò che il bambino avrebbe
reagito nel peggiore dei modi, piangendo e facendo i capricci. Ma poi
cominciò
a pensare a tutti i modi in cui potergli spiegare che la missione era
temporanea e che presto tutti i suoi amici sarebbero ritornati.
Ovviamente lui non lo avrebbe lasciato; doveva trovare la
cura.
Il giorno in cui McCoy e Spock informarono il bambino della
missione, Jj si comportò irreprensibilmente.
Non batté ciglio alla notizia, sebbene Leonard avesse visto
una leggera preoccupazione velargli lo sguardo.
L’unica cosa che Jim disse, fu “Tonnelai pretto,
velo?”
rivolto al primo ufficiale.
Lui non rispose, ma piegò leggermente la testa in segno
affermativo.
L’Enterprise e Spock partirono e per i primi giorni
sembrò
andare tutto bene. Col tempo però Leonard trovava sempre
più spesso Jim in
giardino a guardare il cielo.
Inizialmente aveva chiesto al bambino cosa stesse guardando
o cercando, ma lui gli rispondeva sempre con un vocina triste,
dicendogli che
non guardava o cercava ‘niente’.
Leonard cercava di consolarlo in quelle occasioni, ma col
tempo aveva imparato che il bimbo poteva essere molto testardo, infatti
non era
sempre facile tirargli su il morale.
Fu in quel periodo che Leonard decise di ‘chiamare’
ogni sera Spock e raccontargli
quello che succedeva. Ma non lo faceva mai con Jj nei dintorni,
aspettava
sempre che il bambino stesse già dormendo.
Una mattina, però, Leonard si svegliò con il
rumore della
pioggia che batteva sul tetto. Si alzò svogliatamente e
andò a farsi un caffè.
Per svegliarsi non trovava niente di meglio.
Finito il caffè andò a controllare se Jj, nella
notte, si
era scoperto. Quel bimbo non stava fermo neanche mentre dormiva.
Arrivato nella cameretta la trovò vuota. Len
cercò di non
preoccuparsi troppo, Jim poteva anche essere sceso dal lettino per
andare in
bagno. Ormai aveva tre anni passati e Bones gli ripeteva sempre che
stava
diventando un ometto.
Leonard guardò in tutte le stanze della loro piccola
casetta, ma non trovandolo decise che sì, poteva anche
cominciare a
preoccuparsi.
Stava quasi per controllare che la porta di casa fosse
ancora chiusa e che il bambino non fosse scappato, quando, passando
davanti la
porta finestra che dava sul giardino, lo vide seduto
sull’erba tutto bagnato a
causa della pioggia scrosciante e col visino alzato
all’insù, verso il cielo.
Bones corse subito fuori per riportarlo dentro, prima che
gli venisse una polmonite, ma quando gli fu davanti si accorse che quei
rigagnoli che scendevano dagli occhi del bimbo, non erano semplicemente
acqua.
Col cuore stretto in una morsa di tenerezza, Leonard si
acquattò al suolo per essere alla stessa altezza del bambino
e gli chiese.
“Jim, va tutto bene?” e completò il
tutto spazzando via, dal
visino, quelle lacrime che facevano venire voglia di piangere anche a
lui.
Jj rimase qualche attimo ancora a guardare il cielo per poi
abbassare lo sguardo e mormorare.
“No tonnelà più, velo?”.
Sebbene il bambino avesse sussurrato quelle parole, Len le
sentì entrargli dentro e colpire il suo cuore come delle
schegge ghiacciate.
“Ma certo che torna, piccolo. Non dovresti dubitare di
questo sai?” rispose, cercando di infondergli quanta
più speranza gli fosse
possibile.
“E invece no, non tonna. Pelché non mi vole
più bene!” urlò
il bimbo per poi buttarsi fra le braccia del più grande e
singhiozzare
disperatamente.
Leonard non poté fare altro che accogliere il piccolo fra le
sue braccia e accarezzargli i riccioli biondi sperando che si calmasse
il prima
possibile.
La pioggia continuava a cadere incessantemente, ed oramai
erano entrambi zuppi.
Sapeva, Bones, che prima o poi questo giorno sarebbe
arrivato. Si era anche preparato un discorso da fare al bambino, ma
davanti a
quella disperazione tutte le belle parole sparirono e lui non
poté far altro
che stringere Jim a se e sussurrargli.
“Non è vero che Spock non ti vuole più
bene. Lui te ne vuole
sempre, anche se delle volte ti potrà sembrare che non sia
così.”
Jim pianse qualche altra lacrima, poi, lentamente, si
sollevò dall’abbraccio dell’amico e
disse.
“Pecché è Pok...”.
Già, ‘Perché
è Spock’.
Per una persona normale, magari, quelle parole potevano non aver
significato,
ma per lui, per quel piccolino dai ricci biondi erano tutto.
Più volte era capitato a Bones di vedere l’amico
rimanere
senza parole, quando si trattava di Spock. Persino quando ancora era
nella sua
forma “normale”.
Ed ora era ancora
peggio, perché si presumeva che un bambino non fosse neanche
capace di
argomentare su concetti quali amore, amicizia, o affezione. Eppure Len
lo
sapeva, sapeva che quel ‘perché
è Spock’
per Jim voleva dire tutto.
“Si piccolo, perché è Spock!”.
La sera stessa, dopo aver messo Jj a letto e aver
controllato che non si fosse preso un malanno, contattò il
comandante per
raccontargli quanto accaduto. Quella fu la prima volta che McCoy
notò che
qualcosa in Spock era cambiato.
Inizialmente sembrava che il comandante fosse solo
leggermente impensierito. Forse qualche problema nella missione gli
dava da
pensare. Ma più Leonard raccontava, più vedeva lo
sguardo del vulcaniano
incupirsi.
Len non se ne diede molta pena, poteva anche non centrarci
niente lui.
Passò qualche mese e Leonard si impegnò per non
rivivere mai
un’esperienza così triste. Portava Jim a fare
lunghe passeggiate o al parco a
giocare con altri bambini. Le visite all’ospedale erano
all’ordine del giorno,
ma ancora nessun risultato dai test che potesse aiutarli in qualche
modo a
capire.
Ricevevano anche molte visite, ammiragli che volevano vedere
il “mini capitano” ma che rimanevano stupefatti
dall’intelligenza di quel
bambino.
Una volta li andò a trovare
Il giorno dopo Jim e Leonard andarono all’accademia. Len
pensò che riportare il bambino ‘dove
tutto era iniziato’ lo avrebbe aiutato a fargli
passare per qualche giorno
quell’aria corrucciata.
In accademia incontrarono tante persone. Conoscenti e non,
ma che conoscevano loro per nome. Passarono nel reparto ‘simulazione’
dove una squadra di cadetti stava provando un nuovo
esame basato sulla paura. Jim si divertì un sacco
lì ma Len, ormai abituato a
lui, si accorse subito che insieme al divertimento c’era
anche una leggera vena
di rimpianto, ad albergare dentro il piccolo.
Passarono dal centro trasmissioni, dove tutte le navi in
missione venivano monitorate. Era pieno di luci e colori quel posto e a
Jim
piacque tanto.
Ogni tanto si sentivano strani squilli o rumori gracchianti,
segno che una trasmissione era in corso, e tutti gli addetti si
adoperavano
affinché tutto si svolgesse senza intoppi.
A Jim, quegli operatori, ricordavano le api che aveva
osservato in giardino. Le apette laboriose, che nei giorni di sole
facevano la
spola da un fiore all’altro, gli piacevano tanto.
Mentre erano in sala trasmissione, un addetto si sporse
dalla sedia annunciando “Stiamo ricevendo il rapporto
dall’Enterprise”.
Il lavorio febbrile della sala parve fermarsi
istantaneamente. Tutti aspettavano con ansia il rapporto giornaliero
dell’Enterprise, perché era una di quelle navi a
cui venivano affidate le
missioni più complicate, più pericolose, ma anche
le più interessanti.
Il comunicatore prese il rapporto e poi mise in sospeso la
chiamata con la nave.
“Dottor McCoy, già che è qua vuole
mettersi in contatto con
l’ammiraglia?” chiese prontamente il ragazzo.
Leonard non ci vide niente di male, anzi ‘forse’
rivedere la
ciurma avrebbe fatto bene anche a Jim.
“Certo tenente, ci metta in contatto”
accettò Len.
Qualche attimo dopo sullo schermo principale della stanza
apparve la plancia, con Sulu seduto al posto di comando.
“Dottore che piacere rivederla” disse contento
Hikaru.
Leonard sorrise e poi si rivolse a lui “E’ un
piacere anche
per me, tenente.”
“Il capitano è con lei? Ci piacerebbe
salutarlo” chiese
impaziente il timoniere.
“Si, è proprio qui con me.” Rispose Len,
per poi abbassarsi
verso il piccolo e prenderlo in braccio.
“Taooooooo” gridò il bambino
sbracciandosi e sorridendo.
“Salve capitano, quanto tempo!” rispose il
timoniere
sorridendo.
“Salve Capitano” gridò qualcuno, e in un
batter d’occhio
tutta la gente in plancia era apparsa sullo schermo.
C’erano tutti, Uhura, Scotty, Chekov, tutti i cadetti, i
primi ufficiali, le maglie rosse. Sembrava mancasse qualcuno
però, e questo
preoccupò Leonard.
“Ehm scusate se interrompo questo idillio, ma
dov’è orecchie
a punta?” la plancia rise alle sue parole ma poi Sulu prese
la parola e
rispose.
“Il comandante Spock è sceso sul pianeta Vermilion
in
ricognizione.”
Jim si accigliò a quella risposta.
“Tolo?” chiese, sussurrando.
“Come capitano? No, non è solo.
C’è una squadra di maglie
rosse con lui.” Sorrise, per confortare il bimbo.
“Tebuilo.” Disse il bambino lapidario.
Leonard sentì il piccolo irrigidirsi tra le sue braccia e
questo non gli piacque per niente.
“Vedrai che andrà tutto bene Jim.” Gli
disse per
rincuorarlo.
“Non credo che si possa. I suoi ordini hanno
validità?”
chiese Sulu, confuso.
“Teeente Sulu, t’ho detto teguilo!”
gridò Jj ma ancora una
volta nessuno gli diede ascolto.
“Non credo si possa fare capitano, se il comandante lo
venisse a sapere....” ma il bambino non lo lasciò
finire.
“Io capitano, io comaado! Manda sonda e teguilo!”
urlò il
bambino, ancora una volta.
“Ma perché?” chiese il timoniere.
Jim, vedendo che non avevano intenzione di ascoltarlo,
cominciò a divincolarsi dalla presa di Leonard, e quando
questi lo rimise per
terra corse via dalla sala, prima che le lacrime di rabbia lo
tradissero.
Leonard sospirò a quella scena e poi tornò a
rivolgersi a
Sulu.
“Perdonatelo, delle volte fa i capricci.” E sorrise
dicendolo.
“Se potete non raccontate niente di tutto questo al
comandante, potrebbe prendersela” e detto ciò
uscì anche lui dalla sala per
andare a cercare il piccolo.
Quella sera, quando Leonard si mise in contatto con Spock,
trovò il comandante con una vistosa ferita alla tempia.
“Che cosa le è successo?” chiese
preoccupato McCoy, la
modalità ‘medico’
già inserita.
“Non è niente dottore. Un inconveniente con un
leone di
montagna accadutomi sul pianeta Vermilion” a quella
spiegazione Len non poté
impedirsi di pensare che, infondo, Jim ci aveva visto giusto quando
aveva
chiesto a Sulu di seguire il comandante.
Bones sospirò, da lì non poteva fare molto.
“Il capitano si è calmato?” fu Spock,
sorprendentemente, a
spezzare il silenzio.
“A quanto pare si, anche se non ha gradito il comportamento
di Sulu.” Spock parve neanche ascoltarle quelle parole.
“Va tutto bene Spock?” chiese Leonard preoccupato.
“Si dottore, va tutto bene.” Rispose il vulcaniano,
criptico
come sempre.
Non c’erano, però, solo visite di
cortesia e gite al parco, nella vita di Leonard e Jim. La maggior parte
del
tempo, infatti, la passavano in ospedale.
Leonard rinchiuso nei laboratori
e Jj, strano ma vero, alla ludoteca, quando non doveva fare gli esami
medici.
Bones non aveva voluto assumere
una babysitter, per esperienza pregressa sapeva che spesso erano troppo
impiccione
e tendevano sempre a fare un mucchio di domande indesiderate.
Aveva preferito lasciare il ‘piccolo’
alla ludoteca in modo che
potesse giocare con i suoi ‘simili’
e
che lui avesse la possibilità di prenderlo quando voleva per
i prelievi, le tac
e tutto quello che serviva per scoprire come farlo ritornare normale.
Si poteva dire che l’ospedale
fosse diventato la loro seconda casa e questo, di certo, non piaceva a
nessuno
dei due.
Una mattina, Leonard si svegliò
col piede storto. Appena aprì gli occhi, ancora
nell’oscurità della sua stanza,
capì che quel giorno qualcosa non sarebbe andata per il
verso giusto.
Controvoglia, Len si costrinse ad
alzarsi e ad andare avanti con la sua routine. Fece colazione,
preparò quella
per il piccolo, lo andò a svegliare, lo fece mangiare e poi
si andò a preparare
per uscire.
Quelli erano i momenti
in cui McCoy, abituato alle
situazioni più pericolose in cui lo spazio buio e crudele
poteva catapultarti,
si sentiva la perfetta donnina di casa dedita completamente alla
famiglia.
Leonard non sapeva se quella
situazione gli piaceva appieno. Era lieto di non dover correre da un
lato
all’altro dell’infermeria dell’Enterprise
per guarire incoscienti maglie rosse
o peggio, ufficiali di ritorno da un’esplorazione andata
male. Si godeva la
pace di quella strana situazione, ma allo stesso tempo si sentiva quasi
in
trappola.
Forse non lo aveva ancora
confessato a nessuno, ma alla lunga il fascino
dell’esplorazione senza confini
aveva colpito anche lui. Sentiva che quella routine forzata cominciava
sempre
di più a stargli stretta; ma cosa poteva fare? Era solo
un’umile medico di
campagna lui!
Finito di prepararsi, aiutò Jj a
vestirsi e poi uscirono, diretti all’ospedale. Quel giorno il
bambino era
stranamente silenzioso, sembrava quasi impensierito; ma Bones non se ne
diede
pensiero.
Arrivati, Len lasciò Jim ai suoi
giochi e poi andò dritto ai laboratori, dove la notte
precedente aveva lasciato
una macchina a lavorare sull’ultimo prelievo sanguigno di Jim.
Preso il referto della macchina,
lo lesse attentamente e quello che vi lesse non gli piacque. Le
metaglobuline-B
avevano cominciato a deteriorarsi.
Quella non era una buona notizia.
Assolutamente no.
Di corsa ritornò alla ludoteca,
parlò con la ragazza incaricata di vegliare sui bambini e
poi prese Jim
potandolo con se in laboratorio.
“Scusa Jim ma dobbiamo ripetere
un esame. Dovrai rifare il prelievo, mi spiace”
spiegò, già sapendo che Jim
avrebbe protestato alla notizia.
Gli aghi gli avevano sempre fatto
paura e ogni prelievo era una tortura per entrambi. Per il piccolo
perché ne
usciva sempre più terrorizzato e per Bones perché
resistere al bimbo che
scalciava e piangeva non era affatto facile.
“Va bbene, Boo” e dopo aver
sussurrato la risposta, Jim si accuccio sulla spalla del dottore.
Leonard rimase alquanto sorpreso
dalla reazione del piccolo, ma preferì accantonare la cosa
per dopo e
concentrarsi sull’esame da ripetere.
Arrivati in laboratorio, Bones
fece sedere Jim su uno sgabello e preparò la siringa. Quando
si girò verso il bambino
per il prelievo, vide le sue spalle incurvate
all’ingiù e un accenno di broncio
sulle sue labbra. Era il ritratto della tristezza.
Len cercò di essere quanto più
veloce possibile nel prelievo, così da fare il minor male
possibile al piccolo.
Non voleva vederlo soffrire quando era grande e grosso, figuriamoci se
lo
voleva ora.
Fatto il prelievo e messo il
sangue ad analizzare nella macchina, Leonard si rivolse al piccolo.
“Ehi peste, cose c’è che non
va?”
chiese, cercando di scherzare per tirarlo su di morale. Gli si
stringeva il
cuore a vederlo così.
Jim prese un grosso sospiro,
pieno di sofferenza e poi sussurrò.
“Utto bene, Boo. Potto andale?”
chiese, triste. Bones acconsentì e chiese ad
un’infermiera di riaccompagnarlo
alla ludoteca.
Mentre aspettava i risultati
dell’esame al sangue, Len ripensò allo strano
comportamento di Jim. Non era la
prima volta che lo vedeva triste, e il motivo di tanta tristezza era
sempre
uno. Ma, di solito, Jim gli diceva sempre cosa gli mancava o come si
sentiva,
quella volta, invece, aveva taciuto tutto.
Questo fece temere al dottore che
la cosa fosse più grave di quanto non avesse immaginato.
Proprio mentre faceva questi
pensieri, la macchina emise un bip, segno che l’esame era
finito e che il
referto era pronto. Leonard lesse i dati con avidità e
quello che essi gli
dissero lo spaventò non poco. Nel giro di un giorno il
numero delle
metaglobuline-B deteriorate era triplicato.
Leonard passò tutto il resto del
giorno a stimare il tempo che esse avrebbero impiegato per deteriorarsi
tutte;
cercò inoltre di trovare un vaccino, una cura, per impedire
che la situazione
volgesse al peggio.
Era ormai sera inoltrata quando
Leonard decise di ritornare a casa per la cena. Lui avrebbe volentieri
continuato a lavorare per tutta la notte, ma non poteva costringere Jim
a
rimanere lì con lui.
Arrivato in ludoteca lo trovò
addormentato in uno dei lettini; fu felice della cosa perché
così avrebbe potuto
evitare le domande che il bimbo gli avrebbe sicuramente porto se lo
avesse
trovato preoccupato.
A casa lo mise nella sua
stanzetta e poi andò a preparare la cena per entrambi. Gli
avanzi del giorno
prima erano sempre una manna dal cielo, quando non si aveva troppa
voglia di
cucinare. Quando tutto fu pronto, Len andò a chiamare Jim,
ma anche questa
volta non lo trovò nel suo lettino.
Memore di tutte le volte che il
piccolo era sgattaiolato via, prima di preoccuparsi Leonard
andò a controllare
nel giardino sul retro, fu lì, infatti, che trovò
il piccolo.
“Jim vieni, la cena è pronta” gli
disse, senza arrabbiarsi, ormai ci aveva fatto l’abitudine.
“No ho fame.” Rispose il piccolo
svogliatamente.
“Jim dai, non fare i capricci.
Alzati da lì e vieni a mangiare.”
Ritentò il dottore, prima di arrabbiarsi.
“NO” ribattè il bimbo, senza
alzare troppo la voce.
Esasperato dai capricci del
bambino, Bones uscì nel giardino e gli si andò a
sedere accanto.
“Mi spieghi cosa speri di
ottenere così? La missione non è ancora finita e
lui non tornerà prima di altri
sei mesi. Non fare il bambino capriccioso e vieni dentro.”
Ripeté, alzando
leggermente la voce.
“Boo non c’è bisogno
d’allabbiassi. Non ho fame.” Asserì il
piccolo, continuando a guardare il
cielo.
“Sai una cosa? Ne ho abbastanza
di voi due! Non ne posso più di farvi da balia!”
urlò Leonard.
Non era veramente arrabbiato col
bambino, ma le sensazioni del mattino e i referti medici gli avevano
messo
addosso una tremenda paura di perdere il suo unico amico.
Quello che gli dava più fastidio,
in effetti, era che Jim nemmeno si accorgeva di quanto lui ci tenesse
alla loro
amicizia. Sembrava gli importasse unicamente del primo ufficiale.
Bones era stufo della cosa.
“Mi chiedo se staresti così in
pensiero se fossi io quello a partire. Ti sei mai soffermato a pensare
a come
reagiresti se io ti lasciassi qui, tutto solo e non tornassi
più?” non pensava
veramente quelle cose, Bones, ma in quel momento aveva il disperato
bisogno che
Jim capisse.
“No” sussurrò Jim, in risposta.
“Lo sapevo... Che illuso a
pensare che ti importasse di me un briciolo di quanto ti importa di
quel
maledetto orecchie...” ma Jim non lo lasciò
finire, perché dopo essersi alzato
in piedi gli gettò le braccine al collo singhiozzando.
“Tu non mi lascelai mai, velo
Boo??? Tu tei il mio flatellone, non mi puoi lasciale!!” e
dopo aver detto
questo nascose la testolina nell’incavo del collo di Len e
riprese a piangere.
Leonard rimase senza parole.
Davvero, non si aspettava una reazione del genere da parte del piccolo.
Strinse il corpicino a se e
lentamente cominciò ad accarezzare la testa riccioluta.
“Piccolo, basta piangere. Certo
che sono il tuo fratellone e non ti abbandonerò mai.
Però ora entriamo, ti
va?”.
Leonard continuò ad accarezzare
il piccolo finché questi non si calmò. Solo
quando vide le sue lacrime fermarsi
il dottore si decise a riprendere la parola.
“Vedrai che questi ultimi sei
mesi passeranno in un baleno e poi potrai di nuovo giocare con
lui.”
“Ti!” asserì il piccolo e poi,
ridendo, si rituffò fra le braccia del più grande.
“Andiamo piccola peste” e col
bambino in braccio, Len si diresse verso la cucina. Erano quasi
arrivati quando
Jim gli sussurrò all’orecchio “Ti voglio
bene Bones!”.
Quella sera, al solito orario,
Bones non chiamò Spock per informarlo di quanto accaduto.
Per una volta, il
dottore, decise di tenersi tutto per se.
Qualche mese dopo, per il
compleanno di Jim, i due ricevettero una strana ma di sicuro apprezzata
visita.
Quell’anno non c’erano stati festeggiamenti in
programma. Niente torte al
cioccolato, niente regali e soprattutto niente sorprese
sull’Enterprise. E come
avrebbero potuto? L’equipaggio intero era ancora in missione.
McCoy si era preparato
mentalmente ad una giornata di riposo casalingo. La situazione in
ospedale era
di nuovo in stallo, il deterioramento delle cellule era rallentato;
questo
aveva permesso al dottore di potersi prendere un giorno di vacanza.
La giornata era cominciata nel
migliore dei modi, il sole splendeva, la temperatura era abbastanza
alta da non
dover patire il freddo e tutto sembrava andare per il meglio.
Le cose cambiarono quando
qualcuno suonò alla porta. Non avendo visitatori in
programma, sia Jim che
Leonard si girarono curiosi ad osservare l’uscio.
Il loro stupore fu non poco
quando, dopo che Len ebbe aperto ai nuovi arrivati, sulla porta di
palesarono
Amanda Greyson e Sarek di Vulcano.
Bones rimase letteralmente
allibito, Jim dal canto suo mise su un enorme sorrisone e non se lo
tolse
neanche quando crollò sfinito a fine giornata.
Amanda giustificò quella visita
inaspettata con la sua voglia di incontrare il mini-capitano, e
dacché Sarek
era sulla Terra in ambasceria, non avevano perso l’occasione.
Dopo l’imbarazzo iniziale, la
giornata si svolse tranquillamente. Amanda passò la maggior
parte del tempo con
Jim, accudendolo e occupandosi di lui come solo una mamma sapeva fare.
La donna
si divertì alquanto col piccolo, e Jim apprezzò
molto quelle nuove premure che
gli venivano prestate. A McCoy toccò la parte più
imbarazzante della cosa,
doveva, quanto meno, cercare di fare il padrone di casa, il che voleva
dire
parlare con Sarek e metterlo quanto più a suo agio.
E se già Len odiava parlare con
Spock, un mezzo vulcaniano, parlare con Sarek gli risultava del tutto
insopportabile e inutile.
Il peggio arrivò quando, alla
sera, Jim pretese di salire in braccio a Sarek. McCoy provò
in tutti i modi a
far cambiare idea al piccolo; persino Amanda ci provò,
sebbene lei segretamente
avesse sempre sperato di poter vedere Sarek con un bambino in braccio.
Ma tutti sapevano che se Jim Kirk
voleva qualcosa, Jim Kirk la otteneva. Fu con molta riluttanza, quindi,
che il
vulcaniano prese in braccio il piccolo.
Una volta raggiunto il suo scopo,
Jim sorrise e dopo aver preso in una mano paffuta un orecchio del
vulcaniano,
si assopì tranquillamente.
Bones diventò viola in volto
quando gli toccò spiegare, ad un Sarek livido, che quello
era il modo in cui si
addormentava Jim quando Spock rimaneva fino all’ora della
nanna.
Dopo che Amanda e Sarek se ne
furono andati e che Jim stava dormendo placido nel suo lettino, Bones
contattò
l’Enterprise per la chiacchierata serale con Spock.
Il comandante lo fece aspettare
qualche attimo, prima di palesarsi nell’ologramma. Ma Len si
accorse subito che
qualcosa non andava in lui, sembrava stranamente nervoso, quasi ci
fosse
qualcosa ad infastidirlo.
“Tutto bene nella missione,
comandante?” chiese preoccupato. Era raro, rarissimo vedere
Spock preoccupato.
E se lui si preoccupava voleva dire che le cose non stavano andando
affatto
bene.
“Si dottore, è tutto apposto”
rispose duro, l’altro.
Leonard non si lasciò convincere
dalle parole del vulcaniano, ma sapeva anche che Spock era molto restio
al
parlare delle proprie emozioni. Nessuno riusciva a farlo aprire, beh
nessuno a
parte il capitano.
“Come vuole. Allora come saprà
oggi è il compleanno...” e cominciò a
raccontare la giornata appena strascorsa.
Ma più raccontava, più McCoy si
accorgeva che qualcosa nel vulcaniano non andava. All’inizio
notò una piccola
vena ingrossarglisi nel collo.
Poi, piano piano, il respiro del
comandante cominciò ad accelerare. Bones era sempre
più preoccupato, ma ogni
volta che si fermava per chiedere all’amico se tutto fosse
apposto lui
rispondeva con un secco “SI” e poi lo invitava a
continuare con il suo
racconto.
Fu più o meno alla menzione del
capitano addormentato tra le braccia di Sarek che Spock
cominciò a tremare
vistosamente e Bones poté notare una repentina ondata
d’odio attraversare gli
occhi del vulcaniano prima che la trasmissione olografica si
interrompesse bruscamente.
Len rimase sorpreso da quanto
accaduto, si poteva dire che Spock gli avesse appena chiuso la chiamata
in
faccia. Bones non poteva credere che fosse così, di sicuro
ci doveva essere
un’altra spiegazione.
Riprovò a mettersi in contatto
con l’Enterprise, ma quando Uhura gli rispose, gli disse che
il trasmettitore
olografico, della sala conferenze, si era rotto e che il Comandante
aveva dato
ordine di non essere assolutamente disturbato.
Questo fece impensierire ancora
di più Bones; se c’era qualcuno che metteva
l’Enterprise e la flotta prima di
se stesso, più di chiunque altro, quello era Spock.
Stranito, Bones se ne andò a
dormire. Tutta la notte, però, la passò a pensare
a quanto aveva visto.
Ripercorse mentalmente gli strani ‘sintomi’
del vulcaniano: sudorazione, difficoltà respiratorie,
tremore incontrollato.
Un brivido freddo lo percorse
quando si rese conto che quelli erano i primi sintomi
dell’arrivo del Pon Farr,
inoltre la rabbia omicida che aveva visto balenare negli occhi di Spock
si
collocava perfettamente all’interno dei sintomi.
Ma poi Leonard ricordò che Spock
aveva avuto il Pon Farr da troppo poco tempo perché Amok
fosse già tornato.
Rincuorato dalla cosa ricominciò a pensare ad altre
possibili spiegazioni, ma nessuna
riusciva a far combaciare adeguatamente quei sintomi.
Lasciò passare alcuni giorni,
Len, prima di riprovare a mettersi in contatto con
l’Enterprise.
Quando, finalmente, ebbe di nuovo
Spock davanti, il comandante gli rivolse un’occhiata talmente
carica d’astio
che Leonard si chiese se non avesse fatto meglio a lasciargli qualche
altro
giorno per sbollire.
“Posso sapere cos’è successo
qualche giorno fa?” chiese, cercando di mostrarsi immune alle
preoccupazioni
che gli attanagliavano il cuore.
“Credo dottore, che voi umani lo
definireste attacco d’ira” rispose Spock glaciale.
McCoy rimase esterrefatto alla
risposta del vulcaniano. Rifletté qualche minuto, prima di
riprendere la
parola.
“Comandante, si è mai chiesto
perché le ho fatto ogni sera un resoconto di quanto accaduto
al capitano?”.
Forse aveva trovato la chiave, o semplicemente aveva intuito verso
quali lidi
si erano mossi i pensieri del vulcaniano.
“Se mi concede l’espressione,
dottore, immagino perché lei goda nel avere la
possibilità di passare tutto il
suo tempo col capitano quando io invece sono qui. Ho sempre saputo
che...”.
“No Spock, si sbaglia” lo
interruppe McCoy, con un leggero sorriso sulle labbra. Aveva fatto
centro anche
questa volta. Cominciavano ad essere prevedibili i suoi due amici.
“Ho deciso di raccontarle, ogni
sera, cosa accadeva al capitano perché così lei
non avrebbe perso tutti quei
piccoli momenti importanti nella crescita di un bambino. Sa, cose come
la prima
frase. Il primo giorno in accademia, la prima gita al parco, la prima
farfalla
rincorsa. Cose che magari le sembreranno stupide e illogiche ma che
sono sicuro
le avrebbe fatto piacere vivere in prima persona.” McCoy si
beò infinitamente
dello sguardo stupefatto che il vulcaniano gli rivolse.
“Ho sempre saputo che questa
missione avrebbe tolto molto a tutti e due e ho cercato di preservarvi
il più
possibile da sofferenze inutili. A questo proposito, si è
mai chiesto perché
aspetto ogni sera che Jim si addormenti prima di chiamarla? Potrei
benissimo
farlo con lui presente, dacché la fine del suo turno lo
permette, ma non lo
faccio mai. Si è chiesto, almeno una volta,
perché?”.
Ormai non gli rimaneva che
scoprire le carte in tavola, la missione stava per finire, mancavano
poche
settimane e l’Enterprise sarebbe ritornata.
Vedendo che il vulcaniano non
rispondeva, Bones riprese la parola.
“Non vi ho fatto parlare, e non
ho mai messo Jim a parte di questa cosa perché so quanto gli
avrebbe fatto male
poterle parlare solo per un’ora e poi doverla lasciare
nuovamente. Ma non
avrebbe sofferto solo nel non poter parlare con lei, ma anche nel non
poter
guidare la nave, nel non poter scendere con lei su Vermilion in
ricognizione,
nel non poter più vedere le stelle dalla plancia. Ho cercato
di preservarlo da
questo inutile dolore e lei mi accusa di essere egoista nel gioire del
tempo
che passo con lui. Se solo sapesse quanto è stato difficile
consolarlo ogni
volta che gli mancava la nave, le stelle e lei, stupido vulcaniano,
forse non
avrebbe detto quelle cose.”
Finito il lungo discorso, Bones
si congedò dal comandante e chiuse la conversazione.
Aveva rivelato a Spock il perché
del suo comportamento, ma non poteva aiutare il vulcaniano
nell’uscire da tutte
le emozioni che gli aveva riversato. Non era suo compito quello.
Non lo era mai stato.
Ora, però, non è più tempo di
ricordare i momenti belli e brutti dell’anno passato; ora
è il momento della
gioia febbrile che può scaturire solo dal periodo durante il
quale si aspetta
una bella sorpresa.
McCoy ha giusto il tempo di
abbandonare i suoi foschi pensieri prima che il campanello suoni.
“Vao io, vao io!” grida Jj per poi
far strusciare la sedia sul pavimento e partire a razzo verso la porta.
“Non correre Jim!” urla Bones,
dietro al bimbo eccitato. Ma già sa che non lo
ascolterà.
Sorride Leonard, immaginando la
buffa scena che il primo ufficiale si troverà davanti, un
mini capitano tutto
eccitato che gli apre la porta sorridendo, ma un piccolo sorriso di
tenerezza
affiora sul volto perennemente corrucciato del dottore.
Potrà anche non
ammetterlo, ma il vulcaniano è mancato persino a lui.
Nello stesso istante, Jim corre verso
la porta, non guarda dallo spioncino (come gli ha sempre raccomandato
Bones) ma
apre direttamente e non da tempo all’ospite di aprire bocca,
perché non appena
il piccolo capta con lo sguardo l’azzurro della maglia del
primo ufficiale gli
salta addosso gridando.
“Ciao Pok!” e poi comincia a
ridere.
Inaspettatamente, il primo
ufficiale non respinge l’assalto del piccolo, ma anzi, si
preoccupa di
sistemare al meglio il bambino su di se, di modo da non permettergli di
cadere.
Lo stringe forte Jim, continuando
a ridere, ora non dovrà più aspettare. Il suo
amico è tornato e a lui interessa
solo questo.
Spock stringe leggermente il
bambino avvicinandolo a se, piega la testa sui ricci biondi e lascia
che un
piccolo sorriso vi cada dentro.
Inspira lentamente, inebriandosi
col profumo di Jim, cioccolato e sole, e, dopo tanto tempo, si risente
a casa,
completo.
Dura poco il loro abbraccio,
troppo poco per Jim, ma Spock ligio alla logica vulcaniana, riprende le distanze e
dice.
“Salve capitano, noto che è cresciuto
in questo anno.” è una frase quasi banale, ma loro
non hanno bisogno di grandi
dimostrazioni d’affetto.
Jim sorride, sempre più contento.
Ha sognato ed agognato questo giorno e ora non vorrebbe far altro che
correre
per la casa gridando, o rimanere abbracciato al primo ufficiale.
A rompere il quadretto ci pensa
Bones, entrando nel salottino.
“Jim, cosa ti avevo detto? Niente
attacchi a sorpresa. Ben tornato comandante.” dice, rivolto
al primo ufficiale.
“Ben trovato anche a lei dottore”
risponde Spock, per poi tornare ad osservare il capitano.
E’ cresciuto tanto in questo anno
di separazione e Spock sa perfettamente che se il dottore non lo avesse
tenuto
al corrente, molto probabilmente non si sarebbe mai perdonato di averlo
lasciato per una missione così lunga, sebbene lui per primo
avesse detto che
far rimanere il capitano sulla Terra, qualora non fossero riusciti a
curarlo
per tempo, fosse l’unica alternativa possibile, oltre che
logica.
Ma ora Spock non può che essere
felice di essere ritornato e di poter, finalmente, passare un
po’ di tempo con
i suoi amici e compagni.
“Jim dai, lascialo in pace. Lo
hai persino lasciato sul ciglio della porta!” Len redarguisce
Jj ma allo stesso
tempo sorride, felice di vedere la gioia negli occhi del piccolo.
Troppo spesso
quegli stessi occhi sono stati tristi, nei mesi passati.
Jim, guarda il fratello poi il
primo ufficiale, e poi ripete l’azione alternando lo sguardo
prima su di uno
poi su di un altro.
“Va bbene. Pok, giù.”
con l’aiuto del primo ufficiale ritorna sul
pavimento, per poi mettere il broncio perché Boo lo ha fatto
scendere e lui,
invece, voleva ancora stare con l’amico.
Vede il broncio, Bones, e non se
la sente di rimanere arrabbiato con lui.
“Perché non fai vedere il tuo
disegno a Spock, piccolo? Nel frattempo io vado a scaldare un
po’ di latte, ti
va?” gli propone, e sa già come reagirà
il piccolo.
Jj, si riapre in un grosso
sorrisone e poi dice.
“Siii, Pok beni con me!”. Il
primo ufficiale non riesce nemmeno ad annuire, che il bimbo lo prende
per mano
e lo porta via con se.
Sorride Bones, vedendoli sparire
nella stanzetta. Hanno un anno di tempo da recuperare, quei due, e
Leonard ha
come l’impressione che non sarà così
facile far addormentare Jim, quella sera.
Ma chissà, magari potrà pensarci
Spock...
Note2:
Ancora tutti vivi?
Questa volta ho voluto dare molto
più spazio a Bones perché più o meno
tutti nella scorsa shot mi avete fatto
notare quanto il suo personaggio sia stato sacrificato, quindipecui ho
cercato
di bilanciare le cose. E poi volevo proprio mettere in evidenza il
rapporto
fraterno che Kirk e McCoy hanno.
Ovviamente non potevo del tutto
cancellare Spock, spero che questo sia stato un buon compromesso.
Mi spiace se non sono riuscita a
mantenere lo stesso tasso di IC della scorsa storia, ma questa
è stata scritta
in un periodo non molto felice e l’OOC ha dilagato. Chiedo
umilmente perdono.
Discorso Metaglobuline-B: ho un’idea
ma ci devo ancora lavorare su e non sono neanche certa di scriverla una
storia
che tratti quell’argomento. Questa piccola
“serie” non ha scadenze, per cui
scrivo solo se mi va di farlo. Non posso fare piani troppo dettagliati.
Vi
prego quindi di non insistere troppo per conoscere dettagli che io per
prima
non conosco.
Chiudo dicendo che mi farebbe
molto piacere sapere cosa ve ne è parso di questa piccola
storiella e che
qualsiasi tipo di recensione sarà più che ben
accetta.
Saluti a tutti.